Susanna Tamaro Rispondimi


Susanna Tamaro,

rispondimi.

Copyright 2001 RCS Libri S.p.A., Milano.

Prima edizione: gennaio 2001.

Indice.

Rispondimi;

L'inferno non esiste;

Il bosco in fiamme;

Rimanete nel mio amore.

Giovanni 15,9.

Rispondimi.

I.

In fondo era soltanto il Natale dell'anno scorso, le mie ultime vacanze trascorse dagli zii.

Faceva freddo e il paese era sprofondato nella

nebbia. Lì la vita era noiosa come sempre, non telefonava nessuno, nessuno veniva a trovarmi.

Lo zio si addormentava davanti ai balletti della televisione, la zia faceva grandi coperte all'uncinetto. Nella penombra, l'albero di plastica lampeggiava come un semaforo rotto.

Anche a mezzogiorno la nebbia avvolgeva la casa come un sudario. Ogni mezz'ora mi affacciavo alla finestra per vedere se era spuntato il sole. Non si vedeva mai niente. Di notte sognavo di avere braccia lunghissime, talmente lunghe da arrivare fino al cielo. Arrivavo lassù e afferravo le nuvole, le spostavo una dopo l'altra come fossero i tendoni del cinema. C'è il sole o non c'è? mi domandavo con rabbia. Alla fine lo trovavo, il suo raggio luminoso mi colpiva in

mezzo alla fronte. Colpiva me e nessun altro perché ero stata io a cercarlo, l'avevo stanato con le mie braccia smisurate, con la mia volontà.

L'ultimo dell'anno sono andata nella legnaia e mi sono ubriacata. Da fuori giungeva, intermittente, il rumore delle macchine. Tutti correvano nella nebbia. Per andare dove? Forse, per la tristezza, a uccidersi già prima del cenone.

La legna odorava di muffa, era lustra, bagnata come quella di un galeone affondato. Sono nel ventre della balena, pensavo, mentre tutto mi girava intorno. Mi ha ingoiata e non posso più liberarmi. Sono prigioniera nelle segrete di un castello, o forse sono già nell'aldilà e questa è la mia tomba. Marcisce la legna e marciscono già le mie ossa. Se questa è la tomba, dov'è l'oltretomba? A un certo punto si sarebbe dovuto aprire uno spiraglio, da qualche parte sarebbe entrata la Luce. O divampate le fiamme.

Dovevo crederci? Ricadere nel tranello e crederci ancora?

Da qualche parte, comunque, doveva pur esserci mia madre. Forse era già all'inferno, per questo non riuscivo a vederla. O forse non c'era niente, niente di niente. Dopo un anno si era vermi e dopo due, polvere.

«Fai una preghierina per la mamma e per le anime del purgatorio», mi dicevano ogni sera le suore, quando ero in collegio. Io ubbidivo, stavo li con le mani giunte, lo sguardo verso l'alto.

Mi aspettavo che, da un momento all'altro, apparisse la mamma, una sciabolata di luce seguita dal vento. L'avrei riconosciuta per il caldo, per il piccolo tornado di tepore che sarebbe salito dallo stomaco. L'amore, mi sarei detta,

l'ha fatta tornare dal mondo dei morti.

Pregavo e pregavo, ma l'unica cosa che continuava ad accendersi e spegnersi era una lampadina difettosa.

Esisteva davvero l'amore? E in che forma si

manifestava?

Più passava il tempo, meno riuscivo a capirlo. Era una parola, una parola come tavolo, finestra, lampada. Oppure era qualcos'altro? E quanti tipi di amore esistevano?

Da piccola ci avevo creduto, come si crede all'esistenza dei folletti. Un giorno, però, avevo guardato nelle fessure dei tronchi, sotto le cappelle dei funghi. Non c'erano folletti né fate, soltanto muschi, licheni, un po' di terriccio e qualche insetto.

Invece di baciarsi, gli insetti si divoravano l'un l'altro.

Mia madre è morta che avevo quasi otto anni. Un incidente d'auto mentre ero a scuola. Ricordo bene quel giorno. La maestra mi ha portato nella stanza della direttrice. Una teneva un braccio sulla mia spalla, l'altra muoveva la

bocca: «E' successa una brutta cosa...».

Io sono rimasta lì ferma, senza piangere.

Chissà se da qualche parte ritroverò mai il suo profumo, ho pensato.

Perché i volti con il tempo scompaiono mentre gli odori no? Com'era il suo profumo, cosa c'era dentro? Di sicuro dell'acqua di colonia di poco prezzo, mista all'odore della sua pelle e a quello di un sapone o di un talco. Mia madre si lavava in continuazione.

Per i miei primi sette anni siamo state sempre insieme. Vivevamo in un piccolo appartamento. Lei era allegra, vistosa, colorata. Andava al lavoro dopo avermi messo a dormire e, al risveglio, la trovavo di nuovo in piedi accantto al letto. Mi si precipitava addosso, ridendo: «E' in arrivo una tempesta di baci...».

Così era e così, pensavo, sarebbe stato per sempre.

Ancora non sapevo che i nostri nomi non erano scolpiti nella roccia, ma soltanto tracciati su una lavagna. Ogni tanto, qualcuno passava il cancellino e si usciva dalla lista. Lo passava con volontà precisa? Lo passava per distrazione? Era proprio quello il nome che voleva cancellare, o forse era quello appena sopra,

quello appena sotto?

Sulla porta del cucinino avevamo appeso un quadretto di Gesù. Sotto, c'era una lucina sempre accesa. Anche se non scottava, si muoveva come una fiammella. Gesù aveva il suo cuore in mano, ma non mi faceva impressione, perché, invece di essere scomposto e urlare dal dolore, era pettinato, con le guance rosee e

sorrideva senza alcun timore. «Chi è quel signore? » ho chiesto la prima volta che l'ho visto. «E' un amico», ha risposto la mamma, «un amico che ti vuole bene. » «Vuole bene anche a te?» «Certo. Lui vuole bene a tutti.»

L'odore di quel giorno, il giorno della morte, per me è rimasto quello del pane appena fatto.

Alla sedia della direttrice era appeso il sacchetto di un panificio. Da lì il profumo era uscito e aveva invaso la stanza.

Sul davanzale della finestra, una patata americana agonizzava in un vasetto con l'acqua sporca.

La "brutta cosa" era la morte.

«Voglio andare da lei», ho detto.

«Mi dispiace. Non è più possibile.»

Nei giorni seguenti si erano sovrapposti un numero pressoché infinito di odori. L'odore dell'ospedale, un odore che ancora non conoscevo ma brutto, l'odore della terra smossa e dei fiori arrivati già vecchi, l'odore delle sue amiche, la

Pina, la Giulia e la Cinzia che mi avevano abbracciato già tante volte, l'odore della tonaca del vecchio prete che aveva fretta e parlava veloce, l'odore di un panino alla mortadella che qualcuno stava mangiando li vicino, l'odore di pino massello della credenza che avevamo in cucina.

Ora era lei a stare chiusa in quella credenza lunga e stretta.

Le sue amiche piangevano e si soffiavano il naso. La signora che mi aveva accompagnata mi teneva forte come se avesse paura che volassi in cielo.

«Devo piangere anch'io? » le ho chiesto. Lei ha mosso la testa avanti e indietro, come a dire "Sì". Mi sono sforzata di farlo, ma con poco successo. Avevo un unico pensiero in testa. Dove va una persona quando non è più da nessuna parte?

Il giorno dopo, ho cominciato a chiedere a Gesù di farmi perdere la vista. A scuola mi era stato raccontato che aveva guarito molti ciechi, sputando sulle loro palpebre. Se aveva fatto questo, pensavo, poteva fare anche il contrario.

Dicono che anche certi animali sono capaci di farlo, ti spruzzano un liquido negli occhi e tu sprofondi nel mondo delle ombre.

Era questo che io volevo con tutte le mie forze. Finire nel mondo dove non c'è più niente, né le strade né le case né le auto né i volti né la mattina né il pomeriggio. Soltanto la notte. Una notte in alto mare, con il cielo coperto, senza stelle né lune né fari all'orizzonte.

Di solito i ciechi capiscono dove andare con il tatto. Io sarei stata una cieca diversa, me ne sarei andata intorno annusando. Avrei sentito l'odore del semaforo rosso e di quello verde, l'odore della pioggia e quello, più intenso, che precede la neve. Avrei sentito l'odore delle persone antipatiche e di quelle simpatiche, l'odore di quelle di cui mi potevo fidare e di quelle che

bisognava mordere prima che si avvicinassero troppo.

Avevo chiesto a Gesù di portarmi nell'ombra perché ero convinta che mia madre si nascondesse laggiù. Girando in lungo e in largo nelle tenebre, prima o poi avrei annusato una traccia, dalla traccia sarei arrivata a lei, alla turbolenza tempestosa dei suoi baci.

Odore di disinfettante, odore di minestra di verdura, di cipolla, di porro, odore di chiuso, di polvere, di gonne sporche, odore di pipì nel letto e di sapone economico, odore di umidità, odore di incenso. Nella mappa di questi odori, non ne riconoscevo uno solo come mio.

In collegio c'era una suora che mi prendeva sempre in braccio. Voleva consolarmi, invece mi faceva paura.

Era quello l'odore nuovo della mia vita, quello a cui mi dovevo abituare?

Non ero ancora cieca, ma avevo imparato lo stesso a fare un gioco con gli occhi. Quando qualcuno mi stava davanti, immaginavo di essere una lumaca. Li mandavo avanti e indietro, indietro e avanti, fino a che tutto diventava opaco.

Soltanto di sera ero contenta, quando eravamo tutte in pigiama vicino alletto e la suora diceva: «Uniamo le manine e preghiamo Gesù».

Gesù mi aveva seguito da una vita all'altra e, visto che era mio amico e mi voleva bene, era una buona cosa. Così, a mani giunte, dentro di me ripetevo: «Per piacere, visto che vuoi bene a me e anche alla mia mamma, facci tornare insieme per sempre».

Il Gesù della camerata era comunque diverso da quello del cucinino. Invece di sorridere con il cuore in mano, stava inchiodato su una croce, sporco, quasi nudo e con gli occhi chiusi.

Era lì nel suo dolore e non guardava proprio nessuno.

Nel frattempo, cercavano i miei parenti. Un padre non c'era mai stato. La mamma non aveva fratelli né sorelle. I suoi genitori erano morti da tempo.

«Che fortunata», mi aveva detto un giorno la mia vicina di letto, «finirà che ti adottano. »

Così, con il passare delle settimane, anche quello era diventato un mio sogno. Non volevo un'altra mamma, ma mi sarebbe piaciuto avere finalmente un papà e una casa con una stanza solo mia, con i miei giochi, i miei odori.

Un giorno è arrivata un'assistente sociale.

Aveva le guance rosse e un cappotto verde bottiglia molto consumato. «Sei fortunata», ha esclamato con allegria. «Oggi facciamo la valigia e domani vai dagli zii. Lo zio Luciano è il fratello del tuo nonno. E' sposato, ma non ha fi

gli. Per le vacanze di Natale e per l'estate starai in campagna da loro. Sei contenta? »

Non ho detto né sì né no. Sono rimasta ferma, con gli occhi di lumaca che andavano avanti e indietro.

La mattina dopo è arrivato lo zio a prendermi. Le sue scarpe cigolavano mentre attraversava il grande atrio. Invece di darmi un bacio mi ha teso la mano: «Piacere, Luciano».

La sua macchina aveva sedili di plastica rossa, molto lucidi. Dietro c'erano due cuscini tondi all'uncinetto pieni di pizzi e merletti. A ogni curva oscillavano come grandi meduse. Siamo rimasti sempre in silenzio.

«Adesso conoscerai la zia Elide», mi ha detto, poco prima di arrivare alla cascina.

La zia sembrava scolpita nel legno. Guance rosse e dure e un naso molto grande. Mi ha dato due baci come morsi, dicendo: «Benvenuta».

Il pomeriggio l'ho aiutata a pulire il pollaio.

Il giorno dopo abbiamo preparato i biscotti per Natale. Parlava poco. «Passami questo, prendi quello.»

Avevo una stanza al piano di sopra, con un grande letto freddo. C'erano un tavolino, un armadio e il pavimento di mattonelle. Dalla finestra si vedeva il cavalcavia della provinciale.

Vuom, vuom, facevano le macchine, grrrrn, i camion.

C'era spesso la nebbia. In quei giorni, i grandi Tir sembravano dei mammut. Emergevano dal nulla, come fantasmi, e dal nulla, nuovamente, venivano inghiottiti.

Quel Natale, sotto l'alberello di plastica con le luci lampeggianti, avevo trovato un pacco. E dentro al pacco, una scatola. Dentro la scatola,

una camicetta bianca.

«Ti piace? » ha chiesto la zia Elide.

«Sì», ho risposto.

In realtà, della camicia bianca non mi importava niente. L'unica cosa che avrei voluto davvero era un orsetto con cui dividere il letto.

Quello che avevo sempre avuto era finito nel mondo dell'ombra, con tutto il resto.

Ho ricevuto una camicia bianca quel Natale, e ho ricevuto una camicia bianca quasi tutti i Natali seguenti. Una camicia sempre più chiusa, sempre più casta.

II.

In collegio stavo sempre sola. Ogni tanto qualche suora mi prendeva da parte e diceva:

«Non va bene isolarsi, poi vengono le tristezze».

Allora, per accontentarla, raggiungevo le compagne, mi mettevo nel circolo ma nessuna mi faceva mai arrivare la palla. Rimanevo un po' lì, con le mani in mano, e poi mi ritiravo di nuovo su una panchina con i miei pensieri.

Ci sono pensieri buoni e pensieri cattivi, ripetevano spesso le suore. Quali erano i pensieri buoni e quali quelli cattivi? Com'era possibile distinguere gli uni dagli altri? I pensieri non hanno odore e questo rende tutto più difficile.

Camminavo per i vialetti del giardino e pensavo. Se Dio fosse veramente gentile, anche a loro avrebbe dato un profumo, così sarebbe possibile distinguerli fin da quando si formano nella mente. Una cosa è avvicinarsi a una rosa, un'altra a una primula. La prima ti stordisce con il suo odore, dell'altra quasi non ti accorgi. Allo stesso modo, i pensieri cattivi dovrebbero avere un odore forte, disgustoso, di cacca o di pesce marcio, ad esempio, e quelli buoni invece un

profumo morbido, affettuoso, odore di vaniglia o di cioccolato. Così il mondo sarebbe più semplice. Nessuno potrebbe nascondersi dietro le parole perché tutti sentirebbero subito la puzza o il profumo. Chi pensa male o ha cattive intenzioni,

sarebbe scoperto ancor prima di aprire la bocca.

Verso gli Otto anni, al catechismo, avevo scoperto l'esistenza dell'angelo custode. Da quel giorno, quando mi domandavano: «Perché stai sempre sola?», rispondevo: «C'è il mio angelo con me, non sono sola».

«L'angelo di Rosa è sempre con lei», bisbigliavano le suore, guardandomi da lontano.

«Dio ti benedica», mormorava la vecchia suora portinaia, passandomi davanti. Così potevo pensare in pace.

C'era una cosa che mi tormentava ormai da qualche tempo. Riguardava Gesù. Avevo fatto un po' di calcoli. Nella camerata eravamo in dodici e ognuna di noi, la sera, gli domandava qualcosa. Di camerate ce ne erano altre quattro, con richieste analoghe e, in più, c'erano le suore. Insomma, già lì da noi doveva occuparsi di un bel po' di persone. Se poi andava fuori dal collegio, il numero cresceva in modo spaventoso. Come faceva Gesù a ricordarsi di tutte le richieste e, soprattutto, ad assolverle? E, poi, eravamo proprio sicuri che le assolvesse? La mamma mi diceva che Gesù mi voleva bene e che voleva bene anche a lei. Le suore dicevano che lui voleva bene a tutti.

Ma cos'era l'amore? Non riuscivo a capirlo.

Non era un odore né una moneta per comprare le cose. Le suore parlavano dell'amore come

fosse il collante del mondo, però oscuravano le finestre e leggevano le lettere per paura che l'amore esplodesse. Di quale amore stavano parlando?

Più me lo chiedevo, meno riuscivo a capirlo.

L'avevo chiesto alla mia compagna di banco.

«E' quando un uomo e una donna dormono nudi, uno sopra e l'altra sotto.»

Le estati dagli zii erano interminabili. Non veniva mai nessuno a trovarci. Non facevamo gite, se non per Ferragosto a un santuario mariano, poco distante. L'aria era immobile, la luce abbagliante, il caldo faceva fermentare gli escrementi. Pipì di coniglio, cacca di gallina. Si poteva andare in giro soltanto con il naso tappato.

«Ti dovrai abituare, signorinetta», mi diceva la zia, con aria cattiva. Un giorno, il pollaio, la conigliera, la legnaia e la casa con l'orto sarebbero

stati miei. Era a questo che si riferiva la zia. Dovevo abituarmi perché quella sarebbe stata la mia vita, pulire le galline, tirargli il collo, raccogliere i

pomodori, spellarli, bollirli, scuoiare i conigli e poi la sera, sfinita, sedermi davanti casa al tramonto a guardare i Tir sfrecciare sulla provinciale.

«Se non fosse stato per noi... » ripeteva spesso.

Se non fosse stato per voi, continuavo dentro di me, a quest'ora avrei avuto una bella casa e un papà. O forse sarei al mare con le suore, in colonia. Comunque, sempre meglio che stare lì a inalare il piombo dei motori, il metano della decomposizione.

Anche le persone d'estate avevano più odore.

A trenta metri, con gli occhi chiusi avrei potuto distinguere lo zio dalla zia, il parroco dal postino.

Col caldo i rumori diventavano terribili.

Vrouum vrouumm, le sgasate dei camion sul cavalcavia. Bzzzzbzz, il ronzare delle mosche.

Croac croac, il gracidare delle rane in un fosso poco distante. E di notte, le zanzare. Zanzare di tutte le dimensioni. Appena spegnevi la luce, ti venivano addosso, sibilavano intorno alle orecchie, zssszss. Ucciderle non serviva a niente.

Per una morta, altre dieci arrivavano dal nulla.

In cucina, lo zio aveva messo una specie di lampada comprata a una fiera. Appena un insetto la sfiorava, finiva carbonizzato. Il rumore era cics, l'odore quello del pollo bruciato. A ogni decesso, la zia gridava: «Eccolo!» e poi tipeteva il numero di progressione della giornata.

Zsss, croac, vrouinm, cics, bzzzzbzz... Con chi potevo parlare? Le domande che d'inverno accumulavo nella testa, d'estate diventavano

un cappello stretto.

Alla zia non ero simpatica, allo zio ero indifferente. Il postino mi regalava sempre una caramella e il parroco non mi poteva soffrire.

L'ho capito dalla prima volta che l'ho visto.

Odore di minestra, odore di cantina, odore di qualcosa che era comunque sporco. Aveva occhi piccoli e obliqui come quelli di un cinghiale. Quando la zia mi ha presentato, è rimasto lì immobile a guardarmi come se avesse visto un

insetto. Non mi ha dato la mano né fatto una carezza. Si è soltanto toccato il naso dicendo:

«Già, la figlia della Marisa».

Un giorno di agosto sono andata lo stesso da lui. Se non mi sapeva rispondere don Firmato, chi altro avrebbe potuto farlo? Stava sonnecchiando nella penombra fresca in fondo alla chiesa. Mi sono seduta accanto, gli ho sfiorato una manica.

«Sei tu», ha borbottato.

«Voglio sapere una cosa.»

«Dimmi. »

«Che cos'è l'amore?»

Si è girato a guardarmi, i suoi occhi erano lenti, acquosi.

«Quanti anni hai? »

«Dodici. »

«L'amore è peccato. »

Tra tutti i peccati, don Firmato preferiva quelli della carne, per questo gli altri bambini lo chiamavano tra di loro don Bistecca. Non c'era domenica che, dopo giri piùo meno lunghi, non arrivasse a parlare di quello. Se la lettura del giorno erano le beatitudini, lui riusciva comunque a

parlare della perdizione dei sensi. Per don Firmato, il mondo era diviso in due da un muro invalicabile. Chi stava da una parte e chi dall'altra.

Una parte era l'inferno e l'altra il paradiso. Si nasceva già predisposti. Non c'era possibilità di scelta. Tutto era deciso dall'inizio.

Una volta, qualcuno aveva scritto "Firmato =

Porco" con la vernice rossa sui muri della canonica. Passandoci davanti, mi era scappato da ridere.

Il pomeriggio stesso, erano arrivati i carabinieri e avevano fatto tante domande alla zia. La porta di casa era aperta di notte, oppure no? Si poteva uscire dalle finestre e rientrare senza che nessuno se ne accorgesse? Poi erano saliti nella mia camera e avevano guardato nell'armadio e sotto il letto. Mi avevano controllato le mani e gli avambracci. Avevano scrutato fin sotto le unghie per vedere se era rimasta qualche traccia di vernice.

«Mia nipote», ripeteva la zia alle loro spalle, «è una brava ragazza. Tutte le domeniche viene a messa con me. La sera va a dormire presto. E poi, maresciallo, se fosse stata lei, l'avrei ammazzata con le mie stesse mani. »

I carabinieri annuivano con le facce serie.

Don Firmato doveva essere assolutamente certo della mia colpevolezza. Se fosse stato per lui, avrei dovuto già ardere nelle fiamme dell'infer no. La zia mi aveva difesa unicamente perché sapeva che era impossibile per me uscire di casa,

la notte. Ogni sera, infatti, chiudeva a chiave tutte le porte e dal secondo piano, dove dormivo io, non si poteva scendere senza farsi male.

Il giorno dopo ho dovuto comunque unirmi al gruppetto di fedeli incaricato di cancellare la scritta dai muri della canonica. Passandomi accanto, il parroco mi ha sibilato: «Tale madre, tale figlia. Lei sta all'inferno e tu sei già in sala

d'aspetto».

Mia madre era una puttana. A Otto anni non lo sapevo ancora, ero convinta che lavorasse di notte a pulire gli uffici. Ho continuato a crederci fino a undici anni.

Intanto il sogno di inseguirla tra le ombre era scomparso. Le suore avevano chiamato uno psicologo, per aiutarmi. Lo psicologo era venuto in collegio. Avevamo parlato in una stanza, noi due soli.

«Morta», mi aveva detto. «Riesci a capire cosa significa? Significa che la tua mamma non cammina più qui sulla terra, che non ti succederà mai più di aprire una porta e vederla. Non potrai più toccarla né abbracciarla. Ti devi abituare a vivere con le cose belle di lei nel ricordo. » Poi mi aveva sfiorata e aveva continuato:

«Se vuoi piangere, piangi pure».

Tutti volevano che piangessi, ma io non ne avevo voglia. Invece di piangere mi chiedevo:

dove finisce la spazzatura? Anche la spazzatura è così. Un giorno il sacchetto sta a casa, nell'angolo sotto il lavello e il giorno dopo non c'è più. Viene un grande camion e lo divora. Quando il camion è passato, resta soltanto una forte

puzza nell'aria.

La morte non doveva essere qualcosa di molto diverso, andava in giro e divorava le persone come i sacchetti lasciando dietro di sé una nuvola di cattivo odore. Lo stesso odore di quando i Tir sulla provinciale prendevano sotto un cane.

La verità me l'ha gridata in faccia la zia Elide, una mattina. Per qualche ragione si era arrabbiata con me. In quei momenti, i suoi occhi diventavano di vetro, la sua lingua di metallo.

«E' ora di finirla con la farsa» ha urlato. Poi ha sgranato la verità come un rosario. «Tua madre non è morta in un incidente, ma è stata investita mentre aspettava i clienti su una curva del raccordo. »

«Che cosa vendeva? » ho chiesto.

La zia mi ha scrutata con aria di sfida. «Non lo capisci? Vendeva il suo corpo. Era una donna capace soltanto di aprire le gambe. »

Da quel giorno, ogni volta che parlava di lei, la zia Elide la chiamava così. La donna che apriva le gambe.

L'ho sopportato per più di un anno. Poi un mattino, mentre eravamo in cucina, appena lei è partita dicendo: «Era capace solo... » non ci ho visto più.

«Sapeva spalancare anche le braccia! » le ho gridato.

La zia è diventata pallidissima.

«Disgraziata», ha sibilato, «con tutti i sacrifici che facciamo per te. »

Allora ho preso un tizzone dal caminetto con le pinze e l'ho sventolato vicino alle tende.

«Toccami e do fuoco a tutto. »

E' arrivato lo zio in suo soccorso: «Il fuoco si spegne con l'acqua» e mi ha gettato in faccia il contenuto della brocca.

E' stato da quel giorno che ho cominciato ad odiarli?

Credo di sì.

Ero nella mia camera e scrivevo dei bigliettini. Vi odio, voglio che moriate, vi prenda sotto un'auto, vi venga un colpo, una malattia tremenda. Alle scritte, univo dei disegni, poi facevo tutto a pezzettini, andavo in bagno e, prima

di farli sparire, ci scaricavo le mie cose sopra.

Davanti a loro, però, facevo finta di niente, mi sforzavo di essere gentile. Avevo paura delle rappresaglie. Lo zio minacciava sempre di chiudermi nella legnaia perché era piena di topi, ragni e serpenti. Per vincere la paura, avevo

iniziato ad andarci da sola. Lì nessuno mi trovava e nessuno mi dava fastidio. In breve tempo, la legnaia era diventata il mio rifugio prefe rito. Gli esseri umani ormai mi facevano più paura dei topi e dei serpenti.

Una volta, mentre andavo in bicicletta, per una strada bianca, avevo incontrato una donna con due bambini. Urlava come una pazza perché a pochi metri da lei c'era una biscia. Per mostrarle che non faceva niente di male sono scesa, l'ho afferrata per la coda e gliel'ho messa sotto il naso. «Vede», le ho detto, «basta prenderle per la coda. Mica ce la fanno a rivoltarsi». Invece di ringraziarmi, lei ha continuato a urlare come un'ossessa.

Il giorno dopo, tutto il paese diceva che dovevo avere qualcosa che non andava perché giravo con i serpenti in tasca e li accarezzavo sul muso, come si accarezzano i cani.

III.

A tredici anni ero più che stufa degli zii. Il solo immaginare le loro voci e le loro facce mi metteva in uno stato di profondo disagio. Così, qualche giorno prima di Natale, ho deciso che quell'anno non sarei andata da loro. Ho chiesto

un colloquio con la direttrice e gliel'ho detto.

«Perché? » mi ha chiesto guardandomi dritta negli occhi,

«Perché non mi va.»

«C'è qualche problema? »

«Nessuno. Loro sono vecchi e io mi annoio. Tutto qui.»

«Allora mi dispiace, ma devi andare, Il tribunale ti ha affidato a loro. E poi stare da soli il giorno di Natale è diverso che stare da soli in qualsiasi altro giorno dell'anno. Se restassi qui, finiresti per pentirti.»

Per tutta la notte, ho covato l'idea di fuggire, ma al mattino ho fatto la stessa identica cosa degli anni prima. Ho preso la corriera e sono

andata alla cascina.

I biscotti erano già nel forno.

«Finalmente sei arrivata! » ha gridato la zia, vedendomi entrare. «Cambiati e pulisci i conigli. Poi vieni qui, che c'è da spennare il cappone. »

Tutta l'antivigilia ho lavorato per lei.

La sera è cominciata a cadere una pioggerellina ghiacciata. Abbiamo mangiato in silenzio sul tavolo di formica della cucina, davanti al televisore acceso. I vetri erano coperti dal vapore. In una grande pentola bolliva il tacchino.

Era troppo grande e così, dall'alto, uscivano i moncherini delle zampe.

Ho lavato i piatti e sono andata a letto. Le lenzuola erano ghiacciate e la trapunta sembrava bagnata. Vuom grnn vuom. Dalla finestra chiusa veniva il rumore delle macchine. Mi sentivo triste, quella tristezza quieta che precede il

pianto. Alle labbra, per abitudine, mi è salita una preghiera ma l'ho ricacciata indietro. Ero ormai troppo grande per gli orsacchiotti e non riuscivo più ad aggrapparmi alle preghiere.

Qual era allora l'antidoto alla tristezza? Volevo piangere ma dagli occhi non usciva niente. Sentivo il mio corpo come fosse quello di un'altra persona. Ho provato ad abbracciarmi. Freddo su freddo. Un abbraccio tra due serpenti, tra

due pezzi di ferraglia. Adesso salto giù dalla finestra, ho pensato. Probabilmente non muoio ma almeno mi spezzo le gambe o la spina dorsale, passo il Natale in ospedale e il resto dei miei giorni su una sedia a rotelle. In quel preciso istante mi è parso di sentire il profumo della mamma. Ho acceso la luce. Nella stanza non c'era nessuno. Da dove veniva? C'era davvero o me l'ero soltanto sognato? Sul soffitto, sopra al letto, era comparsa una macchia di muffa.

Sembrava il muso di un orso o quello di una scimmia con la bocca aperta.

Dal piano di sotto saliva ancora il rumore della televisione. I due monoliti stavano lì, sulle poltrone coperte dal cellophane antipolvere.

Due insetti stecchiti. Due mummie incartapecorite. La zia ordinava e lo zio obbediva. «Sì, Elide. Va bene, Elide. Hai ragione, Elide.»

Per tutta la Vigilia ho cercato di stare tranquilla. La zia diceva una cosa e io subito la eseguivo. Facevo tutto con gli occhi bassi, perché non riuscisse a leggermi dentro. Ogni tanto andavo nella mia stanza e scaraventavo con forza

il cuscino contro il muro, poi vi tuffavo il volto dentro e urlavo in silenzio.

La sera avremmo aperto i pacchetti, ci saremmo scambiati i baci di ringraziamento, avremmo divorato il tacchino freddo davanti a uno spettacolo di varietà e lo zio avrebbe riso alle battute più cretine, le più volgari.

Mi aspettavo la sesta camicia bianca, invece ho ricevuto un paio di guanti di lana blu, con rinforzi in similpelle. Anch'io ho sorpreso gli zii. Invece del solito vasetto fatto con le mie mani o delle presine all'uncinetto, ho regalato loro una pera e una mela avvolte in un bel fiocco rosso. Da anni, scartando i doni, la zia ripeteva sospirando: «Com'era bello il Natale quando l'unico dono erano due noci e un'arancia! ». Così l'ho accontentata.

Poi ci siamo seduti a tavola. Proprio mentre la zia si stava lamentando che i tortelloni non erano venuti bene come l'anno precedente e lo zio la rassicurava dicendo che, anzi, forse erano anche più buoni, qualcuno ha suonato alla porta. La zia ha tirato su il collo come un tacchino.

«Chi può essere a quest'ora? E in una giornata come questa? »

Io mi sono alzata e sono andata ad aprire.

Era un negro con un grande borsone. Vendeva mutande e asciugamani. Il bianco dei suoi occhi brillava nella notte.

«Vuoi comprare belle cose? » mi ha chiesto.

«Vieni dentro», ho detto, «c'è la cena di Natale. »

La zia è balzata subito in piedi: «Chi è? » ha gridato. «Come ti viene in mente di farlo entrare? »

«E' o non è la cena di Natale? » ho risposto.

«Lo è, ma non per lui. Se era un cristiano, non andava certo in giro questa sera a vendere i suoi stracci. »

Lo zio si è alzato in piedi e con una mano, debolmente, ha toccato la mano del negro.

«Grazie», ha detto per mostrare la sua autorità virile, «non abbiamo bisogno di niente» e l'ha accompagnato alla porta.

«Hai chiuso bene a chiave? » gli ha domandato la zia, quando è rientrato.

«Certo. »

Abbiamo ripreso a mangiare in silenzio. Sul video, dei bambini di tutti i colori, conciati come scimmie del circo, stavano cantando delle melense canzoncine di Natale, gli adulti intorno battevano le mani con gli occhi lustri.

Ho sbattuto il cucchiaio sul bordo del piatto.

I monoliti hanno alzato lo sguardo.

«E se fosse stato Gesù?» ho detto.

La zia si è alzata a raccogliere i piatti. «Non dire cretinate. Gesù non era negro. E poi non andava in giro a vendere mutande. »

Quando mi è passato davanti il piatto con le fette di tacchino bollito, ho pensato, sembrano pezzi di cadavere. Anzi sono pezzi di cadavere, e l'ho lasciato li.

«Come fai a sapere che non ti piace, se neanche lo assaggi? »

Invece di mandarla al diavolo, ho detto solo:

«Non ho più fame».

Con la forchetta, ha infilzato una fetta e me l'ha sbattuta nel piatto. «Lo mangi lo stesso. »

A quel punto è successa una cosa strana. Ho sentito il cuore che cominciava a gonfiarsi.

Sembrava che avessero svitato un'arteria e, al suo posto, avessero attaccato una pompa di bicicletta. Il manometro saliva e il cuore diventava più largo. Cosa sarebbe successo se fosse andato a sbattere contro il lato tagliente delle costole?

Così ho aperto la bocca.

«Perché non parliamo dell'amore?»

Di che amore? ha chiesto subito Collo di tacchino.

«Non lo so. Lo chiedo a voi. Quanti amori esistono? Due? Tre? Quattro? Dieci? Mille? Visto che siete sposati, almeno uno dovreste conoscerlo, no? Ci si sposa per quello, no? Oppure voi... »

Lo zio si è alzato in piedi. Tremava tutto.

«Porta rispetto o... »

«Ho solo fatto una domanda! Non so cos'è l'amore, dove sta. Non so neppure se davvero esiste e come... »

La zia mi ha interrotto con un sorrisetto:

«Dovevi chiederlo a tua madre. Lei era una vera specialista».

In quell'istante il cuore ha toccato le costole spingendo ogni cosa fuori posto. Ho preso la fetta di tacchino con le mani, l'ho sbattuta per terra e l'ho schiacciata forte sotto la scarpa.

«Detesto la carne» ho gridato. «La detesto! » E

sono uscita sbattendo la porta con violenza.

Faceva freddo e non avevo preso la giacca.

La bici della zia era appoggiata al muro, sono salita e ho cominciato a pedalare. Non sapevo da che parte andare, sentivo soltanto un'incredibile forza nelle gambe.

Nel cielo c'erano un po' di nuvole e un po' di stelle.

La rotella della dinamo faceva vrrrr contro il cerchione della ruota, la luce del fanale era debole, intermittente, fendeva di pochissimo il buio della notte.

Quasi senza rendermene conto sono arrivata alla stazione. Mancava poco alle dieci e il piccolo ristoro era ancora aperto. Sono entrata e ho detto: «Una grappa».

Era la prima volta nella mia vita che ordinavo qualcosa di diverso da una cioccolata calda.

Il primo sorso mi ha fatto tossire e anche il secondo. Al terzo ho sentito le gambe diventare morbide. In un angolo brillavano le luci di un flipper.

«A che ora passa il prossimo treno?» ho chiesto.

«L'ultimo è già passato», mi ha risposto l'uomo al banco, pulendo i bicchieri. «E il prossimo passa domani mattina.»

Aveva una faccia larga con grandi baffi spioventi. Magari è lui mio padre, ho pensato.

La mamma era venuta come me in stazione, fuggiva da qualcosa e aveva paura, se ne stava zitta in un angolo e lui, fingendo di consolarla, l'aveva schiacciata con il suo corpo enorme contro il muro del gabinetto. E nove mesi dopo

ero venuta al mondo io.

Avevo finito di bere e mi sentivo strana.

«Lei ha figli?» gli ho chiesto stupidamente.

«Purtroppo no», ha risposto lui. «Però, ti posso dire lo stesso che non è bello che tu te ne stia qui a quest'ora. Adesso io chiudo il locale e tu torni a casa, d'accordo?»

Mi ha accompagnata alla porta e ha tirato giù la serranda. Aveva una 127 decrepita, ci ha impiegato un bel po' prima di metterla in moto. A ogni tentativo, la marmitta tremava come dovesse staccarsi. Poi si è allontanato lasciando dietro di sé una scia di nuvoloni bianchi.

Tornare a casa? Che cosa mi aspettava, a casa? E se invece fossi tornata in collegio? Magari anche lì non c'era più nessuno, tutte le suore erano andate a trovare le famiglie. Dopo la volta del tizzone, non avevo mai osato ribellarmi in quel modo agli zii. Al massimo, ero stata un po' maleducata. Come mi avrebbero accolto? In fondo, ero da sempre un'ospite sgradita.

Ho alzato lo sguardo, un satellite attraversava il cielo come fosse la cometa. Era la notte di Natale. Forse le mie paure erano paure inutili.

Forse con la sua coda incandescente la stella aveva scaldato anche il cuore degli zii. Avrei suonato alla porta e, per la prima volta, mi avrebbero accolto a braccia aperte.

Stavo già pedalando verso casa, quando ho sentito una voce chiamarmi. Era il venditore di mutande. Fumava seduto tra i borsoni della mercanzia.

«Sei qui», ho detto.

Mi ha fatto segno di sedermi e mi ha offerto la sua sigaretta. Una, due, tre boccate. Alla terza, qualcuno ha preso il mio stomaco e l'ha capovolto. Dov'ero? Ero su una barca? Mi veniva da vomitare come se ci fosse il mare grosso.

Tutto mi girava intorno. Sì, ero su una barca e la barca stava affondando, roteavo nel gorgo che mi avrebbe portato a fondo. «Mai fumato?»

ha chiesto il negro. La sua mano si è posata sulla mia gamba, in alto, vicino all'inguine.

Di colpo, il gorgo si è fermato e sono scoppiata a ridere. La notte era nera, la strada era nera, il venditore di mutande era nero. Di che colore era l'anima? Forse era anche lei nera, per questo mi era sempre sfuggita. Invece di sprofondare, adesso brancolavo. Tendevo le mani avanti come quando si gioca a mosca cieca. Dov'era il limite delle cose? Non riuscivo più a trovarlo.

Alle nostre spalle è passato un treno. Il suo rumore ha coperto le sue parole. Che odore era quell'odore? Odore di bosco, di giungla, odore di animale che insegue e che viene inseguito. Il suo corpo era vicinissimo, così vicino da schiacciare il mio. Voleva scaldarmi? e allora perché premeva così forte? Non mi veniva più da ridere ma da piangere. Vedevo il bianco dei suoi occhi, le sue mani erano scomparse nella notte.

Quante mani aveva? Mi sembrava di sentirle dappertutto. Quando nella mia bocca è entrata una specie di lumaca prepotente, per difendermi ho chiuso di scatto i denti.

A un tratto, mi sono trovata a terra. Lui gridava cose che non capivo e sputava. Poi mi è arrivato un calcio nella schiena.

Subito dopo, ero sulla bici e pedalavo.

Pedalavo e pedalavo nella notte con il fanale spento e tutto mi sembrava assolutamente fermo. Le gambe erano pesanti come quelle degli incubi, quando devi scappare ma più niente risponde ai tuoi comandi. Prima ero sudata. Poi

il sudore si è trasformato in ghiaccio. Una macchina, superandomi a tutta velocità, ha suonato con rabbia il clacson. Ho quasi perso l'equilibrio. Quando ho rimesso i piedi a terra mi sono guardata intorno e non ho riconosciuto niente. Né un cartello, né un semaforo, né un capannone.

Dove stavo andando? E chi ero? Osservavo quelle dita che stringevano i freni come le dita di uno sconosciuto. Come mi chiamavo? Era come cercare di prendere un pesce con le mani, più lo inseguivo, più mi sfuggiva. Non c'era nessuno intorno a cui poter chiedere: «Sa chi sono?».

All'improvviso al mio interno si è formata un'enorme cavità e in quella cavità mi aggiravo con l'occhio sbarrato e la bocca spalancata, come un pesce nell'acquario. Ero il pesce e anche il suo proprietario. Esistevo e mi guardavo esistere. E pur esistendo e guardandomi esistere, non ero ancora certa di esistere.

Poi, a un tratto, tutte insieme, hanno cominciato a suonare le campane. Così mi sono risvegliata. E' Natale, ho detto, e sono Rosa. La Rosa uscita di casa con il tacchino sotto i piedi, la Rosa che nessuno vuole, la Rosa tutta spine e

niente fiore, la Rosa che ha appena preso un calcio dal negro. Mi sono guardata intorno e ho finalmente capito dov'ero, così ho ripreso a pedalare verso il paese.

Se non avessi fumato quella sigaretta sarebbe andato tutto in modo diverso? Chi lo può sapere? Avevo la grappa nello stomaco, la prima grappa della mia vita. Con il fumo, la grappa si era trasformata in dinamite.

Non pedalavo con calma ma con rabbia. Il fanale era ancora spento, ma la dinamo girava ugualmente. Non caricava la luce, ma l'oscurità del mio cuore. A ogni giro della catena, quel dolore confuso, quel senso vago di umiliazione si

trasformavano in odio. Un odio puro, trasparente e indistruttibile come il carbonio nella composizione del diamante. Salendo alla bocca, l'odio si trasformava in parole. Sfrecciavo lungo la provinciale e gridavo. «Andate tutti all'inferno! Crepate tutti, stronzi bastardi merdosi!»

Ecco, il cuore aveva toccato le costole, vi era rimasto impigliato come un palloncino tra i rami di un albero. Per farlo scoppiare, sarebbe bastato un minuscolo movimento. Le costole erano come coltelli. Respiravo e si conficcavano nella carne. Più respiravo, più il dolore diventava lancinante. Su un ventricolo forse si era formato un ascesso e adesso, finalmente, stava spurgando.

Il piazzale della chiesa parrocchiale era pieno di macchine. Dalle vetrate filtrava la lu ce calda delle candele. Ho scaraventato a terra la bicicletta. Se avessi trovato qualcuno davanti alla porta, gli avrei dato un pugno. Non

l'ho trovato, così ho spalancato la porta con un calcio.

E' successo tutto molto rapidamente. La chiesa era piena di gente. Nonostante l'omelia, tutti si sono girati a guardarmi. Ho attraversato la navata centrale a grandi passi.

«Mi fate tutti schifo! » ho gridato, «e sapete perché? Perché non siete altro che dei luridi, schifosi sepolcri imbiancati!»

Il parroco è rimasto a bocca aperta con un braccio sospeso in aria. Qualche ragazzo si è messo a ridere. Sono andata al presepe, ho preso il bambino dalla mangiatoia e l'ho sollevato sulla mia testa, come un trofeo.

«Sapete cos'è questo?» ho urlato, roteandolo in aria. «Volete davvero sapere cos'è? E' una piccola, stupida statua! »

Nessuno fiatava, tutti mi guardavano sgomenti.

«Voi adorate una statua! » ho detto, prima di scaraventarla in mezzo alla navata. «Soltanto una statua! »

Il rumore del bambino che andava in pezzi li ha risvegliati. Si sono fatti tutti il segno della croce. Ho visto la zia accasciarsi in prima fila, lo zio balzare fuori per prendermi.

Don Firmato ha afferrato il candelabro e si è precipitato verso di me.

Sono riuscita a fuggire per la navata di sinistra. Passando al volo, ho strappato i cartelloni colorati del catechismo. A grandi lettere, c'era

scritto: "L'amore è...". Li ho gettati sulle candele di sant'Antonio. In meno di un secondo hanno preso fuoco. Io ero già sulla porta.

Prima di uscire, mi sono girata e ho gridato ancora, con tutto il fiato che avevo in gola.

«Ascolta, Firmato porco! Amore sarebbe baciare la Maddalena, non vomitarle in faccia! »

Poi ho iuforcato la bici e sono tornata a casa.

Volevo morire? Probabilmente sì. La casa era vuota. In fondo al camino, ardevano ancora le braci.

All'improvviso, non sapevo più che cosa fare.

Mi sentivo svuotata. Non era più il cuore a pulsare, ma la testa. Sentivo un dolore fortissimo in mezzo agli occhi. Tutto girava. Mi sono lasciata cadere sul cellophane della poltrona. Cosa sarebbe successo adesso? Sarebbero venuti i carabinieri e mi avrebbero arrestato? O forse la zia mi avrebbe ucciso. Come aveva detto quel giorno al maresciallo?, «con le mie stesse mani».

Ero troppo stanca per provare una qualsiasi

forma di paura. Niente andava bene e dunque tutto andava bene. Non lontano, un cane ululava in modo triste. Dalla provinciale, giungeva il rumore delle auto che tornavano a casa.

«Mamma.. . » ho detto prima di addormentarmi e, nel breve sonno, ho sognato un suo abbraccio. Mi stringeva forte, sorridendo, senza dire niente. Poi, a un tratto, la zia stava sopra di me, urlava con le molle del camino in mano.

Quando le molle mi sono arrivate addosso, ho capito che non era più un sogno. Non mi andava più di morire, così ho cercato di sgusciare via dalla poltrona.

«Non farla scappare, prendila! » gridava allo zio. Lo zio mi è piombato addosso come un giocatore di rugby. Siamo scivolati distesi in mezzo al corridoio.

«Io ti ammazzo! Ti ammazzo, bastarda figlia di Satana! » continuava a gridare la zia. E colpiva. Colpiva come quando sbatteva le trapunte, colpiva alla cieca, con furore. Cercavo di coprirmi la testa con le braccia. Quando ho visto il sangue, ho cominciato a urlare anch'io.

«Ammazzami! Amnmazzami pure! Così finalmente ti porto con me all'inferno! »

Ha vibrato ancora un paio di colpi, sempre più deboli, poi ha scagliato le molle per terra.

Con le mani si è coperta il volto ed è scoppiata in singhiozzi.

Il cane dei vicini stava ancora latrando.

Sono rimasta a letto per due giorni. Non avevo voglia di mangiare, non avevo voglia di niente. Già muovere una gamba mi sembrava impossibile. Ogni tanto dormivo, ogni tanto guardavo le muffe sul soffitto.

Il pomeriggio del secondo giorno, ho sentito la voce del maresciallo giù in cucina. Non era venuto per portarmi via, come speravo, ma so!tanto per dire che don Firmato, per rispetto alla devozione e alla fede della zia, aveva ritirato

la denuncia. «Anzi», ha aggiunto poi, «nel paese le sono tutti molto vicini.»

La zia l'ha ringraziato con un filo di voce.

«E pensare che io l'avevo presa in casa soltanto per fare un'opera buona. Senza padre, e orfana di quella madre! E noi siamo anche anziani. Speravamo di salvarla, maresciallo. Lei mi capisce. E adesso dobbiamo portare questa croce. »

Prima di uscire, il maresciallo aveva detto:

«Coraggio!».

Il terzo giorno, quando gli zii sono usciti per andare al centro commerciale, sono scesa al piano di sotto, ho preso la bottiglia dell'alkermes per dolci e mi sono nascosta nella legnaia.

IV.

Quanti strati di pelle esistono nel nostro corpo? Ci sono ustioni di primo grado, di secondo e di terzo. C'è l'abrasione lieve, quando si urta qualcosa, e quella in cui la pelle viene letteralmente scorticata. Tra una e l'altra c'è la stessa differenza che corre tra un leggero fastidio e la sopravvivenza. La pelle serve per farci respirare, per proteggere gli strati di tessuto più fragili.

A me, quanti strati erano rimasti?

Bevevo l'alkermes seduta sul cavalletto per tagliare la legna e mi guardavo il braccio. In un punto la pelle c'era, in un altro no. Il dolore avrebbe dovuto essere limitato, invece, con i suoi tentacoli correva dappertutto. Forse anche

la faccia ormai era nuda. Non era più rosa ma rosso scarlatto. Doveva sembrare quella di una scimmia del Borneo. O quella del demonio.

L'inferno c'era o non c'era? Se il niente stava sopra le nostre teste, il niente stava anche sotto i nostri piedi? O piuttosto, tra i due poli c'era un grosso squilibrio? Sopra, un cielo crepitante e leggero come un velo di tulle e, sotto, tutti gli scarti, tutta la limatura di ferro del mondo? Forse per questo la terra stava insieme, perché il centro era di una pesantezza straordinaria.

C'era fuoco, là sotto, e piombo e stagno e carbone. E c'erano anche tutte le anime più sporche. Si rotolavano tra le fiamme come i maiali si rotolano nel fango. Senza il centro pesante, il nostro pianeta sarebbe stato come una meringa.

Voluminoso ma leggerissimo. Non sarebbe riuscito a mantenere la sua rotta neppure per una frazione di secondo. Uscendo di strada, sarebbe esploso come una palla di neve contro il cristallo di un'auto. Dunque se stavamo ancora qui, il

centro doveva essere per forza pesante. Pesante e abitato, come la mela è abitata dal baco.

Ogni casa ha un proprietario. Qual era il volto del padrone dell'inferno? Era lo stesso che dominava i nostri giorni?

Quando avevo strappato il cartellone con sopra scritto: "L'amore è..." e lo avevo avvicinato alle fiamme, aveva preso immediatamente fuoco. Avrebbe potuto opporre almeno un po' di resistenza, prima di farsi consumare, lottare per una manciata di minuti. Così la gente avrebbe potuto dire: «Vedi? L'amore resiste al fuoco. O quanto meno ci prova...».

L'amore vince tutto, avevo spesso sentito ripetere. L'amore è più forte della morte. E invece non era vero, perché l'amore, anche se esiste, è fragile. E' così fragile da essere pressoché invisibile. Ed essere invisibile e non esistere è quasi la stessa cosa. Il fumo di un incendio si può scorgere a chilo metri di distanza, per anni tutt'intorno resta il segno delle fiamme. L'amore invece non si riesce a vedere neppure se ci si mette il naso sopra.

Anch'io bruciavo. Mi bruciava il corpo e bruciavo dentro. Per questo bevevo, per avere una qualche forma di sollievo. Ma era un sollievo di breve durata. Mi sarei dovuta rotolare nella neve ghiacciata oppure avrei dovuto gridare

con voce tremenda ciò che mi veniva dal cuore.

"Odio" era la mia parola preferita. Ho cominciato a ripeterla piano, a fior di labbra. Ti odio. Vi odio. Mi odio. Ti odio. Vi odio. Mi odio.

Poi ho tolto il pronome ed è rimasto soltanto "odio". L'ho rivoltato ed è diventato "oido".

Separando le lettere, l'ho trasformato in "O

dio"...

Perché tutti avevano paura di finire all'inferno? Mi avrebbe fatto molto più paura finire in paradiso. Avrei anche potuto sostenere lo sguardo di Satana, ma quello di Dio! Assolutamente impossibile. Lui avrebbe visto la mia pochezza.

Mi avrebbe disprezzato, come mi disprezzavano il parroco e la zia. E poi, avevo rotto la statua di Gesù. L'avevo rotta nella notte più sacra, quella in cui era nato. Dove avrei mai potuto andare, se pure esisteva un altro mondo?

La sera, nel letto, ho pensato: come esistono preghiere all'angelo, ne esisteranno pure rivolte al diavolo. Ho provato a ripetere l'Angelo di Dio, sostituendo l'invocazione. Poi, però, non riuscivo ad addormentarmi. Avevo l'impressione che la macchia sul soffitto avesse mille occhi.

Occhi fluorescenti e lingue che brillavano saettando nell'oscurità della stanza. Mi sono svegliata nel cuore della notte al suono della mia voce. Urlavo. Per un attimo mi è sembrato che la macchia sul soffitto fosse una grande scimmia con la bocca sporca di sangue e gli occhi di brace e che mi stesse precipitando addosso.

I rimanenti giorni di vacanza li ho passati come un clandestino su una nave. Sempre chiusa in camera mia. Appena loro uscivano, scendevo in cucina.

Il quattro di gennaio ho deciso di tornare in collegio. L'ho comunicato alla zia mentre stava nel pollaio. Non ha detto né sì né no né «buon viaggio». Non ha neppure alzato il viso dal secchio del becchime.

Ho messo le mie poche cose nella borsa. La corriera partiva a mezzogiorno. Lo zio era a caccia. Quando la zia è uscita per andare al mercato, al cibo dei conigli e delle galline ho mescolato del veleno per topi.

«Sei già qui?» ha osservato la superiora, vedendomi arrivare.

Siamo entrate nel suo studio. Nell'angolo fumava un bollitore elettrico. La suora l'ha spento, ha versato l'acqua nella teiera e si è seduta di fronte a me.

«E' successo qualcosa? » mi ha chiesto.

Ho alzato le spalle. «Assolutamente niente.

Mi annoiavo. »

Cominciavo a provare disagio per l'insistenza del suo sguardo.

«Cosa ti sei fatta in testa?»

« Sono caduta dalla bicicletta. »

La pendola dietro la scrivania ha battuto le quattro e mezzo. Fuori era quasi buio. La mano della superiora ha sfiorato la mia. La sua voce era bassa, calma.

«Rosa, perché non dici la verità? Da me non devi temere nulla. »

«Non esiste la verità.»

«Ne sei sicura? »

Ho risposto la prima cosa che mi è venuta in mente.

«A me nessuno vuole bene. Che io viva o muoia è indifferente. »

«Ti sbagli, io te ne voglio.»

«Lei vuole solo incassare la retta. »

«Cosa posso fare perché tu cambi idea? »

«Niente. »

«Vuoi che chiami lo psicologo? »

«Detesto gli psicologi. »

«E allora?»

«Va bene così.»

«Non credo che vada bene.»

«A me va bene così e questo basta.»

A quel punto ho sentito le sue mani sulle mie, erano piccole e piuttosto fredde.

«Perché non mi guardi negli occhi?»

«Non è mica obbligatorio. »

«Non è obbligatorio, ma sarebbe gentile.»

«Della gentilezza non mi importa niente.»

In quell'istante è suonata la campanella del rosario.

La superiora si è alzata in piedi.

«Devo andare, ma prima che tu esca ti voglio dire due cose. La prima è questa: la porta del mio studio e della mia stanza sono sempre aperte, che sia giorno o notte, se hai voglia di parlare puoi spingerle ed entrare... »

«E la seconda?»

«Ricordati che non hai nessuna responsabilità del tuo passato ma ne hai molta riguardo al tuo futuro. Il futuro è nelle tue mani e sarai tu a costruirlo. Per questo ti invito a riflettere e ad aprirti prima di compiere qualche sciocchezza. »

I mesi seguenti sono stati mesi di oscurità, squarciati da bagliori improvvisi e violentissimi. Tutto mi sembrava inutile, non sopportavo la compagnia di nessuno. Andavo a scuola e non sentivo neppure una delle parole dei professori. Passavo ore china sui libri ma davanti a me scorrevano soltanto pagine e pagine opache.

Mi mancava un solo anno al diploma, ma neppure questo riusciva a darmi gioia.

Il mio futuro era come le pagine, opaco.

Probabilmente sarei tornata alla cascina e avrei passato il resto dei miei giorni a pulire la

cacca dei conigli e delle galline. Un giorno, gli zii sarebbero morti e io sarei diventata la padrona di tutto, ma sarebbe stato troppo tardi. Ormai brutta e vecchia, non avrei trovato più nessuno con cui vivere. O forse, un giorno avrei mollato ogni cosa e mi sarei messa a vivere per strada, insieme ai cani. Loro, almeno, mi avrebbero voluto bene. Oppure, niente di tutto questo. Sarei semplicemente rimasta alla cascina e, anno dopo anno, la nebbia mi sarebbe entrata dentro, avrebbe divorato le mie ossa. A divorare il cervello ci avrebbe pensato l'alcool. Tra i buchi del naso e quelli delle orecchie ci sarebbe stato il buio fondo di una stiva. Sarebbe circolata una sola idea là dentro, vecchia come il mondo: il modo migliore di farla finita. Così, un giorno, strascinando i piedi, avrei raggiunto la legnaia e mi sarei appesa alla trave più alta. In cronaca, mi avrebbero dedicato appena un trafiletto:

Squilibrata trovata morta nella sua casa.

Intanto intorno a me, le compagne parlavano soltanto del proprio futuro. C'era chi pensava a sposarsi e chi sognava di andare all'università. Una voleva fare l'infermiera e un'altra entrare nella guardia forestale. Della più timida e

silenziosa, si diceva che volesse prendere i voti e restare chiusa per sempre là dentro. Io non dicevo a nessuno ciò che pensavo. Se qualcuna mi interrogava, rispondevo nel modo più banale.

Studierò computer, aiuterò gli zii in campagna.

Succede, alle volte, che dal mare all'improvviso spunti un'isola che prima non esisteva o che la lava di un vulcano crei o cancelli un'intera regione. A me stava capitando un po' la stessa cosa, non era un'isola quella che nasceva

dentro di me bensì una palude. Era una palude senza albe né tramonti, il vento non stormiva tra le sue canne e neppure tra le fronde dei salici. L'aria era buia, ferma. Nell'aria buia e ferma, il fango fermentava emanando miasmi.

Durante la notte li sentivo uscire lentamente dagli orifizi del mio corpo. Era odore di metano, odore di zolfo, odore di qualcosa che marciva nel profondo.

L'inverno è passato e le giornate hanno cominciato a diventare più lunghe. I passeri e i merli correvano indaffarati da una parte all'altra del giardino, mentre sui rami già si gonfiavano le gemme. Tra l'erba dei fossi e dei pendii

comparivano i primi fiori, il lillà delle viole, il giallo chiaro delle primule. Ogni cosa sfiorata dal sole ritornava alla vita. Con il cambio di stagione, anche la fermentazione della palude aveva prodotto qualche forma di energia. Non è successo forse lo stesso ai primordi del mondo?

Nelle pozze senza ossigeno a un certo punto gli

aminoacidi sono impazziti e hanno dato luogo alla vita. Non sono impazziti da soli ma con l'aiuto di un fulmine. Un fulmine caduto nell'acqua che ha prodotto il cortocircuito. Anche dentro di me cominciavano a cadere fulmini, fischiavano ed esplodevano come i botti della fine dell'anno. Per un istante la loro luce bianca stracciava il velo dell'oscurità. Camminavo per

i lunghi corridoi e mi chiedevo, per quanto tempo ancora potrò tenere nascosta quest'energia tremenda?

Il cortocircuito è avvenuto a Pasqua, durante la messa. A un tratto, durante l'offertorio, i fulmini hanno lasciato la loro traiettoria solita e invece di spegnersi nella palude, si sono diretti verso la testa. In una frazione di secondo ho visto tutto e sono diventata cieca, ho sentito tutto e sono diventata sorda. Dentro di me c'era potenza, energia, devastazione. Correvo verso il

muro e vi sbattevo contro. Tra la fronte e la parete, chi l'avrebbe avuta vinta? In qualche modo cercavo un interruttore, un pulsante, qualcosa che smorzasse la corrente. Lo cercavo e non lo cercavo.

Quando una mano ha tentato di fermarmi, per prima cosa l'ho morsa. La cerimonia si è interrotta. Qualcuno ha gridato: «Presto, un dottore!». Sentivo le urla di chi correva verso l'uscita.

Poi qualcosa è entrato nel mio corpo, un ago probabilmente. Quello che era fuoco, rapidamente si è trasformato in nebbia. Sono odio, furore, ho pensato, prima di venire inghiottita. Sono io e non sono io. Pura voglia di distruggere.

V.

Sono rimasta all'ospedale quattro giorni.

L'elettroencefalogramma è risultato assolutamente perfetto. Ogni mattina veniva un medico e mi chiedeva: «Sei sicura di non aver preso qualcosa? E magari di averci bevuto sopra?».

Ma dalle analisi risultavo pulita.

Anche le suore mi facevano domande. «Hai forse sbattuto la testa? » E io: «Certo, durante le vacanze di Natale. Sono caduta dalla bicicletta».

Non ero mai stata abile a dire bugie, ma improvvisamente lo ero diventata. Sapevo imbro- gliare gli altri, manovrarli. Sapevo fingere un volto innocente mentre al mio interno balenavano pensieri terribili. Per la prima volta nella mia vita mi sentivo sicura, capace, potente. Quand'ero sola mi ripetevo: mentire e avere in mano il mondo sono i due lati della stessa medaglia.

Tornata in collegio sono diventata l'ospite più tranquilla, la più devota. Ero la prima a correre al rosario e la sera, nella camerata, du rante le preghiere la mia voce sovrastava le altre. In chiesa, davanti al tabernacolo, ero l'unica a genuflettermi fino a toccare il pavimento.

Potevo farlo, potevo permettermi di farlo perché ormai sapevo che era vuoto. Il crocifisso era una statua e là sotto c'erano soltanto delle cialde.

Inchinarsi lì davanti o inchinarsi davanti a un fustino di detersivo era esattamente la stessa cosa.

Sentivo che ormai il mio sguardo e il mio pensiero coincidevano. Uno era acciaio e l'altro il taglio della lama. Dell'amore non mi importava più niente, era un totem che adoravano in troppi e, come tutti i totem, era vuoto. Importava che io fossi forte, che io fossi in grado di prendere in mano la mia vita, di dirigerla in modo da trarne il massimo beneficio.

La lucidità era il mio cavallo di battaglia, vedere le cose come sono e non come si vorrebbe che fossero. Durante la messa, osservando tutti quei capi chini intorno a me, dovevo compiere un grande sforzo per non scoppiare in una risata. In fondo, mi dicevo stringendo le labbra, la compassione deve essere questa, capire che sono soltanto delle poveracce, non conoscono altra vita che quella dello schiavo, per questo hanno bisogno di credere che nel cielo ci sia qualcuno. Al momento del Padre Nostro, aprivo le mani verso l'alto come aspettassi la manna e dicevo: «Padre nostro che non sei in cielo e da nessuna altra parte...».

Naturalmente volevo qualcosa di più. Volevo l'assoluta certezza che tutto fosse una truffa. Avevo già percorso molte strade ma mi mancava ancora la più irta. Quella del sacrilegio a cuore freddo. La notte di Natale, al momento di scaraventare il Bambino, avevo fumato e bevuto, non c'era scienza in quel gesto

ma soltanto rabbia. Adesso desideravo la dimostrazione perfetta del teorema.

Dio può uccidere chi vuole e in mille diversi modi, tutta la Bibbia, nero su bianco, sta lì a dimostrarlo. Se Dio esiste, mi dicevo, farà cadere sulla mia persona una punizione spaventosa. Se invece non esiste, non succederà nulla.

Di notte, ho raggiunto lo studio della superiora. Non mi aveva mentito, la porta era sempre aperta. Sul tavolo non c'era niente di interessante, così ho cercato nei cassetti. Lì ho avuto più fortuna, c'erano un rosario consunto dall'uso e una piccola croce di legno con sopra scritto "Jerusalem".

Dalla mia mano sono finiti direttamente nella tazza del cesso.

Tornata a letto, ho dormito un sonno profondo e privo di sogni.

Dopo una settimana il gabinetto si è intasato. E' venuto l'idraulico a smontarlo. Ha tirato

fuori il rosario e la croce, avvolti nella carta igienica come nel velo di una sposa.

Sul collegio è scesa una cappa di gelo. Ci sono stati interrogatori, incontri con il padre confessore, indagini a tappeto. Io stessa ero meravigliata della mia abilità nel mentire, della naturalezza con cui lo facevo.

Per dieci giorni non si è parlato di altro. C'è stata una cerimonia di riconsacrazione degli oggetti oltraggiati. Poi, anche su quel fatto è

sceso l'oblio.

Sono tornata nell'ufficio della superiora ai primi di giugno. E' stata lei a convocarmi. Ero convinta si trattasse della solita visita di routine prima delle vacanze. Invece, subito dopo avermi fatto accomodare, mi ha detto: «Mi dispiace, Rosa, ma non possiamo più tenerti qui».

E' seguito un lungo silenzio. Dalla finestra

aperta entrava l'odore del gelsomino.

«Perché?» avrei dovuto chiedere ma non ne avevo voglia. Quando ho aperto la bocca ho detto soltanto: «Va bene».

«Fino alla maggiore età starai dagli zii. . . »

«Va bene...»

La superiora si è seduta di fronte a me. Dal sospiro che ha fatto, ho capito che ormai era una persona vecchia. Di nuovo le sue mani piccole e fredde sulle mie.

«Non vuoi dire nient'altro? »

«Che cosa dovrei dire? Siete voi che avete deciso, non io.»

«Perché non mi apri il tuo cuore? »

«Il cuore è una scatola. »

«Nelle scatole c'è sempre qualcosa.»

«La mia scatola è vuota.»

«Permettimi di non crederci.»

«E' libera di credere o non credere quello che vuole. »

«Rosa, c'è qualcosa che mi nascondi? Sono molto preoccupata per te.»

«Visto che sto per andarmene, la mia vita non la riguarda più. »

«La prima volta che ho preso la tua mano tra le mie avevi quasi otto anni. »

Cominciavo ad essere stufa.

«Pazienza», ho detto, alzandomi. «Tutto passa. »

«L'amore non passa», aveva risposto inseguendomi sulla porta. Mi stringeva con le sue mani gracili.

«Ricordati che io sono sempre qui e ti aspetto. Qualsiasi cosa mi dirai, l'accetterò,»

Era patetica.

«Va bene», ho risposto secca.

«Abbracciami almeno, fatti dare un bacio.»

Mi sono chinata alla sua altezza. La pelle delle guance era morbida e fresca.

Gli zii mi hanno accolto in silenzio. Al loro silenzio, ho opposto il mio. Nessuno più mi chiedeva di andare in chiesa, non avevo più l'obbligo delle buone maniere, da me tutti si aspettavano il peggio ed io non facevo nessuna fatica nell'offrirglielo.

Invece di correre ad aiutare la zia, la mattina dormivo fino a tardi. Scendevo a fare colazione quando loro stavano pranzando. Le narici di Collo di Tacchino erano dilatate dal furore ma, invece di saltarmi alla gola, stava zitta. Il

giorno del ritorno le avevo detto: «Se soltanto mi sfiori faccio uno scandalo tale che per la vergogna dovrai cambiare paese». Per questo stava ferma, immobile, con la bocca chiusa e, appena uscivo, se la prendeva con il marito. In fondo ero sua nipote, era stato lui a portarle quella croce in casa. L'orfanella che aveva adottato per carità cristiana e che eternamente avrebbe dovuto esserle grata, le si era rivoltata contro come una serpe con i denti pieni di veleno.

Quando il sole smorzava un po' la sua forza, prendevo la bicicletta della zia e me ne andavo in giro per le strade bianche. Aspettavo il crepuscolo per vedere le lucciole e spesso rimanevo a guardare anche le stelle.

Quando rientravo gli zii dormivano già da un pezzo. Anche se lo zio non ne aveva voglia, la zia lo trascinava comunque a letto con le galline. Allora andavo nel salottino e aprivo l'armadietto dei liquori. C'erano tre o quattro bottiglie, stavano lì da anni, regalo di qualcuno che probabilmente era già morto. Ho cominciato con la Vecchia Romagna e ho proseguito con l'Amaretto. Mi sdraiavo sul divano e finalmente sentivo caldo. Non il caldo esterno del sole d'agosto ma un caldo che veniva da dentro. Lo stesso caldo delle tempeste di baci.

Dopo due settimane le bottiglie erano vuote.

Tornavo a casa e avevo bisogno di bere. Così ho cominciato a prendere i soldi dalla giacca dello zio. Quando lui se ne è accorto e ha nascosto il portafoglio, ho iniziato ad andare in giro per le chiese dei paesi vicini. Portavo con me un filo di ferro ritorto e lo infilavo nella cassetta delle offerte. Con uno o due pomeriggi di lavoro riuscivo sempre a comprare un'altra bottiglia di liquore.

In settembre avrei dovuto iscrivermi a scuola, sforzarmi in un modo o nell'altro di finire gli studi. In realtà avevo un solo pensiero in mente, il compimento della maggiore età. Mi sentivo come un velocista in prossimità della partenza, i muscoli erano tesi, lo sguardo rivolto verso il traguardo. Volevo andare lontano, mostrare a tutti di cos'ero capace.

Alla fine di dicembre compivo gli anni. A metà di ottobre ho cominciato ad organizzare la fuga.

Dopo un mese, rispondendo ad un annuncio, ho trovato la mia strada. Nella città vicina, una famiglia cercava una ragazza alla pari.

Avrei dovuto occuparmi di una bambina, accompagnarla a scuola, in piscina. In cambio avrei avuto una stanza con il bagno tutta per me, un piccolo compenso e la possibilità di frequentare un corso di istruzione. Ero andata a conoscerli e ci eravamo piaciuti. Al loro ritorno dalla settimana bianca, in gennaio, avrei co minciato il lavoro. Naturalmente non avevo detto niente agli zii. Avevo aspettato per mesi con la stessa pazienza di un ragno che tesse la tela.

Il giorno precedente alla partenza, ho comprato una bottiglia di spumante. Prima di uscire di casa l'ho lasciata sul tavolo, accanto a due bicchieri e a un biglietto. «Finalmente potete brindare. La croce se ne va con le sue gambe. »

Fuori era ancora buio, sulla provinciale già correvano le macchine dei pendolari.

Da qualche parte suonava una campana.

Finché non sono scomparsa alla sua vista, il cane dei vicini ha continuato ad abbaiare.

VI.

Poche cose al mondo sono delicate come le piante d'appartamento. Basta un cambiamento d'esposizione, uno spiffero microscopico, perché in pochi giorni passino dal massimo rigo- glio alla morte.

La casa nuova era piena di piante. Era un doppio attico con molte finestre sul tetto. Sotto ogni spicchio di luce cresceva una piccola foresta.

Giulia, la mamma della bambina, le amava molto e appena arrivata, per prima cosa, mi ha insegnato ad avere cura di loro. Bagnandole e lustrandone le foglie, non ho potuto fare a meno di pensare alle piante che crescevano in collegio, giallognole, tristi, stentate. Un pothos che cadeva polveroso da un armadio, un vaso di miseria in fondo al corridoio.

Le piante parlano del luogo in cui vivono ma parlano anche di chi vive loro intorno. Nel collegio a nessuno importava niente di loro, mentre qui erano trattate con amore.

Con il passare dei giorni mi sono resa conto che quello che succede alle piante non è poi molto diverso da quello che succede agli uomini. Dalle suore, ero una pianta delle suore, una pianta opaca dalle foglie smorte. Dagli zii, ero una pianta che moriva di sete, mi avevano comprato convinti che fossi di plastica. Nella nuova casa, invece, ero una pianta che si abbeverava di luce. La luce mi entrava dentro e faceva evaporare la nebbia, l'aria penetrava nei pori e scacciava la polvere. La mattina mi guardavo allo specchio e ripetevo il mio nome. «Rosa», dicevo piano, come se mi vedessi per la prima volta.

Per anni ero stata una pentola con il coperchio. Bollivo, bollivo e la condensa restava dentro. Lentamente la condensa stava scomparendo. Sentivo nuovi discorsi intorno a me, scoprivo un modo diverso di affrontare la vita. Ascoltavo e sapevo che era quello il modo giusto di vivere, il modo che avrebbe dovuto essere mio

fin dall'inizio.

I primi giorni la signora Giulia mi aveva seguita passo passo. Aveva voluto vedere come me la cavavo ai fornelli. Mi aveva insegnato i tre o quattro piatti preferiti dalla figlia. Aveva valutato se ero capace o meno di seguirla nei

compiti. Siccome tutto andava bene, dopo una settimana mi aveva lasciata libera ed era tornata a insegnare.

Tra noi era nata una simpatia immediata.

Era molto affettuosa con me e io rispondevo al suo affetto cercando di eseguire i miei compiti nel migliore dei modi. Non so quanti anni potesse avere, di sicuro più di quaranta perché aveva già parecchi capelli bianchi. Una volta,

mescolando un risotto, aveva detto: «Ai figli ho pensato solo all'ultimo momento». Il marito doveva avere pressappoco la stessa età. Forse un

paio di anni in più. Si erano conosciuti all'università, mi aveva raccontato la signora Giulia.

Lui ormai era un architetto famoso e aveva un grande studio dove, spesso, restava a lavorare fino a tardi. Era alto, con una barba ben curata, elegante e, oltre all'architettura, amava molto la musica. Quando lui era in casa, le note del suo potente stereo invadevano tutte le stanze.

La sera, prima di addormentarmi, dall'abbaino guardavo le stelle, gli aeroplani e i satelliti. Guardandoli, immaginavo che la signora Giulia e l'architetto fossero i miei veri genitori, quelli che avrebbero dovuto adottarmi al posto

degli zii. E pensavo che adesso, anche se in ritardo di una decina di anni, ero finalmente arrivata alla mia vera casa.

Pranzavo e cenavo insieme a loro e, la sera, guardavamo la televisione seduti sullo stesso divano. Dopo qualche settimana ho cominciato a intervenire anche nelle loro conversazioni. Mi chiedevano: «Che ne pensi, Rosa? » e io rispondevo liberamente. Nessuno rideva quando parlavo, anzi sembravano ascoltarmi con un certo interesse. Per la prima volta sentivo che le mie idee erano degne di rispetto e non sfiguravano accanto a quelle delle persone normali.

La mia camera era in mansarda, accanto a quella di Annalisa, la bambina. L'abbaino era proprio sopra il letto così la sera, quando non riuscivo a prendere sonno, potevo guardare il cielo.

Il collegio, la cascina esistevano ormai in una nebulosa differente, li vedevo piccoli, lontani, inoffensivi. Erano spariti dalla mia vita e stavano per sparire dalla mia memoria. Ormai ero nella famiglia giusta, quella in cui sarei dovuta nascere.

Osservavo il cielo e poi, sotto le coperte, ripetevo le parole proibite da sempre. Papà.

Mamma. Papà.

Dov'era finita la ragazza che tutte le sere si ubriacava nel salotto? Quella ragazza che, per più di dieci anni, aveva vissuto prigioniera tra lo

squallore della cascina e la tristezza del collegio? Dell'odio che aveva dominato così a lungo il mio cuore, riuscivo a intravedere appena

qualche traccia. Era come un temporale che, dopo essersi sfogato imitando la fine del mondo, tutt'a un tratto finisce e corre veloce verso un'altra regione. Per terra l'erba è ancora bagnata, qualche albero si è incendiato ma lui è già lontano. Quella sottile linea viola in fuga verso l'orizzonte non fa più paura.

L'unica cosa che mi dava un po' fastidio, in quella casa, era la bambina. L'avevano viziata in modo spaventoso. Bastava che alzasse un dito per indicare una cosa e, subito, l'otteneva.

La madre l'abbracciava spesso, sembrava volesse stritolarla. «So che sbaglio», diceva, «ma non posso farne a meno. Quando si diventa genitori così tardi, si è anche un po' nonni. »

Annalisa era arrogante e nervosa. Quando eravamo sole, mi trattava come una vecchia scarpa. Naturalmente, io non glielo pennettevo

e, se nessuno mi vedeva, le stringevo forte i polsi. Non per farle male, soltanto per farle capire chi comandava in quel gioco.

Una mattina, siamo andate in un grande negozio del centro per rinnovare il suo guardaroba. Passando davanti allo specchio, mi sono un po' vergognata. Lei sembrava la principessa e io Cenerentola. I miei vestiti erano ancora quelli della cascina, quelli del collegio. Sotto le luci impietose del negozio, mostravano la loro vera natura di stracci.

La commessa ha dovuto mostrare decine di vestiti. La madre glieli provava e lei faceva i capricci perché era stufa.

«Come ti sembra, Rosa?» mi chiedeva, di tanto in tanto, la signora Giulia e io davo il mio parere. Troppo largo. Troppo vistoso. Poco adatto.

Quando sul banco si sono accumulati una decina di capi la commessa ha chiesto: «Basta così?».

«Ma sì. Basta così», ha risposto la signora.

«Adesso passiamo alla ragazza? »

All'improvviso ho sentito le guance bruciar mi come dopo una lunga corsa. Ero stata scambiata per la sorella di Annalisa. Che cosa avrebbe risposto la signora? «Oh no, lei non c'entra, è una persona di servizio»? Oppure...

Tenevo gli occhi bassi quando l'ho sentita dire: «Ma si. Passiamo alla ragazza».

Abbiamo dovuto cambiare reparto. Attraversando il negozio, mi sentivo come ubriaca, ero incerta, in imbarazzo.

La commessa ha fatto scorrere l'anta di un grande armadio. Mentre sceglieva i vestiti, si è messa a chiacchierare con la signora.

«Al giorno d'oggi i ragazzi sono tutti così.

Vogliono soltanto le cose smesse. Più sono di buona famiglia, più amano sembrare degli straccioni. Lei non ci crederà, signora, ma ho visto delle madri implorare le figlie di accettare un vestito. E' che noi siamo così, copiamo tutto dagli americani. Tutto il peggio, intendo.»

Poi ha preso un bel vestito di cotone azzurro fiordaliso e me l'ha posato addosso: «Che ne dice di questo? Oppure osiamo qualcosa di un

pochino più vistoso?».

«Sì, più colore», ha annuito la signora, «qualcosa sul verde. Un verde che le faccia risaltare gli occhi. »

Ne ho provati quattro o cinque. Ogni volta che uscivo dalla cabina, mi sentivo una persona diversa. A un certo punto, la signora Giulia mi è venuta accanto e mi ha tirato su i capelli, guardandomi nello specchio.

«Lo vedi come sei carina, quando ti valorizzi! »

Siamo uscite dal negozio con due buste in mano, una per me, l'altra per Annalisa.

Per la prima volta, nella mia vita, facevo attenzione al mio aspetto fisico. Fino ad allora, avevo badato soltanto a ciò che c'era dentro.

Non avevo mai pensato che potesse essere importante il modo in cui gli altri mi vedevano.

Cominciavo a rendermi conto di non essere né troppo magra, né troppo grassa. Non ero altissima, ma neppure bassa. Se lasciavo i capelli sciolti sulle spalle e mi guardavo allo specchio, di fronte a me vedevo una bella ragazza.

Poco tempo dopo la visita al negozio, la signora ha cominciato a insistere perché riprendessi gli studi interrotti. Non faceva altro che ripetere: «Ti manca solo un anno, è un peccato buttare via tutto. E poi, con la testa che hai, non vorrai mica fare la bambinaia tutta la vita?».

Ci ho riflettuto per un po', poi le ho dato ragione. A quel punto, che senso aveva lasciar chiudere le strade che si aprivano? Non avevo più mura intorno a me. Avrei potuto studiare lettere o filosofia o medicina. Tutti si aspettavano che io facessi una brutta fine, quella di mia madre, tanto per intenderci, invece io sarei diventata qualcuno di importante. Un grande medico. Un filosofo intervistato da tutti i giornali.

La settimana dopo ho cominciato a frequentare una scuola serale. In classe erano tutti adulti e mi trovavo perfettamente a mio agio.

Andavo lì con l'autobus e, alla fine delle lezioni, spesso veniva a prendermi l'architetto. Il suo studio era dalla stessa parte della città e non era

raro che lui vi rimanesse fino a tardi.

Le prime volte ero molto intimidita. Salivo in macchina in silenzio e in silenzio rimanevo per tutto il percorso. Con lui, non avevo la stessa confidenza che avevo con la moglie. Non c'erano mai stati uomini nella mia vita, a parte lo

zio che più che un uomo era una larva. Sentivo comunque che accanto a lui succedeva qualcosa di strano. Se mi chiedeva qualcosa, la mia voce usciva troppo acuta o troppo bassa. Se mi guardava, sudavo come fossi una fontana.

Si accorgeva della mia timidezza? Non lo so.

Guidava con gesti calmi, la sua concentrazione sembrava essere tutta per la strada. Frena, va' in folle, cambia marcia, riparti.

Poi una sera, fermi a un semaforo, si è girato e ha detto: «Dai, raccontami un po' di te».

Non ero pronta a quella domanda, così ho balbettato qualche frase stentata. Per mentire avevo bisogno di tempo. Poi la barriera è caduta e le parole sono uscite con naturalezza. Mio padre era morto in un incidente sul lavoro, poco

prima della mia nascita. Lavorava nella polizia e un camion impazzito l'aveva travolto mentre stava facendo dei rilievi in mezzo a un raccordo.

Mia madre, invece, era una professoressa di latino. Un giorno, tornando da scuola, aveva avuto un malore ed era finita fuori strada. Così, a poCo più di sette anni, ero rimasta completamente orfana. Avevo due zii, persone buone e laboriose, ma erano molto anziani e non potevano tenermi con loro. Per questo ero cresciuta in un collegio.

Ogni tanto, durante il racconto, lui faceva dei brevi commenti. «Davvero?» «Ma va'!»

«Che sfortuna!» Alla fine mi ha chiesto: «E come ti trovavi in collegio?».

«Era un posto bellissimo», ho risposto.

«Avevo una camera con il bagno tutta per me, che si affacciava su un parco curatissimo. C'erano il tennis e la piscina coperta. Solo che... »

«Che cosa...?»

«Non sono mai riuscita a credere a quelle loro storie. »

« Quali storie? »

«Le storie delle suore. Gesù e tutto il resto.

Il paradiso e l'inferno... Quelle cose che si inventano per tenerci buoni. Ci ho creduto un po' all'inizio, finché ero piccola. Appena sono cresciuta, ho capito che era tutta una truffa.»

L'architetto si è voltato a guardarmi.

«Una truffa... » ha ripetuto, ridendo. «Senti che tipetto! »

La settimana seguente, mentre aspettavo l'autobus per andare a scuola, è passato davanti alla fermata. Ha spalancato la portiera, dicendo: «Sali?».

Pensavo che mi desse un passaggio, invece appena salita ha esclamato allegro: «Oggi si marina! Facciamo una gita! ».

Ho tentato di oppormi, mancava poco agli esami, non mi andava di perdere una lezione.

Lui mi ha subito zittita. «Sei così brava. Cosa vuoi che succeda, se manchi una volta! »

Mi ha portata in un ristorante fuori città, sulle colline. Era la fine di aprile, l'aria era ancora troppo umida per stare all'aperto, così abbiamo mangiato in una specie di veranda. La tovaglia era a quadretti bianchi e rossi, intorno a noi c'erano pochi tavoli occupati. Ha ordinato del vino. Ne ho bevuto un bicchiere a stomaCo vuoto e mi è subito andato alla testa.

Lui sorseggiava il suo lentamente fissandomi dritta negli occhi, poi, con voce più bassa del solito ha detto: «Lo sai che mi affascini? Sei così giovane ma hai tante idee. Raccontami ancora di te, come l'altra sera».

«Che cosa?»

«Non lo so. Della truffa, per esempio. »

Ho bevuto un altro bicchiere e ho ripreso a parlare. Ho cominciato dall'inizio, dal Gesù con il cuore in mano che non mi aveva protetto e tanto meno aveva protetto mia madre. Avevo continuato poi con il crocifisso del collegio che ascoltava tutte le suppliche e non rispondeva a nessuna. Quando hanno portato le tagliatelle, era la volta di don Firmato e della notte di Natale.

L'architetto era così preso dalle mie parole che quasi si scordava di mangiare; appena mi interrompevo per qualche istante, subito mi incalzava dicendo: «E poi?». Così sono arrivata all'Angelo di Dio e al Padre Nostro modificati,

mormorati ogni sera nel silenzio della mia stanza. Ho raccontato poi, per filo e per segno, la vicenda del rosario nel cesso. Il fatto che io fossi ancora viva era la dimostrazione perfetta del mio teorema. Il cielo era uno spazio vuoto.

Sembrava rapito dalle mie parole, ogni tanto scuoteva la testa, altre volte scoppiava a ridere. «Non ci posso credere! Davvero hai fatto

questo? » Allora io mi dilungavo, aggiungendo compiaciuta dei dettagli.

Prima che portassero il dolce, mi ha sfiorato con delicatezza la mano. «Sei proprio una persona straordinaria, sai? Sei così giovane e già così libera dentro. Io ho raggiunto la tua chiarezza poco prima dei trent'anni. Solo allora ho capito che l'unica vita che vale la pena di essere vissuta è quella in cui non ci si pone alcun limite. Bisogna aprire la porta e buttare fuori le

remore, i sensi di colpa. Non è così? »

«Certo! » ho risposto con la voce di un professore che finisce la lezione.

Quella sera, nel letto, ho provato nuovamente la sensazione del tepore che veniva da dentro. Per tanti anni ero rimasta senza padre.

Adesso ero contenta di aver dovuto aspettare così a lungo. Non avrei potuto trovarne uno migliore. L'architetto, che ormai chiamavo solo Franco, approvava tutto quel che dicevo come io condividevo ogni cosa che usciva dalla sua

bocca. Sembravamo davvero padre e figlia.

Prima di addormentarmi ho pensato che in fondo anche l'adozione non era ormai più un'idea così pazza. Probabilmente, in un tempo non troppo lungo, gli zii se ne sarebbero andati all'inferno e io sarei stata libera di diventare la figlia di qualcun altro. Era vero che loro, di figlia, ne avevano già una, ma non avrebbe mai dato loro le soddisfazioni che avrei potuto dare io.

Sembrava piuttosto stupida. E poi era troppo capricciosa per riuscire a combinare qualcosa.

Lo sapeva la signora Giulia che, ogni tanto, noi due andavamo a cena da soli? La seconda volta, tornando a casa, avrei voluto chiederglielo, ma poi, non so perché, la domanda mi è morta in gola. Anche quando stavo con lei, non sono mai

riuscita a dire: «Sa, ieri sera sono uscita a cena con suo marito». Avevo rapporti intensi e profondi con entrambi, anche se in modo diverso. Per

questo intuivo che era giusto tenerli distinti.

I primi di maggio Franco è partito. Doveva tenere un corso di due settimane in un'università straniera. In quel periodo, la signora Giulia non stava quasi mai a casa. Verso le sette di sera telefonava con voce divertita dicendo: «Rosa, anche stasera resto fuori. Ad Annalisa dai la solita pastina».

Io mi sentivo addosso un'inquietudine completamente nuova. Ancora non sapevo che l'amore non è un nastro di raso che orna i polsi, ma una catena che li Sega.

Mettevo la bambina a dormire il prima possibile e poi andavo nello studio di Franco ad annusare le sue cose, le penne, le matite, i fogli di carta. Dall'odore riuscivo a ricostruire il suo volto e il calore della sua voce. Poi mi sedevo al suo posto, prendevo i libri in mano e li aprivo.

Non erano libri di architettura bensì di filosofia. In alcuni, molte frasi erano sottolineate.

Leggevo e capivo che erano le stesse frasi che avrei sottolineato anch'io.

La sera seguente al suo ritorno, Franco è venuto a prendermi a scuola. Ha fermato la macchina in una strada laterale e ha tirato fuori due pacchetti.

«Per te» ha detto.

Era il primo regalo che ricevevo dopo le camicie bianche degli zii. Mi sentivo confusa.

«Li apro adesso?»

«Certo. »

Ho scartato per primo il più grande. Dentro c'era una felpa. Era nera e aveva disegnata davanti una Tour Eiffel colorata, con sotto scritto Paris.

«Oh, grazie», ho detto, baciandolo sulle guance. «E' bellissima. »

Poi ho iniziato a scartare il secondo pacchetto. «Che cosa sarà?»

Lui sorrideva. «Apri e vedrai.»

La carta era rosso bordeaux, leggera come velina. Scivolava sotto le dita con estrema facilità. Ho intravisto due cose bianche e molli e le ho sollevate con le dita. Si trattava di un reggiseno e un reggicalze, entrambi di pizzo bianco.

«Ti piacciono? » mi ha chiesto lui, avvicinando il suo volto al mio. «Li ho visti in una vetrina e ho pensato che forse non avevi mai avuto niente di simile. Non sono una ragazza, ma credo che si provi un certo piacere a essere belle anche sotto. O no?»

«Credo di sì.»

«Non mi sembri entusiasta.»

«Sì, lo sono. »

«Comunque, se non ti piacciono, non sei costretta a metterli. Puoi lasciarli nel cassetto o regalarli. »

Ha messo in moto la macchina e ha cominciato a guidare in silenzio, guardando fisso davanti a sé.

Forse, senza volerlo, lo avevo offeso. Ho preso nuovamente la biancheria in mano.

«E' veramente bellissima! Non vedo l'ora di indossarla. Cos'è, seta?»

«Sì, seta.»

Dal finestrino aperto entrava l'aria calda e profumata di maggio. Volevo prendere tempo, riparare all'offesa fatta.

«Perché non andiamo a prendere un gelato?» ho detto.

Poco dopo, eravamo seduti nella gelateria all'aperto di un quartiere residenziale.

Non avevo più voglia di cose fresche e dolci ma di qualcosa di forte, così ho ordinato un whisky.

«Sei sicura di quello che fai? » mi ha chiesto.

E finalmente ha sorriso di nuovo.

Erano molti mesi che non bevevo superalcolici. Non avevo ancora cenato e lo stomaco ha cominciato a bruciarmi già ai primi sorsi. Il bicchiere mi sembrava piccolo; così, appena finito, ne ho chiesto un altro.

Franco ha preso la mia mano tra le sue, aveva dita affusolate, forti e morbide, calde. Ha avvicinato le sue labbra al mio orecchio, sussurrando: «Devi dimenticare qualcosa?».

Alle nostre spalle cresceva una pianta di gelsomino. I fiori si erano aperti e l'odore era così forte da dare la nausea. Davanti a noi c'era un

gruppo di ragazzi in motorino, qualcuno fumava, altri leccavano il gelato seduti a cavalcioni dei sellini.

Prima di parlare sono scivolata con lo sguardo in un punto buio della notte. Poi ho aperto la bocca e ho cominciato: «Mia madre non era una professoressa dilatino, ma una puttana. E' morta schiacciata vicino ad un falò sul raccordo anulare...».

Quella notte, avrei dovuto sentire dentro di me la leggerezza che segue le grandi imprese. In fondo, per la prima volta nella mia vita, mi ero liberata di un peso. Anzi del peso. Avrei dovuto sprofondare subito in un sonno felicemente

ininterrotto. Invece, appena ho spento la luce, l'angoscia ha cominciato a divorarmi. Perché avevo parlato? Per sentirmi più protetta? O perché pensavo che sarei stata più protetta? Per quale ragione allora mi sentivo minacciata?

Anche se non avevo il coraggio di ammetterlo, in qualche luogo di me profondissimo stava già avvenendo il pentimento. Come mi era venuto in mente di raccontare il mio segreto? Quel segreto era il motore della mia forza, la volontà furiosa che mi permetteva di non attaccarmi a niente e superare ogni ostacolo.

Adesso quel segreto era una cosa nota, lo sapeva un'altra persona che avrebbe potuto andare in giro a raccontarlo a tutti. Forse Franco stesso aveva già cominciato a disprezzarmi. Il giorno dopo, incontrandomi in cucina, non avrebbe neanche alzato lo sguardo per salutarmi.

Nel riquadro dell'abbaino erano apparse nubi gonfie e biancastre. Correvano veloci e in pochi minuti hanno coperto la luna e le stelle.

Domani piove, ho pensato, e a un tratto ho capito. L'amore è darsi in pasto all'altro senza possibilità di difendersi.

VII.

Al mio esame di maturità mancava poco più di un mese. A tavola discutevamo su quello che avrei fatto dopo. La signora Giulia e Franco non erano contrari al proseguimento dei miei studi. Annalisa la mattina andava a scuola e

dunque ero completamente libera.

A malincuore avevo scartato architettura perché non capivo niente di matematica. L'indecisione era tra lingue e filosofia.

La signora Giulia insisteva per la prima ipotesi. Se sai le lingue, diceva, puoi lavorare in molti campi differenti e poi puoi muoverti, viaggiare.

Franco, invece, era favorevole a filosofia.

«Sarebbe un vero peccato sprecare la testa che hai... » Secondo lui, nelle aule di filosofia, avrei trovato la mia realizzazione perché mi piaceva speculare sui massimi sistemi e lo sapevo fare con una spregiudicatezza che era raro trovare

in una persona tanto giovane.

Franco amava questo lato del mio carattere. Per farmi amare di più avevo imparato ad accentuarlo. Gli chiedevo in prestito dei libri

di filosofia. Invece di studiare, passavo il tempo a leggerli e la sera stavamo alzati a discutere fino a tardi.

«Tu hai avuto il grande privilegio», mi ha detto un giorno, «di crescere senza amore. Per questo fin da subito, hai potuto essere libera.

Guardi le cose e le vedi come sono. Non hai bisogno di costruirci strane teorie.»

«L'amore è una sostanza tossica», ripeteva spesso, «perché ti avvelena dentro costringendoti sempre e comunque a fare ciò che non vuoi. Invece le persone come te sono libere. Stai lì e vai avanti. Conquisti ogni cosa come una nave rompighiaccio. »

«Ma tu ti sei sposato», ho ribattuto un giorno.

E' scoppiato a ridere. «L'amore e il matrimonio non sono la stessa cosa! Ci si sposa per i soldi, per la società, per la biologia, non certo per amore. Perché credi che Giulia ed io andiamo tanto d'accordo? Perché abbiamo messo in chiaro questo fin dall'inizio. Ci eravamo simpatici e tutti e due volevamo un figlio. Per il resto siamo completamente liberi. »

Io lo ascoltavo e annuivo. Annuivo e ascoltavo. Non mi stancavo mai di parlare con lui.

Mi sentivo superiore, lontana da tutto, da tutti, protetta dall'affetto di quell'uomo più grande, di quel quasi padre che mi stava accanto.

Verso la metà di giugno, Annalisa e la signora Giulia sono andate una settimana al mare. La scuola era finita.

Il giorno della loro partenza, Franco mi ha portato a cena da un suo amico. Era un professore di filosofia e voleva che parlassi con lui per chiarirmi le idee sul mio futuro. L'ho trovato un pensiero gentile.

Il pomeriggio ero libera, così mi sono preparata con calma. Ho fatto una lunga doccia fresca e poi ho scelto con cura i vestiti. Non avevo ancora indossato la biancheria di Parigi e mi è sembrata l'occasione migliore per farlo.

Prima di uscire, Franco mi ha offerto un aperitivo sulla terrazza. L'aria era tiepida, carica dei profumi che preannunziano l'estate. Sulle nostre teste sfrecciavano, incrociandosi nel- l'aria, decine e decine di balestrucci.

«Vedrai», mi ha detto, «Aldo è un tipo incredibile. Ti piacerà. Ci conosciamo fin da ragazzi. »

Mezz'ora dopo eravamo dall'amico. Anche lui abitava in un attico, ma senza terrazza.

La prima cosa che mi ha colpito è stata la bruttezza. Basso, grassoccio e calvo, aveva sul viso ancora i segni di un'acne giovanile. Sembrava uno di quei rospi che d'inverno s'assopiscono sotto le pietre. Però era simpatico. Mi ha stretto

la mano con calore dicendo: «E' questa dunque la famosa Rosa! » e poi ha continuato a parlare con la velocità di una mitragliatrice. «Con che vino

vogliamo cominciare? Con il bianco, con il rosso o magari con un Aperol o un Campari? Preferiamo sederci subito a tavola oppure rilassarci un po' in salotto? »

«Questa è la sera di Rosa», ha detto Franco.

«Sara lei a decidere. »

Ho tentato di protestare debolmente: «Non è mica la mia festa».

Aldo è scoppiato a ridere. La sua risata era uguale al suo modo di parlare.

«In qualche modo lo è. Non è una festa lasciare il mondo dell'adolescenza per diventare grandi? »

«Tra qualche mese sarai una matricola di filosofia», ha precisato Franco, «e dunque tutto cambierà. »

«Allora vino bianco», ho detto e subito dopo abbiamo fatto un brindisi.

«Ai tuoi studi!» hanno detto, alzando i calici. «Alla tua vita!»

Poco dopo ci siamo messi a tavola.

Aldo non era sposato. La cena era stata preparata dalla colf il giorno prima e lui aveva comprato qualcosa in rosticceria.

«Mi dispiace di essere un cuoco così scadente», ha detto.

«Non ha nessuna importanza», ho risposto io, come se fossi una vecchia amica. «L'importante è stare insieme. »

Il vino mi aveva sciolto la lingua. Non ricordo di cosa abbiamo cominciato a parlare ma ricordo invece una sensazione precisa. Mi sentivo brillante, sicura di me. Dov'era finita la Rosa che era vissuta fino ad allora? La Rosa incerta,

opaca? La Rosa con il suo invisibile zaino di pietre sulle spalle? Era come se una bacchetta magica avesse cancellato i diciotto anni precedenti.

Quella sera, Rosa era una giovane donna affascinante, capace di intrattenere due uomini più grandi e intelligenti senza mai annoiarli.

Rosa era una miniera sconosciuta anche a se stessa. Bastava scavare appena un poco per trovare un tesoro nascosto.

Verso la fine della cena Aldo mi ha chiesto:

«Che cosa saresti disposta a fare per avere un bel po' di soldi?».

Sono scoppiata a ridere. «Dipende quanti.»

«Diciamo un miliardo. »

«Per un miliardo farei qualsiasi cosa.»

«Anche uccidere? »

Sono rimasta in silenzio. Ho visto la zia di fronte a me che mi colpiva con l'attizzatoio. In fondo uccidere poteva anche essere una forma

di piacere. Che male ne sarebbe venuto al mondo se una come lei fosse scomparsa? Persino lo zio ne sarebbe stato felice.

«Sì, anche uccidere. »

In quel momento è suonato il telefono ma Aldo non è andato a rispondere.

Adesso era Franco a interrogarrni.

«E che cosa non faresti per nessuna cifra? »

Per prendere tempo mi sono pulita le labbra con il tovagliolo, ho bevuto tutto il vino del bicchiere, ho passato nuovamente il tovagliolo sulla bocca e poi ho detto: «Non rinuncerei alle

mie idee. Le idee non hanno un prezzo».

Franco e Aldo hanno insistito per sparec chiare senza il mio aiuto. «Altrimenti, che festeggiata saresti? » hanno detto. «Intanto rilassati un po' in salotto.»

Mi sono lasciata cadere a peso morto sul divano. Le gambe mi reggevano a malapena.

Sentivo le voci dei miei amici in cucina. Erano allegri, ridevano.

Addosso a me, invece, era caduta una terribile tristezza. Mi era venuto in mente il pappagallo che viveva al bar dei paese degli zii. Era verde e stava su un trespolo vicino al televisore.

Gli ubriachi erano la sua compagnia abituale.

Più gli facevano domande più lui gridava forte.

Tutti ridevano per le sue battute e lui, per la contentezza, sbatacchiava le ali. Poi, quando il bar chiudeva, infilava la testa sotto l'ala e, tutto solo e spelacchiato, s'assopiva alla luce del neon.

Che tristezza era quella tristezza? La tristezza della cascina? La tristezza del collegio?

La tristezza della mamma che non c'era più da nessuna parte? Ma era proprio vero che era scomparsa oppure da qualche parte esisteva ancora? Gli occhi mi stavano diventando pericolosamente umidi. Ho buttato la testa indietro, come quando si mette il collirio e sono rimasta sorpresa vedendomi riflessa sul soffitto.

Lassù, era tutto uno specchio.

«A cosa serve?» ho chiesto appena sono tornati.

«A vedere meglio la polvere! » ha risposto Franco.

Aldo rideva. «Non dargli retta. Lo specchio mi serve per controllare che la gente non mi porti via le cose. Ho tanti libri di valore qua dentro e anche oggetti di piccole dimensioni.

Quando c'è una cosa bella, fa gola a tutti... »

Parlando aveva preso delle cartine e aveva cominciato a mescolare una cosa scura con il tabacco su un grande libro illustrato. Franco si è seduto accanto a me, posando il suo braccio intorno al mio collo. Aveva dei pantaloni leggeri, la sua coscia aderiva perfettamente alla mia.

«Una bella festa, eh?»

«Bellissima», ho risposto, ma ormai avevo in mente soltanto il pappagallo. Lui almeno, a un certo punto, restava solo. Dov'era finita la Rosa di poco prima? Non riuscivo più a trovarla.

Adesso c'era soltanto la Rosa che aveva voglia di piangere.

Quando mi hanno passato la sigaretta ho aspirato con avidità. Aldo si è seduto al mio fianco, dall'altra parte. La testa ha cominciato a girarmi vorticosamente. Non erano più lacrime a voler uscire ma vomito. Sentivo la cena

ondeggiare tra lo stomaco e la gola come fossi su una barchetta con il mare grosso.

Di chi era quella mano umida e molle? Di chi era quella voce? Sembrava venire da molto lontano. Cosa stava dicendo? Perché tiravano fuori mia madre? Ho aperto la mano e mi sono ritrovata con una banconota sul palmo. L'ho stretta forte come se fosse una maniglia a cui aggrapparmi. Ero seduta o ero distesa? Non ero in grado di dirlo. Qualcosa di pesante mi schiacciava, volevo spingerlo via ma non avevo

forza nelle braccia. Così ho fatto come si fa quando si incontra un orso. Ho finto di essere morta.

Tempo prima, con Annalisa, avevo visto un documentario sull'addestramento dei cani. All'inizio, i cani correvano felici e disobbedienti.

Al termine del corso, non c'era più nessuna allegria in loro, vivevano soltanto per rispondere agli ordini. «Alzati! Siediti! Sdraiati! Prendi in bocca! Lascia! Resta li! Voltati! » La voce dell'istruttore era forte. Se la voce non bastava,

usava il fischietto. Se anche il fischietto era inutile, passava alla scossa. C'era un elettrodo nel collare e l'animale si dimenava, gridando dal

dolore.

VIII.

Quella notte e le notti seguenti ho fatto sempre lo stesso sogno. Ero in una grande casa vuota, una casa piena di corridoi e di stanze. Nonostante in giro ci fosse qualche attrezzo da lavoro, dei mattoni, una cazzuola, un pennello con

un vaso di colore, sembrava ormai abbandonata da tempo. Le assi del pavimento scricchiolavano e dalle pareti e dagli stipiti pendevano le ragnatele. Perché mi trovo qui? mi domando, ma non so la risposta. Così vado avanti. Avanzo

piano, con cautela, tastando in continuazione il terreno. Non so dove dirigermi, ma è chiaro che sto cercando l'uscita. E proprio mentre scendo dalle scale, sento la voce di un bambino. Invece di giocare o ridere, sta piangendo. «Cosa succede?» grido nel vuoto della casa. «Qualcuno lo cerchi! Qualcuno lo aiuti! » In quell'istante mi accorgo che da qualche parte, là dentro, è scoppiato un incendio. Le pareti sono di legno e già il fumo corre lungo i corridoi. La voce del bambino è sempre più disperata. Invece di mettermi in salvo, corro a cercarlo. Salgo un piano, salgo l'altro, raggiungo la mansarda e poi corro in

cantina. Le porte non sono più decine ma centinaia e sono tutte chiuse. Il pianto si sposta da una all'altra. Le fiamme mi inseguono come un branco di cani. Poi il pianto si fa più nitido, più preciso, capisco che qualcuno là dentro sta facendo del male al bambino. Ho davanti tre porte e una voce mi dice: «Ne potrai aprire una sola, scegli ma fai presto». Decido per quella a sinistra, allungo le mani per aprirla e solo allora mi accorgo di avere al posto delle braccia dei tentacoli. Non i tentacoli forti della piovra, ma quelli della medusa, scivolosi e molli. Li lancio ugualmente verso la maniglia, sembrano spaghetti troppo cotti, s'arrotolano per un po' intorno e poi scivolano giù. Nel corridoio il calore è quasi insopportabile, le meduse non sopportano le alte temperature. Sento già i tentacoli delle gambe che stanno cedendo. Morirò squagliata, penso, e in quell'istante mi accorgo che sopra di me c'è un uomo. E' lui forse che mi ha tirata fuori dall'acqua? O è venuto qui per aiutarmi?

Ormai sono completamente a terra, il bambino piange sempre più forte. Vorrei tapparmi le orecchie ma non ho orecchie. Guardo l'uomo e vedo che ha due occhi bui e in mano un arpione. Lo solleva e me lo scaglia addosso. Sento la punta passarmi attraverso e poi inchiodarmi al pavimento. Un attimo prima di morire, mi accorgo che la voce del bambino era la mia.

Il giorno dopo, mi sono svegliata nella casa vuota. Franco è rientrato nel primo pomeriggio.

«Cos'è quella faccia? » ha chiesto appena mi ha visto.

«Ho mal di testa.»

«Succede, quando si mescolano i vini.»

Mi ha dato una pillola e dopo poco è uscito di nuovo. Sono rimasta tutto il pomeriggio a casa e anche la sera. Ad un certo punto ha telefonato la signora Giulia.

«C'è qualcosa che non va? » ha detto sentendo la mia voce.

«Un brutto mal di testa.»

«Sarà lo stress per l'esame.»

Dopo la telefonata, ho preso la vodka dal frigo e l'ho bevuta come fosse acqua. Sono rimasta sul divano davanti al televisore acceso fino a quando ho trovato la forza di trascinarmi a letto. Ero già lì da un po' nel dormiveglia quando ho sentito il respiro di Franco. Sapeva di vino e di aglio. Stava sopra di me.

«No», ho detto piano.

«Perché no?»

«Sono stanca. »

«L'importante è che non sia stanco io. »

Chi ha detto che le stelle cadono soltanto nella notte di agosto? Stando lì, con gli occhi aperti, ne ho vista una luminosissima attraversare il cielo. Cosa desidero? mi sono chiesta. Ma era troppo tardi, la stella era già scomparsa.

Due sere dopo è stato Aldo a venire a cena da noi. Avrei potuto scappare, invece sono rimasta. Dove avrei potuto nascondermi?

Ho cominciato a bere già nel primo pomeriggio. All'ora di cena mi reggevo a malapena in piedi. Ricordo solo che abbiamo riso molto. Ad un certo punto mi sono sentita dire: «Per fare questo, di soldi ne voglio almeno il triplo!».

Per le troppe risate, avevo il volto inondato di lacrime.

Quando è tornata la signora Giulia avevo il viso coperto di pustole, salivano su dal collo fino alle guance. Per evitare di vedermi, avevo coperto lo specchio del bagno con uno straccio.

«Sei troppo emotiva», mi aveva sgridata con affetto, «non vale la pena ridursi così per un esame che, alla fine, è una sciocchezza.»

Per lasciarmi studiare in pace, teneva tutto il giorno Annalisa con sé. Io stavo seduta in camera, davanti ai libri aperti e bevevo vodka.

Poi mi lavavo i denti, mangiavo caramelle di menta perché non se ne accorgessero.

Per evitare di stare sola con Franco, accompagnavo la signora dappertutto. Appena c'era un silenzio troppo lungo tra noi, io cominciavo

a parlare. Avevo paura che la verità venisse fuori dalla sua bocca. Che all'improvviso potesse dire: «Cos'è successo tra te e mio marito?».

Comunque, al momento, non sembrava sospettare niente, continuava a trattarmi con il solito affetto. Forse la cosa migliore sarebbe stata aprirle il mio cuore e raccontarle come erano andate le cose. Ma, di sicuro, avrei perso

anche lei e non ero in grado di sopportarlo.

Una sera, Franco mi ha bloccata lungo le scale. Ero scesa in cucina a prendere una bottiglia di vino. C'era gente a cena e stavano tutti fuori a mangiare in terrazza. Mi premeva con forza contro la parete, sentivo il suo corpo duro contro la fragilità del mio. Le sue labbra erano all'altezza dei miei occhi, le ho viste muoversi sussurrando: «Non ti vuoi più divertire? ».

«Adesso urlo.»

Il primo luglio, come tutti gli altri studenti, sono uscita con il vocabolario sotto il braccio per affrontare la prova scritta. Mentre già ero per le scale, la signora Giulia si è affacciata sulla porta e ha gridato: «In bocca al lupo!». «Crepi!» ho risposto dal fondo.

Seduta davanti al foglio bianco, l'ho riempito da cima a fondo con la stessa frase. «Non so cosa scrivere, non so cosa scrivere, non so cosa scrivere... » Quando non c'è stata più neanche una riga libera, mi sono alzata, l'ho

consegnato e sono uscita dall'aula. Era presto, così me ne sono andata un po' in giro per la città, prima di tornare a casa.

Alla seconda prova, quella di matematica, non sono neppure andata. Sono uscita all'ora giusta, ho preso un autobus e poi un altro, per

non correre rischi di essere vista. Mi sono seduta in un bar a fare colazione, poi ho passeggiato per le strade intorno. A un certo punto, in una via isolata, si è affiancata una macchina. Dentro, c'era un uomo grosso col naso schiacciato.

«Dove vai tutta sola? » ha detto, sporgendosi dal finestrino aperto.

«Non so dove vado», ho risposto con rabbia, «ma tu, intanto, va' all'inferno. »

L'uomo ha imprecato qualcosa ed è ripartito, sgommando.

Mi sentivo gonfia. Ero nervosa. Il ciclo era in ritardo di una settimana. E' colpa degli esami, mi dicevo, ma ero la prima a non esserne convinta.

La seconda settimana di luglio, la signora Giulia è tornata al mare con Annalisa. Questa volta Franco è andato con loro. In quei giorni

avrei dovuto affrontare gli orali.

La mattina della prova, sono rimasta a casa a fare il test di gravidanza.

Era positivo.

Quel pomeriggio ha telefonato Aldo. «So che sei sola», ha detto, «vuoi che venga a farti compagnia? »

Ho buttato giù il telefono senza rispondere.

E adesso? Qualcosa stava crescendo dentro di me come un giorno io ero cresciuta dentro mia madre.

Pensavo con nostalgia alla penombra del collegio, a quel mondo dove ogni cosa aveva il suo giusto posto. E' impossibile tornare indietro.

In fondo alle gallerie, c'è sempre la luce. Ma se la galleria è un cuneo, in fondo c'è soltanto un buio più profondo.

Stavo lì, brancolando, e sapevo ormai che quel buio non era un buio apparente. Anche spingendo, tirando calci, gridando parole magiche, non sarei riuscita ad aprire uno spiraglio.

Forse, fin dall'inizio, avevo scelto il destino del topo che sbaglia direzione e, invece di salire verso l'alto, scende sotto e cozza contro un muro di roccia.

C'era qualcuno che poteva aiutarmi?

Agli zii non avrei mai dato questa soddisfazione. Vedevo già Collo di Tacchino ripetere con aria tronfia: «L'avevo detto che eri come tua madre, capace solo di...».

Non mi restava che chiamare la superiora.

Ma con che parole le avrei detto che aspettavo un figlio e non sapevo da chi?

Ho trascorso i tre giorni seguenti un po' bevendo e un po' piangendo sui vari divani della casa. Alla fine mi sono decisa e ho fatto il numero del collegio. Non aveva forse detto che avrebbe accettato qualsiasi cosa le avessi detto?

«La madre superiora non c'è», ha risposto la centralinista.

«Quando la posso trovare? » ho chiesto alterando la voce per non farmi riconoscere.

«E' in ospedale già da due mesi. Sta molto male. »

Fine della comunicazione.

Nell'attesa che Franco tornasse ho cominciato a fare dei bagni caldissimi, a percuotermi il ventre con violenza. C'era una specie di ragno

là dentro che stava crescendo. Giorno dopo giorno allungava le sue zampe pelose. Prima mi avrebbe invaso la vescica e poi l'intestino. Da lì, sarebbe salito allo stomaco e avrebbe colonizzato il fegato. L'avrei sentito arrivare fino in gola. Forse non era più un ragno ma un pipistrello, una creatura della notte. Come tutti coloro che vivono nel buio, non aveva bisogno di occhi, sarebbe nato cieco, con i globi oculari completamente vuoti. Per questo facevo di tutto

perché non venisse al mondo.

Domenica sera sono rientrati in città.

Mentre la signora svuotava le valigie, sono andata da Franco e gli ho detto: «Sono incinta».

E' rimasto un attimo immobile, guardandomi fisso negli occhi.

«Sei sicura?»

« Sì. »

«Non preoccuparti, è solo un incidente di percorso. Chi ha fatto il danno, lo ripara.»

Il giorno dopo la signora mi ha chiesto: «E allora? Promossa?».

«Sì», ho risposto, «con il 48.»

Quella sera ha insistito per festeggiare. Ha comprato una torta gelato e una bottiglia di spumante. Quando abbiamo fatto il brindisi tutti insieme sono scoppiata a piangere.

«Perché piange? » ha chiesto Annalisa con la sua voce stupida. Franco guardava fuori dalla finestra. La signora mi ha abbracciata.

«Rosa piange perché è troppo sensibile. »

La settimana seguente, Franco ha preso un appuntamento da un suo amico, in una clinica.

«Vedrai, è meno grave che togliersi un dente. »

Non riuscivo più a chiudere occhio. D'estate, la mansarda era una specie di forno. Anche con l'abbaino spalancato, mi mancava il respiro. Facevo una doccia e subito dopo un'altra.

La pancia e il seno avevano cominciato a gonfiarsi. «Stai bene più in carne», aveva osservato la signora Giulia.

Nel silenzio della notte, guardavo le stelle. In fondo il cielo era grande, ci sarebbe anche potuto essere Qualcuno lassù. Sola, con quella cosa che mi cresceva dentro, mi era tornata voglia di pregare. Un giorno avevo pensato, solo i deboli e gli stupidi hanno bisogno di Lui. Adesso mi rendevo conto di aver avuto ragione. Ero stata stupida e ora ero debole, per questo chiedevo a gran voce che Qualcuno si affacciasse alla soglia dell'universo. Visto che nessuno mi

aiuta, aiutami Tu!

Provavo vergogna per i miei pensieri, per la mia ipocrisia. Lo stavo trattando come fosse una compagnia di assicurazioni. Dopo quello che avevo detto e fatto, con che parole mai avrei potuto rivolgermi a Lui? Qualsiasi invocazione sarebbe precipitata giù dal cielo come una palla da tennis che rimbalza contro un muro.

Forse aveva ragione don Firmato, ero proprio figlia di Satana. Forse la soluzione migliore sarebbe stata davvero che la zia mi avesse

ammazzato con le sue stesse mani, quella sera.

Aveva sentito l'odore di zolfo e non si era sbagliata. Con chi mi aveva concepita mia madre?

E con chi avevo concepito mio figlio?

Guardavo il cielo e non riuscivo a piangere.

Guardavo il cielo e non riuscivo a pregare.

Non so perché, ma alla bocca mi è venuta una parola. Una parola che non avevo mai pronunciato. Perdono.

Una notte ho fatto un sogno. Nel mio ventre

non c'era più un ragno ma un piccolo punto di luce. Invece di stare fermo, vorticava su se stesso lanciando i suoi raggi nell'oscurità. Non avevo mai visto una luce così chiara, così intensa e trasparente.

La mattina seguente mi sono svegliata con uno strano rumore nelle orecchie. Facendo la doccia ho pensato, sarà la pressione bassa. Nel pomeriggio, quel rumore ancora lì. Non era il solito fischio, sembrava piuttosto il rumore del

mare, quello che si sente in una conchiglia o ascoltando l'infrangersi delle onde su una spiaggia.

Mancavano solo due giorni all'appuntamento in clinica. Cosa dovevo fare di quel figlio che non avevo desiderato? Come avrei potuto accettare qualcuno con la faccia di Aldo, qualcuno con la faccia di Franco? L'avrei odiato, avrei

cercato di distruggerlo fin dal primo giorno. Al posto del latte, gli avrei dato da bere veleno.

Forse anche mia madre aveva provato gli stessi sentimenti nei miei confronti, aveva pensato di buttarmi nel cesso e non l'aveva fatto.

Adesso ero io a rimpiangere il rifiuto di quel gesto. La mia vita era tutto uno sbaglio. Meglio, molto meglio sarebbe stato non essere mai nata.

La mattina dell'intervento Franco mi ha dato i soldi per il taxi. Dovevano servire per il ritorno. La clinica era quasi fuori città. Mi sono

mossa con molto anticipo per arrivare in tempo. L'autobus mi ha lasciato lì davanti un'ora prima del previsto.

Non avevo voglia di entrare, così ho passeggiato un po' per le strade intorno. C'era qualche villa di recente costruzione, dei campi incolti, quattro o cinque capannoni e tra i capannoni, quasi schiacciata, una chiesetta. Doveva essere stata costruita quando ancora la città era lontana. L'aria era già torrida. La porta era socchiusa. Ho pensato al fresco, così l'ho spinta e sono entrata. Era piccola e neanche bella, il pavimento era di piastrelle come quello di

uno studio dentistico.

Alle spalle dell'altare troneggiava un brutto crocefisso. Non sembrava un Cristo morto ma un Cristo nel pieno dell'agonia. Stava tutto storto, scomposto, come se il dolore gli stesse ancora divorando le ossa. I fiori nei due vasi sotto, invece, erano già morti. Pendevano afflosciati nell'acqua sporca.

Al lato destro dell'altare, c'era una statua della Vergine. Aveva una corona di lucette in testa come le gondole e il lungo manto azzurro e bianco. Teneva le braccia aperte come aspettasse qualcuno da accogliere. Era scalza, ma questo non le impediva di schiacciare con il piede nudo la testa di un serpente.

Davanti a lei, tremolavano due candele accese.

Stanno per spegnersi, ho pensato e in quel mentre da una vetrata rotta hanno fatto irruzione dei passeri. Cinguettavano forte, inseguendosi nell'aria come se stessero giocando.

Hanno volato per un po' di qua e di là facendo un gran fracasso. Poi si sono posati sui due bracci della croce.

Non erano compagni di gioco, ma una mamma con i suoi piccoli. I piccoli adesso pigolavano e sbattevano le ali e la madre li nutriva, ficcando il becco nelle loro piccole gole spalancate. Loro chiedevano e lei dava. Li nutriva anche se erano già grandi, anche se erano già in grado di volare da soli.

La Vergine, con il suo sorriso mite, mi stava

ancora guardando. Nel mezzo delle guance aveva due pomelli appena un po' più rossi.

Ho alzato lo sguardo verso di lei e le ho detto:

«Non dovresti essere Tu la madre di tutti noi?».

Poi ho allungato una mano per toccarle il piede che schiacciava il serpente. Pensavo fosse freddo, invece era tiepido.

Mezz'ora dopo ero sul lettino della clinica. Il dottore amico di Franco stava spalmando il gel per l'ecografia. Il rumore del mare non mi aveva ancora abbandonato. Tum sflusc, tunf sflusc, tum sflusc.

«Dottore», ho chiesto, «è possibile che io senta già il cuore di mio figlio? »

Il medico è scoppiato a ridere. «Che fantasia! » Mi ha indicato un punto sullo schermo.

«Quello che chiami tuo figlio, al momento non è molto diverso da uno sputo.» Poi ha aggiunto: «Rivestiti e accomodati nella sala accanto.

Tra mezz'ora procediamo».

Mi sono rivestita e ho cominciato ad aspettare. A un certo punto, mentre stavo seduta, ho sentito l'odore di mia madre. L'odore della sua pelle e dell'acqua di colonia. Quell'odore che non sentivo da anni. L'odore della tempesta di baci. Mi sono guardata in giro. Nella sala non c'era nessuno, le finestre erano chiuse. Allora ho capito e ho fatto l'unica cosa che potevo fare. Mi sono alzata e sono andata via.

Vicino al capolinea, c'era una cabina telefonica. Da lì ho chiamato Franco. Era allo studio.

«Come stai?» mi ha chiesto.

«Sto bene perché ho deciso di tenerlo.»

«Sei impazzita? »

«Forse. »

«Vuoi mettere al mondo un altro povero infelice? »

«Forse. »

E' seguito un lungo silenzio, poi ha detto:

«Da te non mi sarei mai aspettato un comportamento così sciocco. Comunque, tu sei libera

di rovinarti la vita. Bisogna vedere se me la voglio rovinare anch'io».

La pancia ancora non si vedeva, ma presto sarebbe successo. Cosa avrei fatto in quel momento?

Pensavo a questo, qualche giorno dopo, quando, entrando in cucina, me li sono trovati

di fronte tutti e due con delle facce immobili e livide.

«Cos'è successo?» ho chiesto con un filo di voce, pronta al peggio.

La voce di Giulia tremava.

«Come hai potuto farmi questo?»

Ho abbassato lo sguardo. Era così che lui si vendicava?

«E vero, avrei dovuto dirlo prima. »

«Dirmi cosa? Che sei una ladra? E io che ti ho trattata come una figlia! Da giorni cerco il mio anello con lo smeraldo e poi dove lo trovo?

In fondo ad un tuo cassetto! Chissà quante altre cose hai fatto sparire in questi mesi! »

«Abbiamo fatto l'errore di fidarci», ha aggiunto Franco con uno sguardo opaco. «Ma quando la radice è marcia, prima o poi marcisce anche la pianta. Ti abbiamo voluto comunque bene. Per questo non chiameremo la polizia. Però ti devo chiedere di lasciare la casa entro domani mattina. E, ovviamente, di restituirci tutto quello che non ti appartiene.»

L'ennesima notte in bianco. Invece di riposarmi ho passato il tempo a pensare al modo migliore per vendicarmi. L'assenza di luce favorisce i pensieri più tremendi.

Avrei voluto prendere la sua bambina e soffocarla con un cuscino, spingerla in un canale, vedere i suoi capelli dorati fluttuare sull'acqua come vecchi stracci. Avrei voluto prendere una tanica di benzina e vuotarla sul parquet e i mobili di legno e poi lanciare qualche fiammifero e farlo morire come muoiono le

donne indiane, sulla pira del marito. Avrei voluto allentare i freni della sua auto e vederlo schiantarsi contro il muro. Avrei voluto sputargli in faccia e poi ficcargli un coltello nel ventre. Avrei voluto aprirlo dalla testa al ventre

come un tonno, tirando fuori le sue viscere calde con le mie mani. Avrei voluto fargli bere una pozione mortale, un veleno lentissimo, che producesse un'agonia insopportabile.

Poi ho pensato che la morte in fondo era un dono, che sarebbe stato molto meglio farlo vivere nell'umiliazione e nel tormento. Avrebbe potuto cadere dalle scale e rompersi la spina dorsale, restare per sempre sU un letto, con il

respiratore a tappargli la bocca. Oppure avrebbe potuto crollare una casa che aveva costruito.

Il crollo avrebbe provocato un bel po' di morti e lui sarebbe andato in galera e avrebbe perso tutto. Quando fosse uscito, la moglie non sarebbe stata più lì ad aspettarlo, la figlia, ormai adulta, avrebbe fatto finta di non conoscerlo. E

così lui sarebbe finito in strada, girando per le mense dei barboni con dei sacchetti di plastica in mano.

Avrei potuto anche dire alla moglie che io non avevo rubato niente in casa sua. Odiavo sì, ma il mio odio non aveva nessun legame con l'avidità. Avrei potuto raccontarle per filo e per segno tutto quello che c'era sotto la storia del furto. Avrei potuto svelarle cosa faceva suo marito, quando stava a lavorare fino a tardi nel suo studio. Avrei potuto dirle che quel figlio che mi cresceva dentro probabilmente sarebbe stato il fratello o la sorella di Annalisa e dunque, in qualche modo, stavamo per diventare parenti.

Avrei potuto dirglielo, ma lei avrebbe potuto non credermi. Anzi, di sicuro non mi avreb be creduto, perché io ero soltanto una senza famiglia, la figlia della prostituta che rubava e alzava il gomito, mentre l'uomo accusato era suo marito. L'uomo che la manteneva nel benessere e con il quale aveva messo al mondo una bambina che era la luce dei suoi occhi. Tacere era meno grave che non essere creduta.

Poco prima dell'alba ho preso la mia sacca sportiva dall'armadio e vi ho messo le poche cose con cui ero arrivata.

Prima di uscire ho infilato un bigliettino nella borsetta della signora Giulia. C'era scritto "Un giorno capirà. Mi perdoni" e poi, sotto, il

mio nome.

Erano i primi di agosto e la città era deserta. Un mezzo della nettezza urbana passava lentamente lungo la strada e irrorava i marciapiedi con l'acqua. I balestrucci stridevano a decine tra i tetti delle case. Un gatto con un collarino rosso ha attraversato la strada. Non sapevo dove andare, così ho raggiunto il parco lì vicino. Era il luogo più fresco che conoscevo. C'era qualche anziano che portava a passeggio il cane, qualche ragazzo che approfittava della temperatura mite per fare jogging.

Mi sono seduta su una panchina appartata.

Poco distante, su una fontanella di ghisa, si erano posati dei colombi. Allungavano a turno il collo verso lo zampillo. Vedevo il gozzo riempirsi e l'acqua scendere giù nella gola.

Più in là, una vecchia con i piedi avvolti in due sacchetti di plastica stava esaminando il contenuto di un cestino dei rifiuti. Annusava le cose e poi le buttava via. Aveva un volto sereno, quasi divertito. Forse un giorno era stata una persona importante, aveva avuto dei figli e degli uomini si erano innamorati di lei.

Mi ero sempre chiesta che cos'è l'amore, ma mai che cos'è la vita. Veniamo al mondo e siamo l'inno stesso della precarietà. Basta un virus appena un po' arrogante, un colpo leggero sulla nuca per farci scivolare subito dall'altra

parte.

Siamo un inno alla precarietà e un invito al male, a compierlo vicendevolmente gli uni sugli altri. Un invito che abbiamo accolto dal primo giorno in cui il mondo è stato creato. L'abbiamo accolto per obbedienza, per passione, per

pigrizia, per distrazione. Ti uccido per vivere.

Ti uccido per possedere. Ti uccido per liberarmi di te. Ti uccido perché amo il potere. Ti uccido perché non vali niente. Ti uccido perché voglio vendicarmi. Ti uccido perché uccidere mi dà piacere. Ti uccido perché mi dai fastidio. Ti uccido perché mi ricordi che anch'io posso essere ucciso.

Ogni cosa nel mondo ha il suo opposto. Il nord e il sud. L'alto e il basso. Il freddo e il caldo. Il maschio e la femmina. La luce e il buio.

Il bene e il male. Ma allora, se davvero è così, perché è possibile dire: "Ti uccido" e non è possibile dire: "Ti restituisco la vita"? La vita è nata prima dell'uomo e nessun uomo è in grado, con la sua sola volontà, di creare la vita. "Muori!" possiamo gridare, ma non "Vivi! ". Perché?

Cosa si nasconde in questo mistero?

Mentre pensavo queste cose, mi è venuto accanto un cane. Sembrava piuttosto anziano, aveva il pelo biancastro a ciocche, il ventre gonfio della malnutrizione, lo sguardo coperto da un velo opaco. Con fatica mi si è seduto vicino.

Aveva la bocca aperta e respirava rumorosamente.

«Non ho niente da mangiare» gli ho detto ma lui è rimasto lì lo stesso.

Il sole cominciava a picchiare così mi sono spostata sotto un grande ippocastano. La chioma faceva un'ombra morbida, sotto le sue foglie ronzavano decine di insetti.

Il cane mi ha seguito. Non c'era una panchina e così mi sono seduta per terra. Lui mi si è disteso accanto. Il suo respiro sembrava un

mantice.

«Vuoi una carezza?» gli ho chiesto, posandogli la mano sulla testa. Ha socchiuso gli occhi con un'espressione che sembrava di felicità.

Il cielo sopra di noi era azzurro come il fondo di una tazza di smalto. Non c'erano più balestrucci ma soltanto qualche colombo che volava pesante. Più in alto, il ventre argenteo di un aereo brillava come un'aringa. Poi è scomparso, lasciando dietro di sé una striscia bianca, lunga e precisa come una strada di campagna.

Ci sono sentieri nel cielo?, mi sono chiesta allora. E dove portano? E chi li traccia?

In quel momento il cane mi ha dato la zampa.

«Ci guida Qualcuno o siamo soli?» gli ho domandato.

Aveva gli occhi socchiusi, la lingua penzoloni. Sembrava sorridesse.

«Rispondimi. »

L'inferno non esiste.

I.

Sono tornata alla casa dei miei genitori,

quella casa che per tanto tempo tu hai detestato. Ho fatto fatica ad aprire la porta, c'era ruggine nel cilindro della serratura e il legno era

gonfio per le molte piogge.

Quando finalmente ha ceduto, ho avuto

l'impressione di trovarmi in un museo. O in una

cella mortuaria. Ogni cosa era al suo posto. L'aria era fredda e umida, di quella fredda umidità

che preserva le cose non più vive dall'insulto

del tempo. Sul tavolo, in cucina, c'era ancora la

tovaglia. Sopra, una brocca e un bicchiere. Nel

camino era rimasta della cenere. Sul bracciolo

della poltrona erano posati gli occhiali spessi di

mia madre, accanto a un gomitolo di lana infilzato da due ferri. Sul televisore troneggiava la

foto del nostro matrimonio. Uscivamo dalla

chiesa a braccetto, tu con il tight, io con un lungo abito bianco. In quel momento, qualcuno

doveva aver lanciato del riso, perché tu sorridevi e lo facevo anch'io. Ma sorridevo con gli occhi chiusi.

Era stata mia madre a scegliere quella foto.

Ce ne erano di molto più belle. Gliele avevo mostrate varie volte, ma lei si era intestardita.

«Voglio questa», diceva, puntandoci sopra il dito storto dall'artrosi. Io insistevo. «Non è meglio questa? O quest'altra?» «No, no, voglio

questa. » «Ma perché proprio questa? » «Perché,

in questa, sei proprio tu. » Con la manica, ho

spolverato la foto. Dagli angoli della cornice, i

ragni avevano cominciato a tessere la loro tela.

Allora mi ero chiesta che cosa rendesse quella foto tanto diversa dalle altre. Me lo ero chiesto, e non avevo saputo rispondere. Nel silenzio

innaturale della casa, adesso lo sapevo. Ero io,

per gli occhi chiusi. Pur non vedendo, scendevo

la scalinata lo stesso, affidandomi al tuo braccio. Non avevo dubbi sulla sicurezza della tua

guida.

«Vedi solo ciò che vuoi vedere», mi aveva

detto mio padre, poco prima di morire. Era il

crepuscolo e stava davanti alla stalla. Due mesi

dopo è morto. Una sera il cane è tornato solo.

All'alba del giorno dopo, l'hanno trovato riverso sul muschio. Qualche animale aveva già cominciato a rosicchiargli le orecchie.

Erano i primi di settembre. Noi stavamo veleggiando verso la Costa Smeralda. «E' morto

tuo padre», mi hai detto, emergendo da sotto

coperta. «Il funerale sarà domani o dopo. Non

farai in tempo ad arrivare. »

Mia madre, invece, se ne è andata mentre

eravamo a Singapore, per un tuo impegno di lavoro. Al paese, nessuno sapeva dov'ero, così

nessuno è riuscito ad avvisarmi. L'ho saputo al

ritorno.

Quando sono stata al cimitero, sulla terra

smossa era già cresciuta l'erba. Era maggio e i

canaloni erano ancora pieni di neve. I ruscelli

saltavano tra una pietra e l'altra, gonfi di acqua. I rami dei larici erano già coperti di morbidi aghi verde chiaro. Lo stesso verde luminoso dei prati. Quella volta, non ero riuscita a

provare grandi sentimenti. Forse ero ancora

anestetizzata dalla tua presenza. Più che vivere,

mi guardavo vivere.

Poi, per fortuna, sei morto anche tu.

La mattina in cui ti ho trovato disteso sul

pavimento del bagno, non è stato molto diverso

dal vedere un insetto.

Quando ancora eravamo fidanzati, mi avevi

fatto leggere La metamorfosi di Kafka. Era un

racconto che ti esaltava. «Qui dentro», ripetevi

sempre, «c'è tutta l'essenza dell'uomo moderno. » Per compiacerti, avevo finto che esaltasse

anche me. «Mi dà i brividi», ti avevo detto. Era

una menzogna solo parziale, perché i brividi li

provavo davvero. Ma erano brividi di disgusto.

Nel momento in cui ti ho visto per terra, nudo, con le gambe spalancate, quando ho visto la

mollezza sfatta degli anni trasformarsi in rigidità, mi è tornato in mente proprio lui, Gregor

Samsa. Non ti ho toccato, ma sono certa che, se

l'avessi fatto, sotto il mio piede avrei sentito,

non la carne, ma l'involucro chitinoso di uno

scarafaggio.

La settimana seguente è stata la più dura.

Ho dovuto indossare il volto affranto della vedova. Eri stato un uomo importante e tutti volevano manifestarmi il loro cordoglio. Quando

non ne potevo più di quelle frasi di circostanza,

mi ritiravo in bagno e sai cosa facevo? Scoppiavo a ridere. Ridevo fino alle lacrime, ridevo

con l'allegra sguaiatezza dell'adolescenza. Ridevo come uno che ha vinto la lotteria e non

può comunicarlo a nessuno.

Nella cronaca cittadina, ti avevano dedicato

un articolo di due colonne. "Lascia la moglie e

una figlia", avevano scritto verso la fine. Dell'altro figlio, neppure un cenno. Quando uno muore,

ogni cosa rimasta alle spalle diventa buona. Non

è questo l'ultimo insulto per chi deve ancora andare avanti, trascinandosi il peso della memoria?

Passata la farsa, pensavo a una sola cosa, a

quanto sarebbe stata felice la mia vita da vedova. Mi avevi lasciato un buon conto in banca e

le curiosità e gli interessi della mia giovinezza

erano ancora intatti. Mi sarebbe piaciuto viaggiare e imparare le lingue, mi sarei iscritta a un

corso di acquerello, a un circolo letterario. Non

avrei più sopportato alcuna imposizione. Dovevo guadagnare tempo per essere certa di morire con il volto sereno di chi non ha rimpianti.

Come ho potuto essere così ingenua? Il male

ha molte facce e si insinua ovunque con abilità

mimetica. Sembra che muoia ma rinasce sempre. Il tuo cuore aveva ceduto, ma il tuo spirito

era ancora vivo. Spirito di vendetta, spirito di

distruzione, spirito di odio per ogni cosa in grado di sfuggire al tuo regime di umiliazione.

A cinquantacinque anni non ci si può più illudere che la vita sia soltanto davanti, che si

possa godere di essa come se si fosse appena nati. C'è stato un prima, ed è quel prima a indicare la direzione dei giorni a venire.

Prendendo in mano il lavoro a maglia di mia

madre, i suoi grossi occhiali da vecchia coperti di

polvere, ho capito una cosa. Gli eserciti in fuga

di solito distruggono i ponti. Tu, con la mia vita,

hai fatto lo stesso: con ossessiva meticolosità hai

distrutto tutto ciò che mi stava alle spalle. Poi,

per evitare che un giorno potessi rialzare la testa,

hai minato anche tutto ciò che stava davanti.

Questa casa abbandonata ed io siamo ormai

la stessa cosa. L'umidità ha mangiato le pareti.

Se piove, l'acqua filtra in più punti. I picchi

hanno ridotto gli scuri a colabrodi, mentre i topi hanno rosicchiato tutto ciò che era possibile

rosicchiare: i fili elettrici e le scorte di candele,

la Bibbia sul comodino e le copie di vecchie riviste conservate per accendere il fuoco, gli strofinacci e le federe ordinatamente riposti nella

cassapanca dell'ingresso.

La prima sera mi è venuto lo sconforto. Giravo da una stanza all'altra con una candela in

mano e il cappotto indosso. Tutto era in tale

stato di degrado che mi pareva impossibile porvi rimedio in pochi giorni e con le mie sole forze. Per affrontare le prime notti, mi ero portata

un sacco a pelo che era stato dei ragazzi. Sono

andata in camera di mio padre e mia madre,

ma non ho avuto il coraggio di sdraiarmi sul loro letto. La mamma l'avevano trovata lì, distesa a faccia in giù sul pavimento, un braccio

avanti e uno dietro, come se stesse nuotando.

«E' morta subito? » avevo chiesto al medico

condotto della zona.

«Chi lo può dire? » mi aveva risposto alzando le spalle. «Potrei tranquillizzarla dicendo: sì

dopo tre minuti ha perso coscienza, ma che senso avrebbe? Il tempo dei moribondi è molto diverso dal nostro. Quello che per noi è un attimo, per loro è l'eternità.»

Adesso che sono sola nella casa, è proprio

quell'eternità a farmi paura. Se non è morta subito, cosa avrà pensato negli ultimi istanti? Forse

avrà cercato di raggiungere il telefono, per questo

stava li, con il braccio teso in avanti. Forse ha

pensato di chiamarmi ma non ce l'ha fatta. O forse era convinta che sarebbe stato perfettamente

inutile.

Quando ero andata a trovarla l'ultima volta? Era rimasta vedova da poco, dunque due

anni prima. Quanto distava casa loro dalla no-

stra? Tre ore e mezzo di macchina, quattro, se

c'era traffico.

Finché i bambini erano piccoli li avevo portati lassù almeno un mese ogni estate e un paio

di settimane durante l'inverno. C'era ancora la

vecchia slitta costruita dal nonno, ci salivamo

tutti sopra per andare a fare la spesa. Frenando, la neve arrivava in faccia, trasformandoci

tutti in pupazzi.

Poi i bambini erano cresciuti, Laura ha cominciato a voler essere come tutti gli altri, le

vacanze sulla neve dai nonni non le bastavano

più. Voleva le scuole di sci e gli impianti di risalita, le discoteche per passare la serata. Michele no, Michele è sempre stato diverso. Lui

adorava la casa in montagna. Già da piccolissimo, con la sua testa tonda e chiara, seguiva il

nonno dappertutto. Quando aveva cinque anni,

mio padre aveva intagliato una canna per farne

un piccolo flauto. All'improvviso, dai posti più

impensati, sentivo salire quelle note. Erano

noiosissime ma a Michele dovevano sembrare

meravigliose, non faceva altro che ripeterle. A

volte, lo scorgevo seduto su una balla di fieno o

sotto l'arco della scala, Teneva le sopracciglia

aggrottate come se stesse pensando a qualcosa

di molto serio.

A te non erano mai piaciuti i suoi occhi,

«Non sono azzurri», dicevi, «e neanche verdi. Sono occhi color confusione.»

Ti irritavano le ciglia e le sopracciglia, troppo scure, troppo marcate. «Sembrano dipinte»,

dicevi, indicandolo come fosse un animale in

vendita nella pubblica piazza.

Quando aveva sette, Otto anni gli ripetevi

spesso: «Mi sembri quella sciacquetta di Bambi».

Quando poi, nell'adolescenza, il suo corpo si

è allungato e ha perso la grazia, il tuo ritornello preferito era: «Così dipinto sembri proprio

una baldracca».

Poco prima di venire quassù, ho sentito dire

da un prete alla televisione che l'inferno non

esiste. Stavo facendo qualcos'altro e non vi avevo prestato molta attenzione ma, un paio di

giorni dopo, su un importante quotidiano, ho

letto la stessa affermazione.

L'inferno non esiste, diceva l'articolo, corroborato dalla tesi di un teologo molto in vista. O

se anche esiste è comunque vuoto. Ero sola a

casa e ho cominciato a camminare per le stanze sbattendo qua e là il giornale. «Vigliacchi!

Bugiardi!», gridavo. «E allora, Hitler dov'è? E

Stalin? Suonano la cetra nel più alto dei cieli?

Oppure spazzolano i boccoli dei cherubini? Se

l'inferno è vuoto, ci voglio andare almeno io.

Stare in pace laggiù tra il tepore delle fiamme,

tutta sola come in un grande albergo fuori stagione! »

Quando mi sono calmata ho pensato, ecco,

stanno raschiando il fondo del barile. Nessuno

li ascolta, nessuno più li segue. Per essere popolari hanno tolto l'ultimo limite. Agite pure

come vi pare, compite ogni nefandezza, tanto

poi il banchetto sarà democratico. Gioia, amore ed eternità per tutti. Seduti uno accanto all'altro, il medico missionario e lo stupratore di

bambini. Che bella festa!

Se l'inferno non esiste, niente esiste. E non

solo esiste, ma anche deve essere completamente separato dagli spazi superiori. Ci devono essere reticolati e fiamme e guglie di vetro spezzato e fili elettrici ad alta tensione e compartimenti stagni e assenza di atmosfera e di pressione e il gorgo di un buco nero che inghiotte

tutti coloro che provano a uscirne. Mia madre e

mio padre non potranno mai stare accanto a te,

non dovranno neppure immaginare che esisti

ancora in qualche luogo dell'universo. Per questo è necessario che, tra il sotto e il sopra, ci siano tutte quelle barriere.

La prima notte, ho dormito nel mio letto da

ragazza, nella piccola stanza ricavata sotto il

tetto. Più che dormire, ho atteso l'alba in posizione sdraiata. Non ho perso coscienza neppure

per un istante. La casa era piena di vita. Alcuni rumori li riconoscevo, i passi dei topi sul pavimento, quelli delle donnole e delle faine che,

per cercare i nidi, ribaltavano i coppi del tetto,

il legno dei mobili che si gonfiava e sgonfiava,

producendo piccoli schiocchi, scricchiolii di assestamento. A un certo punto della notte, ha cominciato a soffiare il vento. Era vento di tramontana perché colpiva il lato nord della casa.

Da fuori, giungeva il tintinnio di qualche anel

lo di metallo, come di sartie contro l'albero di

una barca a vela. Ho sentito spalancarsi di colpo la finestra della cucina. Non sono scesa, ma

ho visto ugualmente la raffica entrare dentro e

travolgere le cose. Il gomitolo è rotolato dalla

sedia e, per la stanza, hanno cominciato a volare i fogli di giornale raccolti per il fuoco. Volava la tendina sotto l'acquaio e traballava la

gondola souvenir sulla mensola accanto all'orologio. Ogni cosa, all'improvviso, aveva una sua

vita. La foto della nonna sulla credenza e la sua

voce che diceva: «Chi muore solo, resta quaggiù

a cercare compagnia. Va avanti e indietro tutto

il tempo come un animale in gabbia».

Quando la raffica si è esaurita, mi è parso di

udire dei passi. Che passi erano? Sembravano

pantofole ai piedi di una persona anziana.

II.

L'albergo dove ci siamo incontrati non esiste

più. I vecchi proprietari sono morti, avevano

soltanto un nipote in Australia che non si è mai

curato di rilevarlo. C'è ancora l'insegna, o meglio soltanto una parte di essa. Al .. . chio .. .rpone è rimasto scritto sull'angolo della strada

principale. Al vecchio scarpone.

Eri venuto li ad accompagnare una tua sorella, reduce da una malattia ai polmoni. Eravate rimasti tutta l'estate e tu ti annoiavi a morte. Ogni

tanto, con la corriera delle undici, arrivavano dei

pacchi per te. Contenevano libri. Quando pioveva, passavi il tempo in camera a leggere. Quando

il tempo era bello, facevi la stessa cosa fuori, seduto su una panchina o disteso su un prato.

Non avevo potuto fare a meno di notarti.

Frequentavo l'ultimo anno delle magistrali.

Durante l'estate, per guadagnare qualche spicciolo, davo una mano all'albergo. Mi sembravi

diverso da tutti i ragazzi che conoscevo. Alla sagra di Ferragosto, avevo ballato con un caporale degli alpini, ma dentro di me non era succes

so niente. L'unico maschio della nostra classe

era lo zimbello di noi ragazze. Quando, invece,

incontravo il tuo sguardo, diventavo rossa senza una ragione.

Ero convinta che non ti saresti mai accorto

della mia esistenza. Poi, una sera, mentre passavo davanti al dondolo cigolante, mi hai invitata a sedermi. Mi hai parlato a lungo e di tante cose, come una persona che si sente molto sola. Non ero riuscita a seguirti in tutto. Più che

conversazioni, le tue erano elucubrazioni filosofiche, la mia preparazione da aspirante maestra

non mi permetteva di starti dietro.

Al primo incontro, ti ero stata grata per l'attenzione. Al terzo, la gratitudine si è trasformata in orgoglio. Mi day sempre del "lei", come se

fossi una persona importante.

Dopo una settimana, scostandomi i capelli

dalla spalla, hai mormorato: «Occhi azzurri e Capelli neri, labbra rosa e pelle bianca come neve

appena caduta. Nessuno le ha mai detto che è

molto bella?».

No, nessuno me l'aveva detto.

Come nessuno mi aveva detto la frase che

avevi usato come commiato, davanti alla corriera pronta a partire.

«Starà tutta la vita quassù a insegnare a

quattro bambini con il gozzo?»

Invece di rispondere, ho balbettato qualcosa

di confuso.

«Non ha mai pensato che potrebbe avere

molto di più dalla vita?»

«Di più, cosa?»

Eri arrampicato sull'ultimo gradino, le porte a soffietto stavano per chiudersi.

«Tutto! Se lei volesse, potrebbe avere tutto! »

L'estate dopo, sei tornato per un paio di

settimane e senza tua sorella. Abbiamo passeggiato a lungo mano nella mano. Cercavamo

sempre dei posti solitari e romantici, lontani

dagli sguardi indiscreti. Ci sedevamo sotto il

grande salice vicino al torrente o in fondo al

bosco di larici, nella radura. Lì, invece di tentare di baciarmi come facevano gli altri,

estraevi dalla tasca un libro e mi leggevi qualche poesia.

Al tuo fianco, avevo imparato a sentirmi

diversa. Avevo imparato a capire di più, a ragionare più profondamente. Ti ero grata per

avermi concesso l'arditezza della tua intelligenza.

Quell'arditezza, alla fine, aveva reso inquieta anche me. Non mi bastava più la vita che

avevo sempre fatto. Quella che mi si apriva davanti, nella valle, mi sembrava ormai una variante dell'ergastolo.

Nel settembre di quell'anno ci siamo fidanzati e nel settembre dell'anno dopo, ci siamo

sposati.

A mio padre non piacevi. Mia madre, inve

ce, si sforzava di difenderti. «Che cosa ti ha fatto di male, povero ragazzo? Non ti è simpatico

soltanto perché viene dalla città! » Allora il

papà ingobbiva le spalle. «Non è questo», diceva, continuando a intagliare nervosamente un

pezzetto di legno. «E allora? » incalzava lei.

«Non so», borbottava, «non mi va», e diventava ancora più piccolo.

Il giorno del nostro matrimonio avevo già

imparato a vergognarmi di loro. Il rinfresco era

stato servito nel parco della villa dei tuoi genitori. C'erano dei grandi padiglioni a proteggere

le tavole imbandite. C'erano dappertutto camerieri che giravano con i vassoi e i guanti bianchi. Là in mezzo, mio padre e mia madre vagavano smarriti, sembravano comparse che hanno sbagliato film.

Al taglio della torta, mio padre aveva alzato

la mano come a chiedere un po' di silenzio. Invece di fare un discorso, ha tirato fuori dalla tasca della giacca la sua vecchia armonica a bocca e ha cominciato a suonare una canzone tristissima. In quel momento, ho sentito il mio odio

nei suoi confronti diventare una vera e propria

forza fisica. «Papà, basta! » gli ho sibilato dopo

un paio di minuti di quello strazio. Ma lui non

mi ha ascoltata, ha continuato per un tempo che

mi era sembrato infinito.

In sala qualcuno sospirava, qualcun altro

tratteneva a stento una risata. Quella risata che

poi è esplosa fragorosa quando sono arrivati i

cani da caccia di tuo padre e, ululando, hanno

cominciato a fargli l'accompagnamento.

Viaggio di nozze a Vienna, cena con un violinista zigano che suonava solo per noi e poi, la

camera da letto. Durante il fidanzamento, ci

eravamo dati solo un bacio, sfiorandoci appena

le labbra. La tua delicatezza mi aveva commosso.

Hai chiuso la porta della stanza e mi hai afferrata per i polsi. Le tue pupille erano immobili, sembravano un pozzo profondo che da anni non viene scoperto.

«Sai cos'è il matrimonio?» mi hai chiesto,

rinforzando la stretta.

"Volersi bene", volevo dire, invece ho mormorato: «Lascia, mi fai male».

«Il matrimonio è un contratto. Adesso, e per

sempre, sarai una cosa mia.»

Chi era l'uomo che avevo sposato?

III.

Ho aperto le finestre per far uscire l'umidità.

Nel ripostiglio dietro la stalla c'era tanta legna

tagliata. La gerla era ancora solida, l'ho riempita e ho fatto un paio di viaggi.

Al paese sono rimasti soltanto i vecchi.

Qualcuno mi ha salutata, qualcun altro ha fatto finta di non vedermi.

La chiesa è abbandonata da anni. Soltanto a

Ferragosto viene un prete dalla valle, la apre,

celebra la funzione dell'Assunta e poi riparte

con la sua utilitaria prima che l'umidità gli penetri nelle ossa.

Il cimitero comincia a essere invaso dalle erbacce, i genitori muoiono e i figli sono in città o

addirittura all'estero. Una gita a novembre è

sufficiente per la coscienza, ma non per limitare il vigore della vegetazione.

Luigi era stato mio compagno di banco nella pluriclasse delle elementari. Quando eravamo già sposati da anni, l'avevo incontrato in

città, dietro lo sportello di un ufficio postale

non lontano da casa. Era il mese di maggio. Per

raccontarci un po' di cose eravamo andati a

prendere un caffè insieme.

Passando in automobile, ci hai visti seduti

uno accanto all'altra.

Nelle notti seguenti non mi hai lasciato dormire. «Chi era? A me non hai mai sorriso a quel

modo», continuavi a gridare, scaraventando a

terra ogni cosa che ti capitava per le mani. Poi

ti chiudevi a chiave in salotto e ti assordavi con

la tua musica di Mahler.

Aspettavo già Michele ma tu ancora non lo

sapevi.

Negli anni avevo imparato a conoscerti. Ero

diventata abile come un meteorologo che sa

prevedere i tifoni. Riuscivo a prevedere quasi

sempre quando si sarebbero scatenati e in che

forma. Di solito, prendevo ogni precauzione per

evitare l'impatto più violento.

Ma anche gli scienziati più esperti alle volte

sbagliano. Credevo che tu ti fossi calmato

quando ti ho detto: «Aspetto un altro figlio». Tu

mi hai guardato per un tempo interminabile.

Poi hai sibilato: «Ah, sì? E di chi è? » e mi hai

tirato un pugno dritto nel ventre.

Naturalmente nessuno sospettava quale fosse la realtà del nostro matrimonio. In pubblico,

nelle occasioni sociali, eri un marito ineccepibile, galante, generoso, innamorato della bellezza

della moglie. Davanti agli altri mi guardavi con

occhi stellanti, dicendo: «Non è un gioiello?».

Quando eravamo soli a casa e avevi bisogno

di qualcosa, mi chiamavi "Biancaneve". Da

quando hai saputo che aspettavo Michele,

Biancaneve è diventato Biancatroia.

Il giorno delle doglie, tu eri in Estremo

Oriente per un viaggio d'affari. Sono andata all'ospedale da sola, in taxi, lasciando Laura con

la baby sitter. Il travaglio è stato lunghissimo.

Quando ho visto accorrere il primario, ho capito che non tutto andava per il verso giusto.

«Che cosa fa? » domandava, tastandomi il

ventre, «che cosa sta facendo?» C'era allarme

nella sua voce. «Si è voltato», ha risposto un assistente. «Si dev'essere avvolto il cordone intorno al collo.»

All'ultimo minuto, Michele aveva deciso di

non nascere. Invece della testa, alla vita ha offerto i piedi. Con ciò che ci legava, ha tentato di

strozzarsi. L'hanno tirato fuori in extremis.

Quando l'hanno posato sul tavolo era violaceo, morbido e abbandonato come un vecchio

straccio. «Non ce la fa» ha detto un'infermiera.

Mentre il dottore stava cercando il battito del

cuore, Michele ha emesso una specie di sospiro e

il suo piccolo torace ha cominciato a muoversi.

E' difficile immaginare cosa voglia dire per

una donna avere un figlio perché ogni figlio è

qualcosa di assolutamente diverso. Per alcune

può essere gioia, per altre soltanto disperazione.

A quel punto della mia vita ero certa che se

Michele fosse nato morto, sarei morta anch'io

poco dopo. Quanto, nei matrimoni felici, i figli

sono il prolungamento naturale del rapporto,

tanto, nelle unioni minate dalle avversità, diventano una sorta di gomena a cui aggrapparsi

con tutte le forze, una piccola cosa indifesa di

cui aver cura e che, in cambio di questa cura,

restituisce giorno dopo giorno tutto l'amore che

ci è stato tolto.

Avevo già Laura, è vero, ma Laura era una

femmina e crescendo aveva dimostrato di assomigliarti sempre più. Caparbia nel profondo,

morbosamente gentile quando voleva ottenere

qualcosa, soggetta a improvvisi scoppi d'ira,

Laura era la tua cocca. Ancor prima che nascesse, sapevo che Michele non avrebbe mai

avuto un trattamento del genere.

E' rimasto in incubatrice quasi un mese.

Quando finalmente me l'hanno portato, ho

avuto l'impressione di prendere in braccio un

animale di pezza. Stava lì, ruotando i suoi occhietti acquosi verso il soffitto, senza alcuna

tensione nel corpo, senza alcuna volontà di movimento. Prendeva il latte fermandosi spesso,

con distrazione, quasi fosse preda di un'antica

stanchezza.

Dopo otto giorni, sei arrivato tu. Prima di te,

ha fatto l'ingresso nella stanza un grande mazzo di rose rosse. Quando siamo rimasti soli, hai

accostato la sedia al letto e mi hai preso una

mano tra le tue. «Mi dispiace», hai detto, «il

bambino non sarà mai normale.» I medici avevano svelato a te ciò che a me avevano tenuto

nascosto. «Il cervello», hai aggiunto, «è rimasto

troppo a lungo senza ossigeno. »

«E allora?» ho gridato.

Tu hai sollevato le spalle. «Allora niente. Ne

faremo un altro. »

Quel giorno ho capito che dentro ogni madre

vive una piccola tigre. Quando aveva tre mesi,

ho portato Michele a Milano da un famoso neurologo. Ha esaminato a lungo il bambino, lo

toccava con circospezione girandolo da una

parte e dall'altra, come fosse un fungo del cui

veleno ancora non si conosce la potenza.

Poi ci siamo seduti uno di fronte all'altro. Si

è tolto gli occhiali e mi ha detto: «A me non piace illudere la gente. Di sicuro sarebbe più facile ma sarebbe anche più ingiusto. Così le dirò la

verità. Il bambino non sarà mai in grado di fare niente. Quasi di sicuro non sente e la sua vista è ridotta al minimo».

«Mi può dire qualcosa di più? »

«Una pianta. Se la si nutre, cresce, si allunga verso la luce, respira e sintetizza la clorofilla, ma non le si può chiedere di parlare o di fare un salto.»

Per la prima volta, ero riuscita ad oppormi

alla tua volontà. Tu volevi chiuderlo in una specie di Cottolengo, andando solo a Natale a fargli qualche carezza sulla testa. Io volevo tenerlo accanto a me come fanno i canguri, i koala,

le mamme degli opossum. Gli parlavo tutto il

tempo, lo accarezzavo, annusavo la sua pelle

tiepida da cucciolo. Intanto tu ed io litigavamo

selvaggiamente.

Il giorno in cui l'hai chiamato "il piccolo bastardo" ho messo poche cose in una borsa e sono

tornata da mia madre. Loro non sapevano niente e lo trattavano come un bambino normale.

E' stato qui che ha sorriso la prima volta, la

nonna gli ha cantato una filastrocca e lui è

scoppiato a ridere.

La settimana dopo sei venuto a prendermi.

In una mano avevi un mazzo di fiori, nell'altra

la busta di una gioielleria. Hai pianto davanti a

mia madre come un uomo distrutto. «Alle volte

sono un po' nervoso», le hai detto, «ma non mi

merito tanto. E poi Laura non dorme più, ha gli

incubi, non fa altro che chiedere della mamma. »

Quella sera, rimaste sole, mia madre mi ha

parlato. «Nel matrimonio ogni tanto ci sono degli enormi scalini di pietra, li guardi e pensi che

non ce la farai mai a superarli. Tuttavia per te,

per i bambini e per l'impegno che hai preso, devi trovare la forza per farlo. E poi, quando sarai vecchia come me, ti guarderai indietro e non

vedrai più gradini ma soltanto prati pieni di

fiori. »

Il giorno dopo siamo ripartiti insieme, Michele sul seggiolino dietro e noi due davanti: salutavamo i miei sorridendo e con la mano aperta. Ero ancora giovane, volevo che mia madre

avesse ragione.

IV.

Una volta, da qualche parte, ho letto una

storia. Parlava di una scimmia e di uno scorpione. Arrivata sulla sponda di un grande fiume, la scimmia decide di attraversarlo a nuoto.

Ha appena messo una zampa in acqua, quando

sente una vocina che la chiama. Si guarda intorno e, poco distante, vede uno scorpione.

«Senti», le dice lo scorpione, «saresti così gentile da darmi un passaggio? » La scimmia lo fissa

dritto negli occhi. «Non ci penso neppure. Con

quel pungiglione, potresti attaccarmi mentre

nuoto e farmi annegare. » «Perché mai dovrei

farlo?», risponde lo scorpione. «Se annegassi

tu, morirei anch'io. Che senso avrebbe? » La

scimmia ci pensa un po', poi gli dice: «Mi puoi

giurare che non lo farai?». «Te lo giuro! » Allora lo scorpione sale sulla testa della scimmia e

la scimmia comincia a nuotare verso l'altra

sponda. Quando è pressappoco a metà, sente

all'improvviso una fitta nel collo. Lo scorpione

l'ha colpita. «Perché l'hai fatto?» grida la scim-

mia. «Adesso moriremo tutti e due!» «Scusa»,

risponde lo scorpione, «non ho potuto farne a

meno. E' nella mia natura.»

Qual'era la tua natura?

Per tanti anni ho cercato di capirlo. Ho pensato dapprima a una sorta di trauma, uno stato di sofferenza psichica latente che ti spingeva

a comportarti in quel modo. Ero convinta che,

con il tempo e la dedizione, sarei riuscita a lenirlo e un giorno saremmo stati anche noi una

famiglia banalmente normale come quelle della

pubblicità.

Poi, con gli anni le forze hanno cominciato a

indebolirsi, le poche rimaste le ho usate per difendermi, non ho più cercato di capire. Sapevo

ormai che ogni frase, ogni gesto era un campo

minato. Un aggettivo di troppo, un avverbio

fuori posto e sarebbe scoppiata la tempesta.

Camminavo cauta, mi muovevo con la studiata

lentezza di chi sa di aver un malato grave in casa e non vuole fare rumore. Anche i bambini

avevano imparato a muoversi allo stesso modo.

Sembravano due lemuri che, prima di lanciarsi

nel vuoto, tastano la solidità del ramo.

Per settimane, dopo la tua morte, ho avuto

l'impressione di non essere sola a casa. Se stavo

seduta sul divano o attraversavo una stanza, all'improvviso sentivo una corrente gelida che mi

assaliva. Pur essendo in piena estate, dovevo

mettermi una maglia di lana.

Una sera poi, poco prima di addormentarmi, ho avuto la certezza di vedere un'ombra attraversare lo spazio che dalla stanza da bagno

porta alletto, come per tanti anni avevi fatto

tu. Il giorno dopo mi sono trasferita a dormire

da un'amica.

«Neppure all'inferno lo vogliono», le ho detto, con un whisky in mano.

Non avevo più bisogno di difendermi. Tu

non c'eri più.

Lentamente in me è tornato il desiderio di

comprendere. Davanti ai miei occhi scorrevano

quarant'anni della tua vita, quarant'anni di cui

conoscevo, o credevo di conoscere, ogni piega,

ogni respiro. In tutti quegli anni eri sempre riuscito a stupirmi per la tua abilità di mistificare,

la tua costante capacità di essere spietato, subdolo, di non provare alcun sentimento che non

fosse il piacere di umiliare, il gusto di distruggere l'intimità più profonda delle persone. Più

che a un essere umano, somigliavi a una divinità distruttrice, a Shiva o a una medusa dai

tentacoli prepotenti. Spargevi veleno intorno, e

inchiostro. Veleno, per uccidere. Inchiostro, per

far perdere le tracce, per godere in segreto della disperazione che avevi seminato dietro di te.

Eri un uomo di successo. Mandavi avanti la

ditta ereditata da tuo padre come pochi altri

avrebbero saputo fare. I tuoi dipendenti ti stimavano, per i collaboratori più stretti eri un

mito. A volte dovevo persino difendermi dall'invidia delle altre mogli; avrebbero fatto

qualsiasi cosa per avere un marito come te.

Non hai mai tradito l'apparenza. A pranzo firmavi un importante contratto con i tuoi partner americani, all'ora di cena, se non correvo

ad aprirti la porta, gridavi: «Dov'è finita la

vacca alpina?».

Per il mio compleanno, l'ultimo che abbiamo festeggiato insieme, mi hai regalato un

ciondolo con una grossa perla nera.

«Ormai siamo quasi vecchi», hai detto. Poi,

sollevando il calice hai voluto fare un brindisi.

«Alla tua morte, che spero più atroce della

mia.»

Ancora non lo sapevo, ma il tuo pungiglione

aveva già colpito, inoculando nel mio corpo il

veleno di cui volevi liberarti.

A quattro, cinque anni, Michele era un bambino come tutti gli altri. Nei test dello sviluppo

non risultava neppure un giorno in ritardo sui

tempi. Gli unici segni rimasti della sofferenza

neonatale erano la gracilità del fisico e una certa attitudine alla quiete e al silenzio. Forse, dietro il drastico responso dei medici c'era stato un

tuo suggerimento.

Tanto tu sottilmente lo detestavi, altrettanto

lui, a quell'età, ti adorava. L'amore che non si

riceve è quello che si desidera maggiormente.

La sera, all'ora in cui di solito tu rientravi, si

metteva ad aspettarti in piedi, vicino alla porta.

Che tu arrivassi dopo dieci minuti o dopo un'ora, non gli importava, lui non lasciava comun

que il posto. Le volte in cui tu restavi fuori a cena, dovevo usare tutta la mia diplomazia per

riuscire a distrarlo dalla sua inutile attesa.

Un giorno aveva voluto a tutti i costi che gli

comprassi una piccola cravatta. Non si usavano

più da tempo cravatte per bambini e avevo faticato a trovarla. Alla fine, era saltata fuori dal

cassetto di una vecchia merceria. Era blu, con

delle righe trasversali rosse. Un piccolo elastico

bianco serviva a tenerla legata al collo. Gli occhi di Michele brillavano per la felicità. A casa,

vestito come un piccolo uomo, stava immobile

davanti allo specchio, si guardava e mi chiedeva: «Quanti bottoni tiene chiusi papà nella

giacca, uno solo oppure tre?».

Voleva essere in tutto e per tutto uguale all'oggetto del suo amore. Fino ad allora ero riuscita a proteggere la sua fragilità, facevo il possibile per non irritarti, per non provocare i tuoi

scoppi di ira. Se proprio succedeva qualcosa,

chiudevo le porte, accendevo la radio a tutto

volume. Mi illudevo di riuscire a conservare il

suo amore nei tuoi riguardi, speravo che quella

devota dedizione, con il tempo, ti avrebbe spinto a provare nei suoi confronti un sentimento

diverso.

Ma tu non ti accorgevi di lui, della sua tensione. O se te ne accorgevi, lo facevi con un senso di fastidio. Per te la verità era rimasta quella del neurologo. Michele era un ritardato, un

non adatto a vivere. E, prima ancora di questo,

nel tuo morboso immaginario, era anche una

creatura che non portava in sé traccia del tuo

patrimonio genetico.

I pilastri del tuo mondo educativo erano

molto diversi dai miei, io a scuola avevo studiato con il metodo Montessori, mentre i tuoi libri

di formazione erano Hobbes e Darwin.

«La vita è una grande forza», ripetevi spesso, «e questa forza si manifesta in due modi, nel

sesso e nella lotta.» Senza sopraffazione, senza

diffusione dei patrimoni genetici, sostenevi, la

vita si sarebbe estinta poco dopo la sua comparsa. Il fatto che gli individui nascessero con

una diversa capacità di imporsi era la conferma

del principio. C'era chi veniva al mondo per

dominare e chi per essere dominato. Per rendersene conto, bastava guardare le scimmie: in

ogni branco c'era un maschio che veniva riconosciuto da tutti come il più forte, il capobranco, e possedeva tutte le femmine. Gli altri maschi, per suggellare la loro palese sottomissione,

oltre a non sfiorare le femmine, quando gli passavano accanto, gli offrivano il sedere.

E noi, ripetevi spesso quando eri in vena di

pacata filosofia, cosa abbiamo di diverso da loro? Sappiamo parlare, sappiamo usare gli oggetti e le macchine e questo è tutto. Nel profondo, nei nostri desideri, nei nostri sentimenti,

siamo identici a loro. O fotti o sei fottuto.

Che follia chiederti di capire la delicata sensibilità di Michele! Per te era soltanto una scimmietta incapace di lanciarsi dalle liane. Non

avendo potuto scaraventarlo tu giù dall'albero

- nel branco si faceva così con gli imperfetti aspettavi semplicemente che, in qualche tentativo di volo, mancasse la presa. Mentre la madre strillava disperata, tu, con le braccia conserte, l'avresti guardato cadere.

La cecità di Michele nei tuoi confronti si è infranta al tempo della prima elementare. Per San

Giuseppe, la maestra aveva invitato i bambini a

fare un disegno da regalare ai loro papà e aveva

chiesto di commentarlo con una bella frase. Michele era agitatissimo all'idea di consegnartelo.

Appena ti sei seduto a tavola, ti è venuto vicino e

te l'ha offerto con tutte e due le mani, gli occhi luminosi dalla gioia. Sul foglio c'erano delle macchie irregolari color pastello che sfumavano armonicamente una nell'altra. Sotto il disegno, a

matita e in stampatello, c'era scritto: "W IL PAPA".

«Oh, grazie! » hai detto afferrandolo. Poi

l'hai girato e rigirato più volte per osservarlo da

tutti i punti di vista.

«E che cos'è? Una casetta, un paesaggio? Non

si capisce niente. Sembra solo un gran pasticcio.»

L'hai appoggiato sul tavolo e hai cominciato

a mangiare con il solito appetito. Michele si è

seduto al suo posto, gli spaghetti stavano davanti a lui e due piccole lacrime gli scendevano

lungo le guance. Quando hai finito il tuo piatto, ti sei accorto che il suo era pieno.

«Mangia! » gli hai gridato. «Non vedi che sei

già una mezzasega? »

Lui, con lo sguardo basso, ha scosso la testa.

Hai ripetuto "mangia" tre o quattro volte.

Alla quinta, ti sei alzato bruscamente, il tuo

bicchiere si è ribaltato e il vino rosso ha coperto gran parte del disegno. Con una mano hai

preso la forchetta, con l'altra gli hai stretto il

collo. Cercando l'aria, il bambino ha spalancato la bocca e tu ne hai approfittato per infilargli gli spaghetti in gola.

Da quel giorno non ti ha più aspettato dietro la porta. Invece di chiedermi quando tornavi, appena sentiva i tuoi passi correva a nascondersi. Più lo vedevi debole, più lo vedevi

pauroso, più cresceva in te il livore. «Un ectoplasma», gridavi. «Mi devo tenere in casa un

ectoplasma.» Quando lo incontravi in giro per

la casa, gli dicevi: «Non ti vergogni? Cammini

proprio come una femmina».

Una volta Laura ha cercato di difenderlo.

«Cosa c'è di male a camminare come una femmina? »

«Non ti permetto di intrometterti», le hai

gridato, sbattendo un pugno contro la porta.

Povera Laura! Non aveva un mondo interiore grande come quello di Michele, ma aveva

lo stesso tipo di insicurezza. Si sentiva sospesa

tra una madre incapace di difenderla e un padre che urlava quasi sempre.

Man mano che cresceva, il tuo atteggiamento

si modificava. Prima era soltanto uno stupido

cucciolo, Poi ha cominciato a trasformarsi in un

oggetto di un certo interesse. A undici, a dodici

anni, la lodavi spesso. Non per i suoi voti o per il

suo carattere, ma per le sue gambe o per la forma dei glutei sempre più morbida. Nei primi

tempi, alle tue osservazioni arrossiva violentemente. Si copriva con dei maglioni fuori misura

come un sopravvissuto a una catastrofe. Appena

la guardavi con insistenza, si allontanava dalla

stanza. Poi, però, una parte di lei doveva aver

capito. Si trattava di vivere con l'amore - non

importa di che tipo fosse - o senza, di stare dalla parte del più debole o da quella del più forte.

Così a tredici, quattordici anni, Laura ha

scelto. Ha scelto di essere diversa da me e da

suo fratello e di piacerti. Ha scelto di truccarsi

e di indossare le minigonne, quando ancora il

suo volto e il suo corpo portavano le tracce

acerbe dell'infanzia. Ti parlava come parlano le

donne e tu la trattavi come una donna. La sera, dopo cena, vi sedevate insieme in salotto, tu

sulla poltrona e lei sulle tue ginocchia. Parlavate fitto fitto. Ogni tanto sentivo le vostre risate.

Quando tu volevi fumare, ti accendeva una sigaretta. Quando volevi bere, ti accostava alle

labbra il bicchiere del whisky.

Spesso mi è capitato di vedere, nei talk

show, delle donne piangere sui loro matrimoni

infelici e delle ragazze più giovani commentare

con acidità la loro debolezza. «La colpa è sua»,

dicevano, «perché non lo lascia perdere? » Nei

momenti di maggiore crisi, anch'io mi sono detta, basta, me ne vado, metto in salvo la mia vita! Poi, passata la rabbia, passata l'umiliazione, mi guardavo intorno e dicevo, dove vado?

Non avevo un mestiere in mano, né una rendita, né una casa di proprietà in cui trasferirmi. I

miei genitori erano soltanto dei poveri contadini di montagna e avevo due figli ancora da crescere. La legge avrebbe dovuto proteggermi ma

sapevo che la legge, nella maggior parte dei casi, è soltanto un'apparenza. Parla del più debole e protegge il più forte, il più astuto, chi ha i

soldi per pagare un avvocato migliore.

Per compiere un gesto del genere, ci sarebbe

voluto un coraggio di molto superiore al mio.

Quei quindici, sedici anni di matrimonio erano

riusciti a spezzarmi dentro, a lasciarmi una forza

di reazione pressoché nulla. E poi avevo paura.

Sapevo che non avresti mai tollerato la sconfitta

di un abbandono, che saresti stato capace di qualsiasi gesto pur di tornare nuovamente vittorioso.

Così ho assistito, quasi impotente, alla rovina

di mia figlia. Solo una volta le ho detto: «Laura,

vorrei parlarti...». Lei si è girata dall'altra parte,

di scatto. «Non ho niente da dirti», mi ha risposto e si è allontanata dalla stanza prima che potessi aggiungere altro. Ormai aveva scelto il tuo

mondo e non poteva tradirti. Viveva la fedeltà

della figlia prediletta.

Anche Michele cresceva, e cresceva sempre

più solitario, sempre più pensieroso. Andava

bene a scuola ma non aveva un amico, passava

pomeriggi interi senza uscire dalla stanza.

Amava leggere, amava disegnare. Sopportava i

tuoi soprusi quasi come fossero una cosa naturale, senza mai ribellarsi, senza mai alzare la

testa.

Spesso le madri amano illudersi, e così nutrivo qualche forma di speranza nei suoi confronti. E' così assorto nei suoi pensieri, mi dicevo, da non accorgersi di come lo tratta il padre.

Neppure con me si apriva molto, ma era sempre gentile e affettuoso. Ogni tanto, quando

eravamo soli in casa, mi sedevo sul suo letto e

gli chiedevo: «A cosa stavi pensando?».

Invariabilmente mi rispondeva: «A niente di

speciale».

«A niente cosa?»

«A niente. Alla vita. Alla morte. »

Nei suoi disegni, aveva passato delle fasi di

intensa passione. Nei primi anni gli piaceva

molto dipingere il cielo oppure il mare, prendeva il pennello e faceva il foglio tutto azzurro

poi, sopra, metteva delle macchie di colore.

Ogni volta che provavo a indovinare, lui aveva

un gesto di impazienza: «Non lo vedi, sono stelle!». Oppure: «Guarda bene! Sono tutti pesci».

Al periodo degli elementi, era seguito quello

degli animali. Non dipingeva passerotti o

scoiattoli ma soltanto animali feroci. Grandi felini, giaguari, tigri, leopardi. Li coglieva sempre

nell'istante che precede l'assalto alla preda.

C'era concentrazione in quegli occhi giallo-verdi, in quei corpi raccolti, una concentrazione

che da lì a poco sarebbe esplosa con una forza

inaudita. Sembrava impossibile che fossero disegni di Un bambino di appena dieci anni.

Una volta gli ho chiesto se potevo incorniciarne uno e appenderlo in salotto, ma lui ha

avuto un moto di terrore. «No! no!» ha ripetuto con un'insolita determinazione, chiudendo i

fogli in una cartella con l'elastico.

Poi, la fase dei felini era stata sostituita da

quella delle croci. Ne faceva di piccole e di

grandi, sparse in disordine oppure ripetute geometricamente. Tutte comunque nere. Di rado,

intorno, c'era qualche elemento del paesaggio.

Un albero senza più foglie, una casa abbandonata in mezzo alla campagna.

Un giorno, mentre era a scuola, ho raccolto

tutti i suoi disegni e li ho portati ad una psicologa. Lei li ha esaminati a lungo. Teneva una

mano sul mento e ogni tanto mi faceva qualche

domanda. A me non importava niente dei felini o del mare, volevo sapere delle croci. Cosa

volevano dire? Era normale che le disegnasse

un ragazzo in buona salute di dodici anni?

La psicologa ha imputato tutto alla sofferenza neonatale. Quegli istanti trascorsi tra la

vita e la morte dovevano aver lasciato un segno

indelebile nella sua personalità. Probabilmente

il bambino non se ne rendeva conto, ripeteva

acriticamente dei moduli religiosi appresi in famiglia. Ho obiettato che nessuno di noi era credente e che, a parte il battesimo, i miei figli non

avevano avuto alcuna forma di educazione religiosa. E' sembrata indecisa. Ha osservato ancora per un po' i disegni, poi ha azzardato: «Forse allora è proprio questo che le vuole dire. Gli

manca qualcosa...».

Qualche mese più tardi, per la prima volta,

Michele ha reagito a una tua sfuriata. L'ha fat-

to a modo suo, naturalmente. Conoscevamo ormai tutti l'escalation della tua rabbia, ne prevedevamo ogni tappa. Così, un attimo prima

della scena finale - i piatti rotti o i calci nelle

gambe - Michele ha piegato il tovagliolo, ha

mormorato: «Scusate», si è alzato e se ne è andato. Tu sei rimasto impietrito per lo stupore.

Poi mi hai guardato e sei corso a cercarlo.

Nella sua stanza non c'era, e in nessuna altra stanza. Era uscito da solo. Dove poteva essere? Per non darti soddisfazione, ho finto una

tranquillità che non provavo, ma appena sei

andato in ufficio, mi sono precipitata a cercarlo. Ho girato per il quartiere, tutto il pomeriggio. Più lo cercavo, più mi assalivano pensieri neri. Pensavo alla sua ingenuità, al suo

dolore, a tutti i rischi a cui poteva andare incontro.

Sono tornata a casa poco prima di cena. La

casa era al buio. Ho acceso la luce in corridoio,

pronta per chiamare gli ospedali, e l'ho visto lì,

rarmicchiato in un angolo. Era gracile, ossuto, si

teneva la testa tra le mani, singhiozzando. Mi sono inginocchiata accanto a lui: «Cosa ti è successo, Michele?» ripetevo. «Cosa ti hanno fatto?»

«Niente» diceva, senza scoprirsi il volto.

«Niente... »

«E allora perché piangi?»

«Piango per Gesù», mi ha risposto guardandomi finalmente negli occhi. «Piango perché

Lui è morto per i nostri peccati e nessuno lo capisce. »

V.

Sulla credenza, qui in cucina, c'è ancora una

foto di Michele. Deve essere stata scattata nell'età del grande cambiamento. E' su un prato

insieme al nonno e, con una falce più grande di

lui in mano, lo sta aiutando a fare il fieno.

In quel periodo, questa casa era diventata il

suo porto sicuro, l'ancora di salvezza. Sapeva

che con i nonni poteva essere com'era, non trovava giudizio o disprezzo, soltanto l'affetto di

persone quiete. Tu non ti eri mai preoccupato di

quelle vacanze dai miei. In fondo era un modo

come un altro per toglierselo di torno. Ma quando ti sei accorto che per lui quei giorni erano

giorni felici, hai cominciato a osteggiarlo. Ogni

volta che programmava di andare a trovarli, inventavi qualcosa o lo mettevi in castigo. La felicità per te era come un veleno, non sopportavi

di vederla brillare negli occhi degli altri.

Di nascosto da te e da me, Michele aveva cominciato a frequentare la parrocchia. C'era un

prete giovane con cui andava molto d'accordo.

Al compimento dei quattordici anni, senza dire

niente in casa, aveva fatto la comunione. Ero

stata la prima a scoprirlo e avevo cercato di tenertelo nascosto il più a lungo possibile. Un

giorno, però, tornando dal lavoro, l'hai visto

entrare all'oratorio.

«Da quando in qua frequenti quei posti?»

gli hai detto, a cena. «Ti ho forse autorizzato a

farlo?»

Allora lui, con l'improvvisa sfrontatezza dell'adolescenza, ti ha guardato dritto negli occhi.

«Ho fatto la comunione. Presto farò anche la

cresima. »

Per un istante ho temuto il peggio. Invece sei

rimasto immobile, perfettamente padrone delle

parole e dei tuoi gesti.

«Ah sì? Non mi stupisci. Che cos'altro dovevo aspettarmi da un decerebrato come te?

Vai pure a strusciarti sui banchi, consumati

pure le ginocchia, tanto non saresti capace di

fare altro. »

Non so se per l'età o per le nuove frequenta-

zioni, ma Michele stava diventando più forte.

Per la prima volta da quando era nato, aveva

degli amici. Ogni tanto andava a fare delle gite

in montagna oppure passava i pomeriggi a raccogliere gli stracci e la carta. Invece di disegnare, adesso cantava. Ormai aveva le chiavi di casa e sentivo la sua voce ancor prima che aprisse la porta. Il timbro stava cambiando. Un momento era baritonale, il momento dopo sembrava che due cocci di vetro stridessero insieme. A me non dava alcun fastidio, temevo che

l'avrebbe dato a te. Ti avrebbero irritato le stecche, le parole, ti avrebbe irritato la luce pura

che si irradiava dal suo sguardo. Così, con ogni

cautela, fingendo di scherzare gli ho detto:

«Forse, finché non migliori il tono, è meglio che

non ti fai sentire da tuo padre! ».

Ormai Michele era alto quasi quanto me.

Stava davanti al frigo aperto. Ha sollevato le

spalle: «Pazienza», mi ha risposto, «nessuno è

mai morto per una stecca di troppo».

Davanti al suo cambiamento, mi accorgevo

di reagire anch'io in modo ambivalente. Da una

parte, ero felice di vederlo aprirsi e, dall'altra,

avevo paura che qualcuno potesse approfittare

della sua fragilità, che potesse plagiarlo. Così,

ogni tanto gli domandavo: «Chi vedi, cosa fate

quando siete tutti insieme?». Lui mi rispondeva sempre in modo scarno. Se insistevo, diceva:

«Seguimi, se ti interessa tanto».

Una volta, mentre tu eri in viaggio all'estero, per farlo contento l'ho accompagnato a

messa. Voleva a tutti i costi che sentissi un'omelia del suo amico. Lungo la strada non faceva altro che ripetermi: «Non si può ascoltarlo e

restare indifferenti. Vedrai, è come trovarsi davanti a un muro. Se vuoi continuare a muoverti, devi per forza cambiar direzione».

Ci siamo messi nei primi banchi. Erano talmente tanti anni che non entravo in una chiesa

che non mi ricordavo neppure una parola. Per

non deludere Michele muovevo le labbra, fingendo di pregare. Il brano del Vangelo riguardava la storia di un tesoro nascosto in mezzo a

un campo. Michele era totalmente assorto, io invece avevo tanti pensieri in mente. Non riuscivo

a farmi una ragione chiara del suo cambiamento. La psicologa mi aveva messa in guardia. In

qualche modo cercherà di compensare la sua

fragilità. Ero vissuta per mesi con lo spettro della droga, dell'alcool, della depressione e invece

era diventato un ragazzo devoto. Ognuno, mi

dicevo, trova come può la sua forma di felicità,

c'è chi diventa tifoso di una squadra e chi va in

chiesa tutti i giorni. Tuttavia non riuscivo a liberarmi da una sottile inquietudine. Cos'era?

Paura di perderlo? Paura che imboccasse una

strada che non ero in grado di comprendere? O

forse un'inconsapevole forma di invidia, invidia

per la sua credulità, perché nel suo universo ormai ogni cosa aveva il suo giusto posto?

Anch'io, negli anni di maggiore difficoltà,

avevo cercato di aggrapparmi agli altari. Passando davanti a una chiesa, spesso entravo e mi

mettevo in ginocchio ai piedi di una statua. Ma

quella statua restava sempre una statua. Le chiedevo: «Chi sei? Parlami. Aiutami» e non ottenevo nessuna risposta. Se mi fossi inginocchiata

davanti a una pila di barattoli di pomodoro al

supermercato, sarebbe stata esattamente la stessa cosa. Mi avevi sempre detto che la religione

non è molto diversa da una carrozzina. Ci si siede sopra soltanto chi non è capace di camminare con le proprie gambe. Con una carrozzina, i

movimenti sono limitati, puoi andare avanti e indietro, a destra e a sinistra, non puoi certo salire

le scale o lanciarti di corsa giù per un prato.

Naturalmente a Michele tenevo nascosti

questi pensieri.

Usciti dalla chiesa, mi ha chiesto: «Come ti

è sembrato?». Ho risposto nel modo più banale: «Molto interessante».

Ogni tanto mi faceva partecipe delle sue riflessioni. Non dovevo essere molto abile nel fingere perché, una volta, mi ha detto: «Non sembri entusiasta».

«Ti ascolto volentieri», ho risposto, «però, come sai, ho le mie idee ed è difficile cambiarle.»

Si è alzato di scatto gridando con rabbia:

«Perché sei così cieca? Gesù non è un'idea, è il

Salvatore. Gesù è l'inizio e la fine di tutto. E la

vita è la chiave per capirlo».

Prima che io potessi replicare, è uscito dalla

stanza.

Era la prima volta che si comportava con

me in quel modo. Il bozzolo affettuoso dentro al

quale avevamo convissuto per quindici anni ormai si era rotto.

Nello stesso periodo mi hanno chiamato a

scuola. Volevano sapere perché frequentava così poco. Io sono caduta dalle nuvole. Lo vedevo

uscire tutte le mattine con lo zaino sulle spalle.

Non avevo mai immaginato che potesse andare

in un luogo diverso.

Sono tornata dalla psicologa. Un'infatuazione mistica, mi ha detto, a quest'età è piuttosto

normale, gli ormoni si mettono in moto e la libido comincia a farla da padrona. In chi si reprime, può prendere una direzione diversa da quella abituale. E poi forse, aveva aggiunto, la frequentazione della chiesa gli permette di vivere

una forma latente di omosessualità senza mai lasciarla esplodere. Mi aveva consigliato di non dare molto peso alla cosa. Se non fosse divenuta

motivo di opposizione, in breve tempo, come si

era gonfiata, così si sarebbe smontata.

Ho seguito i suoi consigli. Per non rendere

tutto più grave, ti ho tenuto all'oscuro, però ho

affrontato Michele.

«Perché non vai a scuola? »

«Perché mi annoio.»

Alla fine di giugno è venuto tutto a galla. E'

stato bocciato.

«Te l'avevo sempre detto che era un cretino», hai commentato, scorrendo la pagella. Anche se ne avessi avuto il coraggio, quella volta

non avevo saputo cosa risponderti. Poi ti sei rivolto a lui. «Per quanto tempo ancora credi che

ti manterrò senza fare niente? »

Michele ha sostenuto il tuo sguardo. «Puoi

smettere anche adesso. »

«Ah sì? E come pensi di vivere. Facendo

marchette? »

«Vivo come i gigli dei campi. »

«Non dire stronzate. »

«Non sono stronzate, è la mia fede.»

«La tua cosa?»

«Credo in Gesù.»

Sei scoppiato a ridere fragorosamente e poi

ti sei bloccato di colpo. Con la voce in falsetto

hai cantilenato: «Credo in Gesù! Credo in Gesù! Soltanto una mezza checca come te ci può

cascare ».

«Non sono omosessuale. »

«Se tu scopassi come tutti gli altri non avresti queste fisime. Chi ha le palle non crede in

uno così sfigato che si è fatto ammazzare. »

«Non bestemmiare! »

«Non bestemmio, tesoro, dico la verità. Gesù era un mitomane e anche piuttosto digiuno

di diplomazia politica. Per questo si è fatto ammazzare. Si è sopravvalutato e ha sbagliato i

calcoli. »

«Gesù è il figlio di Dio.»

«Se fosse stato il figlio di Dio, sarebbe sceso

dalla croce e avrebbe incenerito tutti gli astanti, lo dice pure la Bibbia. Non è sceso perché

non era in grado di scendere.»

«Non è sceso perché non ha voluto scendere. »

«Non è sceso perché era soltanto un poveraccio che si era raccontato una bella storia. La

storia è finita male e lui è rimasto inchiodato

lassù. »

Michele si è alzato, sembrava persino più alto della sua statura.

«Sei tu il poveraccio! » ti ha gridato in faccia.

«Michele, basta! » ho detto, alzando la voce.

Ma era troppo tardi, con uno schiaffo gli hai

fatto volare via gli occhiali, con un altro gli hai

riportato la testa nella giusta posizione.

«Cos'hai detto?» ripetevi, scuotendolo come

un fuscello. «Cos'hai detto? »

E' rimasto zitto, però continuava a fissarti

dritto negli occhi.

«Qui il padrone sono io, abbassa lo sguardo», hai cominciato ad urlare. Più lo scuotevi,

più sosteneva il tuo sguardo. Così l'hai trascinato nella sua stanza. Non so cosa sia successo

là dentro. Ti sentivo gridare sempre più forte.

Lui stava zitto.

Dopo un tempo che mi è apparso interminabile, sei uscito chiudendolo dentro.

«E' in castigo», mi hai detto infilando la chiave in tasca, «e ci rimane finché lo decido io.»

VI.

Quanto è durata la sua prigionia? Dieci

giorni, forse quindici. Avevo il tuo permesso di

aprire la porta tre volte al giorno. «Se fai la furba, me ne accorgo.»

Ti eri illuso in quel modo di piegarlo. Ogni

giorno speravi che ti supplicasse di farlo uscire,

invece lui stava lì nella sua stanza senza alcuna

apparente forma di turbamento. Leggeva, scriveva il suo diario. Quando tu non eri in casa,

cantava. Era il mese di giugno.

I primi di luglio sei partito per seguire la tua

fabbrica in Thailandia, non avevi lasciato nessuna disposizione in merito e così l'ho fatto

uscire. Volevo rimanere vicino a Laura, che stava affrontando le prove scritte dell'esame di

maturità. Quando Michele ha chiesto se poteva

andare dai nonni a fare il fieno, gli ho risposto:

«Vai pure».

Ormai non era più il mio bambino sognante

ma un ragazzo con le idee piuttosto chiare. Dimostrava una determinazione davanti alla quale spesso mi sentivo in imbarazzo.

Da lassù mi ha scritto una lettera. La prima

e l'ultima della sua breve vita. L'ho letta così

tante volte da saperla a memoria.

Cara mamma, oggi sono andato a fare una

passeggiata fino ai ghiaioni dei Comeglians.

L'aria era fresca e non c'era neppure una nuvola in cielo. La nonna non voleva lasciarmi

andare, ma l'ho tranquillizzata. Conosco meglio i sentieri di quassù che le strade del mio

quartiere.

Quando vengo qui, mi rendo conto che tutti i

giorni vissuti in città sono giorni vissuti in apnea.

Tutto è così brutto intorno, così triste. Se apro il

naso, sento la puzza dei tubi di scappamento, se

apro le orecchie, sento il loro rumore. Se apro il

cuore, vedo la miseria e la solitudine degli altri

cuori. Vivere lontano dalla natura, vuol dire vivere lontano dalla bellezza. E vivere lontano dalla bellezza, vuol dire vivere lontani dal pensiero

di Dio. Lo so che a questo punto sbufferai. Pensi che io sia come quelle cuoche che mettono

troppo sale dappertutto.

Invece del sale, metto Dio e tu non lo sopporti. Pensi che Dio dovrebbe stare nelle chiese

e nelle teste dei preti. Me l'hai detto tu stessa,

ricordi? Dio è un 'idea. Un 'idea uguale a tutte le

altre. Posso credere in Dio o in Che Guevara.

Posso anche credere soltanto nelle vittorie della Ferrari.

E' per questo che ti senti così sola, sai? Ogni

tanto ti guardi intorno come se fossi una bambina smarrita. Forse puoi ingannare gli altri e

te stessa, ma non puoi ingannare me. Nei tuoi

occhi c'è timore, hai troppe idee in testa e in

fondo non sai qual è quella giusta.

Ma Dio non è un'idea! E' il luogo da cui veniamo e il luogo in cui un giorno ci riuniremo.

E' la misericordia amorosa che ci guida nel

cammino. Oh mamma, quanto mi piacerebbe

che tu aprissi il tuo cuore, che tu ti abbandonassi come un neonato tra le Sue braccia.

Mi sento sempre tanto impotente davanti a

te. Quando provo a parlarti, afferri le mie parole con una pinza e le esamini a lungo controluce, come cercassi qualcosa di nascosto. C'è la

filigrana? O non c'è? Sono vere? Sono false?

In fondo sei convinta che la mia fede, sotto

la sua apparente serenità, celi qualcos 'altro.

Una paura, un problema non risolto. Qualcosa

che temo o che non voglio guardare in faccia.

Anche se non mi crederai, ti posso assicurare

che non è così. Fin da quando ero molto piccolo, sentivo dentro una grande inquietudine. Era

questa, forse, la ragione per cui non volevo stare con gli altri bambini. Che inquietudine era?

Un'inquietudine di sospensione, di incompletezza. Percepivo ancora l'oscurità densa che da

poco avevo lasciato alle spalle. Intuivo che una

non diversa un giorno mi si sarebbe spalancata davanti. Cosa ci stavo afare lì in mezzo? Era

come Se, dentro, avessi una sfera di cristallo simile a quella che hanno i maghi. Soltanto che

non era limpida ma torbida, opaca. Suonare,

dipingere, stare sempre solo erano tentativi per

renderla più chiara. Stavo lì in ginocchio e la

strofinavo come Aladino strofinava la lampada.

Illuminati, sfera! E un giorno la sfera si è illuminata.

Solo allora mi sono reso conto che non si

trattava di una sfera, chiusa in tutte le sue parti, bensì di un bocciolo. I raggi del sole l'avevano sfiorato e i petali si erano aperti. Asp ettava

soltanto la loro carezza per farsi invadere dalla luce.

Quel giorno ho capito che dentro ognuno di

noi c'è questo bocciolo. Può essere più piccolo o

più grande, più avanti o più indietro nel suo

percorso di fioritura, ma c'è. Basta lasciarfiltrare dentro un po' di luce perché cominci a

schiudersi.

Per questo mi permetto di dirti: perché, invece di pensare alle idee, non pensi alla Luce?

Non devi più difendere, giudicare, scartare o

approvare. Devi soltanto abbandonarti, accettare senza riserve di essere figlia non del caos o

del caso, ma della Luce.

Povera mamma! A questo punto sarai morta di noia. Ti tocca sentire i predicozzi da tuo

figlio. E' colpa mia, perché non riesco a trattenermi dal voler condividere ciò che è bello con

gli altri.

Non sai cosa mi è successo quando sono arrivato alle pendici dei ghiaioni! Ho scoperto una

marmotta che allattava i suoi piccoli. Stava na

scosta sotto una grande roccia. Quando mi ha

visto, invece di fuggire, è rimasta ferma al suo

posto, i cuccioli continuavano a prendere il latte

e lei mi guardava dritta negli occhi. Era la prima volta che vedevo una marmotta così da vicino. Di solito sentivo i fischi e poi intravedevo le

loro piccole sagome precipitarsi nelle tane. Vedi,

anche su questo papà si sbaglia. Lui dice che gli

animali temono di guardare una creatura superiore negli occhi e invece si sbaglia. Forse sarà

vero per i babbuini, ma non per le marmotte.

Dopo aver mangiato accanto a un cespuglio

di pino mugo, mi sono sdraiato a guardare il

cielo. Come sarebbe bello se le nostre vite potessero essere altrettanto limpide, altrettanto

serene!

Ho ripensato spesso allo scontro dell'ultima

volta. Papà non mi sopporta, non mi ha mai

sopportato perché sono diverso da lui e non riesce a capirmi. Anch'io alle volte sono esasperato, perché cerco di dare il minor fastidio possibile, eppure lui mi attacca sempre e comunque.

Sto cominciando a pensare che la soluzione migliore sarebbe quella che io me ne andassi presto da casa. Intanto potrei restare l'intera estate dai nonni. Che cosa ne dici? Credo che in autunno dovrò comunicarvi una decisione importante e devo sentirmi abbastanza forte per farlo. Anche se vi do dei dispiaceri nella vita di

tutti i giorni, prego sempre per voi, per le vostre

gemme, perché, prima o poi, accettino la luce e

si trasformino in fiori. E vi ringrazio con una

gratitudine immensa perché è stata la vostra

generosità a farmi esistere in questo mondo.

Un abbraccio forte quasi quanto quello di

un pitone dal tuo purtroppo ex docile bambino

Michele.

La lettera è arrivata il giorno stesso in cui tu

sei tornato dalla Thailandia.

«Dov'è tuo figlio?» mi hai chiesto. Ti ho detto la verità: «E' andato ad aiutare il nonno a fare il fieno».

Tu hai voluto a tutti i costi che tornasse a casa. «Non si è meritato nessun tipo di vacanza.»

Ho dovuto fare delle lunghe trattative al telefono. Michele non voleva saperne di tornare

indietro. Soltanto quando, con una voce prossima al pianto, gli ho detto: «Pensa almeno a me,

a quanto mi tormenterà tuo padre» con un sospiro, aveva detto: «Va bene, vengo».

Nei mesi, negli anni che sono seguiti non ho

fatto altro che pensare a quella telefonata. L'ho

sentita, risentita, smontata e rimontata. Ho cercato di immaginare tutti i punti cardine, il momento esatto in cui il destino, invece di andare

dritto, aveva invertito la marcia. Alla fine, per

quanto mescolassi le carte, la risposta era sempre la stessa. Alla base di tutto c'era solo e soltanto la mia mancanza di coraggio. Avrei dovu

to credere di più in Michele, farmi avanti, difenderlo, aver meno timore della violenza delle

tue reazioni.

Quando Michele è tornato, era la fine di luglio. La città era già incandescente, le strade

erano quasi deserte e l'asfalto filava sotto i piedi. Laura aveva finito l'esame di maturità, a

scuola non era mai stata molto brillante e anche in quell'occasione non si era smentita, il suo

voto era stato appena un po' superiore alla sufficienza. Tu non ti eri scandalizzato. «Il tesoro

di una donna», amavi ripetere, «non è certo nel

suo cervello. » Con generosità le avevi offerto

una grande festa nella villa. Per i diciotto anni

e per la maturità. Visto che la ditta era già in

ferie, anche tu eri rimasto a festeggiarla. Mentre andavo avanti e indietro con i vassoi delle

tartine, ti ho visto sempre in mezzo a capannelli di sue amiche. Ridevano tutte per le tue battute e tu intanto ti aggrappavi ai loro fianchi.

Michele è arrivato quella sera. C'era la musica a tutto volume e dei fari illuminavano la

casa come fosse una discoteca. E' andato subito

ad abbracciare sua sorella. «Ce l'hai fatta, eh? »

Sono rimasti per un po' così stretti, senza dirsi

niente. Poi lei è tornata a ballare e lui si è lasciato cadere a peso morto su una poltrona.

Si guardava intorno sorridendo. Per un attimo l'ho osservato ed ho provato una sensazione

di lontananza. Dov'era mio figlio in quel momento? Era lì presente o era da un'altra parte?

Non riuscivo a capirlo. A un certo punto un'amica di Laura si è seduta accanto a lui, su un

bracciolo. Hanno cominciato a ridere e a scherzare. Tu sei piombato come un falco, l'hai afferrato per un braccio e l'hai costretto ad alzarsi.

«E' la tua festa?»

«E allora vattene. Non hai niente da festeggiare. »

Ho avuto paura della possibile reazione di

Michele. Invece si è alzato e in silenzio ha lasciato la stanza.

Non so perché, ma vederlo così docile mi ha

stretto il cuore. Avrei voluto seguirlo, parlargli,

ma in quel momento non potevo lasciare la cucina. Ho pensato che l'avrei raggiunto in camera sua appena tu ti fossi addormentato. Le parole della sua lettera mi avevano colpita, mi

sembravano una specie di passerella lanciata

sul baratro, qualcosa che avrebbe permesso di

ricomporre il doloroso percorso delle nostre due

vite. Volevo andare da lui e farlo accoccolare su

di me come quando era bambino e si lasciava

cadere a peso morto tra le mie braccia. Saremmo rimasti così, a parlare tutta la notte anche

se ormai era lui a potermi prendere in braccio.

Ma poi la stanchezza mi ha sopraffatta. Tu

continuavi ad essere sveglio, giravi per la stanza, aprivi e chiudevi i cassetti come cercassi

qualcosa. A me, invece, si chiudevano gli occhi.

"Pazienza", ho pensato, "farò domani quello che volevo fare oggi" e sono andata incontro

al mio ultimo sonno di madre.

VII.

Adesso so che quel giorno è stato per me come il lampo di un fotografo. Non ero ancora in

posa e quel lampo mi ha accecata. La mia esistenza si è fermata in quel preciso istante. Gli

anni che ho vissuto dopo sono rimasti compressi in una frazione di secondo.

Molte volte nei romanzi o nella cronaca sì

sente parlare del presentimento. A un tratto,

una persona intuisce che sta per accadere qualcosa di grave e quella cosa, poi, accade per davvero. Io quella mattina non mi sono accorta di

niente. Anzi, al risveglio, ero insolitamente di

buon umore. Il giorno dopo saremmo partiti

per il solito viaggio in barca con gli amici, in

Sardegna. Dovevo fare le valigie, occuparmi degli ultimi dettagli. Michele sarebbe rimasto a

casa in castigo e avrebbe bagnato le piante.

Questa era la decisione di suo padre. Mi era

sembrato molto contento. Per lui, andare al

mare era sempre stata una tortura. Ero uscita

prima del grande caldo, poco dopo di te. Laura

invece era rimasta a casa. Dormiva.

Non ho visto Michele, quella mattina, ma

non me ne sono preoccupata. Aveva sempre

avuto i suoi movimenti segreti. A pranzo abbiamo mangiato tutti insieme gli avanzi della

sera prima. Il pomeriggio tu sei andato alla

ditta a sistemare alcune cose e io sono uscita

per delle commissioni.

Ci siamo ritrovati soltanto all'ora di cena.

Faceva molto caldo, per far circolare l'aria

avevo aperto tutte le finestre. Zanzare e moscerini giravano in gran numero intorno alla lampada alogena. Ogni tanto la stanza veniva invasa dall'odore acre di un insetto che arrostiva,

fumando, sulla lampada.

Per sederci, come sempre ti avevamo aspettato. Farlo prima di te sarebbe stata una mancanza di rispetto che non avresti tollerato. Invece che alle Otto, come sempre, sei arrivato alle

otto e dieci. Avevi il viso molto tirato.

Ti sei lasciato cadere sulla sedia e hai detto:

«Qualcuno ha rubato i miei soldi».

«Cosa dici?»

«Stavano nel cassetto e non ci sono più. »

Stavo per dire: «Sarà entrato qualche zingarello» quando Michele ha detto: «Sono stato io.

Ma non li ho rubati, li ho solo presi in prestito.

Non eri in casa e non ho potuto avvisarti».

Tu sei rimasto perfettamente immobile. Vedevo solo le vene del tuo collo pulsare con insolita velocità.

Ho spezzato il silenzio dicendo: «Michele,

come ti è venuto in mente?».

«Ho incontrato una persona che ne aveva

bisogno. »

Quando hai parlato tu, la tua voce veniva

dal profondo, sembrava quasi un rantolo. «Chi

sei adesso, eh? Chi sei? Sei Robin Hood? Rubi

ai ricchi per dare ai poveri? »

«Ti ho detto che te li restituirò. »

«Ah sì? E come li guadagni?»

«Lavorerò. »

«Lavorerai... E come credi che li abbia guadagnati, io?»

«Non certo con il sudore della tua fronte. »

Le tue braccia cominciavano a tremare in

maniera visibile.

«E con il sudore di chi allora? »

Michele è rimasto un po' soprappensiero. Mi

sono chiesta se avesse paura. Io avevo paura

per lui. Ha fatto un respiro profondo prima di

dire: «Con il sudore dei bambini che sfrutti in

Oriente».

A quel punto è successo il finimondo.

Laura è fuggita fuori dalla stanza, io goffamente ho cercato di dividervi. «Mollusco! » hai

gridato, colpendolo, «anche tu mangi grazie a

loro e ti compri i tuoi vestiti da finocchio e vai

a scuola. Cosa credi di essere, molto diverso da

me? Credi di essere meglio? Rispondi!»

«Diverso, si. Io credo in qualche cosa. »

Mi sentivo dire con voce debole: «Basta, lo

ucciderai!». Con uno spintone mi hai rimandato indietro.

«Ah sì, e in cosa credi? Nel furto?»

Ormai Michele era per terra in un angolo.

«Credo nell'amore. »

«Allora vai a battere.»

«Nell'amore dello Spirito.»

L'hai sollevato da terra, afferrandolo per la

maglietta. Davanti al suo corpo esile sembravi

davvero un orco.

«Allora», gli hai ringhiato in faccia, «porgi

l'altra guancia! »

Con un sorriso da bambino, ti aveva risposto: «Eccola!».

Per mettere a fuoco una scena, le macchine

da proiezione antiche ci impiegavano un bel po'

di tempo. Prima, tutto era confuso, non c'erano

volti o paesaggi ma soltanto macchie di luce e

di colore in continuo movimento. Così ricordo

le ore prima del lampo di magnesio. Ricordo

Michele sbattuto fuori. Ricordo che mi sono avventata contro di te. «Ucciderai nostro figlio»,

ho gridato, mentre tu mi afferravi il polso. Dentro di me c'era una tigre, qualcuno aveva appiccato il fuoco alla sua coda ed era impazzita.

«Lui ha un'anima grande! »

«Della sua anima me ne sbatto! »

Non so per quanto tempo siamo andati

avanti a quel modo, urlandoci di tutto. Mi sentivo come se fossi uscita fuori dal corpo. Potevano essere minuti o forse ore. A un certo punto, mi hai scaraventato contro la credenza dell'ingresso e sei uscito sbattendo la porta.

Ti ho sentito avviare la macchina in garage

e percorrere il viale di ghiaia. Facevi rombare

l'acceleratore come fanno i ragazzini ubriachi.

Hai rallentato per un istante davanti al cancello automatico. Quando si è aperto, sei partito

sgommando a tutta velocità.

C'è stata un'improvvisa frenata. E poi un

tonfo.

Temevo che avessi preso un cane, per questo

mi sono affacciata. Michele sembrava dormire,

disteso sull'asfalto. Teneva un braccio abbandonato lungo il fianco e l'altro sopra la testa,

come faceva quando aveva troppo caldo nel suo

letto da bambino.

VIII.

L'odio è l'unico sentimento che con il tempo

non svapora. Anzi, con la forza di un uragano,

continua ad accumularsi come un'energia viva

e potente. E' l'odio che, in tutti questi anni, mi

ha tenuta in vita, mi ha resa asciutta e caparbia, assetata di vendetta.

Avrei potuto dire: vivo soltanto per il ricordo di mio figlio. Invece sono sincera e dico: vivo soltanto per vendicarlo.

O meglio, ho vissuto con questa attesa.

Quest'attesa si è vanificata il giorno stesso

in cui ti ho trovato disteso sul pavimento del

bagno. Avevo sperato, per te, in una morte

atroce. Un cancro al cervello, qualche malattia

immunodepressiva che ti riducesse a una larva

con i pannoloni addosso. Invece, per la felice

sorte che in questo mondo protegge sempre i

malvagi, hai preso per te la morte migliore un fulmineo arresto cardiaco - e hai lasciato

l'altra a me.

Speravo che l'essere tornata nella casa dei

miei genitori avrebbe reso la mia pena meno

grave, ma non avevo fatto i conti con il silenzio,

e con la memoria dei morti.

Non avevo fatto i conti con l'ossigeno della

montagna che nutre meglio il cervello e il cuore, rendendo ogni sentire più forte. Come nei

tempi antichi si dava fuoco alla moglie sulla pira del marito, così io ho raccolto per la casa gli

oggetti più cari e li ho messi sul mio letto. La

sera mi infilo là sotto e mi sento meno sola,

quelle cose hanno ancora una vita, respirano,

emanano calore. Anche il pigiama che indosso

non è mio, ma di Michele.

L'altra notte, camminando per la casa, sono

passata davanti a uno specchio e mi sono accorta

di irradiare luce. Ero io o era qualcuno che mi

stava accanto? Era la luce dell'amore o la luce

dell'odio? «Chi sei?» ho chiesto piano. Sul soffitto sopra di me stava camminando un topo o forse un ghiro. «Chi è? » ho ripetuto più forte. Un'asse del pavimento ha scricchiolato, ho avuto l'impressione che fuori stesse per levarsi il vento.

Tragica fatalità, aveva scritto il giorno dopo

il quotidiano cittadino.

Michele è morto sul colpo. Tu sei sceso dalla macchina e ti sei messo le mani nei capelli.

Non l'avevi visto, non potevi immaginare che

mentre tu uscivi a una velocità folle, lui ti stesse correndo incontro.

Io non avevo fatto niente, ero rimasta lì sul

balcone, immobile, come nel palco di un teatro.

Ho visto arrivare l'ambulanza e il medico scuotere la testa.

Accanto al medico era comparso un vecchio

cane bianco. Ho notato che ti guardava con la

bocca spalancata e la lingua fuori, come se volesse dirti qualcosa.

Ti ho visto prendere il medico per il bavero,

l'ho sentito gridare: «Non è più compito nostro». Allora hai tirato un calcio al cane. Invece

di guaire e andarsene, si è seduto a fatica accanto al corpo, sull'asfalto.

Ho visto arrivare la polizia e poi il carro

mortuario. Hanno chiuso Michele prima in una

sacca di plastica e poi in un contenitore di metallo. Quando lo hanno fatto scivolare dentro,

ho sentito un tonfo sordo. Deve essere la testa,

ho pensato, fin da bambino l'ha avuta troppo

grande.

Mi sono ricordata del primo maglione che gli

ha fatto mia madre, azzurro tenue con dei gattini ricamati sul davanti. Il modello era per un

bambino di sei mesi ma la testa non entrava,

avevo dovuto aggiungere due bottoni per riuscire ad infilarglielo. Ho rivisto la sommità della sua testa chiara, la fontanella ancora aperta.

Io tentavo di tirare giù la maglia e lui protestava. Era maggio ed eravamo a casa dei miei. Da

poco aveva fatto il bagnetto, dal suo corpo

emanava tepore, odore di borotalco.

Quando i necrofori hanno sbattuto i portelloni del furgone, l'incantesimo si è rotto. Ho urlato: «Noooo! » come fosse l'unica parola al

mondo. Poi ho perso conoscenza.

Per tutta la durata del funerale mi hai tenu

ta stretta sotto il tuo braccio. Io piangevo, tu eri

impietrito. Ricordo una gran folla di volti e dei

ragazzi che suonavano la chitarra. Su di noi

picchiava il sole di agosto.

Il suo amico prete sudava sotto i paramenti.

«Per una ragione nascosta alla nostra piccola mente di uomini, spesso il Cielo chiama a sé

i suoi figli più luminosi, interrompendo bruscamente il loro cammino terreno. »

Due lacrime gli rigavano il volto e non si curava di nasconderlo.

«E' facile ribellarsi, facile indignarsi davanti

a un arbitrio così grande. Michele portava luce

nelle nostre vite e tutti noi, egoisticamente,

avremmo voluto che quella luce durasse più a

lungo. »

Davanti c'erano i nonni. Poco prima che calassero il feretro si sono inginocchiati accanto a

lui. La nonna ha posato un bacio leggero sul coperchio. Ho visto le sue labbra muoversi dicendo piano: «Ciao pulcino». Il nonno aveva in

mano il piccolo flauto, l'ha lasciato là sopra,

con una timida carezza.

Poi c'è stato solo buio. Buio, buio, buio.

Buio con bagliori. Buio con fulmini, con tuoni.

Buio con grandine. Buio con terremoti e tifoni.

A lampi, ho visto delle facce, ho sentito delle

voci. La tua faccia che diceva: «Vado in barca

lo stesso». La faccia di un medico: «Con queste,

risolveremo il problema». La faccia di un prete.

«Vada via! » ho urlato. La faccia di mia madre:

«Michele è ancora con noi». «Stupida bugiarda. » Gridavo sempre. Ogni tanto c'erano delle

termiti sul mio corpo, raggiungevano gli interstizi più intimi e da lì mi divoravano a minuscoli morsi. Altre volte erano ragni, tantissimi

ragni, pelosi, neri, con le zampe corte e grosse.

Correvano dappertutto cercando il luogo migliore in cui inoculare il loro veleno. Altre volte

ancora serpenti sottili, si attorcigliavano intorno alle mie caviglie, saettando le loro lingue letali. Quando ho visto nuovamente il mio volto

nello specchio era quello di una vecchia. Ci sono rughe da nonna e rughe da strega. Le mie

erano tutte rughe da strega.

Dopo la tragedia, Laura se n'è andata a studiare all'estero. Mi telefonava una volta al mese per non dire niente.

Tu ti sei buttato tutto nel lavoro.

«E' stata una disgrazia», continuavi a ripetere. «L'hai ucciso», rispondevo. E questo era tutto il nostro rapporto.

Ti restavo accanto per poterti odiare fino all'ultimo giorno. Ma non era la sola ragione. Ti restavo accanto anche perché non avrei potuto sopravvivere neppure un'ora sola con il mio dolore.

Quanto sono stata ingenua a pensare di batterti sul tuo stesso terreno! Ho parlato di termiti, di ragni, di aspidi mortali, ma non di scorpioni. Lo scorpione eri tu.

Ricordo ancora l'indignazione di Laura, una

sera, davanti alla TV. Stavano trasmettendo un

filmato sulle bambine prostitute del terzo mondo. La tua risposta era stata pacata, da uomo

adulto del mondo civile.

«Non devi farti prendere da sentimentalismi», le avevi detto. «La loro vita non è come la

nostra. Non studiano, non leggono, non hanno

da mangiare. A cinque anni se le scopa lo zio, a

sei, se ne vanno per la strada. Le incontri, le

guardi negli occhi e capisci al volo che non sanno fare altro. E' quello il loro destino. E, in più,

mantengono i genitori e i fratellini. »

«Vuoi dire che è una cosa giusta? »

«No, solo che è da ipocriti scandalizzarsi più

di tanto.»

Perché non ti avevo dato uno schiaffo? Perché non te l'avevo dato un numero infinito di

altre volte? Non lo so perché. O forse lo so trop-

po bene. Perché avevo paura, perché ero succube, perché forse, in fondo, pensavo che avessi

ragione. Perché milioni di persone avevano seguito ciecamente Stalin e Hitler e tutti gli altri

dittatori senza mai essere sfiorati da un dubbio

sulla giustizia delle loro azioni. Una volta me

l'hai anche detto: «Ti ho sposata per riprodurmi, perché eri bella e perché eri sana. Ti ho sposata perché eri povera e non potevi fuggire da

nessun'altra parte». Non hai detto "perché eri

stupida" ma sicuramente lo hai pensato.

Alla fine del miei giorni, minata dal virus

devastante che mi ha lasciato come una baita

rosa dai tarli, ho capito che avrei potuto prendere delle decisioni diverse in ogni giorno della

mia vita. In ogni ora. In ogni minuto. In ogni

secondo.

Non ci voleva molto. Sarebbe bastata un po'

più di fiducia. Sarebbe bastato tenere lo sguardo appena un po' più alto.

IX.

Il vento soffia da tre giorni e ha portato le

nuvole. L'estate sta volgendo al termine, le cime

dei monti sono già imbiancate di neve. Con l'avvicinarsi dell'autunno, cambia l'odore della terra. Il sole non asciuga più l'umidità della notte,

i campi restano bagnati. Cominciano a ingiallire le foglie dei meli, diventano rosse quelle degli

aceri, gli aghi dei larici si infiammano. Le legnaie vengono riempite per l'inverno. A giorni le

mucche scenderanno dall'alpeggio.

La settimana scorsa finalmente hanno portato quassù Michele. Non volevo lasciarlo giù in

città, accanto a te. Un piccolo tumulo accanto a

quello dei nonni, vicino a quello che presto sarà

il mio. Ho piantato sopra delle calendule dell'orto, gialle e arancio, come tanti piccoli soli. Speriamo che resistano, che il gelo tardi a venire.

Alcune mamme, ho sentito dire, riescono a

sentire la voce dei loro figli sul nastro del registratore. Lo lasciano acceso durante la notte e il

mattino trovano incise delle frasi dolci. Altre

giurano di averli visti, mescolati tra la folla o

comparsi all'improvviso, luminosi, accanto a

loro. A me non è mai successo. Michele è svanito nel nulla, non mi ha parlato, non l'ho più visto. Forse sono stata troppo dubbiosa. Ho avuto, ancora una volta, troppa paura.

La casa è pronta per l'inverno, ho sostituito

le finestre, pulito il caminetto e le stufe. Al posto del vecchio scaldabagno a legna, ora ce n'è

uno elettrico.

La casa è pronta ma il mio cuore no. C'è più

calma dentro, ma non pace, a tratti l'odio trabocca fuori come pasta troppo lievitata.

Non ti perdono e non mi perdonerò mai.

La terra non mi è lieve sotto i piedi e ancora meno lieve mi sarà sopra. Diventerò un'anima errante, un fantasma che gira in catene, la

prima abitante dell'inferno. O l'ultima. O non

diventerò niente.

Tutto sbatte, questa notte. E' terribile. Non

mi ricordavo di quanto la tramontana potesse

somigliare a un uragano.

Da vent'anni non dormo più una notte intera. Qualche volta sto quieta a letto, qualche altra mi alzo e vado in giro per la casa, bevo del

latte, ascolto la radio di paesi lontani. Così ho

fatto questa notte, mi sono alzata, ho infilato

un grosso maglione di lana e sono andata in cucina. Non ho fatto altro che pensare all'inferno,

a quella cretinata che ho sentito un giorno da

quel teologo. Così ho preso carta e penna e mi

sono messa a scrivere una lettera:

Caro amico teologo di cui non ricordo il nome...

All'improvviso è mancata la luce, così ho

dovuto alzarmi e accendere una candela. Poi ho

continuato:

Tempo fa ho visto un suo programma e ne sono rimasta indignata. Su un punto potrei venirle incontro. L'inferno è attualmente vuoto perché

tutti i diavoli, di ogni gerarchia, ormai scorrazzano sulla terra. Non sono ignorante né medievale. Lo dico soltanto perché ho diviso la mia vita con uno di loro. Ogni giorno guardo come si è

ridotto l'uomo e capisco che non può aver fatto

tutto da solo. Il diavolo non è puzzolente né primitivo. La sua dote primaria è l'abilità. Conosce

come pochi l'animo umano e può insinuarsi in

qualsiasi persona. Non dice lordure, porcherie,

usa argomenti ragionevoli, raffinati. «Non credi

di meritarti di più dalla vita, molto di più?» ha

detto a me, tanti anni fa e io ho pensato che aveva ragione. Non dovevo più accontentarmi di

niente. Non mostra i genitali e non scorreggia, ci

accompagna invece nel labirinto della vita con

l'aggraziata leggerezza di un ballerino di valzer.

L'inferno è vuoto soltanto perché il padrone

di casa è andato a riempire le sue reti nel mondo dei viventi. Presto tornerà laggiù letteralmente piegato dal peso delle sue prede. Tutti

urleranno, strepiteranno, cercheranno di ribellarsi. «Era questa la fine del gioco? Perché nessuno ce l'ha detto?» Ma sarà troppo tardi.

Da qualche parte ho letto che nei tempi antichi, gli uomini vicini a Dio erano raffigurati

con grandi orecchie perché ascoltavano direttamente la Sua parola. Adesso invece viviamo in

un mondo di talpe. Siamo ciechi, con padiglioni

auricolari praticamente invisibili. Io ho provato

tante volte a tendere le orecchie verso l'alto ma,

purtroppo, non ho mai sentito niente.

Ho sempre sentito salire, invece, un forte rumore da sotto.

Mi piacerebbe avere la fede, appianare ogni

cosa prima di andarmene, ma non ci riesco. Ho

visto il male spandersi a piene mani. Ha invaso la

mia vita e quelle di chi mi stava accanto come

una macchia d'inchiostro. L'ingiustizia, la diseguaglianza, la violenza. Queste e non altre sono

le leggi che dominano il mondo. Così dico: ci lasci

almeno la gioia dell'inferno. Un inferno affollato

e rumoroso come una spiaggia d'agosto. Non vedo l'ora di sprofondarci dentro e soffrire per sempre. Perché, nella mia vita, ho provocato solo dolore ed è giusto che, nel dolore, io viva per sempre.

Un 'ultima cosa. Lei ha detto anche che bisogna amare il diavolo perché il diavolo è solo

con la sua disperazione.

Allora le dico questo, che delle lacrime del

diavolo possiamo fregarcene come ce ne freghiamo di quelle del coccodrillo.

Distinti saluti.

E avevo scarabocchiato la mia firma illeggibile sotto.

Erano quasi le cinque e il cielo era ancora

buio. L'elettricità non era tornata. Con la candela in mano sono andata a cercare una busta.

Nel cassetto sotto il telefono ce ne erano diverse. Ne ho presa una bianca che nascondeva un

vecchio foglio piegato, ormai ingiallito. La

scrittura era quella di Michele.

Notte nella malga. Le stelle vegliano sulle

rocce e sui boschi. Ma il loro sguardo è freddo.

Senso di solitudine. Dove sto andando? L'oscurità dilata le domande, le rende inavvicinabili.

Riprendo a respirare soltanto quando compare

il tenue bagliore dell'aurora.

Signore, quant'è grande il Tuo mistero! Per

darci la luce, hai creato le tenebre. Per darci la

vita, hai creato la morte.

Mentre leggevo quelle parole, una raffica di

vento ha quasi divelto una finestra. E' entrata

con violenza, facendo volare i fogli, la cenere, ribaltando il cestino da lavoro di mia madre. Lì

stavano raccolti tutti gli avanzi dei maglioni che

ci aveva regalato nel corso della vita. C'erano le

maglie di Laura, di Michele, le mie, quelle del

nonno. Distinguevo ancora perfettamente i colori di ognuno. Spinti da quella mano invisibile,

hanno cominciato a correre dappertutto. Mi sono messa in ginocchio per cercare di raccoglierli.

Il primo che ho afferrato era azzurro.

In quell'istante la candela si è spenta e una

sciabolata di luce bianca ha attraversato la stanza.

Il bosco in fiamme.

I.

Conosco la sua età, ma non il suo volto. E'

questo che non mi fa dormire la notte. E' venuta al mondo il tre di marzo, alle tre di notte. Alle tre di notte, il tre di marzo del 1983.

Un amico esperto di esoterismo si era complimentato. Non capita a tutti, mi aveva detto,

di nascere con cifre così perfette. Io non ci avevo fatto molto caso. Giulia era leggermente

sotto peso e piuttosto bruttina, come tutti i

neonati.

I primi dieci giorni li ha passati in incubatrice. Un po' di ittero, niente di più, ma è bastato per scatenare l'ansia della madre.

«Mi nascondono qualcosa», continuava a

dire con sguardo spiritato. «C'è qualcosa che

non devo sapere. »

Allora io mi sedevo sul letto e passavo ore a

rassicurarla, anche se era del tutto inutile.

Quando finalmente le depositavano la bambina in braccio, la guardava come si guarda

una merce che sospetti ti sia stata venduta avariata.

«Non succhia abbastanza», diceva. «Respira o non respira? Non lo capisco.»

Alla fine, è riuscita a far venire dei dubbi

anche a me. Un pomeriggio, ho bloccato il primario in corridoio.

«Cos'ha mia figlia che non va?»

Eravamo davanti al vetro della nursery.

Giulia dormiva sotto la lampada con il sedere verso l'alto. Probabilmente stava sognando perché faceva delle smorfie.

«Perché dovrebbe avere qualcosa? La guardi», ha detto sorridendo, «è un piccolo fiore che

non vede l'ora di crescere.»

Il giorno dopo, eravamo tornati a casa. Apparentemente, Anna era tranquilla. A Giulia, invece, il cambiamento d'aria non aveva giovato.

Confondeva il giorno con la notte. Urlava come

se avesse fame ma, appena Anna le offriva il seno, girava il capo dall'altra parte. Soltanto dopo

molte insistenze, si riusciva a farle prendere

qualche poppata. Erano lotte estenuanti. Quando Giulia era di nuovo in culla, Anna scoppiava

in singhiozzi.

Non mi vuole», gridava, «non ne vuole sapere di me.»

D'accordo con il pediatra, dopo una settimana siamo passati all'allattamento artificiale.

Il miglioramento è stato subito evidente per

Giulia, ma non per Anna. Il parto aveva scatenato in lei una depressione da tempo latente.

Non si lavava più, non faceva la spesa, non cucinava. Quando tornavo la sera dal lavoro, tro

vavo la bambina urlante per la fame e sporca

fino al collo.

In pochissimo tempo, ho dovuto imparare a

fare la mamma. Cambiare i pannolini, metterle

il borotalco, assaggiare con le labbra la giusta

temperatura del latte.

Quando andavo al liceo, le ragazze dicevano

sempre: tu sei il migliore di tutti. I compagni insinuavano che fossi omosessuale ma non era vero. Preferivo leggere piuttosto che giocare a calcio. Se uscivo con un'amica, mi piaceva parlare con lei piuttosto che metterle subito le mani

addosso.

Per questo forse, quando mi sono trovato a

fare da mamma, non mi sono turbato più di

tanto. Invece di andare al bar a bere con gli

amici, ho accettato le mie responsabilità. I figli

si fanno in due, mi ripetevo spesso. Se uno sta

male, è giusto che il peso se lo carichi l'altro. Un

giorno guarirà, mi dicevo, e il mio sacrificio

sarà servito a costruire una famiglia felice.

Amavo Anna più di ogni altra cosa al mondo. Amavo la sua fragilità, la sua imprevedibilità. Amavo soprattutto il fatto che non potesse

vivere senza il mio amore.

L'avevo conosciuta a scuola, era arrivata nella mia classe al penultimo anno, la sua famiglia

si era appena trasferita da un'altra città. Stava al

terzo banco ed era molto silenziosa. Mentre le altre ragazze facevano di tutto per mettersi in mo

stra, lei faceva di tutto per nascondersi. Silenziosa, vestita con sobrietà, se veniva interrogata arrossiva prima di rispondere. Naturalmente, era

diventata lo zimbello della classe. Le ragazze dicevano: o è scema o nasconde qualcosa. I ragazzi alzavano le spalle: lasciamola perdere, è proprio una suora, e poi è piatta come una sogliola.

Un pomeriggio l'ho incontrata per caso al

parco. Era maggio, nel laghetto i cigni nuotavano tendendo il collo in avanti, i passeri si rotolavano nella polvere. Avevamo parlato della

scuola, dei professori simpatici e di quelli antipatici, dell'esame di maturità, delle vacanze, di

ciò che avremmo fatto dopo.

«Non hai qualche passione?» le ho chiesto,

a un certo punto.

«Passioni?», ha ripetuto, abbassando lo

sguardo. «Sì, mi piace leggere. Leggere poesie,

romanzi... cioè, vorrei iscrivermi a lettere. Ma

sono indecisa perché mi piacerebbe anche studiare psicologia. Ci sono tante cose nella testa,

sarebbe bello capirci qualcosa, non trovi? »

«Oh, certo», ho risposto, poi le ho parlato

della mia passione per gli alberi. Avrei studiato

biologia o agraria.

E' sembrata meravigliata. Probabilmente si

è chiesta come si fa ad appassionarsi a cose così poco interessanti come gli alberi?

«Anche gli alberi», le ho detto, «possono essere simpatici o antipatici, ci hai mai pensato?

Ad esempio, guarda quello, un cipresso dell'Arizona, com'è? »

Anna lo ha fissato per un po', poi ha storto

la bocca. «Antipatico. »

«E quello?» ho proseguito, indicando un salice piangente.

«Simpatico. Molto simpatico. »

In quel momento, ho pensato che di una ragazza così avrei potuto anche innamorarmi.

Poi c'è stato il panico prolungato dell'esame di maturità, il sollievo di averlo superato,

le brevi vacanze prima di iniziare le pratiche

di iscrizione all'università. Così l'ho persa di

vista.

L'ho incontrata di nuovo pochi mesi prima

della laurea. Ero nell'atrio della stazione quando si è avvicinata e mi ha chiesto: «Ti ricordi di

me? ».

Siamo andati in un bar a bere qualcosa.

«E quello com'è?» mi ha chiesto, indicando

delle fronde in alto.

«E' un bagolaro», le ho risposto, «antipatico,

molto antipatico. »

L'anno dopo ci siamo sposati.

In questo lungo periodo, ho scritto a Giulia

molte lettere. Ho iniziato quattro anni fa, con

gli auguri di Natale e poi quelli per il compleanno. La prima volta sono rimasto con la

penna a lungo sospesa in aria. Come dovevo firmare? Il tuo papà? Tuo padre? Saverio? O forse Saverio, il tuo papà? Non riuscivo a decidermi. Ho aperto e chiuso quella busta talmente

tante volte che, quando finalmente l'ho spedita,

era già vecchia e consunta.

L'anno dopo, ho preso coraggio e le ho scritto la prima lettera. Ho scelto della carta che

pensavo fosse adatta a lei, alla sua età. C'erano

dei gattini che correvano dietro a una farfalla.

Per scriverla ho impiegato più di un mese, era

come scolpire le lettere nella pietra. Poi, l'ho lasciata li sul tavolo per un altro mese. Dopo

averla spedita, sono rimasto in attesa della risposta. I giorni si distinguevano solo per l'ansia.

Arriverà o non arriverà?

Alla fine una lettera è arrivata. Ma era la

mia, rimandata indietro. Il timbro viola diceva

"destinatario sconosciuto". Gli auguri li avevo

spediti allo stesso indirizzo. Cos'era successo?

Forse era capitato qualcosa ai nonni. Stavano

male oppure erano morti. O era lei che stava

male. Non riuscivo a darmi pace. Vivevano da

generazioni nella stessa casa, possibile che

avessero cambiato improvvisamente indirizzo?

O forse erano stati proprio i nonni a non volere

che quei biglietti finissero nelle sue mani. Li ributtavano nella cassetta rossa, come si ributta

in acqua un pesce troppo piccolo.

Ritorna indietro. Ritorna all'origine.

La maggior parte del tempo la passo a guardare la televisione. Vedo soprattutto programmi

per adolescenti e mi domando: le piacerà più

questo o quello? Sarà fan di qualche cantante

oppure preferirà stare in giardino a curare le

piante? Sarà la gioia dei nonni o la loro spina

nel cuore?

Spesso la notte mi succede di sognarla. Mi

trovo per la strada di una grande città, New

York o Los Angeles. Mi sembra di scorgerla in

mezzo alla folla. Cammina davanti a me, la

chiamo ma non mi sente. Allora la rincorro e

quando finalmente le tocco la spalla, lei si volta e non la riconosco. «Mi scusi», balbetto. Un

sogno banale. Il sogno banale di una persona

banale.

All'epoca del fatto sono andati a cercare

qualche mio vecchio compagno di scuola o di

università. Volevano sapere che tipo fossi. Alcuni avevano fatto persino fatica a ricordarsi di me.

«Saverio? » ripetevano, come cercando una

cosa di poco conto in fondo a un baule, e poi:

«Ah sì, un tipo normale, normalissimo. Chi l'avrebbe mai detto?».

Provo a pensare ad altro ma non ci riesco. Il

viso che ricordo è quello dei suoi quattro anni.

Stava perdendo la rotondità della primissima

infanzia, Anna le faceva due treccine prima di

andare all'asilo. Usciva di casa canticchiando

con in mano il suo cestino di plastica rosa. E'

una parte di me che ancora va in giro per il

mondo, che guarda, si stupisce. Conosce la verità? Non la conosce? Non lo so e non mi viene

concesso di saperlo. Per molti anni anch'io ho

pensato di sparire dalla sua vita. Per molti anni ho pensato di uccidermi.

Penso a Giulia e non a Anna. Perché? Perché Anna vive di nuovo con me.

A un certo punto è tornata e, invece di respingerla, l'ho accolta. Non è stato facile. Non

subito. Prima non la volevo vedere, poi ho avuto paura. Mi parlava e non potevo credere a

quello che mi diceva. Mi sentivo incerto, confuso. Così ho chiesto un colloquio con lo psicologo. Dopo averlo incontrato, avevo le idee ancora meno chiare. Sono passato allo psichiatra.

Mi ha dato dei farmaci. Mi si gonfiava la lingua

e lei era sempre qui.

«Ascoltami, Saverio», diceva parlando piano, con delicatezza. Allora io urlavo, correvo,

sbattendo contro le quattro pareti. Era come se

qualcuno mi avesse appiccato del fuoco addosso, come se dentro di me ci fosse un registratore che andava avanti da solo.

«Anche tu vuoi uccidermi! » le ho gridato

una notte, svegliandomi nel buio.

Soffiava un forte maestrale. L'alba non doveva essere lontana perché sentivo i pescherecci tornare al porto. La sua voce era come un

fruscio.

«No», mi ha risposto, «voglio che cominci a

vivere.

II.

I gabbiani rispettano orari regolari. All'alba,

in piccoli gruppi, sorvolano il mare diretti verso terra. Poco prima del crepuscolo, compiono

il percorso inverso. Trascorrono le ore di luce in

qualche discarica, a nutrirsi delle cose più immonde.

Quando vivevamo in città, li vedevo spesso

litigare per qualche boccone di spazzatura. Più

che gabbiani, sembravano galline in un pollaio.

Dov'erano finite quelle nobili creature che da

sempre avevano ispirato i poeti? Erano stupidi,

sgraziati, avidi. Impossibile immaginare che

fossero gli stessi animali maestosi e solenni che

verso sera sorvolano la terra per raggiungere il

mare aperto.

Qual è il vero gabbiano? La creatura candida e solitaria o il volatile prepotente che si rotola nella lordura?

E se è così per loro, che non hanno coscienza, come può essere per noi?

Come può essere che noi siamo così arroganti da dire: ecco, questo sono io. Chi sono?

Non lo so, al massimo posso sapere come appaio. Come appaio a me stesso, come appaio

agli altri.

A molti basta questo. Siamo comparse, bisogna accontentarsi.

A un certo punto, però, anche una comparsa può ribellarsi. Ci si può stufare di ripetere

tutte le sere la stessa parte, lo stesso inchino, la

stessa battuta. Così, all'improvviso, qualcuno o

qualcosa ci suggerisce di strapparci le vesti, di

rotolarci negli escrementi, di dire cose sconvenienti.

Chi ha parlato? Ho preso ordini da qualcuno, oppure ho agito di mia volontà?

Non ho mai creduto all'anima, ma al DNA sì.

E' invisibile a occhio nudo eppure è lungo decine di chilometri e dura secoli, anzi millenni, milioni di anni. Basterebbe questo per rendere ridicola qualsiasi affermazione di conoscenza.

Senza saperlo, si può avere un quadrisavolo

tagliatore di gole. Uno che non lo faceva per

mestiere ma per piacere, appena qualcuno non

gli andava a genio, gli saltava addosso e gli

apriva un grande sorriso sotto il mento. Così il

lontano nipote si rade tutti i giorni e quando vede un pedone sulle strisce, rallenta, si ferma e lo

fa passare con un gesto di cortesia. E quando a

scuola c'è una riunione dei genitori, modera i

pareri più taglienti, con la sua ragionevolezza

aiuta tutti a scegliere la soluzione migliore.

Poi, però, all'improvviso quel gene che dormiva da secoli si sveglia e, invece di sedare una

lite, il nipote taglia la gola ai contendenti. E allora, ecco, urla di meraviglia, di orrore. Come è

stato possibile? Chi l'avrebbe mai detto! Una

persona tanto a modo, tanto cara.

La notte passa ed è lunghissima. Una notte

interminabile come quella dei malati. Uno chiama l'alba, l'aspetta, e l'alba non arriva. E allora

si chiede, da dove viene quel gene? Era proprio

necessario per l'evoluzione? L'omicidio all'interno della stessa specie nel mondo animale è rarissimo, tra gli uomini è quasi la norma. Si mangia,

si beve, ci si riproduce e si uccide il proprio prossimo. E' questa la partitura di ogni vita. E allora,

chiedo, da dove viene? Abele era buono e Caino

no. Ma, in principio, anche Caino sembrava buono. Arava la terra e nutriva gli animali, esattamente come il fratello. A un tratto, è successo

qualcosa e non lo è più stato. Perché?

Se non si può definire l'odio, come si può definire l'amore? Qualsiasi parola rischia di essere

patetica. Posso dire solo questo. Non c'è stato un

giorno, un'ora, un minuto in cui il mio pensiero

non sia stato concentrato su Anna. Mi svegliavo e

pensavo a lei. Andavo in macchina e pensavo a

lei. Lavoravo e pensavo a lei. Pensavo e mi chiedevo: come posso aiutarla, in che modo posso renderle la vita meno pesante? Sapevo che senza di

me non ce l'avrebbe fatta. La sua vita illuminava

la mia, dandole un senso.

Quando Giulia ha compiuto un anno, la situazione ha cominciato a migliorare. Giulia era

precoce, aveva un carattere allegro e questo, in

qualche modo, aveva rassicurato sua madre.

Andavano per strada, con la carrozzina, e tutti

la fermavano, le dicevano: com'è simpatica,

com'è carina! Anna si sentiva orgogliosa di

averla messa al mondo. L'ansia la divorava ancora, ma riusciva a tenerla sotto controllo con i

farmaci.

E poi io, con gli anni, avevo imparato a conoscerla come un cane da gara conosce il campo ad ostacoli. Lì ci sono tre paletti, a destra

uno scivolo, più in là, un tunnel a soffietto e poi

il copertone nel quale saltare. Cinque minuti di

ritardo nel tornare a casa voleva dire trovarla

sul divano in lacrime, convinta che io fossi già

riverso sull'asfalto. Dimenticare una commissione significava per lei il cupo silenzio dell'abbandono.

Quando stavo fuori per lavoro tutto il giorno, mi facevo vivo da ogni bar tabacchi, da ogni

posto telefonico, da ogni cabina abbandonata a

un incrocio. Quando mi capitava di dover portare con me un assistente, inventavo delle scuse

per telefonare ogni momento. Mia madre sta

male, dicevo, o qualcosa del genere.

Ero geloso della nostra reciproca dipendenza.

Sapevo che, vista da fuori, avrebbe potuto scatenare commenti non certo benevoli. Poche persone, mi dicevo, hanno la fortuna di vivere un

amore così intenso. Per questo è meglio tenerlo

nascosto. Sentivo le storie dei miei colleghi, liti

continue, rivendicazioni, mogli inquiete che

aspettavano soltanto che la porta si chiudesse

dietro al marito per scappare fuori di casa.

Una volta, avevo avuto anche un mezzo litigio con uno di loro. «Ma non ti annoi con tua

moglie? » mi aveva chiesto beffardo.

«Parli così perché non sai cos'è l'amore», gli

avevo risposto, seccato.

Sapevo che i conoscenti ci chiamavano "i

pappagalli inseparabili", ma non me la prendevo più di tanto. Parlano con la bocca amara,

mi dicevo, perché vorrebbero essere al nostro

posto.

A quel tempo, lavoravo in una società per la

protezione ambientale, mi occupavo delle malattie degli alberi, avevo modo di applicare le

mie conoscenze ed ero contento.

A volte, di notte, chiudo gli occhi e non dormo. Vedo il fuoco. E' il fuoco ma non è il fuoco.

E' una foresta di larici. Sembra autunno ma intorno l'erba dei pascoli è alta e dunque non è

autunno. Ancora una volta, ciò che sembra non

è ciò che è realmente. Qualcuno cammina là

sotto e quel qualcuno sono io. Il bosco è il bosco che mi è stato affidato. Quando tutto comincia, è ancora verde. C'è solo il sospetto che

sia stato attaccato da lepidotteri devastatori.

Raccolgo un po' di foglie, un po' di corteccia,

spargo qua e là delle trappole ai feromoni, per

vedere se l'insetto è già arrivato.

Intanto Giulia, a casa, è caduta dal seggiolone e si è fatta un grande bernoccolo. Non ci sono telefoni nel bosco, non posso saperlo. Lo vengo a sapere soltanto sulla via del ritorno. Quando entro a casa, Giulia è sul divano e Anna la

stringe a sé. Piange.

«E' colpa mia, non vede più da un occhio. »

Paletti, tunnel. Inutile rassicurarla, dirle che

tutti, prima o poi, siamo caduti dal seggiolone.

Il giorno dopo, di buon mattino, le porto in

ospedale. Da lì, telefono ai colleghi dicendo: arrivo un po' più tardi. Invece il medico esce dal

Pronto Soccorso. Accanto a lui, Anna sembra

uno spettro. Lo sento dire: «E' meglio ricoverarla subito».

Lo stesso giorno, i lepidotteri arrivano nel

bosco,

Un bosco di solito muore più lentamente di

Un uomo. Per andarsene, ci mette mesi o anche

anni. Ma quando è andato, è andato per sempre. E, con lui, sono andate anche tutte le altre

forme di vita. I licheni e i muschi, i coleotteri e

le formiche rosse, i curculionidi e i crocieri, i lucherini e i codibugnoli. Chi può, fugge via. Chi

non ce la fa, si spegne con lui.

La morte mia e quella del bosco sono iniziate con curiosa sincronia.

Giulia aveva qualcosa nella testa ma non si

sapeva ancora bene cosa. Bisognava aprirla per

saperlo. Camminavo sui primi aghi caduti e

non ero preoccupato per Giulia ma per Anna.

Se Giulia muore, mi dicevo, vuol dire che era il

suo destino, ma come farà Anna a sopravviverle? Camminavo e improvvisamente sentivo le

spalle fragili. Quanti pesi si stavano accumulando là sopra?

Passando i giorni in ospedale, Anna diventava sempre più trasparente, la voce si era ridotta a un filo. Ogni volta che era possibile, la

stringevo forte tra le mie braccia, le parlavo

piano all'orecchio.

A Giulia avevano rasato i capelli. Così i suoi

occhi erano enormi e ormai privi di allegria.

L'operazione è andata bene, così come il decorso. In quei giorni avrei dovuto sentirmi abbattuto, disperato, e invece mi sentivo un leone.

Avevo un'energia dentro di me straordinaria. Io

ero il cardine, non potevo cedere.

Dovevamo aspettare la biopsia.

Qualche giorno prima del responso, Anna e

Giulia sono tornate a casa.

Nel bosco, i primi due alberi erano diventati

gialli. Bastava sfiorare un ramo perché gli aghi

cadessero come una pioggia. Gli aghi che cadono

fuori stagione fanno più impressione delle foglie.

Cadono e sembrano denti. La foglia plana, l'ago

precipita. Il ramo nero è come una gengiva nuda.

Intorno tutto è vita e li è morte. O preludio della

morte.

In ospedale, Anna aveva fatto amicizia con

un'infermiera. Le avevo viste varie volte parlare fitto insieme.

Una sera, al ritorno dal bosco, ho trovato la

casa vuota. Mancava un giorno al responso, per

questo mi sono preoccupato.

Ho girato in macchina tutta la notte. Sono

passato e ripassato più volte vicino al fiume, sui

ponti. Anna avrebbe potuto fare una pazzia.

Quello che per noi è una pazzia, a lei sarebbe

sembrata una cosa naturale.

Alle prime luci dell'alba sono andato dai carabinieri a denunciarne la scomparsa.

Poco prima di mezzogiorno, ho sentito la

sua chiave nella toppa. Aveva Giulia in braccio

e sorrideva. Mi ha baciato come tornasse da

una gita e poi è andata verso il telefono.

«Cosa fai?» le ho chiesto.

E lei: «Chiamo il primario».

«Lo faccio io!»

Ho visto le sue spalle scuotersi. «Non inporta.»

Dopo un minuto, è arrivato il responso. Anna è caduta direttamente in ginocchio, con la

cornetta ancora in mano.

«Papà, voio bumba!» gridava Giulia.

«E allora?» ho gridato io. La bambina si è

spaventata ed è scoppiata a piangere.

«E allora? »

Anna tremava, si copriva il volto con le mani e ripeteva: «Dio ti ringrazio! Dio ti ringrazio...».

Alla fine, l'ho afferrata per la spalla.

«Parli con Dio», le ho gridato in faccia, «o ti

degni di parlare con tuo marito?»

III.

Sull'isola non scoppiano mai incendi. Troppa pietra, troppo poca vegetazione. Non scoppiano incendi, eppure io sento sempre l'odore

del fuoco. Ma che odore ha il fuoco se dentro

non c'è niente che brucia? Il fuoco di un bosco

è diverso dal fuoco di vecchi copertoni. Il fuoco

che brucia le penne o le ossa è diverso da quello che divora le foglie.

Di notte sogno i larici trasformarsi in fiamme. Ogni larice è una vampata solitaria. Se Osservo meglio, mi accorgo che non sono larici

ma persone. O meglio, larici con la testa di persone. C'è il volto di Anna, là sopra, e quello di

Giulia, e c'è anche il mio volto. Bruciamo tutti

senza un grido, senza un'imprecazione. C'è solo il crepitio secco dei rami morti. Ed io che mi

aggiro sotto con le mani nei capelli ripetendo:

«Erano lepidotteri, non fiamme! Perché adesso

brucia tutto? Non ho mai creduto all'inferno!».

La prima volta, lei è venuta di notte. Ho

sentito qualcosa di fresco sulle guance, ho aperto gli occhi e ho visto brillare il suo sguardo.

C'era una tristezza tremenda là dentro. Qualcuno, qualcosa, non so chi mi ha detto in un

soffio: «Cos'hai fatto?».

Non ho mai creduto all'inferno, ai diavoli e

neanche ai fantasmi, di conseguenza non ho mai

creduto neppure in Dio. Anzi, l'idea stessa di Dio

mi ha sempre dato fastidio. Che bisogno c'era di

scomodarlo per spiegare l'universo? C'erano le

leggi della fisica, le leggi della chimica. La loro interazione dava la possibilità di spiegare ogni cosa.

Dopo la malattia di Giulia, Anna era diventata un'altra persona.

Usciva spesso con la sua nuova amica infermiera e tornava a casa piena di pacchetti. Ha

iniziato a curarsi nell'abbigliamento, a truccarsi

leggermente, a indossare vestiti allegri e colorati.

Un giorno sono tornato a casa e ho trovato

su ogni finestra dei vasi pieni di primule. Invece di salutarla, l'ho aggredita.

«Come ti viene in mente?»

«Credevo ti facesse piacere. In fondo è primavera. »

«Già, ma questi fiori devono stare nei boschi, non lo sapevi? Potevi dirmi, voglio vedere

le primule e io ti ci portavo. Ma metterle quassù, in mezzo al cemento, come piccole testoline

decapitate... questo no. Mi danno il voltastomaco.» Così dicendo ho cominciato a strapparli e a buttarli sul pavimento.

Anche i gabbiani agiscono allo stesso modo.

Quando hanno qualche contenzioso con un loro simile, strappano dell'erba con il becco e la

scaraventano poco distante, come a dire, stai

attento, la prossima volta potresti esserci tu al

posto dell'erba.

Ormai io la chiamavo ogni mezz'ora e lei

non era mai a casa. La sera, con indifferenza,

dicevo: «Alle quattro ho provato a chiamarti

ma non c'eri...». Lei era sempre serena. Rispondeva: «Sono uscita con Silvia, con Giulia.

Siamo andate al parco...».

Andavano spesso a trovare un certo monaco

in un convento poco fuori città. Quando parlava di lui, ad Anna brillavano gli occhi. «Dovresti venire a conoscerlo», mi diceva sempre, «è

un uomo davvero straordinario. »

«Come sai», le rispondevo, «non sono molto

incline a queste cose. Che cosa cambia che Dio

ci sia o meno? »

«Cambia tutto! »

Non avevo mai visto Anna discutere con una

foga simile.

«Pensa a un fiore», mi diceva. «Una cosa è

vederlo come un fiore. E' blu o giallo o rosso o

lillà. Ha i petali e i sepali, l'ovario, il gambo, il

pistillo. Può vivere nei prati o abbarbicato sulle rocce. Un'altra cosa è vederlo come la realizzazione di un sogno. Qualcuno ha immaginato

la bellezza per noi e, per realizzarla, ha creato

il fiore. Prima di ogni altra cosa, un fiore è un

dono per il nostro sguardo. »

«Chi ti ha insegnato a ragionare in modo così confuso?»

«A me sembra tutto chiaro», rispondeva,

abbassando lo sguardo.

La mattina, mentre preparava la colazione,

la sentivo cantare. Allora, dal bagno, le gridavo: «Spegni la radio!»,

Dov'era finita la mia Anna? Dov'era la fragile creatura che, per anni, aveva dominato i

miei pensieri? Ormai capitava che ci vedessimo

la mattina e poi di nuovo solo la sera. Durante

il giorno eravamo due estranei.

Non dovendo più vivere tra paletti e tunnel,

anch'io avevo cominciato ad avere la mia vita.

Finivo il lavoro e mi attardavo un po' più a lungo con i colleghi, facevo un giro fino in centro

per andare a bere un aperitivo. A volte tornavo

a casa e la tavola non era ancora apparecchiata.

Un collega, un giorno, mi ha detto: «Perché

non apri gli occhi? Quando una donna cambia,

c'è una sola ragione. Un'altra persona è entrata nella sua vita. Si veste, si trucca, canta. Non

sarai così sciocco da credere che lo faccia per le

parole di un vecchio monaco?».

Nel Vangelo, il diavolo sale sulla montagna

e dice a Gesù: «Tutto questo sarà tuo, se mi ub

bidirai». Il diavolo potrebbe somigliare a un

agente immobiliare o a un tarlo. Oppure al seme di un'erba che si infila dappertutto, al forasacco, per esempio, che si posa sulla superficie

di un corpo e poi va avanti, cammina sotto la

pelle come una freccia silenziosa. Nessuno lo

vede, nessuno lo sente e lui scava il suo solco.

Conosce benissimo la sua direzione. Sale fino al

cervello o scende fino al cuore. E li esplode.

Così quelle parole erano state parole tarlo.

Io stavo fermo e loro grattavano sempre più a

fondo. Come avevo fatto a non pensarci prima?

L'amica, il monaco, le continue uscite... Era

evidente che si trattava sempre e soltanto di

una scusa. In tutti gli anni in cui era stato vivo

il nostro amore, i suoi occhi non avevano mai

brillato a quel modo.

Con il filo del sospetto si riesce a cucire ogni

tipo di vestito. Così, piano piano, ero riuscito a

ricostruire lo svolgimento degli eventi. E a mettere a fuoco un nome e un volto. Chi altro poteva essere, se non il primario? In quei giorni di

paura e sospensione, le era stato molto vicino. Il

destino di Giulia era nelle sue mani. Avrebbero

potuto esserci negligenza, trascuratezza nell'operazione, invece tutto si era svolto nel modo

migliore.

Non l'aveva fatto per la bambina, era chiaro, ma per aumentare il flusso di ammirazione.

Aveva visto quella giovane madre disperata,

una preda offerta su un vassoio di argento. Per

servirsene, bastava allungare la mano. Non c'è

niente di meglio di una donna da consolare, da

rassicurare. Anzi, il porco aveva scelto apposta

quel mestiere. Le madri affrante cadevano una

dopo l'altra tra le sue braccia. Ed era evidente

che anche l'infermiera, quella Silvia, in qualche

modo gli reggeva il moccolo. Era lei a circuire

per prima le prede. Le portava in giro, parlava

soltanto di lui per accrescere l'idolatria nei suoi

confronti.

La prova del nove era stata la telefonata per

il responso. Anna aveva afferrato il telefono e

aveva composto il numero a memoria. Lo conosceva a memoria. In ogni suo gesto, c'era dimestichezza. Lei, che di solito aveva paura anche soltanto a chiamare la latteria sotto casa!

E cos'altro era il monaco, se non un nome in

codice per indicare qualche motel di periferia?

Camminavo per il bosco e non pensavo ad

altro. Non avevo nessuno con cui sfogarmi, così la rabbia e i pensieri crescevano a dismisura.

Camminavo parlando a voce alta. Se qualcosa

mi capitava a tiro, sferravo un calcio. Sulla mia

testa, sulle mie spalle, cadeva una pioggia di

aghi morti. Soltanto l'idea della vendetta mi

dava una sorta di temporanea quiete. Immaginavo tutti i modi in cui avrei potuto far loro del

male. Immaginandoli, sentivo il cranio scricchiolare. Stringevo i denti così forte come Se,

tra un'arcata e l'altra, ci fosse stato un OSSO.

Avrei potuto raccontare tutto alla moglie, mandarle un biglietto anonimo, ritagliando le lettere da un giornale. Avrei potuto coprire la sua

elegante macchina di frasi ingiuriose. Avrei potuto aspettarlo sotto casa e dargli una lezione.

Davanti a Anna, non riuscivo più a nascondere il mio turbamento. Di notte, accanto a lei,

mi giravo e rigiravo nel letto.

Una sera non ce l'ho fatta più. Quando lei

mi ha chiesto: «Cosa c'è? perché non dormi?»,

le ho risposto: «Hai un odore che non conosco».

Lei è scoppiata a ridere. Sembrava una risata leggera. «Ho cambiato crema idratante! »

«Potresti inventare una scusa migliore», ho sibilato, prima di alzarmi e andare a dormire in salotto.

Lei mi ha raggiunto sul divano. Mi guardava preoccupata.

«Non toccarmi», le ho detto, «mi fai schifo. »

Mi ha toccato lo stesso.

«Saverio, cosa succede?»

« Succede che sei cambiata. »

«E' vero, ma perché ti fa arrabbiare?»

«Perché quando una donna cambia, c'è una

sola ragione. »

«E qual è?»

«Vuoi proprio che te lo dica in faccia? »

«E' innamorata di un altro. »

Anna ha fatto un profondo sospiro. «E' vero.

Sono innamorata, ma non di un'altra persona. »

«E di chi allora?»

«Sono innamorata della vita. »

«Non dire stronzate da fotoromanzo. »

«Non sono stronzate. E' quello che provo.»

« Senti gli uccellini cantare? »

«No, ho trovato un senso.»

«Ma un senso ce l'avevi già. Ero io. Eravamo noi, la tua famiglia. »

«Lo siete ancora. Lo siete più di prima.»

Dalla gola mi è uscita una risata come un latrato.

«Non si direbbe! "Caro, stasera arrivo tardi.

Caro, guarda che bella messa in piega. Senti come profumo. Guarda come sculetto bene con i

nuovi tacchi. Guarda caro, guarda. Non sembro

proprio una puttana?"»

Anna si è alzata. Io continuavo a darle la

schiena.

«Perché mi devi addolorare in questo modo? »

«Perché vedo la verità.»

«Tu ormai vedi soltanto i tuoi fantasmi.»

«Già che siamo in tema. Perché non mi porti a conoscere quel tuo famoso monaco? »

«Non credevo ti interessasse. »

«Invece mi interessa moltissimo. »

Quella sera, sul divano mi ero addormentato ridendo. L'avevo messa in difficoltà. Le bugie hanno le gambe corte, c'era un detto più vero di questo?

Per organizzare bene la messa in scena, le ci

è voluto del tempo. Soltanto una settimana dopo mi ha detto: «Questo pomeriggio, alle quattro, siamo attesi al convento».

Abbiamo portato Giulia al compleanno di

una compagna di asilo, poi ci siamo avviati verso il raccordo. Guidava Anna e per tutto il tragitto siamo rimasti in silenzio. Ogni tanto avevo l'impressione di sentirla deglutire come un

animale che percepisce l'imminente pericolo.

Il convento era composto da una serie di

brutti edifici a una ventina di chilometri dalla

città. Intorno, c'era la piattezza esasperata della monocoltura interrotta da qualche filare di

pioppi ancora senza foglie.

L'ingresso era freddo e squallido. Il frate

guardiano ci ha fatti accomodare su due poltroncine di similpelle color nocciola chiaro.

Quando si è aperta la porta in fondo al corridoio ed è comparso un uomo anziano, Anna si

è alzata e gli è andata incontro.

Li ho visti abbracciarsi e poi lui prenderle

una mano tra le sue con un gesto di affettuosa

intimità. Sono rimasto seduto. Davanti a me

Anna ha detto: «Saverio, mio marito».

Il monaco mi ha stretto la mano e poi mi ha

fatto cenno di accomodarmi in una stanzetta laterale.

Ci siamo seduti uno di fronte all'altro. Io

stavo guardando la sua barba chiedendomi, è

vera o finta?, quando lui ha detto: «Sua moglie

mi ha parlato molto di lei».

«Ah sì? E cosa le ha detto?»

«E' molto preoccupata. »

«Perché? »

«Perché dice che è cambiato e non ne capisce la ragione. »

«E' lei ad essere cambiata.»

Il monaco ha sorriso. «Questo è vero. Anna

negli ultimi mesi ha vissuto una vera e propria

rivoluzione. »

«E allora perché non posso cambiare anch'io? »

«Ci sono tanti tipi di cambiamenti.»

«Perché il suo le piace e il mio no? »

«Dipende dalla luce dello sguardo. »

Da qualche parte nei corridoi è suonata una

campanella.

Cominciavo ad irritarmi.

«Il solito armamentario decrepito! "L'occhio è la tua lanterna, eccetera, eccetera." I

computer pensano ormai quasi come gli uomini e lei crede ancora a queste cose. O peggio,

vorrebbe che io ci credessi.»

Quell'uomo mi fissava con due occhi scuri e

immobili. Avevo la sensazione di essere un animale esotico in gabbia. Mi stava scrutando e

non avevo alcun modo per difendermi. Gli ho

dato fin troppo spago, ho pensato. Ora bisogna

tagliare corto, smascherarlo.

Mi sono alzato in piedi di colpo. La sedia si

è ribaltata.

«Perché non smette di recitare? » ho gridato

con più voce di quanta avrei voluto.

Il monaco è rimasto immobile, con lo stesso

sguardo, senza abbassare le palpebre. «Adesso

ho capito», ha detto piano, mentre stavo sulla

porta.

«Capito, cosa?» gli ho gridato in risposta.

Al ritorno ho guidato io.

«E' bravo a recitare, il tuo amico», ho detto.

«Incute quasi soggezione. Quasi. »

«A volte ho l'impressione che tu sia impazzito. »

«Allora siamo impazziti in due. Io sono Napoleone, tu chi sei?»

Parlando premevo l'acceleratore con rabbia.

Sembrava dovessi schiacciare qualcosa sotto i

piedi.

«Saverio, so che ti sembra strano ma la mia

vita è cambiata. E' cambiata per qualcosa che

non si può vedere. »

«Non credo a ciò che non si può vedere. »

«Però credi nelle leggi della chimica. »

«Tutto ciò che esiste è chimica. Chimica e fisica. Io, te, questa macchina, il motore, la benzina, l'asfalto, gli alberi. Sono loro a costruire la

vita. »

«Ma chi ha costruito loro? Chi ha costruito

le leggi che ci permettono di essere qui? »

«Le leggi sono sempre esistite.»

«Non è vero. Le leggi le hacreate Dio.»

«Certamente. E l'uomo discende dalla scimmia e presto sulla terra cadrà un'altra pioggia

di fuoco. Non è così?»

«Non prendermi in giro.»

«Non ti sto prendendo in giro. Dov'è l'indirizzo di quel neurologo da cui andavi dopo il

parto?»

«Parli così perché sei invidioso.»

«E di cosa sarei invidioso? Delle tue favolette? Grazie, no. Ho creduto a Babbo Natale fino

ai sei anni e questo è tutto.»

«Io credo in Dio, non in Babbo Natale. »

«Se Giulia fosse morta, non ci crederesti. »

«Dio ci salva in ogni caso. »

«Ah sì? Vediamo», ho detto, premendo ancora di più l'acceleratore.

«Rallenta! » ha gridato Anna. «Pensa a nostra figlia!»

«Ci pensa Dio, o no? Vediamo.»

A quel punto ho imboccato a tutta velocità

il senso di marcia opposto. Dopo qualche secondo ci siamo trovati di fronte una macchina.

Ho sterzato una frazione di secondo prima dell'impatto.

Tornati nella nostra corsia sono scoppiato in

una risata nervosa.

«Allora, chi ti ha salvato? Chi ha girato il

volante? Dio oppure io?»

Anna piangeva coprendosi il volto, ripiegata

su se stessa. «Sei un uomo cattivo», ripeteva.

«Sei un uomo cattivo. »

Ho fatto finta di consolarla. «Non dire così.

Stavo scherzando. »

Le sue lacrime mi davano una gioia profonda.

IV.

Il bosco era ormai quasi completamente

bruciato. Soltanto una trentina di larici sembravano ancora in buona salute. Bastava però

avvicinarsi per accorgersi che i primi segni della distruzione avevano iniziato a colpire anche

loro. Da quasi un anno stavo tentando di risolvere quel problema e tutte le soluzioni che avevo trovato si erano dimostrate vane. Dopo le

muffe e i marciumi, avevo cercato di incolpare

diversi tipi di lepidotteri ma neppure di uno ho

trovato le tracce. Avevo allora pensato alle

piogge acide. Nel Nord America, vicino ai grandi laghi, avevo visto intere foreste di conifere ridotte a quel modo. C'erano troppe industrie

nella pianura Padana, troppi scarichi e quando

si invertiva la corrente del vento, finivano tutti

ad incunearsi su nelle valli.

Ero abbastanza convinto di quest'ipotesi, ma

le analisi dell'acqua degli ultimi mesi ancora una

volta mi avevano smentito. Il bosco moriva e non

riuscivo a capirne la ragione. Il cliente che aveva

commissionato il lavoro voleva una risposta e io

tiravo avanti tergiversando. Stavo facendo dei rilievi, ancora non erano pronti. Il sospetto che dietro a tutto ci fosse un virus diventava ogni giorno

più grande. Ma dire un virus è come dire tutto e

niente. Gli insetti hanno le loro leggi, per combatterli basta pensare come loro e trovare un nemico che li divori. L'unica legge che conosce il virus, invece, è l'anarchia. Vive ovunque, come gli

pare e con leggi solo sue. Vive ma il suo scopo non

è la vita bensì la devastazione e la morte dell'organismo che lo ospita. Non ha un volto ma molti. Ogni volta che si riesce ad identificarne uno,

lui cambia maschera e parola d'ordine e subito

varca un confine tornando inafferrabile.

Passavo giornate intere sotto quegli alberi

agonizzanti. Un albero che muore è qualcosa

che dà un disagio estremo. Soprattutto a chi sarebbe incaricato di salvarlo. Un albero muore

senza parole e il suo tronco resta li per tanto,

troppo tempo, come un dito puntato contro il

cielo. Un dito che grida la tua impotenza. Sapevi tutto del suo ciclo vitale e malgrado questo,

non sei riuscito a fare niente.

Spesso in questi anni, riandando con il pensiero a quei giorni, mi sono detto che anche il

bosco in qualche modo ha dato il suo contributo alla rovina. Nel bosco c'era un virus e un altro virus era nel mio corpo. Sfiorandosi, sono

riusciti a innescare una miscela mortale.

Se in quei giorni avessi curato un giardino

rigoglioso, ad esempio, forse tutto sarebbe andato in modo diverso. Sarei arrivato nel giardi

no pieno di pensieri cupi e il giardino, con la

sua quiete, con la sua armonia, me li avrebbe

fatti svanire. Nella grande serra gli agrumi sarebbero stati in fiore e le aiuole, un trionfo di

colore. Con il suo canto di bellezza, la vita

avrebbe dissolto ogni ombra.

Invece ogni mattina arrivavo nell'agonia del

bosco. Stavo lì tutto il giorno con gli aghi che

mi cadevano addosso. Perdevo il controllo di

mia moglie e perdevo il controllo dei larici. Era

davvero troppo per un uomo solo.

Quando stavo lassù, pensavo solo ad Anna,

al modo per vendicarmi. Quando ero a casa,

pensavo invece al bosco, alla soluzione migliore. Un giorno o l'altro, sarei andato su e gli

avrei dato davvero fuoco.

Dormivo e stringevo i denti così forte che una

notte Anna mi ha svegliato, dicendo: «Ascolta!

Da qualche parte ci deve essere un topo...».

Sarà stato il tre o il quattro di maggio. C'era già l'ora legale ed ero rimasto più a lungo nel

bosco. Sono arrivato a casa che erano passate

da un po' le nove. Le finestre spente e nell'appartamento non c'era nessuno. Ero stanco, avvilito. Mi aspettavo di mangiare un piatto caldo, di ricevere un gesto d'affetto. In fondo era

per loro che mi dannavo tutto il santo giorno.

La rabbia è esplosa all'improvviso. Ho cominciato a prendere a calci tutto ciò che potevo, a buttare giù gli oggetti dalle mensole. Ho

preso la foto del nostro matrimonio e l'ho scaraventata a terra, ho rotto il vetro e la cornice e

poi ho strappato la foto in tanti pezzetti piccoli

come coriandoli. Quando la porta si è aperta li

ho raccolti nel palmo della mano.

Anna sembrava stanca.

«Giornata nera», ha detto. «Ho bucato la

gomma, ed era bucata anche quella di scorta.»

Sono andato davanti a lei e glieli ho soffiati

in faccia. «Il nostro matrimonio», ho detto, «ecco quello che ne resta. »

«Perché dici così? »

«Perché?! Perché? » ho cominciato a urlare. «Perché??? Io lavoro tutto il giorno per la

mia famiglia e torno e sono un uomo solo. Non

ho più una moglie né una figlia. Il povero cretino serve solo a portare i soldi a casa. Ma il povero cretino è stufo, tremendamente stufooo! »

Giulia si è nascosta dietro le sue gambe.

«Calmati, Saverio, calmati. Te l'ho detto, si

è trattato di un contrattempo. »

Mi sentivo come una caffettiera che stava da

troppo tempo sul fuoco, la pressione saliva e saliva e saliva ancora.

«Non sai dire altro! » ho gridato e poi ho fatto una cosa che non avrei mai creduto possibile fare. Le ho mollato uno schiaffo.

C'è stato un momento di silenzio. Il telefono

ha squillato ma nessuno ha risposto. Giulia ha

detto: «Papà tattivo».

Anna l'ha sollevata in braccio, le ha dato un

bacio sulla fronte.

«No. Papà non è cattivo. E' solo molto stanco. Guarda, noi gli facciamo una carezza.»

Giulia esitava con la manina a mezz'aria.

C'era sorpresa, paura nei suoi occhi. Allora Anna l'ha guidata fino alla mia guancia.

«Caro papà, caro.»

I suoi polpastrelli erano incerti e freschi sulla mia faccia incandescente.

«Ti odio», ho bisbigliato nell'orecchio di

Anna prima di uscire dalla porta.

Non avevo le chiavi della macchina, non

avevo il portafogli. Tornare dentro a prenderli

sarebbe stato troppo umiliante. Dove potevo andare a dormire quella notte se non in cantina?

Adesso so che, nel percorso che avevo compiuto fino a quel punto, la cantina era l'ultimo

tunnel da superare, l'ultimo paletto da aggirare

prima di giungere alla meta. Avrei potuto andare in strada, entrare nel primo bar e ubriacarmi e poi cadere addormentato su una panchina del parco. Avrei potuto andare a casa di

un amico e parlare con lui come un pazzo fino

alle prime luci dell'alba. Avrei potuto fare tutto

questo e invece, come un automa, ho cominciato a scendere i gradini.

In cantina ho trovato ciò che mi mancava.

Una bicicletta. Una bicicletta nuova, con un

fiocco rosso vicino al campanello. Sul manubrio, c'era appeso il sacchetto di un negozio da

uomo.

Avevo avuto ragione, nel cambiamento di

Anna c'era davvero un altro uomo, un uomo

così arrogante da nascondere la sua bicicletta

nella mia cantina. Già, venire in bici era più facile che venire in auto, lasciava meno tracce.

Perché era li? mi sono chiesto.

Magari, un giorno, era stato sorpreso dalla

pioggia così era stata lei a riaccompagnarlo a

casa in macchina. «La bici lasciamola in cantina», aveva detto, «tanto mio marito non ci mette mai piede.»

Mentre io impazzivo per quel bosco, loro

stavano tra le mie lenzuola a scambiarsi frasi

dolci.

Era il primario o non era il primario? A

questo punto non aveva nessuna importanza.

Mi bastava sapere questo, che non mi ero ingannato.

Ora il fuoco dei larici divampava dentro di

me. Sentivo le fiamme lambire il tronco, i rami

crepitare un istante prima dello schianto.

Non era possibile dormire là dentro, per un

po' sono rimasto seduto. Poi ho visto due vecchi

manubri da ginnastica. Li ho afferrati e ho cominciato a muovermi. Ho fatto i pettorali, i dorsali e poi delle brevi frazioni di corsa sul posto,

delle flessioni a terra e altri pettorali. Sentivo

dentro di me un'energia tremenda. Alla base di

ogni energia, c'è qualche forma di calore. Per

non esplodere, dovevo dissiparla. In cantina non

si vedeva l'alba, così guardavo tutto il tempo l'orologio. C'era un pulsante che illuminava il quadrante per alcuni istanti.

Le cinque e mezzo.

Le sei.

Le sei e un quarto.

Alle Otto Anna accompagnava Giulia all'asilo, avrei aspettato il suo ritorno per salire e dirle ciò che pensavo della sua condotta. La mattina stessa, sarei andato dall'avvocato e avrei

chiesto la separazione. Una separazione per

colpa con custodia della bambina. Mi sentivo

molto prossimo al trionfo.

Tutto si è svolto in modo molto rapido. Alle

otto e mezzo sono salito. Davanti alla porta di

casa c'era un grande cane bianco che non avevo mai visto.

«Spostati!» gli ho detto.

Ma lui ha continuato a fissarmi come se non

mi avesse sentito. Allora ho afferrato con forza

la pelle del collo e con un movimento brusco

l'ho scaraventato giù dalle scale.

Anna non era ancora tornata. Sono rimasto

ad attenderla in piedi all'ingresso. Ho aspettato

tra i cinque e i dieci minuti.

Quando è entrata e mi ha visto, ha detto:

«Dove hai dormito? Sono stata in pena tutta la

notte». Atteggiava il viso ad una finta tristezza.

«Non ti sei accorta? Ero vicinissimo.»

«Vicinissimo dove? »

«Sotto i tuoi piedi.»

«In cantina?»

«In cantina.»

Ho goduto studiando l'espressione del suo

volto. Sembrava delusa. «Allora hai già visto

tutto? »

«Ho visto tutto.»

A quel punto mi aspettavo che scoppiasse in

singhiozzi, che si buttasse ai miei piedi implorando perdono. Invece ha sorriso, anche gli occhi erano allegri. Ha aperto le braccia dicendo:

«Allora buon comple. . . ».

Perché avevo ancora uno dei pesi in mano?

L'ho sollevato ed è ricaduto sulla sua fronte. C'è

stato un rumore sordo e Anna è caduta a terra

come uno straccio.

V.

Del bosco non ho saputo più niente. Dove

saranno finiti tutti gli appunti che ho preso,

tutte le cartelle con le analisi e i rilevamenti?

Molto probabilmente il proprietario avrà rinunciato a salvarlo.

Una mattina saranno arrivati lassù due operai

forestali e con la motosega avranno segato i tronchi, uno dopo l'altro. Per un'intera settimana la

valle sarà stata invasa da quel suono di morte.

Denti di metallo che aggrediscono ciò che un giorno era vivo. Poi il rumore si sarà spento e sarà tornato a gorgogliare il ruscello. I picchi avranno ripreso a beccare altre cortecce e i lucherini e gli organetti a volare stupefatti su quella grande chiazza nuda che un giorno era stato il loro mondo.

Perdere i denti, perdere i capelli. Di notte non

sognavo altro che questo. Il bosco che moriva e

io che restavo sdentato. Sdentato e calvo. I denti

non cadevano uno a uno, ma tutti insieme. Tintinnavano sul pavimento simili a biglie di vetro.

I capelli non se ne andavano in modo diverso. Passavo la mano in mezzo e me ne restavano ciuffi interi tra le dita come fossero una parrucca. Allora mi mettevo a piangere. Piangevo

piano in silenzio. Dove sarei potuto andare conciato a quel modo? Senza denti, senza capelli

potevo soltanto far ridere o far pena. Non avrei

più potuto ispirare né rispetto né paura. Per

questo non ho più voluto comparire in pubblico.

Il bosco era morto e anche Anna era morta.

L'avevo vista lì sul pavimento e mi ero sentito

impotente, come con gli alberi. Non pensavo

fosse così facile premere l'interruttore. L'avevo

appena sfiorata ed era andata via.

Per alcuni minuti ho pensato a uno scherzo,

ho ripetuto: «E dai, alzati. Stavo scherzando».

Le ho portato un bicchiere di acqua fresca.

Le labbra non si sono aperte e l'acqua è scivolata lungo il collo, bagnando la camicetta.

Potevo scappare? Certo, ne avrei avuto tutto il tempo. Avrei potuto prendere la macchina

e correre a tavoletta verso il confine. Avrei anche potuto metterla in un sacco e scaricarla in

qualche fiume.

Invece sono rimasto seduto accanto a lei tenendole la mano.

Quando qualcuno ha bussato alla porta, sono andato ad aprire.

Era il postino. Ho preso il telegramma e ho

detto: «Venga. Ho ucciso mia moglie».

Giulia era ancora all'asilo.

Un mese dopo, l'avvocato mi ha portato un

quotidiano con la sua foto. Sapevo che era lei

dalle scarpe, dal grembiule, dal cestino. Il volto

era coperto da una macchia sfuocata, ai bordi

spuntavano due codini con un fiocco a quadretti. Deve essere stata scattata la mattina della tragedia perché solo Anna sapeva legarli a

quel modo. Dal bagno la sentivo canticchiare:

«Di chi sono questi codini? I codini di un topolino».

Una persona sconosciuta la teneva per mano. Lei sembrava un fantoccio, le braccia molli, le gambe trascinate. Le avevano detto qualcosa o aveva capito da sola? La sfocatura, comunque, era un'ipocrisia. Sotto la foto c'era

scritto: La piccola Alice (nome di fantasia) figlia dell'agronomo uxoricida.

Poi un giorno, mentre stavo già qui con l'odore e il rumore del mare, all'improvviso ho

aperto gli occhi e capito perché era morto il bosco. La sua fine non era stata causata né da un

insetto né da un cancro né da un virus, ma soltanto dall'invidia. Invidia perché i larici crescono in mezzo o accanto agli abeti bianchi, agli

abeti rossi, ai pini silvestri. D'estate sono talmente uguali che i profani li chiamano soltanto

alberi di Natale, ma in inverno tutto cambia. I

larici si spogliano e gli abeti e i pini mantengono gli aghi. Così loro, nudi nel gelo, li vedono

tutti morbidi avvolti dalla neve. La gente passa

e dice, guarda questi che belli e come sono tristi, invece, quelli già morti.

Così i larici sono diventati invidiosi. Non

avevano pace: cosa abbiamo noi meno di loro?

Se è Dio ad averci fatto, perché non ci ha fatti

tutti uguali? Ha dato gli aghi e una forma piramidale a tutt'e tre. Cresciamo alla stessa altitudine e nutriamo gli stessi tipi di animali. Con la

nostra legna si fanno delle belle casse. I vapori

delle nostre resine guariscono i mali dei bronchi. Perché allora i pini e gli abeti devono avere un trattamento di favore?

Da un paio di anni sono in corrispondenza

con il monaco amico di Anna. E' stato lui a cominciare. Non gli ho risposto subito. Anzi, i primi tempi, quando vedevo le sue lettere, le stracciavo urlando. «Cosa vuole da me? Non soffro

già abbastanza? » Alla fine, gli ho scritto un biglietto chiedendogli di smettere. Lui mi ha risposto. Ho lasciato passare altri mesi e gli ho risposto anch'io. E' stata l'unica persona a farsi

viva in questi anni.

La mia teoria sulla morte del bosco l'aveva

molto divertito. Aveva aggiunto però una postilla. I larici, aveva scritto, non sono invidiosi degli aghi perenni, ma dell'amore. Non succede la

stessa cosa anche tra gli uomini? Perché crede

che Caino abbia ucciso Abele? Perché riteneva

che fosse più amato. E perché mai i fratelli di

Giuseppe lo hanno buttato nelpozzo? Perché il

padre lo preferiva al punto da regalargli una

tunica con le maniche lunghe, la stessa tunica

che verrà trovata insanguinata tra la sabbia.

Chi vive nell'amore rischia più degli altri, e

spesso deve pagare un prezzo molto alto. In

tanti anni di guida delle anime, non ho mai

cessato di meravigliarmi di questo. Invece di

aprire l'anima, l'amore molte volte la fa chiudere. Perché? Si teme forse che sia come il cibo,

come l'acqua, come i soldi, che arrivi qualcuno

più ingordo di noi e ce lo divori sotto i nostri occhi? Ma l'amore è come l'aria. Infinito. Non si

può dividere in pezzetti, mettere nei tascapani,

nelle borsette, conservare nella dispensa. Non

si può prendere uno spicchio d'amore perché

troveremo sempre qualcuno il cui spicchio ci

sem fra più grande.

E' così che il demone dell'invidia devasta il

mondo. La paura di non avere abbastanza rende gretti. Arraffo, afferro. Più arraffo e più afferro, più ho paura di perdere, di non aver avuto abbastanza.

Si ricorda il nostro primo incontro? Il colore

della sua anima era rosso fuoco. Non c'era cattiveria dentro di lei, ma confusione. E' proprio

quando non si sta attenti che un incendio divampa. Si getta un mozzicone e quel mozzicone

fa ardere un'intera foresta.

Amava Anna e aveva paura di perderla,

continua a chietermi. Ma si è mai chiesto se l'amava davvero? Ha mai visto veramente la persona di Anna?

O l'amava di un amore narcisistico?Amava

il suo amore per lei, il modo in cui era capace

di proteggerla. Amava la sua fragilità, la sua

dipendenza?

Quando è diventata una persona forte, autonoma, il suo sentimento si è capovolto. Ha cominciato ad avere paura di Anna dal momento

in cui lei si è liberata dalla paura. Non è un

gioco di parole ma qualcosa di serio su cui riflettere.

Che vita è una vita vissuta nella paura? E' la

vita di chi cammina con lo sguardo basso. La

vita di uno schiavo. Ma il destino a cui siamo

chiamati non è quello di schiavi, bensì quello di

figli e di fratelli. E' il destino dell'amore e della

libertà. Perché la libertà vera non è fare quello

che ci pare, ma vivere come creature libere dalla paura.

Ripenso spesso all'ultima volta che ho parlato con sua moglie. E' stata la notte prima della tragedia, Anna mi ha telefonato. C'era ansia

nella sua voce.

«Saverio mi ha dato uno schiaffo ed è sparito. Non si è mai comportato così fino ad ora. Il

peggio è che anche la bambina comincia a te-

merlo.»

«Non farà una sciocchezza?» ho chiesto.

«Spero di no. Domani è il suo compleanno»,

ha continuato dopo una pausa. «Gli ho comprato la bicicletta che desiderava. Spero che gli

piaccia, che si tranquillizzi un po'. Del resto

non si può pretendere che il matrimonio sia

sempre sgombro da nubi. Saverio vive nel suo

bozzolo e ha paura che qualcuno lo tiri fuori.

Prima, nel bozzolo vivevamo in due, poi io sono

uscita e lui è rimasto solo. "Torna dentro!» è

come se gridasse.»

«E tu vuoi tornarci?»

«Anche se volessi, sarebbe impossibile. » Poi

ha aggiunto: «Padre, finalmente comincio a capire quella frase...».

«Quale frase?»

«Quella che parla dell'odio del mondo. Fino

ad oggi mi ero sempre chiesta, com 'è possibile

che la gente ti odi quando tu vivi amando?»

«Hai paura?»

«L'ho avuta, ma adesso sono serena. Del resto l'amore non è anche pazienza? Amo mio

marito, amo la nostra bambina. So che anche

lui ci ama, che è soltanto questione di tempo.

Deve solo uscire dal suo mondo di fantasmi.»

Vede, caro Saverio, lei ha avuto il grande

privilegio di scendere la scala fino in fondo.

Non la prendo in giro quando dico questo. Da

un punto basso si vedono le cose con assai più

chiarezza che da un punto medio. Lei avrebbe

potuto continuare a galleggiare tra la confusione dei sentimenti per il resto dei suoi giorni. Ci

sarebbero state schiarite e annuvolamenti. Una

mattina avrebbe odiato sua moglie e la sera

l'avrebbe ricattata con il suo amore. Ci sono

coppie che vanno avanti così tutta la vita senza mai essere sfiorate dal dubbio che si possa

uscire dall'inferno quotidiano.

Nella sua vita, la farsa si è trasformata in

tragedia. Per cancellare tre vite, le è bastato alzare un braccio efarlo scendere con rabbia sulla fronte di Anna. Quanto sarà durato il tutto?

Un secondo? Mezzo secondo? Il secondo dopo,

lei stava già piangendo accanto al corpo di sua

moglie.

Molti, a questo punto, scriverebbero laparola "fine". A me, al contrario, piace pensare che

ogni fine sia in realtà un nuovo inizio. Certo,

qualcosa è finito, ma il "qualcosa» non è mai il

tutto. Quello che noi chiamiamo fine, spesso è

solo una fase di trasformazione. Lei che ha studiato così a lungo gli insetti, dovrebbe aver ben

chiaro questo concetto. Anna è morta, ma anche

una parte di Saverio è morta. Adesso, la parte

viva di Saverio deve rimettersi in marcia.

Compiangersi, disprezzarsi, odiarsi, sono

tutti modi per rendere vano il sacrificio di sua

moglie. Sarà un Altro, un giorno, a giudicarla.

Intanto, nel suo cuore, lasci uno spazio all'azione della misericordia. Si carichi sulle spalle

il suo zaino colmo di cecità, di violenza, di confusione, di odio, di amarezza e cominci a camminare. Cammini anche se le dicono che è inutile, o che non ne ha più il diritto. Continui a

camminare anche se non vede più la strada,

anche se la nebbia l'avvolge e procede incerto

sul bordo di un precipizio. E camminando, prima o poi, si accorgerà che la vita è un percorso da compiere e non un bozzolo nel quale, al

massimo, ci si può stiracchiare le gambe.

La maggior parte delle persone ormai non

vive, attende semplicemente che la vita passi.

Cosa diventa la vita allora? Soltanto un contenitore di svaghi per ingannare la noia. Poi all'improvviso arriva la morte o la devastazione

di una malattia e tutti gridano: «Imbroglio!

Truffa! Tra le regole del gioco questa non era

prevista».

Ma la morte è davanti a noi fin dal momento del nostro concepimento. La morte sta lì

come un enigma, un 'interrogazione perpetua

che ci portiamo dentro anche nel più felice dei

giorni.

Se si deve morire, che senso ha la vita? Ogni

uomo che nasce deve riscoprire il significato di

questa domanda. E scoprirlo non vuol dire diventare padroni di qualcosa, ma liberarsi. Liberarsi da tutte quelle cose che ci portiamo nello zaino, dall'avidità, dall'invidia. E soprattutto dall'idea di noi stessi.

Ho detto "liberazione» ma avrei potuto dire

altrettanto bene "purificazione". Purificazione

da ciò che esce dal nostro cuore, dalla nostra

bocca, da quella cosa così desueta ma in realtà

sempre così straordinariamente viva che si

chiama «peccato". Il peccato non è una trasgressione alle regole di un ordine gerarchico,

ma un telo nero che ci gettiamo addosso. In

quell'oscurità artificiale, non vediamo niente,

non sentiamo niente, eppure siamo convinti di

comprendere ogni cosa.

Il peccato è dunque una mancanza, un

danno che facciamo soltanto a noi stessi. Qualcosa che ci allontana drammaticamente dalla

nostra condizione di creature nate per vivere

nella Luce. Lei aveva davanti l'amore luminoso

di sua moglie, l'amore affidato di sua figlia eppure, nella tela spessa nella quale si era lasciato avvolgere, non solo non li ha visti, ma li ha

anche scambiati per una minaccia.

La morte di Anna deve servire a squarciare

questo telo.

Ormai sono vecchio. Nella mia vita ho vissuto e visto molte cose, ho avuto diverse visioni

del mondo. Col tempo, mi sono accorto che

queste visioni, in apparenza fondate e stabili,

erano in realtà come gli specchi rifrangenti di

un caleidoscopio. Ogni volta pensavo: ecco,

questo è il mondo, questa è la vita. Bisogna

agire così oppure cosà. Quanto duravano questi pensieri? Bastava un soffio perché si infrangessero e da quel mondo ne uscisse un altro e

poi un altro e un altro ancora.

A un certo punto mi sono ribellato. Tutto

questo è follia, ho gridato. E' follia l'esistere. Sono una follia io. E' follia tutto ciò in cui ho creduto. Per anni mi sono inginocchiato davanti al

vuoto. Per anni ho parlato del vuoto. Per anni,

ho cercato di convincere chi mi stava vicino che

il vuoto fosse pieno, e che quella pienezza avesse un nome e un senso degni di venerazione e di

rispetto. La mia disperazione era assoluta. Ogni

mattina mi alzavo e mi chiedevo, cosa faccio?

Continuo a vivere con la mia tonaca come se

niente fosse, spargendo menzogne o pongo fine

direttamente ai miei giorni?

E' stato terribile, sa?

Confessavo le persone, ricevevo le confidenze di anime smarrite, tutti aspettavano da me

una via, una certezza, mentre io mi aggiravo

nel buio più totale, senza poter confidare il mio

smarrimento a nessuno. Giravo il caleidoscopio

con rabbia, cercando una nuova risposta alle

mie domande. E' stato a quel punto che mi è

sfuggito di mano, ed è caduto in terra, infrangendosi in mille pezzi. A un tratto, mi sono accorto che tutto quello in cui avevo creduto fino

ad allora non erano state altro che idee, proiezioni delle mie ansie, delle mie paure. Avevo voluto rendere afferra bile ciò che è inafferrabile,

avevo voluto limitarlo, dargli un nome, un tempo di svolgimento. Avevo voluto riportare tutto

alla limitatezza della mia mente di uomo.

E' stato in quel momento che ho cominciato

davvero il mio cammino. Il momento in cui sono rimasto completamente nudo, completamente inerme, completamente senza voce.

Adesso, ogni giorno mi alzo e vado alla finestra e so che quella giornata potrebbe essere

l'ultima. Non c'è più paura in me, né senso di

vuoto, piuttosto la trepidazione un po' adolescenziale di chi attende il primo incontro con

l'Innamorato.

Ogni mattina, poco prima dell'alba, mi affaccio alla finestra di questo brutto edificio di

cemento, guardo fuori e vedo i campi abbando

nati e, più in là, le sagome scure dei capannoni e delle fabbriche e le luci delle macchine. Ci

sono tante persone che vanno a lavorare a

quell'ora! Sto lì mentre la luce prende il sopravvento sul buio.

E' uno spettacolo che non cessa di stupirmi.

C'è delicatezza, in quell'istante, fragilità e anche un 'immensa potenza. Allora, la macchia

scura del campo diventa erba. Vedo gli steli uno

vicino all'altro e la rugiada che li copre e gli insetti che si abbeverano alla rugiada. Vedo i

passeri che si posano sulle fronde dei cespugli.

Sento il loro pigolare scomposto, gioioso, e il pigolare più preciso dei fringuelli e delle cince.

Sento il rumore delle macchine e vedo le persone dentro. Vedo i loro cuori come ho visto la rugiada sugli steli, uno ad uno, le loro storie, le

loro ansie, le loro inquietudini. Vedo i loro cuori e i cuori delle persone che stanno loro intorno. I bambini che ancora dormono a casa, protetti dal tepore delle coperte e le mogli già sveglie e i genitori anziani che hanno trascorso

una notte insonne e ora ascoltano la radio. Vedo i cuori e sento i respiri. Sento i respiri di coloro che nascono e i respiri di chi se ne Va, come un gran concerto suonato dal Vento. E' musica di organo oppure di flauto. Sale, discende,

sale. Tra cielo e terra è uno scambio continuo.

Ed è per questo che ogni mattina, su questo

brutto davanzale di cemento, punto i gomiti e

piango. Piango come forse possono piangere

solo i vecchi, sommessamente, in silenzio. Pian

go perché vedo l'amore. L'amore che ci precede

e l'amore che ci accoglierà. L'amore che, nonostante tutto, accompagna ogni cammino, anche

il più piccolo, anche il più contorto, anche il più

ricco di errori. Piango per l'amore, e per tutti

quei cuori che nascono, vivono e muoiono sigillati come casse da morto.

Prego per lei. Prego perché anche lei un

giorno possa affacciarsi, come me, alla sua finestra.

Sotto lo scarabocchio della sua firma c'erano ancora delle righe.

P.s. Negli ultimi mesi ho incontrato diverse

volte sua figlia. E' un 'adolescente asciutta e longilinea, porta i capelli come la madre, legati a

coda di cavallo e ha anche gli stessi occhi, mentre il colore, così come la forma delle mani, sono i suoi. E' una ragazza riflessiva, abituata,

come lei, a ragionare meticolosamente. Ci vuole un po 'per accorgersi della sottile inquietudine che le serpeggia nel profondo. Le prime volte ha rifiutato bruscamente l'argomento. Alla

terza è riuscita a dire: «Mio padre è un assassino».

Le ho risposto: «Tuo padre è un uomo che

ha compiuto un gesto tremendo, ma non è un

uomo cattivo».

Stavamo seduti, uno accanto all'altra, su

un muretto, i suoi pantaloni avevano l'orlo sfilacciato, dondolava nervosamente le gambe

avanti e indietro. Guardando lontano ha detto:

«Non si uccide, se non si è cattivi».

Nell'adolescenza tutto è bianco o nero! Così ho risposto: «A volte si fa qualcosa di brutto

perché si è deboli o confusi, perché si ha paura.

Cosa faresti, ad esempio, se adesso dal muretto

uscisse un serpente? Anche se ami gli animali,

probabilmente lo uccideresti».

Col tempo, ho potuto parlarle di voi due,

dell'amore che legava i suoi genitori. «Quando

tu eri piccola, tua madre stava male e tuo padre si è preso cura di te come pochi altri avrebbero fatto. »

Alla base del muretto c'era una pianta di

malva. Un 'ape, ronzando, si è tuffata dentro.

«Lo vedi», ho osservato allora, «l'ape ha bisogno del fiore. Ma anche il fiore, per esistere,

ha bisogno dell'ape. Siamo tutti legati da un

invisibile abbraccio. Tuo padre ha bisogno di te

e tu hai bisogno di lui.»

E' rimasta a lungo in silenzio, con le mani si

tormentava una ciocca di capelli. Teneva la testa girata in modo che non potessi vedere il volto. Ha preso due o tre respiri profondi, sembrava volersi ribellare a qualcosa che la stava

soffocando. Poi, con voce incrinata, ha chiesto

piano: «Ma la mamma, mia madre, sarebbe

contenta?».

Le ho detto: «Sarebbe la mamma più felice

del mondo».

Con la lettera in mano sono andato alla finestra. Era il crepuscolo e i gabbiani tornavano

dalla terraferma. C'erano due adulti sopra di

me. Stavano quasi immobili con le loro grandi

ali bianche. Dietro di loro, seguiva uno più giovane. Aveva ancora il piumaggio scuro e, a intervalli regolari, li chiamava con un lungo fischio.

Il mare doveva essere un po' mosso perché

sentivo le onde infrangersi contro gli scogli.

Quando era agitato, sentivo il mio sangue fare

un rumore simile, il cuore lo pompava fino alle

orecchie e dalle orecchie scendeva nuovamente

al cuore.

Nella busta del monaco, c'era un'altra lettera. Era più piccola e con una carta rosa a quadretti. L'ho aperta lì in piedi, mentre il sole

scompariva all'orizzonte.

Caro papà...



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