La donna nel ‘900
Il lavoro che vi proponiamo ripercorre, attraverso le immagini fotografiche, l’evo-
luzione della famiglia e del ruolo della donna nel corso dei primi sessant’anni del
Novecento. La scelta di questo tema è stata dettata dal desiderio di celebrare la donna
come membro attivo e indispensabile all’interno della società, ma soprattutto all’interno
della famiglia. Abbiamo diviso il percorso secondo cinque temi: la donna, la famiglia,
donne e bambini, la donna e l’altro sesso e ritratti di donne; al fine di cogliere la figura
femminile in tutte le sfaccettature del suo essere.
Ci piace concludere con una citazione di Diderot:
“Quando si scrive delle donne, bisogna intingere la penna nell'arcobaleno.”
LA CONDIZIONE DELLA DONNA NEL ‘900
Nei primi del Novecento alla donna veniva-
no assegnati per lo più lavori relativi allo spazio
domestico e solo nelle realtà più sviluppate attività
esterne, ma che comunque si basavano su tecnolo-
gie arcaiche e sull’uso prevalente dell’energia
umana. Bisogna perciò distinguere tra le donne
appartenenti ai ceti medi e medio-alti e quelle
appartenenti alle classi più svantaggiate. Per le
prime il destino privilegiato erano il matrimonio, i
figli e la gestione della casa. Di conseguenza anche
l’istruzione femminile era finalizzata allo svolgi-
mento di questi compiti. Per costume e, frequente-
mente, per legge, le donne non avevano accesso
come i loro coetanei maschi ai gradi alti dell’istru-
zione. Diversa era la situazione per le donne delle
altre classi sociali, nelle quali il lavoro era legato
alla sopravvivenza.
La I guerra mondiale porta ad importanti
ridefinizioni dell’identità di genere; la presenza
delle donne in aree considerate di appartenenza
degli uomini e la loro massiccia intrusione nelle aree
del lavoro maschile, sia agricolo che industriale,
insieme alla diminuzione dei matrimoni e alla fles-
sione della natalità sono un dato costante di questo
periodo. Nelle campagne si ha una temporanea
sospensione della divisione sessuale del lavoro; l’as-
senza di mariti porta le mogli a sostituirli in tutte
quelle mansioni che hanno una più immediata rela-
zione con l’esterno. Anche nella classe operaia si ha
un coinvolgimento delle donne nei lavori maschili,
ma in questo settore le resistenze nei confronti delle
donne sono più ostili per timore della concorrenza femminile, accusata di provocare la caduta dei salari.
Le donne comunque diventano visibili in tutte le sfere della vita pubblica, assaporano il gusto della
libertà e acquisiscono coscienza di se stesse e delle proprie potenzialità.
Negli anni ’20 questo processo di emancipa-
zione si arresta. In particolar modo, l’intervento della
Chiesa unito a quello del regime fascista opera una
ridefinizione dell’identità maschile e femminile inte-
se nel modo più tradizionale. La campagna demogra-
fica lanciata da Mussolini si accompagna all’esalta-
zione del tema della virilità e si completa con pesan-
ti provvedimenti volti a limitare il lavoro extradome-
stico delle donne, soprattutto per le fasce modio-alte
della popolazione; le donne sono escluse dall’inse-
gnamento superiore e se ne scoraggia la presenza
anche nelle elementari dove viene esaltata la figura
del maestro. Lo scoppio della II guerra mondiale
vanifica l’attuazione delle leggi del 1938, tese a
espellere definitivamente le donne dal mercato del
lavoro, poiché queste si troveranno nuovamente a
sostituire gli uomini occupati al fronte.
La donna emancipata del secondo dopoguer-
ra è una donna cosciente di se e del proprio sesso,
consapevole della propria parità con l’uomo e con-
vinta che i privilegi maschili prima o poi sarebbero
venuti meno. La donna comincia a darsi attivamente alla politica, a sedere nelle aule delle università, nei
laboratori, a fare sport, ad andare in bicicletta e a tirare di scherma. Appaiono così le commesse dei gran-
di magazzini, le impiegate nelle poste e si sviluppa la figura della maestra. La donna assume uno spesso-
re nuovo e acquista una rilevanza tale da ispirare una vasta produzione letteraria. Il massiccio ingresso
delle donne nel mondo del lavoro, ha avuto ripercussioni anche all’interno della famiglia, in cui vi è ormai
una maggiore condivisione con il coniuge delle responsabilità e delle cure parentali.
LA MODA FEMMINILE DAGLI ANNI VENTI AGLI ANNI SESSANTA
La donna, uscendo dal focolare domestico e riscoprendo la propria femminilità, viene a contatto
con una nuova dimensione: l’identificazione di sé attraverso l’abito. In questo contesto anche le donne di
ceti bassi, seppur in limitate occasioni, valorizzano i loro tratti femminili, attraverso la cura del proprio
aspetto. Non si può ancora parlare di moda nel senso moderno del termine, ma di una tendenza a sceglie-
re il giusto abito in relazione all’occasione e a segui-
re un gusto comune alle coetanee del suo stesso
rango sociale.
I primi anni del Novecento sono caratterizza-
ti da una rivolta femminile nei confronti del corsetto
che faceva dell’abito femminile una camicia di forza.
L’ispirazione allo stile Liberty semplifica le linee,
inventa la “Moda Direttorio” con il punto vita sotto il
seno e l’abito che cade dritto fino alle caviglie. Sono
abiti dai tessuti leggeri, impalpabili, quasi trasparen-
ti: organze, tulle e satin di seta, spesso bordati con
nastri e rouches, ricamati in fili d’oro e argento e
stampati a colori pastello. Sono anche gli anni delle
tuniche plissettate.
Gli anni ’20 sono gli anni folli in cui ci si vuole
divertire e si vuole ballare. Esplode la moda delle
giovani dai capelli corti e vivaci. Si crea uno stile
minimalista per una donna più attiva, più snella, più
esile. Il tessuto gioca un ruolo fondamentale per la
caduta e l’elasticità e viene drappeggiato, piegato,
pieghettato, sgualcito, annodato e rasato, con ricami
a giorno e applicazioni in un’esaltazione delle linee
del corpo femminile.
Gli anni ’30 segnano il ritorno all’eleganza, sono
dominati dalle linee geometriche del Cubismo.
Furono gli anni delle spalle nude, degli abiti lunghi
dai canti decollettè sulla schiena. Tornano le vite
strette e i busti che segnano il seno.
Gli anni ’40 sono gli anni di guerra in cui la moda
non trova spazio e dunque in Italia nasce lo “stile
autarchico”, con paltò di panno ruvido e pullover in
lana grezza.
Gli anni ’50 sono pieni di speranza e di promesse per
una svolta radicale nella moda. Vengono lanciate
nuove linee, come quella a tulipano o a palloncino,
sono abiti con spalle morbide, fianchi morbidi e vita
molto sottile. Da un lato giacche alla marinara dal-
l’altro l’esplosione del colore, infatti i fabbricanti di
stoffe attingono idee per le loro stampe dalla pittura
astratta contemporanea. Fa la comparsa il tailleur e la
gonna sotto il ginocchio. Ma gli anni ’50 sono per
alcuni anche gli anni dell’esistenzialismo e del ribelli-
smo alla “Teddy Boys” con giacche di pelle nera e
jeans alla James Dean.
Gli anni ’60 sono contrassegnati dal ribellismo giova-
nile e dalla comparsa di nuovi miti. La moda è inter-
pretata dalla musica e dai cantanti. Nasce la minigon-
na e fanno la comparsa materiali alternativi che sosti-
tuiscono i tessuti tradizionali. Nella moda femminile
vengono introdotti nuovi elementi: il tailleur pantalo-
ne, le sahariane e in prima linea lo smoking femmini-
le. La moda perde la sua originaria eleganza e il suo
pudore e si apre verso uno stile meno castigato.
Nella seconda metà del Novecento la donna, nella sua fisicità, diviene oggetto di contemplazione.
Nascono i primi concorsi di bellezza e si diffonde il culto delle sfilate di moda, anche a livello cittadino.
Nel contesto rurale quotidiano il fenomeno della moda non era avvertito come in città, in primo
luogo perché erano poche le occasioni che richiedevano un abbigliamento ricercato, ma soprattutto perché
non si avevano sufficienti possibilità economiche. Il guardaroba delle donne nelle famiglie contadine,
infatti, prevedeva abiti comodi ed essenziali per poter compiere le mansioni di tutti i giorni e due o tre capi
riservati ad occasioni importanti quali la messa domenicale o le feste paesane.
LA FAMIGLIA
Nella società feudale, a base agraria, la
struttura familiare è in genere quella parentale
estesa, con proprietà indivisibile e collettiva dei
beni, in cui l’autorità è di tipo patriarcale e la
donna è sottoposta ad un rapporto di subordina-
zione piena. Nella famiglia patriarcale tutti i pote-
ri convergevano nella figura del vecchio di casa,
nei confronti del quale bisognava avere un com-
portamento di devozione e massimo rispetto. Si
stabiliva una sorta di gerarchia basata sul sesso e
sull’età dei componenti della famiglia: al vertice
vi erano gli anziani, prima di sesso maschile e poi
femminile, e poi tutti gli altri secondo gli stessi
criteri. Anche attraverso le fotografie veniva
riproposta la scala gerarchica e si nota come veni-
vano messe in risalto le figure del padre e del
nonno che solitamente erano il fulcro della scena.
In generale famiglie della società contadina o
preindustriale sono classificabili come famiglie
produttive, in quanto vi prevalgono le attività di
produzione di beni per l’autoconsumo o destinati
all’economia esterna.
In stretta connessione con l’inurbamento
della popolazione si verificò una mutazione della
famiglia che in prima istanza si configurò come
una drastica contrazione delle sue dimensioni.
Nonostante la diminuzione della mortalità che
aveva prodotto una crescita demografica nel corso
dell’Ottocento, durante i primi decenni del XX secolo il numero dei figli scese da valori oscillanti tra sette
e nove, a valori compresi tra i due e i quattro. Tra la popolazione cittadina il modello dominante non è più
quello della famiglia allargata contadina, caratterizzata da un elevato numero di figli, ma quello della fami-
glia nucleare, formato da una coppia di genitori e da una prole più ridotta. La famiglia, da unità di produ-
zione, com’era nel mondo contadino, diventa un’unità di consumo; i figli non sono più braccia in più per
il lavoro nei campi, ma bocche da sfamare. Queste circostanze spiegano la riduzione delle nascite fra i ceti
operai.
Tali cambiamenti si avvertono prima di tutto nelle famiglie borghesi, per poi interessare le famiglie
contadine italiane soltanto negli anni ’50 e ’60 del Novecento.
LA DONNA E L’ALTRO SESSO
Contemporaneamente al passaggio
dalla famiglia di tipo patriarcale a quella
nucleare, si afferma una nuova concezione
della vita coniugale fondata sulla continenza
sessuale, sulla centralità dei vincoli affettivi,
sulla programmazione della prole e soprat-
tutto sulla solidità del matrimonio come
perno dell’immagine esterna della famiglia.
Il fondamento di tale cambiamento era rap-
presentato dal fatto che il matrimonio non
era più di interesse, come nelle precedenti
epoche storiche e come continuava ad avve-
nire spesso nelle campagne, ma come scelta dettata dall’amore. L’intensificazione dei rapporti affettivi tra i
coniugi e tra genitori e figli ha rappresentato, rispetto al passato, un fenomeno del tutto nuovo. In questa visio-
ne della vita e del matrimonio, nell’intreccio dei sentimenti che la sostanziavano, erano escluse la passione
fisica e la sessualità, a cui era attribuito un generale giudizio di pericolosità e di negatività.
Come già detto, in ambiente contadino spesso esigenze di fame portavano a preferire matrimoni com-
binati per garantire la sussistenza della famiglia.
DONNE E BAMBINI
Dal primo dopoguerra in poi la donna porta a
maturazione quel processo di emancipazione femmini-
le che si era avviato durante la guerra, periodo durante
il quale l’assenza della figura maschile aveva costretto
la donna a farsi carico delle responsabilità famigliari
svolgendo anche compiti che precedentemente erano
una prerogativa maschile. In questo contesto, dunque,
la figura materna assume una posizione di rilievo nel-
l’educazione della prole; la “mamma” esce dal focola-
re domestico e acquista agli occhi dei figli uno spesso-
re morale non più legato solo al ruolo di “cuoca e
lavandaia”.
A partire dai primi anni del ‘900 fino alla I
guerra mondiale, parallelamente alla crescita economi-
ca, si ha una riduzione del numero dei figli per fami-
glia. Questo cambiamento determina un aumento delle
cure nei confronti della prole.
Nelle famiglie borghesi i bambini, fin dalla nascita,
venivano affidati a persone esterne alla famiglia che
venivano accuratamente selezionate al fine di contri-
buire in maniera positiva alla loro educazione. Nei
primi anni di vita erano le nutrici ad occuparsi dei bam-
bini, poi verso i cinque anni queste venivano sostituite
da veri e propri maestri privati. Questa sorta di precet-
tori avevano il compito di fornire una buona e gradua-
le preparazione culturale sia attraverso lo studio di
materie scolastiche sia attraverso l’insegnamento delle buone maniere, al fine di prepararli al loro futuro
debutto nella società.
Ben diversa era la situazione all’interno del mondo rurale, alieno al processo di industrializzazione che carat-
terizzava la società contemporanea, dove il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare fu molto più
lento. Il numero dei figli era comunque considerevole, dal momento che, in un contesto esclusivamente agri-
colo, costituivano un’indispensabile forza lavoro. Per questa ragione il tempo da dedicare alla cura dei figli
era minore. Era soprattutto la madre che provvedeva a far crescere sani e robusti i propri figli, prestandosi a
enormi sacrifici e privandosi lei stessa di cibo o vestiti.
CONCORSO DI BELLEZZA A CHIETI
I primi anni ’50 furono anche gli anni dei concorsi di
bellezza come si può osservare in queste suggestive
foto proposte. Chieti si allineò di buon grado alla
moda, istituendo (nel 1953) il suo concorso aperto alle
giovani di tutta la regione, allora comprendente anche
il Molise.
La concezione della donna vista come angelo del foco-
lare, suggerì di affiancare al tema della bellezza anche
quello della bravura. “La più bella e la più brava
d’Abruzzo” fu il titolo della manifestazione. Da tutti i
centri giunsero a Chieti “splendidi esemplari della
gente abruzzese”, con costumi tradizionali ornati di
antichi gioielli.
Il concorso si svolse nel locale del Supercinema, inau-
gurato da poco, e fu presentato dal celebre e indimen-
ticabile Corrado.
“LA MAMMINA”
Fino agli anni ’60 ’65 le
donne partorivano in casa. Il parto
era supportato dalla figura del-
l’ostetrica, conosciuta come “mam-
mina”, in quanto si affiancava alla
figura della madre per far venire
alla luce il bambino. L’ostetrica,
come il medico condotto, era una
figura indispensabile e il suo lavo-
ro era riconosciuto legalmente.
La “mammina” non riceve-
va denaro dai privati, ma veniva
pagata in relazione al numero di
parti effettuati, dall’amministrazio-
ne comunale all’interno della quale
ella operava. Per ottenere il titolo di
ostetrica bisognava aver conseguito
la licenza media superiore e aver
frequentato un corso abilitante di
ostetricia.
Al sopragiungere delle doglie, i
parenti della partoriente andavano a
chiamare la “mammina” che sarebbe venuta solo se accompagnata da un uomo e una donna, dato che non era
considerato buon costume farsi accompagnare solo da un uomo. Giunta a casa della partoriente, la dispone-
va su di un letto e la visitava per constatare quanto tempo mancava al parto. La visita avveniva senza uso alcu-
no di strumenti medici. Se il travaglio si prolungava per più giorni, la “mammina” aveva l’obbligo di vigila-
re costantemente anche durante la notte se necessario. Al momento del parto assistevano la mamma della par-
toriente e la suocera che, insieme alla “mammina”, prestavano assistenza. Una volta nato il bambino, era la
“mammina” ad occuparsene, insegnando alla stessa madre come lavarlo, pulirlo e nutrirlo.
Era tradizione che la famiglia donasse alla “mammina” in segno di buon augurio e di ringraziamento un len-
zuolo di lino bianco.
Se il parto si presentava male, veniva in soccorso il medico del paese che poteva far uso strumenti e/o medi-
cinali adeguati e nei casi più gravi era necessario portare la donna in ospedale. In genere si preferiva partori-
re in casa perché gli ospedali erano a pagamento, salvo il caso in cui si fosse mutuati. Ma per essere iscritti
alla mutua, bisognava avere un lavoro regolare e ciò era raro soprattutto nei contesti rurali, dove gli iscritti
all’albo dei coltivatori diretti erano una minoranza.
Solo dopo gli anni ’60, successivamente al grande boom lavorativo, subentrarono sistematicamente gli
ospedali e la figura della “mammina” scomparve.
“MANI DI FATA”
Spesso all’immagine della donna si associa l’arte del creare con le mani. La donna oltre alle faccen-
de di casa dedicava parte della giornata a ricamare, cucire, tessere, in quanto era lei a dover provvedere alla
biancheria necessaria di casa e alla realizzazione della dote dei propri figli, in particolare per le figlie femmi-
ne. La tradizione della consegna della dote alla figlia prossima alle nozze era sentita particolarmente, tanto da
costituire un evento oggetto di festeggiamento, in cui si mostrava ai parenti e agli amici lo straordinario ope-
rato della madre.
Il momento del ricamo era una delle occasioni che la donna aveva per trascorrere un po’ di tempo in
La foto in questione raffigura Ladmila Toniolo, l’ostetrica del
Comune di Giuliano Teatino (CH), con in braccio una bimba.
compagnia delle sue amiche e scam-
biare con queste anche qualche “pette-
golezzo”. Per molte queste attività
manuali rappresentavano una vera e
propria forma di sostentamento, lavo-
rando su commissione.
Le donne avevano il compito
di garantire la continuazione della tra-
dizione del ricamo insegnando perso-
nalmente alle proprie figlie o permet-
tendo loro di imparare presso i con-
venti nei quali c’erano suore che radu-
navano gruppi di ragazze volenterose
di apprendere per poi diventare un
giorno “buone” mogli e madri.
Negli anni ’50 il mercato si
servì come nuovo espediente consu-
mistico di riviste che suscitassero la
creatività femminile nell’ambito delle
arti manuali e contemporaneamente
fungevano anche da “promoter” di
nuove tendenze femminili.