Niccolò Ammaniti
Il libro italiano dei morti
Uno
ITALIA. APPENNINI CENTRALI 1070 d. C.
I fiocchi di neve, pesanti come batuffoli di ovatta, coprivano il sentiero che si
arrampicava tra guglie arcigne, lastroni di ghiaccio e abeti coperti di neve. Non tirava
vento e solo il richiamo stridulo della civetta, l’ululare dei lupi marsicani e il respiro
affaticato degli uomini rompevano il silenzio ottuso dell’aspra gola stretta tra le
montagne. Sette uomini salivano lentamente il cammino, uno dietro l’altro, senza parlare,
risparmiando le forze. Le armature, le lance e gli elmi puntuti gli pesavano addosso
rendendoli gobbi e neri come uno stormo di avvoltoi. Un mulo pelle e ossa carico di armi,
legna e bisacce seguiva a testa bassa un monaco che chiudeva il drappello. Leonardo,
detto il Truce, era in testa al gruppo, sul suo cavallo nero. Nonostante la dissenteria, la
ferita al costato che lo aveva quasi ammazzato e il digiuno degli ultimi mesi, il Truce era
un omone vigoroso. Aveva le spalle possenti, il collo di un mastino e le mani tozze e
forti. Sotto l’elmo arrugginito che gli copriva la fronte e le sopracciglia, spuntavano un
naso aquilino e due fessure nere e senza espressione. I capelli aggrovigliati dal fango e
dal ghiaccio e la barba nera poggiavano sulla maglia di lana cotta e sulla pelliccia di orso
legata intorno alle spalle. Il Truce osservò il cielo, fosco e pesante come una lastra di
piombo. La valle ai loro piedi affondava nelle nebbie e la cima della montagna era
lontana. La smorta luce del giorno stava per svanire e la salita non finiva mai. Dopo ogni
valico ce n’era un altro e dopo ogni passo ne arrivava sempre un altro. Il Truce pungolò il
cavallo, ma la bestia era sfiancata dalla fatica. Scese da sella e cominciò a trascinarla per
le redini. Pochi passi dietro di lui, lo seguiva Tarcisio. Ciondolava come un ubriaco
tirandosi dietro la lancia. Il colpo d’ascia che gli aveva diviso in due le labbra, il naso,
l’occhio e la fronte si era infettato. La ferita era gialla, tumefatta e puzzava da vomitare.
Bruciarla con la spada arroventata non era servito a granché. Tremava per la febbre alta.
Anche gli altri non sembravano in condizioni migliori, erano ore che non si sentiva più
una parola. Tra poco sarebbero caduti a terra stremati. Le tenebre stavano per calare.
Dovevano trovare un rifugio dove accamparsi e riprendere il cammino l’indomani
mattina. Ma il Truce era troppo vicino a casa per fermarsi ora. Sentiva nell’aria fredda
l’odore della sua sposa.
Quando era andato in guerra, Arianna aveva undici anni. Era una fanciulla magra e
elegante come un airone, con i seni piccoli e i capezzoli duri come ghiande. Una criniera
di riccioli neri come le piume del gallo cedrone le arrivava fino ai fianchi. La pelle era
luccicante come l’ebano levigata e gli occhi grigi come l’ardesia. Ora doveva averne
quindici o sedici, se il Truce aveva fatto bene i suoi calcoli. E doveva essere più donna.
Il giorno prima di partire per la guerra il Truce e Arianna avevano galoppato lungo le rive
verdi del lungo lago che si stendeva ai piedi del castello. Lei lo abbracciava e gli
carezzava i capelli e gli prometteva che lo avrebbe aspettato per sempre. E che se non
fosse tornato si sarebbe fatta monaca. Era primavera inoltrata, e i pascoli erano coperti di
erba soffice come velluto e di fiori gialli, l’aria era una pioggia di tarassachi. Le greggi si
muovevano sopra le colline su cui erano poggiate viluppi di nuvole bianche come caglio.
Oche selvatiche volavano in formazione e tra le canne nuotavano le lontre. Il Truce aveva
legato il cavallo e aveva disteso Arianna sotto una quercia, tra i ciclamini e le foglie, le
aveva abbassato il vestito poi l’aveva afferrata per i capelli e l’aveva deflorata.
Per tre anni il Truce aveva rivissuto quel momento. Per tre lunghi anni passati dentro
un’armatura a combattere nel fango, nel sangue e tra i cadaveri putrefatti, aveva ricordato
le unghie di Arianna che gli artigliavano la schiena, le gambe che gli si aggrappavano
addosso. Durante la battaglia, quando affondava la spada fino all’elsa nelle viscere del
nemico, aveva la sensazione di entrare nel corpo caldo e vibrante di Arianna. confondeva
le grida di piacere della sua sposa con i rantoli mortali dei suoi avversari. Era stato ferito
e la febbre lo aveva quasi stroncato. La mente in preda ai deliri l’aveva riportato da lei, a
casa, nella loro stanza. Arianna era nuda, adagiata su pellicce di orso. Lo guardava con
quegli occhi cenerini e con quelle labbra scure gli sussurrava: «Ora. Adesso. Lo voglio, ti
prego». E lui la prendeva.
«Eccoci, ci siamo», urlò il Truce quando finalmente superarono l’ultimo sperone di
roccia e di fronte a loro si schiuse l’altipiano. La notte era buia, ma in fondo, oltre il
bosco, un esile bagliore rischiarava le tenebre. La Rocca. Casa. Il Truce risalì a cavallo.
«Vi farò trovare cibo e donne». Tutti iniziarono a urlare. Ma la povera bestia non ce la
faceva nemmeno a sostenerlo, vacillava sotto il suo peso. «Muoviti bestia bastarda,
muoviti». Il Truce prese a batterlo senza pietà, a infilargli gli speroni nei fianchi, niente.
«Aiutatemi, per dio!». Tarcisio e gli altri cominciarono a spingere le terga dell’animale,
che alla fine si mosse.
Il Truce galoppava sui campi coperti di neve, con il cuore che gli bussava sul petto e il
ventre chiuso in un pugno. Costeggiò i bordi del lago ghiacciato, risalì le colline, si
immerse nelle tenebre del bosco. È fatta, si disse, e mentre lo disse il cavallo inciampò su
una radice e uomo e cavallo volarono nel nero. Il Truce colpì con la fronte una roccia. Si
rialzò bestemmiando. Un fluido denso e caldo gli colava sul volto, sugli occhi, gli
imbrattava la barba. Sentiva il sapore ramato del suo sangue sulle labbra, e l’odore
metallico nelle narici. Allora si strappò un lembo della tunica e se lo avvolse intorno alla
testa, poi prese l’elmo e se lo cacciò sopra. Si piegò sul cavallo. La povera bestia
ansimava, il ventre si gonfiava e si sgonfiava come una zampogna, aveva la bocca
coperta di schiuma e le zampe gli tremano scosse da spasmi mortali. «Sei stato un bravo
compagno, hai fatto il tuo dovere, mi hai riportato a casa». Il Truce sguainò la spada,
gliela affondò nel cuore e ripartì correndo.
Il Truce era fermo, piegato in due dalla fatica, di fronte alla rocca. Era ancora lì. Arcigna,
sgraziata, aggrappata a un cucuzzolo di rocce. Gettate intorno, una manciata capanne di
legno e sassi e i recinti delle vacche. Sentiva le gambe e le braccia dure come marmo.
Prese due boccate e si fece coraggio. Si incamminò lentamente sulla stradina di fango e
neve che costeggiava le baracche dove dormivano i braccianti e si arrampicò sui ripidi
gradini scavati nella pietra che portavano alla ingresso della rocca. Avrebbe voluto urlare,
svegliare tutti. Il vostro signore è tornato, è di nuovo qui, ma qualcosa lo trattenne.
Perché il ponte levatoio era abbassato? Il silenzio era pesante come una coperta. E se
sono tutti morti?, si chiese. Se dentro alla Rocca non c’erano che cadaveri? Se la peste si
li era portati via tutti? Se l’esercito del Nord era arrivato fin lì? Il Truce attraversò lo
stretto ponte sentendolo vibrare sotto ogni passo. Il portone era chiuso. Provò a spingere.
I battenti di bronzo e legno del grande portale si aprirono cigolando. Non l’avevano
chiusa. Non aveva più saliva in bocca e le ascelle gli sudavano. Sguainò la spada ed entrò
trattenendo il respiro. Una torcia consumata rischiarava appena il lungo corridoio a volta,
tetro di fuliggine. Silenzio. Freddo. Una guardia se ne stava accucciata in un angolo con
la testa poggiata sul petto e l’elmo e la lancia buttati ai suoi piedi. Un’altra guardia era
piegata su un tavolo con le braccia stese in avanti. Il Truce si avvicinò con la spada
puntata in avanti. Russavano. Era questo il modo di proteggere il suo maniero? Il Truce
stava per sferrargli un colpo di spada, ma poi decise che era stanco di morte. Avanzò fino
alle cucine. In un angolo, un fuoco con un paiolo appeso sopra moriva. Un groviglio di
corpi addormentati sopra un pagliericcio si stringevano per mantenersi caldi. C’era un
puzzo acre di sudore e di cipolle. Un movimento furtivo tra i sacchi di frumento. Topi. Il
Truce continuo a procedere cauto per il corridoio. Afferrò una torcia dal muro e si avviò
sulle scale a chiocciola che portavano alla stanza di Arianna. A un tratto due occhi blu gli
si pararono davanti brillando nel buio. Il cuore gli finì in gola. Poi sentì un mugolio
trattenuto. «Temura, sei tu?», sussurrò. Un enorme alano comincio ad ancheggiare e a
scuotere la coda. Era legato con una corda a un gancio. Il Truce lo accarezzò sentendo le
costole che gli sporgevano dai fianchi. Era invecchiato e dimagrito. «Buono. Buono. Fai
piano che sveglierai la tua padrona». Il cane, ubbidiente, si acciambellò sulla sua cuccia.
Il Truce riprese a salire i lunghi gradini, man mano che saliva sentiva che l’ambiente si
riscaldava e un odore di legna che arde e di balsami cominciò a impregnare l’aria. La
porta della camera era socchiusa. Il Truce la spalancò.
La stanza era grande, con il soffitto a cupola. In un enorme camino di pietra ardeva un
tronco largo come mezzo braccio. Le fiamme salivano alte e vivaci irraggiando la stanza
di bagliori sanguigni. Delle lanterne appese a delle catene finivano di illuminarla. Proprio
al centro c’erano, buttate a terra, pellicce di lupo e di orso. Sdraiato sopra c’era una
sagoma nera. Un uomo enorme e completamente nudo. Ansimava. La schiena lucida di
sudore rifletteva il rosso del fuoco. I lunghi capelli neri gli coprivano completamente il
volto. E vide poi due braccia scure che lo stringevano e due gambe di donna che gli
serravano i fianchi. Ansimavano insieme in un amplesso bestiale. Il Truce dovette
sostenersi allo stipite della porta per non cadere a terra. Non era possibile. Quello era il
suo sogno. Allora era ancora nei deliri della febbre. Cos’era? Un sogno? Un incantesimo?
Quello lì era lui. E quella sotto era Arianna. Allora era ancora tra la vita e la morte, steso
nella sua tenda, e la guerra non era finita? Il Truce non riuscì a trattenere un urlo. Le due
sagome s’immobilizzarono e poi la donna sporse la testa da sotto il braccio dell’uomo.
Arianna. Lo guardava senza espressione. A bocca aperta, come se avesse visto uno
spettro. Il Truce sentì che il dolore si impossessava dei suoi piedi, saliva per le cosce, gli
stringeva i testicoli, gli penetrava nelle viscere e gli afferrava in una morsa il cuore.
Provò a parlare, ma la lingua era una lumaca di ghiaccio. Il suo sosia voltò la testa.
Nonostante la chioma che gli nascondeva metà del volto, il Truce si riconobbe. Quel naso
aquilino, quelle sopracciglia erano sue... Una cicatrice bianca e spessa gli solcava la
fronte come una serpe. E allora il Truce si poggiò una mano sulla fronte liscia. No, non
c’erano cicatrici, la testa cominciò a pesargli come se fosse piena di piombo e le orecchie
a ronzargli come se ci fossero sciami di calabroni. Crollò in ginocchio. «Fratello!
Fratello, sei vivo? Sei tornato...?», balbettò il suo sosia scostandosi da Arianna. Il Truce
chiuse gli occhi e cominciò a respirare con il naso e poi sussurrò: «Sì, sono vivo». Si
mise in piedi e sollevò la spada: «E sono tornato per ucciderti, fratello mio». Si avventò
sull’uomo e lo colpì su una spalla. La lama gli affondò per un palmo proprio
all’attaccatura del collo. L’uomo rimase un attimo stupito, incapace di credere che suo
fratello lo aveva colpito. Una fontana scarlatta zampillò dalla ferita. L’uomo, lentamente
ci poggiò sopra una mano per tamponarla. «Leonardo...?», mugugnò. «Fratello mio!»,
disse il Truce e con tutte due le mani sollevò la spada sopra la testa e lo colpì con un
fendente così violento che gli amputò di netto il capo, che rotolò vicino al camino. Il
corpo decapitato crollò a terra rigido come una quercia abbattuta. Arianna, a quattro
zampe, cercava riparo in un angolo mugugnando. «Avevi detto che mi avresti aspettato
per sempre», ringhiò il Truce e la rincorse. Arianna si era nascosta sotto un tavolo. Il
Truce l’afferrò per i capelli e la trascinò al centro della stanza e con un piede la inchiodò
a terra come una serpe. «Con mio fratello...». Lei sgranò gli occhi cerulei e tremando
sussurrò: «Ti prego, Leonardo... Ti prego. Io...». Il Truce la osservò, ansimando per la
fatica. «Lo sapevo che eri più bella». Chiuse gli occhi e poi con urlo le affondò la spada
fra i seni.
Due.
Il Truce si chiuse dentro quella stanza per due giorni e due notti, strillando come un
ossesso, bestemmiando Dio, piangendo come un bambino. Ci fu un servo, più coraggioso
degli altri, che provò timidamente a entrare, ma fu gettato per le scale rompendosi l’osso
del collo. Il terzo giorno il Truce uscì fuori. Si era tagliato con la spada i capelli e la barba
e la testa e le guance erano solcate da tagli e graffi.
I suoi occhi neri come pece, si erano stinti, sbiaditi. Il fuoco dietro le sue pupille si era
spento e il volto del condottiero aveva l’espressione dei folli melanconici. Era nudo, solo
una striscia di stoffa macchiata di sangue gli fasciava la testa. Reggeva tra le braccia il
corpo senza vita di sua moglie. La testa le ciondolava appesa al collo di cigno. I lunghi
riccioli cadevano giù come una cascata nera. La pelle bianca come neve. Le labbra viola.
Un sottile velo di organza le copriva le nudità. Un diadema d’argento le incornava la
chioma. Il Truce scese le scale, attraversò il lungo corridoio e si diresse verso il portone.
Tutte le donne uscirono dalle cucine spingendosi e bisbigliando curiose. Gli uomini e le
guardie si incollarono ai muri per farlo passare, le facce dei bambini facevano capolino
tra le gonne e le gambe. Tutti guardavano quell’omone nudo che avanzava con il
cadavere di sua moglie tra le braccia verso il portone del castello. In molti si fecero il
segno della croce.
Il cielo era azzurro, l’aria tagliente come la lama del boia e il sole accecante riverberava
nella valle bianca. Il Truce portò Arianna al centro di un campo innevato e la adagiò in
una lunga vasca di marmo vuota. Le incrociò le braccia sul petto e la baciò sulla bocca
che già sapeva di carogna. Poi si voltò verso gli uomini che a cinquanta passi
osservavano quello che faceva il loro signore e disse: «Portatemi dell’acqua e trovatemi
le streghe».
Dopo tre giorni furono portate in ceppi le streghe. Tarcisio e un gruppo di cinque armati
avevano scalato la grande montagna a ovest, attraversato il ghiacciaio, ed erano arrivati
sulle guglie della montagna dove vivevano solo le aquile e gli avvoltoi. Le avevano
scovate dentro una grotta. Per tirarle fuori dall’antro avevano dovuto affumicarle. Le
streghe erano tre e sommando le loro età dovevano avere più di mezzo secolo. Erano
piccole, storte dall’artrite e dai reumatismi, coperte di stracci sporchi, rugose come la
corteccia di un sughero e puzzavano di merda e malattia. Parlavano in una lingua
sconosciuta e appena potevano sputavano, graffiavano e mordevano. Le chiusero nel
porcile. Le streghe si aggrappavano una all’altra come scimmie. I bambini e le donne gli
lanciavano contro sassi e palle di neve e quelle spalancavano le fauci sdentate e
lanciavano insulti incomprensibili. Il Truce fece trascinare le streghe fino alla vasca di
marmo. Arianna era immersa nel ghiaccio. Attraverso la lastra turchina si intravedeva il
corpo nudo e congelato della ragazza. I lineamenti del viso erano rilassati e
un’espressione di pace era disegnata sulle labbra vermiglie. Sembrava che dormisse.
«Fatela tornare a vivere», ordinò il Truce alle streghe. Le tre vecchie si avvicinarono
zompettando alla vasca e cominciarono a toccare con i loro artigli neri la superficie
ghiacciata, e quando videro Arianna, cominciarono a lanciare esclamazioni, a strillare, a
parlottare tra loro, a spingersi, a sghignazzare. Poi la più vecchia e cenciosa delle tre,
allungò un dito e indicò il Truce e scuotendo la testa disse: «Riot Sravat Scruneat Polo».
«Che dici vecchia? Non ti capisco». Fece il Truce afferrandola per un braccio... «Parla
come una cristiana». La seconda si accucciò ai piedi del Truce e lo guardò con i suoi
occhi bianchi come uova sode e poi sussurrò: «Dice che i morti bisogna lasciarli stare».
«Come?» «Sliot Ranca! Gnepra Tafuc Tufac. Sragen Tel Rinemort». Fece la vecchia
gettando la neve contro il Truce. «I morti non vogliono tornare indietro. Stanno bene
dove stanno. Quando si entra nel regno delle tenebre una porta si chiude alle nostre
spalle». Il Truce la sollevò da terra e cominciò a sbatacchiarla. La vecchia strillava come
un corvo afferrato da una lince. «Strega, non mi interessa niente di queste storie. Falla
tornare indietro, subito. Se non ubbidisci vi brucerò vive». Poi, come se le forze si
fossero esaurite, la lasciò cadere a terra, abbassò la testa e sussurrò: «Io non posso vivere
senza di lei. Non posso...». Le tre streghe si misero a parlottare, a discutere
animatamente, a tirarsi i capelli. Quella con la gobba e la faccia mangiata dal vaiolo, che
fino a quel momento non aveva parlato, disse: «Possiamo provare. Però cavaliere
ricordati bene che la tua sposa non sarà più la stessa». Il Truce si piegò sulla vasca, posò
le labbra sul ghiaccio. «Non m’importa... Io la amo e la rivoglio».
Quella notte le tre streghe accesero fuochi che sollevavano tentacoli fiammeggianti
intorno alla vasca ghiacciata ballando e intonando inni al dio dei morti. Il Truce dalla
finestra della sua stanza le osservava e pregava perché le fattucchiere riuscissero in quella
funesta impresa. Finalmente arrivò l’alba e cancellò la lunga notte. Il Truce uscì dalla
rocca. Un senso di oppressione gli gravava sul petto e gli annodava la trachea. Le tre
vecchie erano addormentate accanto alle braci dei fuochi. Il Truce esitò un istante e poi
guardò nella vasca. Arianna era ancora lì, lì come l’aveva lasciata. Gli occhi neri del
Truce si accesero di rabbia. L’ira, bruciante come un tormento fisico, inondò tutto il suo
corpo e tutto parve vacillare di fronte a lui. «Cagne infernali! Non ci siete riuscite!»
cominciò a prendere a pedate le maliarde. Le tre vecchie scappavano latrando per la piana
innevata. «Ve lo avevo detto», il Truce aveva sguainato la spada. «Vi farò bruciare vive,
vecchie schifose!». Stava per colpirne una quando un grido disperato che non aveva
niente di umano, acuto come quello di un gatto in amore e profondo come quello di un
orso ferito a morte ghiacciò il sangue nelle vene al Truce, alle streghe e a tutti gli abitanti
della valle. I maiali cominciarono a grugnire, a sbattere contro i recinti, i cani ad
abbaiare, e le mucche a muggire. Le oche presero il volo e le galline scapparono via
starnazzando. Il grido proveniva dalla vasca. Il Truce rimase un istante impietrito, ma poi
si scosse e si precipitò verso la sua sposa urlando: «Arianna! Arianna, sei torna...». Il
ghiaccio era intatto e il cadavere giaceva nella stessa posizione. Il Truce allora cominciò
a roteare la spada nell’aria e con un grido di dolore colpì il bordo della vasca. La lama si
spezzò in una pioggia di scintille. Stava per avventarsi con i pugni contro la lastra gelata
quando si accorse che qualcosa era cambiato. Il volto di Arianna. Il volto di Arianna era
cambiato. La bocca era spalancata in un urlo muto, un’espressione malvagia le distorceva
i bei lineamenti e gli occhi le allungati e ingialliti come quelli delle serpi. I lunghi capelli
si muovevano lentamente, s’insinuavano nel ghiaccio scavando migliaia di sottili gallerie.
La superficie prese a scricchiolare, a creparsi, a fendersi, a spaccarsi come se un fantasma
lo prendesse a martellate. Il Truce indietreggiò tenendo puntata la spada verso la vasca.
Le schegge schizzavano da tutte le parti come se una tromba d’aria le facesse volare con
un fragore simile a quello un’intera montagna di ghiaccio che andasse in frantumi... E
finalmente Arianna si sollevò, avvolta da una fredda fiamma azzurra così accecante che il
truce sollevò le mani per proteggersi gli occhi dal bagliore insopportabile. Le tre streghe
si buttarono a terra e cominciarono a pregare al dio degli inferi nella loro lingua
sconosciuta. Anche il Truce si inginocchiò e pregò il padre celeste perché mettesse fine a
questo orrido prodigio. Arianna scese dalla vasca e la fiamma azzurra che la circondava
svanì. La pelle della creatura era bianca come l’avorio, le unghie nere, come i capezzoli e
le labbra. Gli occhi affilati erano posseduti da una passione aliena e crudele. I capelli le si
erano drizzati come se una energia misteriosa li percorresse formando una criniera
corvina e animata. «Chi sei, tu? Non sei Arianna...». La sposa resuscitata avanzò verso il
suo sposo. Ogni movimento del suo corpo sinuoso era subdolamente ammiccante. Un
ghigno divertito le piegava le labbra vermiglie e uno scintillio malvagio le brillava nello
sguardo. «Ran Scrut. Satar Nec, Iol...» pronunciò la creatura con una voce cavernosa e
maschile. Si avvicinò al Truce e lo afferrò per la gola con una mano e lo sollevò in aria
come fosse uno spaventapasseri. L’omone piangeva come un bambino. La creatura gli
passò l’indice sulle ruvide guance e sulle lacrime calde. Si mise il dito in bocca, sorrise e
con un movimento fulmineo gli spezzò l’osso del collo. Il corpo senza vita del Truce
affondò nella neve. La creatura ci si piegò sopra con movimenti felini, lo odorò da capo a
piedi, diede un’occhiata sospettosa in giro e poi cominciò a divorarlo.
La notizia che un essere feroce era tornato dall’oltretomba si sparse per tutte le valli e
cento armati furono mandati ad affrontarlo. Il risultato fu che trenta uomini furono
sbranati vivi, altri venti furono feriti e le ferite non guarirono, si riempirono di pus e
vermi e il resto dell’esercito scappò terrorizzato. Allora venne chiamato Antonello da
Guidonia, un cavaliere di ventura che si diceva avesse ucciso un drago alato a Bisegna,
tre sirene a Cattolica e due gemelli siamesi in un borgo vicino Todi. Il paladino entrò nel
bosco dove la creatura si era rifugiata coperto di un’armatura dorata, imbracciando una
balestra caricata con frecce avvelenate. Gli abitanti sentirono solo un urlo terribile e poi
dalle chiome degli alberi schizzarono via, come meteore d’oro, i pezzi dell’armatura.
Tarcisio scosse la testa, si grattò la cicatrice e disse: «Qui ci vuole una idea». Si chiuse in
casa. Due giorni dopo ne riuscì con un piano.
Poco distante dalla rocca c’era un buco profondo più di mille braccia. Sul fondo, la
leggenda voleva che gli antichi cristiani avessero scavato una cripta dove si erano
rifugiati alla persecuzione dei romani. Sopra il buco gli abitanti della rocca poggiarono un
telaio di rami secchi lo coprirono con tappeti e ci poggiarono sopra la neve. Quattro
vergini nude furono disposte proprio sul ciglio. Un ladruncolo, scoperto a rubare uova in
un pollaio, fu issato su un cavallo e fu obbligato ad attraversare al galoppo il bosco.
La creatura appollaiata su un ramo di una quercia, allargò le narici, si accucciò e appena
il cavallo gli passò sotto ululò e con un balzo si lanciò. Il ladruncolo emerse dal bosco
urlando. Il mostro gli stava alle calcagna e stava per raggiungerlo, ma in quel preciso
momento le vergini recitarono l’Ave Maria. Arianna, o ciò che era diventata, si fermò e
poi a lunghe falcate si diresse verso le fanciulle, felice come una donnola che ha puntato
una colonia di conigli. La creatura finì nel buco. La sentirono precipitare urlando e poi un
tonfo sordo. Gli abitanti attesero trattenendo il fiato. Silenzio. Non un suono, un rumore,
proveniva dal fondo. L’avevano uccisa. Cominciarono a saltare di gioia ad abbracciarsi,
ma si sbagliavano, dal buco emersero ruggiti furiosi e latrati così lancinanti da spaccare i
timpani... Il demonio non era morto. Tarcisio si affacciò sul ciglio, guardò nell’oscurità,
sollevò le spalle e disse: «Seppelliamola viva».
Poi fu la volta delle streghe. Le sciolsero dal palo a cui le avevano legate e le trascinarono
in catene verso il buco. Le tre vecchie frignavano disperate, affondavano le mani nella
neve, si aggrappavano a tutto ciò che trovavano e chiedevano pietà, un po’ di cristiana
pietà. Le gettarono nel buco. La più vecchia delle tre, prima di precipitare, sollevò le
braccia al cielo, fece una smorfia terrificante e lanciò un terribile anatema. «Ranz! Riot!
Canter Is Da Coturnia. Renter Ka». Nessuno capì niente. Poi coprirono il buco di terra e
sassi e la pace e la serenità fecero ritorno nella valle.
II – Mille anni dopo, praticamente oggi
Mille anni dopo, la valle, come ogni valle che si rispetti, aveva subito parecchi
cambiamenti. La statale S241 si snodava come una lunga biscia tra le montagne,
raggiungeva la valle, proseguiva dritta tagliandola in due e poi attraverso un tunnel e un
lungo viadotto se ne ritornava in basso, verso la pianura. A un paio di chilometri dalla
rocca, su un fianco della conca, accanto alla statale, ora si trovava un centro abitato
chiamato Forca di Mezzo. Un agglomerato di casette stile baita alpina e palazzine in
cemento armato stile Bucarest erette tra gli anni 60 e 70. Tutte gravitavano intorno a una
piazza quadrata. Al centro di piazza Cadorna, su un pezzetto di prato lo scultore Tony
Riccardi aveva creato un’enorme ciambella di bronzo dal cui centro sgorgava una
fontanella. Per il resto il paese riservava poche sorprese. La birreria-pizzeria-creperia “La
piccozza del monaco”, una Coop, il negozio di sport Ana Purna, un bar senza nome, un
paio di pensioni e una filiale del Monte dei Paschi di Siena. In tutto quel tempo il lago si
era ristretto, ne rimaneva una pozzanghera per la pesca sportiva alla trota salmonata. Il
bosco era stato tagliato, al suo posto ora c’erano pascoli e sassaie. Nel 1980 la zona aveva
fatto il salto, su un vallone scosceso della montagna era stato costruito un impianto
sciistico che la giunta comunale democristiana aveva battezzato Valle Amena. Una
seggiovia, due skilift, una pista nera (Zeus), esposta a nord e sempre ghiacciata, una pista
rossa (Saturno), una azzurra (Bambi) e un campetto scuola (Tippete). Sulla statale, a un
chilometro da Forca di Mezzo, accanto alla pompa Agip, sorgeva il mobilificio degli
artigiani marsicani. Una costruzione a forma di castello, con tanto di merli e tetti a
imbuto. Una riproduzione di una catapulta era parcheggiata accanto alle vetrine. Il
mobilificio era famoso nella zona per una gamma semplice e funzionale di armadi, letti,
librerie, tavoli porta-pc, scarpiere tutto in stile medievale. E proprio di fronte al
magazzino, dall’altro lato della statale, la rocca del Truce era ancora là. Resisteva
arcigna, sgraziata, aggrappata allo stesso cucuzzolo di roccia e decisa a non cedere.
Certo, le capanne e i recinti degli animali erano stati sostituiti da un parcheggio asfaltato
occupato da monovolume Bmw, Mercedes, Smart disposte in fila accanto a cumuli di
neve sporca. Ora la rocca possedeva anche due lunghe ali di vetro e alluminio anodizzato
che si affacciavano sulla grigia valle sottostante. L’ala destra era un famoso ristorante
consigliato dalla guida Michelin e dal Gambero rosso. L’altra ala era la hall di un
esclusivo hotel a quattro stelle. Proprio sotto la rocca, sei lunghi piloni di cemento armato
azzannavano la montagna sostenendo il resto dell’albergo. Cinquanta stanze, tre suite
imperiali con vista sul baratro. Centro benessere. Piscina coperta. Sale meeting, un
cinema, postazione multimediale. E giardino d’inverno. L’antico portale di legno e
bronzo della rocca era coperto da una pensilina di ferro battuto e perspex. Sulla destra,
accanto a un fungo argentato che riscaldava l’aria, quel giorno particolarmente pungente,
spiccava un cartellone color arancione appoggiato su un treppiedi che annunciava:
IL POTERE DELL'ARMONIA INTERIORE
La fine del conflitto interpersonale come evoluzione del sé
SEMINARI E INCONTRI DIRETTI DALLA PROFESSORESSA GIOVANNA
CARAFFA E DAL PROFESSOR RENATO RISPOLI (25 febbraio – 2 marzo 2001)
medicina olistica – aromaterapia – drumming e sciamanesimo – tecniche di rebirthing –
terapia astrologica – yoga kundalini – rimotivazione personale e di coppia –
musicoterapia – cristallomanzia – ipnosi regressiva – feng shui.
E inoltre Tecniche e Pratiche di: – pulizia dell’aura – bilanciamento dei chakra –
rimozione delle energie negative dal corpo spirituale – controllo del proprio spazio
interno – riabilitazione delle proprie capacità spirituali per curare se stessi e gli altri.
Il 25 febbraio alle ore 8,30 si terrà nel ristorante della rocca la cena inaugurale a base di
piatti medievali preparati dallo chef Pasquale Muti. Parteciperà il gruppo new age Kaja
Secca.
Prenotazioni al 7768810.
Tre.
Breccola
Paolo Pascarella, detto Breccola, odiava la pista Zeus più di ogni cosa al mondo. Ma
chiamare la Zeus pista da sci era un eufemismo. Quella era una pista di pattinaggio
adagiata sopra a una montagna, un imbuto di ghiaccio che portava verso la sofferenza
fisica, un corridoio verso la morte. Nei giorni buoni il sole ci infilava, schifato, qualche
raggio per una ventina di minuti e poi, per il resto, il canalone restava in ombra e da
sopra, dai picchi, ci si infilava dentro un ventaccio che tagliava le orecchie. Quando
nevicava era peggio. Lo strato di neve fresca si posava sulla lastra di ghiaccio rendendola,
se possibile, più infida. Se facevi la stronzata di imboccarla a cuor leggero, magari a
uovo, per farci il fico con gli amici, maledicevi il giorno in cui avevi deciso di metterti a
sciare. C’erano sciatori esperti che dal terrore si erano paralizzati fra quelle cunette
ghiacciate e se la disperazione ti portava a decidere di toglierti gli sci, be’, lasciamo stare.
Secondo il Breccola quella pista aveva un’anima. Un’anima malvagia. Perfida. Sotto quel
ghiaccio ci doveva essere una concentrazione di odio e cattiveria che… Non riusciva a
spiegarselo. E non è questione di quanto sei bravo, anzi se sei bravo è peggio. Perché
pensi di poterla gestire, ma è lei che gestisce te. Rifletteva il Breccola, imbacuccato nella
sua giacca a vento mentre la seggiovia lo portava, nella nebbia, in cima alla Zeus.
Poggiata accanto a sé aveva una slitta da pronto soccorso, lo aveva chiamato alla radio
Romolo, il collega degli skipass, per dirgli che una era caduta. È proprio così. La storia di
Alberto Tomba lo dimostrava. Un anno prima il campione era venuto a Forca di Mezzo
per un giro promozionale della sua linea di abbigliamento. Dopo un banchetto
organizzato in suo onore sul campetto Tippete e la sfilata delle modelle in tute colorate,
Tomba aveva deciso, improvvisamente, di concedersi ai suoi fan e di farsi una discesa.
Mai dal giorno dell’inaugurazione dell’impianto era avvenuta una cosa così eccezionale e
degna di essere inscritta nell’albo di Valle Amena. Un campione mondiale che scende giù
per le loro piste. Tutti si erano muniti di macchine fotografiche e telecamere. Tomba si
era alzato da tavola barcollando. Si era fatto fuori un cosciotto di cinghiale ricoperto di
salsa ai mirtilli, due bottiglie di Fiano d’Avellino e una quantità indeterminata di
grappini, aveva sbottonato i pantaloni, si era infilato gli sci e salutando come un
imperatore romano era montato sulla seggiovia. Tutti lo avevano seguito. Era arrivato
sulla Zeus, tra due ali di fanatici che urlavano: «Forza Alberto! Forza Alberto! Sei tutti
noi!». Alberto si era infilato gli occhiali neri, il capellino con la visiera, aveva fatto un
gran sorriso e si era gettato giù con la sua solita, inimitabile, eleganza. Una curva
sublime, una seconda curva più sublime dell’altra, una ancora di più, un salto leggero
come una pasta sfoglia, ma quando era atterrato, la Zeus, infame bastarda, e senza
nessuna soggezione, si era vendicata. Uno sci era partito come una scheggia impazzita,
l’altro lo aveva imitato e il vincitore di svariati campionati mondiali si era fatto il resto
della pista a pelle d’orso fermandosi tra i tavolini della baita Edelweiss. Alberto si era
alzato, nell’imbarazzo generale, si era spolverato di dosso la neve e senza fiatare era
montato sulla sua Mercedes e se n’era andato. Il giorno dopo sui giornali aveva rilasciato
un’intervista infuriata in cui denunciava che quella pista era mortale, che bisognava
chiuderla immediatamente, che era un attentato alla vita degli sciatori. Per un po’,
scioccato dalla pubblicità negativa, Gianni Chiappafava, l’amministratore generale
dell’impianto, l’aveva chiusa, ma poi rendendosi conto che nessuno ci veniva fino a là
per una pista rossa lunga mezzo chilometro e una azzurra quasi in salita, l’aveva riaperta
fottendosene. Il bilancio di dieci anni di attività della Zeus era impressionante. Quattro
morti, due in coma e i contusi, i lussati, i fratturati non si contavano nemmeno. Fatti due
conti, avevi meno probabilità di farti male lanciandoti dal secondo piano di una casa che
scendendo la Zeus senza racchette, tirandoti dietro una slitta. Breccola, seduto a dieci
metri dal terreno, sentiva che le gambe gli diventavano di ricotta al pensiero di quello che
si accingeva a fare. Tre mesi prima era andato a recuperare un tedesco che si era
schiantato contro un pilone. Si era ritrovato in ospedale accanto al tedesco, però il crucco
era stato dimesso dopo tre giorni, lui dopo un mese con il bacino incrinato e le stampelle.
Si maledì per la centesima volta di avere accettato di far parte del soccorso alpino. Di fare
parte... meglio, di essere il soccorso alpino di Valle Amena. Aveva accettato solo
perché... perché non aveva abbastanza coglioni per farsi valere, non era riuscito a dire no
a quel bastardo dell’amministratore. Ci aveva provato, eccome se ci aveva provato, ma le
parole gli erano morte stecchite sulla punta della lingua come salmoni gravidi di uova. Se
le sentiva tutte lì, soggetti, verbi, aggettivi, sostantivi che gli riempivano la bocca. Sapeva
che bastava metterle in ordine, una dietro l’altra, come i vagoni di un treno e farle uscire
fuori sotto forma di frasi sensate. Niente da fare. Non riusciva a sputarle fuori, l’unica
cosa che era riuscito a fare era diventare paonazzo come un peperone e a strizzarsi come
se dovesse cagare uno stronzo troppo duro. «Breccola, senti un po’, ho pensato una
cosa», gli aveva detto quel panzone di Chiappafava fumando il suo toscano. «Ti voglio
promuovere. Tu stai tutto il giorno a gelarti il culo bucando skipass e invece potresti fare
qualcosa di molto più utile per la società e per te stesso e che farebbe salire notevolmente
il tuo punteggio in paese. Ho saputo che qualche anno fa hai seguito un corso di pronto
intervento e che eri tra i più bravi...». Niente di più falso. La provincia aveva organizzato
un corso di pronto intervento a Forca di Mezzo, ma lui non era riuscito a superare
l’esame orale. Breccola aveva emesso dei versi per dire che lui non aveva l’attestato,
versi che Chiappafava non aveva degnato d’attenzione. «E quindi ti promuovo alla
squadra soccorso alpino. Passerai il giorno in una baracca riscaldata con tanto di
radiotrasmittente e televisione e qualche volta dovrai uscire con la slitta, caricare
l’infortunato e portarlo all’ambulanza. Una cosa facile facile. Contento?». Breccola si era
cominciato ad agitare tutto, a fare no con la testa, a fremere come un bastardino
impaurito. Non voglio! Avrebbe voluto urlare. Non era in grado di farlo per un milione di
ragioni, tra cui: 1) sciava da cani, era nato lì e aveva fatto la scuola di sci, ma non era mai
riuscito nemmeno a superare lo stadio spazzaneve. 2) Il sangue gli faceva impressione, il
dolore lo paralizzava. 3) Non voleva acquistare nessun punto, non si sentiva un eroe,
anzi. Si sentiva solo un povero scemo balbuziente. 4) Gli piaceva il lavoro che faceva:
controllare gli skipass, aiutare i bambini a salire sulla seggiovia, prendere il sole, farsi
una cioccolata calda con la panna e stare tranquillo. 5) E vaffanculo a quello stronzo di
Chiappafava. «Non mi ringraziare». Chiappafava aveva gettato il toscano e gli aveva dato
una pacca sulle spalle: «È chiaro che questa è una proposta da prendere o lasciare. Se non
accetti sarò costretto a licenziarti e come sai il personale della seggiovia è in esubero e se
deve cadere una testa, quella testa è la tua, lo sai, con i problemi che ti ritrovi». E quindi
eccolo qui, il nostro Breccola, che scendeva maldestro dalla sedia con un corpetto rosso
con la croce bianca sulla schiena e quella cassa da morto argentata tra le mani. Rino,
quello che controllava l’arrivo della funivia, sempre abbronzato, con le cuffiette fuse nei
padiglioni e un cappello da cowboy, era sbracato su una sdraio, quando lo vide lo salutò
con un ghigno. «Ecco il prode Breccola. Una vecchia si è sdraiata ed è finita lunga contro
le reti. Breccola, la pista è molto incazzata e ci finisci di nuovo all’ospedale». E prese a
sghignazzare come se stesse vedendo le comiche. All’ospedale finisco accanto a quella
troia di tua sorella che le devono fare la ricostruzione plastica dell’ano per quanti ne ha
presi. Quanto gli sarebbe piaciuto potergli rispondere così. La frase era lì, formata nel
cervello, cattiva e tagliente, e in una persona normale sarebbe risalita su per la gola,
sarebbe passata sotto l’epiglottide e sarebbe uscita fuori dalla bocca come una freccia
appuntita affondando nell’onore familiare di quel bastardo come nel burro. In un
balbuziente come lui invece si incagliava tra i denti, vanificando tutto. Lui sapeva di
avere solo un blocco psicologico, come era sicuro di non essere un deficiente, e di avere
un cervello che funzionava meglio di quello di quel cerebroleso di Rino. Aveva letto che
pure Cicerone, il magister del foro romano, il grande oratore, era balbuziente e che
mettendosi un sasso in bocca riusciva a parlare. Breccola ci aveva provato, con l’unico
risultato di avere ingoiato la pietra e di essersi beccato quell’orrendo soprannome.
Trascinò la slitta oltre la ruota della seggiovia e osservò la Zeus. Era così appesa che per
vederne la fine bisognava guardarsi la punta degli scarponi. Forza, ce la puoi fare, si fece
coraggio. Breccola aveva 23 anni, era alto un metro e settanta e pesava un’ottantina di
chili. Aveva un faccione rosso come una costata di manzo, un nasone a patata, due
occhietti azzurri e i capelli tagliati con la macchinetta. Un sorriso gentile gli attraversava
le labbra, ma ora, di fronte a quella parete verticale, la bocca gli si era serrata in una
smorfia di terrore. Dalla nebbia spuntavano un mare di gobbe trasparenti. La vecchia che
si era sdraiata non si vedeva, né si era formato il solito capannello di osservatori. Forse
era caduta più in basso, dove la pista curvava sopra un crepaccio profondo. Là avevano
messo delle reti di protezione, e gli sciatori ci finivano come branchi di sardine. Se la
vecchia era là forse non si era fatta tanto male. Speriamo. Breccola si infilò il cappello
con il pon pon, si chiuse bene la giacca, si fece il segno della croce e afferrò i manici
della slitta. Era pronto.
Quattro.
BRECCOLA
Se il capo, il tronco e gli arti superiori di Paolo Pascarella, detto il Breccola, erano più o
meno pronti ad affrontare la discesa, la parte inferiore del suo corpo no. Le sue gambe
avevano la consistenza molliccia della certosa Galbani. Vai! Forza! Si fece coraggio e
gettò un po’ di peso a valle e cominciò a scivolare giù a spazzaneve. Superò le prime
cunette in apnea, poi prese un respiro. Avanzava lento nel grigio e nel freddo rigido come
un manichino. La slitta del soccorso alpino, alle sue spalle, gli gravava addosso. Non
c’era un’anima sulla pista. Normale, in un giorno di merda come quello. Con quella
temperatura siberiana e una nebbia fitta fitta che non vedevi la punta degli scarponi. Solo
una malata di mente che veniva da lontano e che non aveva nessuna esperienza della
perfidia meteorologica dell’Appennino centrale poteva avventurarsi sulla Zeus con un
tempo come quello. Ma dove diavolo era? Breccola, intanto, per la pendenza che
cresceva, aveva spalancato un enorme spazzaneve del raggio di 180 gradi e sentiva
caviglie e tendini che protestavano come gomene di un traghetto durante una libecciata.
Le lame degli sci scricchiolavano azzannando il ghiaccio. Scendeva giù dritto, facendo il
minimo di curve, in modo da non sbilanciare la slitta che si tirava dietro. Superò il primo
tratto della Zeus e nella nebbia cominciò a materializzarsi il curvone del monaco,
chiamato così perché un francescano di Roccella Ionica, qualche anno prima, ci aveva
rimesso le penne. Non vado male, però, si disse contento Breccola. Della vecchia però
ancora nessuna traccia. Attraverso la foschia, si intravedeva la lunga rete nera, tenuta in
piedi da bastoni colorati di rosso, che recintava la curva del monaco. Era lì per evitare che
orde di sciatori, in giornate nebbiose come quella, finissero nel precipizio. Breccola era
sicuro di trovare la vecchia infilata nella rete come una mosca in una ragnatela. Ma non
fu così. Nessuno, solo uno stormo di grossi corvacci neri appollaiati sul crinale della
montagna che gli gracchiavano contro, gelandogli il sangue. Lentamente un sospetto, un
terribile sospetto, si fece spazio nella mente di Breccola. Cercò di respingerlo, ma poi,
collegando una serie di osservazioni, improvvisamente gli fu tutto chiaro. Non c’era
proprio nessuno sulla pista, per il semplice fatto che nessuno quel giorno aveva preso la
seggiovia oltre lui e... Rino! Rino gli aveva fatto uno scherzo. Perché lo chiami scherzo?,
gli chiese una vocina nel cervello. In effetti quello non era uno scherzo. Uno scherzo,
teoricamente, deve essere divertente. Uno scherzo è quando ti fanno buu dietro la porta,
quando t’infilano la neve nel cornetto, quando ti prendono la sciarpa e te la fanno
ghiacciare, al limite quando ti prendono a sassate o ti ammazzano il gatto. Questo no.
Questo era solo un attentato alla sua vita. Un tentativo di omicidio. Una fitta di dolore gli
attraversò il cuore. Gli occhi gli si gonfiarono e la gola gli si chiuse. Non ti metterai a
piangere in mezzo alla Zeus?, continuò la vocina nella sua testa. Perché non mi lasciano
in pace? Che vi ho fatto di male? Queste due domande avevano accompagnato
l’esistenza del Breccola da quando il suo intelletto aveva cominciato a produrre i primi
pensierini logici e a capire che la sua sarebbe stata un’esistenza di merda, punteggiata da
scherzi e prese per il culo, immersa nella solitudine. Da quando aveva cominciato a
socializzare, non c’era stato giorno dove qualche amichetto/a non si fosse preso la briga
di fargli notare che era un rotolo di coppa, un ciccione demente, un povero balbuziente,
un brufolo ambulante, un mongoloide, uno spastico, un deficiente, un ricchione. E se
volava uno schiaffo, uno sputo, un sasso, ci si poteva scommettere che se lo beccava quel
coglione del Breccola. Con gli anni e le vessazioni continue, intorno al cuore di Breccola
si era formato un callo, un carapace durissimo. Con fatica e pena, aveva affinato le doti di
sopportazione e di pazienza di un monaco tibetano. Aveva seccato i dotti lacrimali. Per
fare questo, s’immaginava di avere al posto dello stomaco una fornace rivestita di
materiale refrattario, capace di bruciare quantità impressionanti di dolore, rabbia e
frustrazione e di trasformarle in forza interiore e indifferenza. Lontano come Alpha
Centauri, si ripeteva come un mantra dopo che i bulli del paese gli avevano accartocciato
la bicicletta. Lentamente il livore si spegneva e si trasformava nel sorriso imperturbabile
di un Budda appenninico. Questo faceva impazzire i suoi carnefici, che, frustrati,
cercavano di estirpargli dalla faccia quel sorriso idiota riempiendolo di pugni e calci. Ma
Breccola resisteva, sapeva che un giorno ci sarebbe stata giustizia. Qui o in Paradiso. Ma
adesso, sulla Zeus, si rese conto che per colpa di questo ultimo scherzo bastardo qualcosa
dentro di lui si era rotto. Basta! Aveva ingoiato troppe tonnellate di merda. Era andato in
sovraccarico come una lavapiatti troppo stipata. La fornace, nelle sue viscere, aveva
smesso di bruciare e il dolore che sentiva non poteva essere più spento. Anzi, lì, fermo in
mezzo alla pista, avvertiva che si stava amplificando, che cresceva immenso come quello
del Nostro Salvatore sul Golgota. Ma siccome lui non era Gesù Cristo, né tanto meno suo
parente, non sarebbe stato in grado di perdonare Rino e il resto della razza umana. Quel
dolore lancinante si tramutò in rabbia, una rabbia acida, spumante e acre come il mosto
selvatico, riscaldandogli le vene. Un rigurgito di bile gli salì dal profondo delle viscere
fino in gola, strinse le racchette e fece un rutto esplosivo che fece volare via lo stormo di
corvi. Vi odio. Tutti. Rino. Chiappafava. I colleghi, quelli che gli facevano i versi alle
spalle e quelli che gli facevano mille domande solo per il piacere di vederlo spremersi
come un deficiente e quelli che lo trattavano come fosse un cerebroleso. Li odiava. Tutti.
Nessuno escluso. Dovete morire. Soffrendo. Da quando era piccolo, forse ancora prima
che fosse tempo di parlare, non c’era stato un giorno in cui non si era sentito trattato
come un essere diverso, una creatura da baraccone. In 22 anni non era riuscito a trovare
una persona, nemmeno sua madre – che aveva cercato di mandarlo in istituto e che per
fortuna era morta prematuramente stroncata dal fumo – che avesse avuto un briciolo di
comprensione. Che volesse capire chi fosse davvero Paolo Pascarella, in arte Breccola.
Lui non aveva mai chiesto a nessuno di essere rispettato, compreso. A queste stronzate
non ci credeva. Sapeva, come sapeva che la terra gira intorno al sole, che l’umanità era
formata da una manica di figli di troia che godevano a infierire sui più deboli. Breccola
aveva semplicemente chiesto di essere lasciato in pace. Come una pietra. Come una
cazzo di guglia di quella montagna di merda che gli incombeva sulla testa. Forca di
Mezzo, posto di insensibili, montanari, figli di puttana insensibili. «Dvvvvttttttttttt
mmmmmmirre ttttuttti!», urlò al vento e alle guglie innevate, sollevando le mani al cielo
e dimenticandosi che la slitta, traditrice, era proprio alle sue spalle. Lo colpì sopra i
polpacci. Breccola rimase un attimo in bilico, ma poi perse l’equilibrio e mulinando le
braccia tentò disperatamente di ritrovarlo. Ma gli sci gli scapparono sul ghiaccio vivo e
cadde di culo e a gambe spalancate, finendo dentro la slitta che prese subito velocità,
schizzando come un proiettile impazzito sopra le cunette. Breccola, mugugnando strani
dittonghi provò a fermare la slitta con le mani, ma la neve era dura come marmo. Gli sci
volarono via e così pure le racchette. Steso in quella specie di bara d’alluminio, aveva la
sensazione che il paesaggio intorno a lui fosse diventato una serie di strisce grigie che gli
fuggivano alle spalle. Un po’ come in Guerre Stellari quando Luke e i suoi amici
entravano nell’iperspazio. Un rombo gli riempiva le orecchie e il vento gelido gli entrava
nella bocca spalancata in un ghigno di terrore. Il fondo della slitta sfiorava appena la
schiena trasparente delle cunette. Aveva due certezze: che stava battendo ogni record di
velocità di discesa con lo slittino e che sarebbe morto schiantato contro una roccia.
Sollevò la testa e quando capì che era lanciato a quella velocità folle contro le recinzioni
del curvone del monaco, svuotò la vescica sul plaid scozzese. Quelle bastarde avrebbero
retto. Breccola si ricordava quello che aveva detto Chiappafava il giorno in cui erano
state installate e ben bene pubblicizzate. Erano costituite da una fibra sintetica altamente
tecnologica, che veniva usata dai rimorchiatori giapponesi per tirare fuori le petroliere dal
porto di Osaka. «Se ci finisce contro pure una Mercedes Station quelle reti non si
rompono». Questo aveva detto Chiappafava e Breccola si era chiesto che cavolo ci faceva
una Mercedes su una pista da sci. Almeno in questo il bastardo non poteva aver
raccontato una delle sue stronzate. Dietro quelle barriere di nylon c’era solo un baratro
senza fondo di ghiaioni, lastre di ghiaccio, spunzoni di pietra. La fascia nera delle
recinzioni si faceva sempre più grande e accogliente. La prua della slitta ci si sarebbe
infilata dentro e quindi non c’erano pericoli, al massimo si sarebbe rotto in mille…
Quando, tra le cunette apparve, come un onda anomala, un’enorme cupola di ghiaccio,
perfetta come la tetta di Anna Falchi, che lo spazzaneve non s’era curato di appiattire.
Breccola cercò di buttarsi giù, ma era troppo veloce e la slitta schizzò sopra la cunetta e
decollò superando la rete, superando la pista, superando le montagne e librandosi nel
cielo come uno Scud durante la guerra del Golfo.
Cinque.
ARNALDO COTUGNO
Alle nove del mattino Arnaldo Cotugno, il proprietario del Relais “La Rocca” e del
Mobilificio Marsicano, era sprofondato nella poltrona anatomica del suo ufficio, dietro
una scrivania che sembrava il ponte della Nimitz. Cotugno era un omone robusto, sulla
cinquantina. Aveva due spalle possenti, il collo di un mastino e due mani tozze e forti. I
capelli tinti di un rosso ebano gli formavano un’onda che gli ricadeva sulla fronte, bassa
come quella di un orango. Due fessure nere e senza espressione erano divise da un naso
schiacciato. Indossava come sempre i pantaloni di una tuta Adidas, una felpa di pile e
scarpe da ginnastica Nike. Stava fumando una vecchia Diana Blu che aveva trovato
dimenticata in fondo a un cassetto. Era la prima sigaretta dopo cinque anni di completa
astinenza. Dietro le spalle di Cotugno, l’enorme vetrata dello studio, che si affacciava sul
panorama mozzafiato della valle, respingeva la coltre di nebbia che, unita alle luci gialle
e soffuse nascoste dietro la boiserie di mogano scuro, dava alla stanza un’atmosfera
irreale e fuori dal tempo. Cotugno continuava a ripensare all’incubo mostruoso che lo
aveva risvegliato urlante nel mezzo della notte. Un sogno così vivido e così impresso
nella sua memoria da sembrare reale. Aveva sognato di salire in pigiama le scale che
portavano alla sala banchetti della Rocca. Ma le pareti erano nere, coperte di fuliggine e a
terra non c’era moquette, ma pietra gelata. Mano mano che saliva, l’aria era sempre più
calda: si sentivano un odore penetrante di legna che arde e un profumo dolciastro,
soffocante. La porta della sala era socchiusa. Arnaldo l’aveva spalancata con addosso una
strana ansia. I tavoli non c’erano più. Le teste dei cervi e di cinghiali appesi al muro non
c’erano più, la foto con Mara Venier non c’era più, la cantinetta refrigerata con i vini non
c’era più e neanche il frigo dell’antica gelateria del corso. Nel camino ardeva un tronco
largo come una condotta fognaria. Le fiamme salivano per la cappa alte e vivaci
irraggiando la stanza di bagliori sanguigni. Al centro della stanza c’erano, buttati a terra,
dei cappotti di montone e delle pellicce di visone. Sdraiata sopra c’era la sagoma scura di
un uomo. Un omone completamente nudo che ansimava. La schiena lucida di sudore
rifletteva il bagliore del fuoco. La frangetta mogano gli copriva il volto. Poi aveva visto
due braccia scure che lo stringevano e due lunghe gambe di donna che gli serravano i
fianchi. Scopavano come assatanati. Lei ansimava in preda al piacere e si avvinghiava
alla schiena dell’uomo con le unghie. Arnaldo sapeva che quell’uomo era lui. Si vedeva
scopare come un toro al centro della sala banchetti. In piedi, in pigiama, accanto alla
porta, riusciva a percepire il piacere del suo clone. Aveva sentito il suo membro duro e
pulsante che scivolava nelle viscere calde e liquide della donna. A un tratto, però, le due
sagome si erano immobilizzate come se avessero percepito una presenza. La donna aveva
sporto la testa da sotto il suo braccio. Era Giordana. Sua figlia. Lo guardava senza
espressione. Arnaldo Cotugno si era svegliato urlando e con un’erezione nel pigiama.
Sei.
ARNALDO COTUGNO
Arnaldo Cotugno spense la terza cicca, si alzò dalla poltrona e affondando nella moquette
nera, folta come il pelo di una pantera, attraversò l’enorme ufficio e cominciò a
trotterellare su un tapis roulant posizionato, strategicamente, di fronte alla vetrata che si
affacciava sulla valle, ora coperta da una massa di nuvole color cappuccino. Arnaldo non
riusciva a capire perché il cervello gli avesse fatto uno scherzaccio del genere. è da
psicopatici pervertiti sognare di trombarsi la propria figlia? Forse doveva parlarne con un
medico, uno psichiatra. Quando ricordò la scena in cui Pannocchietta gli faceva un
pompino in macchina, per poco non diede un pugno al display dell’attrezzo ginnico. Il
pensiero di sbattersi la luce dei suoi occhi gli faceva venire ribrezzo, peggio che pestare a
piedi nudi una carogna di cane. Una volta, Carmela Tricarico, la farmacista, un’esperta di
robe psicologiche, gli aveva parlato del subconscio e dei sogni. La parte oscura, la
chiamava. Il subconscio, se Arnaldo aveva capito bene, è una parte del cervello che di
giorno funziona come una specie di aspirapolvere, succhiando tutto quello che uno pensa,
desidera, ricorda e fa, e poi di notte, mentre dormi, produce una specie di macedonia e te
la ripropone. E questo, sempre secondo Carmela Tricarico, serve al cervello per
riorganizzarsi e alla memoria per funzionare. Qualcosa del genere, insomma. Questo
poteva pure essere vero, ma in vita sua Arnaldo Cotugno, e poteva giurarlo su quant’è
vera la Santa Trinità, non aveva mai desiderato accoppiarsi con sua madre, sua figlia e
nemmeno qualche parente lontano, e quindi il suo subconscio non si doveva permettere di
farlo eccitare per una cosa così abominevole e contro natura. «Manuela», ansimò
guardando verso il cielo coperto di nuvole. «Manuela, perdonami». Si stava rivolgendo a
sua moglie, morta dieci anni prima per un cancro all’intestino. «Non è colpa mia. Ti giuro
che non ho mai avuto pensieri sporchi su nostra figlia. Mai, mi potesse venire un
coccolone qui, all’istante». Gli sembrò di sentire la voce della moglie che gli rispondeva
dal cielo. Forse hai sognato questa roba immonda perché hai sistemato quel grande
figlio di puttana del cantante che aveva violato l’innocenza della nostra adorata
Pannocchietta. Parole sante.
Sette.
LINO MELONE
Il cantante che importunava Pannocchietta, l’adorata figlia di Arnaldo Cotugno, si
chiamava Sandro Maranzano, in arte Lino Melone. Da sei giorni però aveva
improvvisamente smesso di chiamarsi e nello stesso tempo di essere. Il suo cadavere
giaceva sul fondo melmoso di un laghetto per la pesca sportiva, a circa quattro metri di
profondità. La corrente lo faceva fluttuare mollemente tra gli steli coriacei della
Vallisneria Gigantea come un’odalisca in preda agli allucinogeni. Un branco di Salmo
Trutta Fario, chiamati comunemente trote, gli nuotava intorno attirato dal bagliore dei
resti sbrindellati dello smoking di paillettes blu. Aveva già cominciato a gonfiarsi e, se
non fosse stato trattenuto da due secchi pieni di cemento a presa rapida in cui gli avevano
immerso i piedi prima di gettarlo in acqua, avrebbe galleggiato al centro del laghetto
come una boa di ormeggio. I gamberi, i granchi e i paguri d’acqua dolce non erano
rimasti con le chele nelle chele. Avevano subito cominciato a colonizzargli tutto
l’apparato digerente, a otturargli l’esofago e farsi delle tane tra gli alveoli polmonari. La
faccia, nonostante si fosse allargata come in un dipinto di Botero, continuava, in modo
singolare, a far trasparire i tratti del grande sciupafemmine che era stato. Il mascellone, lo
zigomo alto, il nasino alla francese, la fronte spaziosa. Ma il riporto, che in vita formava
un tappeto lucido e scuro sulla calotta, si era sollevato e ondeggiava come un ciuffo di
Posidonia. L’incarnato aveva assunto un color verde pisello dovuto alla colonizzazione
del derma da parte di alghe cianoficee unicellulari.
Ma per capire le ragioni e i tragici accadimenti che avevano portato il cantante melodico
in fondo a un laghetto per la pesca sportiva, dobbiamo tornare un po’ indietro nel tempo e
precisamente di sei giorni, quando Arnaldo Cotugno e i suoi due scagnozzi, il greco Nilo
Papadopulos e il marchigiano Enzo Tavazzi, misero finalmente le mani su Lino Melone.
Quel giorno, Arnaldo, seduto a un tavolo del suo ristorante con sua figlia, aveva deciso
che così non si poteva più andare avanti. Doveva fare qualcosa. Pannocchietta era
cambiata troppo. Non la riconosceva più. Vabbè che era orfana di madre, vabbè che era
adolescente, vabbè che Forca di Mezzo non era il massimo del divertimento, ma vederla
rifiutare il suo piatto preferito, la fantasia di carne ai ferri con contorno di cicorietta
ripassata e patatine fritte, per un actimel e un integratore vitaminico era una cosa che gli
faceva troppo male. Era sbottato. «Pannocchietta mia, ma si può sapere che hai? Dillo a
papà tuo. Non mi mangi più. Non mi ridi più. Non mi esci mai. Non vieni più nemmeno a
caccia di cinghiali, la cosa che ti piaceva di più al mondo… Ti ho comprato una Porsche
Cayenne che, non per fartelo sapere, ho pagato sessantamila euro uno sull’altro, e non ti
sei nemmeno degnata di tirarla fuori dal garage. Che ti succede?». Ma Carla lo aveva
guardato con gli occhi spenti e aveva sospirato: «Tu certe cose non le puoi capire». Si era
alzata e si era chiusa nella sua stanza. Quella ragazza, aveva concluso Arnaldo, doveva
avere un segreto. Un segreto di femmina. Non poteva più continuare a considerarla una
bambina. In effetti, negli ultimi mesi era cambiata pure nel fisico. Si era fatta donna. Era
sempre minuta, ma con tutte le cose al posto giusto. E indossava minigonne e magliettine
striminzite che si aprivano su un décolleté che Arnaldo non ricordava così florido. Non è
che si è rifatta le tette?, aveva pensato, ma poi aveva scacciato quell’ipotesi. E si era pure
combinata qualcosa ai capelli, tipo se li era stirati. Assomigliava maledettamente a sua
madre. In meglio. Arnaldo se n’era tornato nel suo studio e aveva chiamato Nilo
Papadopulos, il suo braccio destro balcanico, e gli aveva detto: «Scopri che ha mia figlia,
ma mi raccomando, con tatto. Non deve saperne niente». Il greco, un tipo di poche
parole, magro come una cavalletta e nervoso come un furetto con le emorroidi, gli aveva
detto di stare tranquillo. Non erano passate neanche tre ore che il greco era tornato.
«Allora, che hai scoperto?». Papadopulos si era acceso una sigaretta. «Tua figlia è
innamorata». Arnaldo aveva sentito una fitta al ventricolo sinistro, lì dove gli avevano
fatto il by-pass. Si era messo una mano sul cuore. Sapeva che prima o poi sarebbe
successo, ma a diciassette anni non era troppo presto? «Di chi?». «Di un certo Lino
Melone». «E chi cazzo è?». «è un cantante cinquantenne di Caserta specializzato nel
repertorio partenopeo. Un gigolò che ha avuto un certo successo nei primi anni 90 con la
canzone Concetta Pancetta. Ora ramazza qualche euro tra matrimoni, sagre di paese e
congressi medici. Ti ricordi che circa tre mesi fa c’è stato un congresso sull’artrosi
dell’anca, qui alla Rocca?». «E allora?» «Melone ha cantato alla serata d’inaugurazione
e…», il greco di colpo sembrava restio a parlare. «E… dopo ha conosciuto tua figlia…».
«E...?» Nilo prese una boccata di fumo e sparò la bordata. «E niente, se l’è scopata nel
cesso degli uomini». Arnaldo Cotugno era sempre stato un incassatore. Uno capace di
restare in piedi anche dopo notizie ferali. In paese si diceva che Cotugno ingoiava sbarre
di ferro e cagava bulloni. Ed era vero. Quando la finanza lo aveva multato per una frode
fiscale di sei milioni di euro, non aveva battuto ciglio, quando era crollata un’ala intera
della Rocca costata una cifra impronunciabile, aveva detto: «Meglio. La rifaremo più
grande». Anche quando il cancro si era portato via sua moglie Manuela dopo sei mesi di
atroci sofferenze in un letto di ospedale, non aveva dato a vedere a nessuno del fatto che
l’unica cosa che lo attraeva era il baratro sotto al balcone del belvedere della Rocca. E se
non lo aveva scavalcato e si era spiaccicato 500 metri sotto era solo per amore di sua
figlia. I problemi e i dolori, diceva, lo rendevano solo più forte e incazzato. Ma alla
notizia che sua figlia era stata sverginata da un gigolò di 50 anni nella toilette degli
uomini, Arnaldo Cotugno per la prima volta in vita sua aveva vacillato. Quello scud
aveva fatto breccia tra le squame della sua rozza armatura e aveva colpito un muro
maestro facendo incrinare l’intera architettura. Aveva stretto i braccioli della poltrona e si
era piegato su se stesso e aveva vomitato le costolette di agnello e le cipolle in agrodolce,
la panna cotta che si era fatto a pranzo e il caffè e il cannolo siciliano che aveva preso a
colazione e le pappardelle tartufate saltate nella crema al Barolo della sera prima e quello
di due, tre, quattro giorni prima, di un mese prima, aveva rigurgitato tutto quello che si
era ingozzato lì alla Rocca e in tutti i ristoranti della guida del gambero rosso in cui si era
sfondato negli ultimi dieci anni. Aveva vomitato tutto quello che aveva mangiato in vita
sua, fino ai biscotti plasmon, al latte di sua madre, al liquido amniotico. Aveva rimesso
sul pavimento la morte di Manuela, la paura di non essere abbastanza cazzuto, la volta
che aveva sparato al sovrintendente alle belle arti, la volta che aveva spezzato le cosce al
proprietario del ristorante “La zampogna lucana”, e quella che aveva corrotto mezza
regione e la volta che aveva portato sua figlia all’ospedale per una peritonite e per poco
non ci aveva lasciato la pelle e la volta che si era inculato con Tavazzi Mery, un travestito
in una piazzola di sicurezza della superstrada. Aveva vomitato ogni passo falso, ogni
insicurezza, ogni sconfitta e vittoria lì sulla moquette nera del suo ufficio. Il greco aveva
perso la sua flemma balcanica, sicuro che il suo capo avesse un alien nello stomaco, che
sarebbe morto autovomitandosi. E invece lentamente, come un riccio dopo un incendio,
Arnaldo Cotugno aveva cacciato su la testa e aveva preso una boccata d’aria e aveva
detto: «Deve morire». Il greco aveva spento la cicca nel portacenere e aveva fatto: sì.
Non era stato molto difficile beccarlo. Il cantante girava su un camper grosso come un
autotreno su cui era dipinto in rosso il suo nome e in oro una lunga scia di stelle.
Quell’incosciente ancora bazzicava sereno la zona, quella sera si era esibito a una cresima
in un paesino vicino a Forca di Mezzo e poi aveva parcheggiato il camper in uno spiazzo
che si apriva nel bosco non lontano dalle piste di sci. Arnaldo Cotugno, Nilo Papadopulos
ed Enzo Tavazzi parcheggiarono una Mercedes nera come quella notte senza luna lungo
la provinciale e si avviarono in silenzio verso lo spiazzo. Cotugno stringeva in mano il
crick della macchina. «Nilo, ma come hai scoperto che quel figlio di puttana si è fatto
Pannocchietta?», fece a un tratto Arnaldo Cotugno afferrando per un braccio il greco.
Papadopulos cercò di glissare. «Fonte sicura». «Quale? Non voglio ammazzare uno che
non c’entra un cazzo». «Enrichetta. L’amichetta del cuore di tua figlia». «Come hai fatto
a farla parlare?». Il greco fece una smorfia, come a dire che era stata una passeggiata, una
cazzata.
In realtà non lo era stato affatto. Aveva preso la ragazzina mentre tornava sola soletta
dalla lezione di tennis. L’aveva presa. Nel senso che l’aveva investita con la macchina.
Piano. Quel tanto da rimbambirla a sufficienza per caricarla e portarla nella stireria della
Rocca. Lì l’aveva legata su una sedia e, tanto per essere chiari, le aveva dato due pizze e
poi le aveva domandato perché Carla era triste. Enrichetta, incredibile, aveva resistito.
Aveva detto che era pronta a morire, ma non avrebbe mai tradito la sua migliore amica.
«Sei sicura?». «Sì». «Sei proprio sicura?». «Sì». Il greco aveva acceso un ferro da stiro e
bollente glielo aveva stampato su un braccio. A quel punto la ragazza aveva tirato fuori
tutto. Ma forse, si era detto Papadopulos dopo averla abbandonata in un cassonetto, era
meglio non raccontare al capo come era arrivato in possesso delle preziose informazioni.
I tre arrivarono davanti al camion. Dagli oblò trapelavano un debole bagliore e delle note
di chitarra. Il cantante era dentro. Cotugno bussò alla porta.
Otto.
LINO MELONE
Lino Melone, il cantante melodico di origine lucana, se ne stava nel suo camper avvolto
da una nube di fumo e teneva d’occhio il timer del forno elettrico. Non si era nemmeno
tolto l’abito di scena, uno smoking di paillettes blu, tanto era affamato. Attraverso l’oblò
del forno osservò sbavando una pizza Bella Napoli modificata. Sopra ci aveva adagiato
un letto di radicchio rosso, tre fette di speck e mezza provola affumicata. Una vera delizia
che avrebbe attenuato un po’ il baratro di frustrazione e rancore in cui era precipitato quel
pomeriggio cantando a una cresima a Forca di Valle. Un ennesimo colpo per il suo
orgoglio, ridotto a uno straccio consumato. Si era sgolato in un microfono che non
funzionava mentre una mandria di montanari ignoranti si sfondava di arrosticini e
interiora di capra ai ferri. Neanche una richiesta, un applauso, un bis, una stretta di mano.
250 euro e avevano voluto la ricevuta fiscale. «Pidocchi!», fece Lino notando che la
provola cominciava a fondere costituendo un’amalgama con l’affettato e il radicchio. Da
qualche parte, aveva letto che la felicità è fatta di piccole cose, di momenti che, sommati,
rendono una vita di merda degna di essere portata avanti. Una Bella Napoli con la
modifica, un camper, una puntata di Porta a porta con Nancy Brilli, la possibilità remota
che Yelena, una cameriera croata che aveva conosciuto quel pomeriggio, gli facesse un
pompino come Dio comanda. Lino non ci sperava più di tanto che la croata venisse. Gli
aveva detto che non sapeva come andare da lui e che prendere la corriera e poi farsi i due
ultimi chilometri a piedi non le reggeva. In qualche modo gli aveva fatto capire che si
aspettava che lui l’andasse a prendere. E secondo quella psicotica lui muoveva il camper
per un pompino? Quant’erano vere le due leggi del pompino che lui aveva redatto dopo
anni di esperienze sessuali! 1) Un pompino non è mai gratis. 2) Un pompino non arriva
mai da solo. Insieme ci sono chiacchiere idiote, telefonate, falsa intimità e tante altre
rotture di coglioni. Guarda che cazzo era successo con quella lì, Carla non si ricordava
come, la figlia del proprietario del Relais la Rocca che si era fatto nel bagno dell’albergo
durante un congresso di ortopedici. La ragazzina aveva perso la testa. Un’invasata. Lo
aveva investito prima con una grandinata di sms, poi lo aveva braccato con l’ostinazione
di un terrier e quando finalmente lo aveva scovato, lui l’aveva cordialmente pregata di
andare a fare in culo. Non lo avesse mai fatto. Una tragedia! Gli era scoppiata a piangere
davanti come se le avessero detto che aveva il sarcoma di Kaposi, si era rotolata a terra,
nella polvere, strappandosi i capelli e aveva minacciato, se lui si rifiutava di fidanzarsi
con lei, di andare da Maria De Filippi a dire a tutto il mondo che un figlio di puttana
l’aveva sverginata, le era venuto in bocca e l’aveva abbandonata. E che sarà mai? Se non
l’avesse sverginata lui ci avrebbe pensato al più presto qualche indigeno. Se non fosse
stato che quella troietta non aveva ancora 18 anni e con ‘ste storie si rischia la galera, ce
l’avrebbe mandata dalla De Filippi, sarebbe stata l’occasione per il rientro di Lino
Melone nel piccolo schermo. Da grande seduttore. Certo, si disse Lino, mentre tirava
fuori la pizza dal forno, com’erano cambiate le donne negli ultimi anni. Quando lui era
giovane potevi pure stuprarle che quelle rimanevano in silenzio, buone buone. Avevano
paura della gente. Di perdere l’onore. Di passare per donne di malaffare. Le adolescenti
di oggi non vedevano l’ora di essere abbandonate per farne un caso nazionale, per poter
urlare al mondo il loro dolore, per poter piangere davanti a una telecamera. Ma che razza
di mondo è quello in cui non esistono più le figure di merda? Dopo queste amare
riflessioni poggiò la pizza fumante sul tavolinetto in compensato al centro del camper
apparecchiato con una tovaglia a quadretti. Aprì il piccolo frigo e prese un peroncino
gelato. Si sedette e alzò il volume del televisore incastonato tra i pensili sopra l’oblò. «Ci
voleva proprio», si disse soddisfatto e cominciò a tagliarsi una fetta. Nel piccolo schermo
in bianco e nero la Brilli parlava del suo ruolo in Sms dall’aldilà, una donna che gli
moriva il marito in un terribile incidente ferroviario e dopo qualche mese le arrivavano
degli sms dal consorte defunto che diceva di stare in paradiso. Una fiction Rai che
racchiudeva in sé tragedia, amore e un pizzico di thriller. La Brilli era la classica
femmina per cui Lino avrebbe potuto perdere la testa. Donna matura, ma in salute, con
fisico statuario e cervello funzionante, che non si era mai rifatta e in più con gli anni si
era rivelata artista di livello internazionale. E c’era stato un tempo in cui Lino Melone
avrebbe potuto avere un’avventura con la Brilli con la facilità con cui ora si stava
sparando quella pizza allo speck. La mente gli tornò indietro al 1989, quando aveva vinto
L’Agerola Music Award con la sua Hit Concetta pancetta, che era stata per sei mesi
trasmessa ininterrottamente da tutte le radio campane. Poi che era successo? Non erano
chiare nemmeno a lui le ragioni della sua calata agli inferi. Aveva inanellato, come un
abile giocoliere, una serie di cazzate madornali e di imbarazzanti ingenuità. La cocaina,
quel figlio di puttana del suo agente che gli aveva rubato tutti i diritti, l’operazione
all’anca. Troppe sfighe. E ora eccolo qua, in un camper gelato, in mezzo a dei buzzurri...
Va be’, basta, non ci doveva pensare. Si alzò e mise il piatto nel lavandino e si annusò
l’ascella. Per un attimo prese in considerazione l’idea di farsi una doccia, ma poi rifletté
che non aveva acceso lo scaldabagno: «Domani». Si stava buttando sul lettone ad acqua
che aveva disposto in fondo al camper quando sentì bussare alla porta. Nooo. La croata!
Che palle! Non ce la poteva fare. Aveva lo stomaco gonfio e gli era calata addosso la
solita tristezza bestia e in questo stato avrebbe fatto una figura di merda anche se si
faceva fuori una confezione di Viagra. E se non la faceva entrare? Avrebbe visto le luci
accese e avrebbe capito che non le voleva aprire. «E chi se ne frega!», mormorò
sdraiandosi sul letto e aumentando il volume della tv. La croata riprese a battere contro la
porta. E se non era la croata ed era la ragazzina? Lino fece un rutto alla birra. No, adesso
non ce la poteva fare a discutere con quella fuori di testa. Altro che Attrazione fatale.
Lino non si capacitava che una di neanche 18 anni si potesse prendere una sbandata di
quelle proporzioni per uno come lui, che poteva essere tranquillamente suo padre. Fuori
quella continuava a picchiare contro la porta. Delle botte impressionanti che facevano
rullare tutto il camper. Ma che cazzo voleva fare? Distruggergli il camper? Questo no,
quella baracca ambulante era l’unica cosa che gli era rimasta. Si alzò di scatto dal letto:
«Ora, signorina, hai rotto veramente il cazzo». Corse ad aprire la porta infuriato: «Ma ti
se…?». Il resto della frase se lo tenne per sé quando vide chi c’era di fronte a lui. Non era
né la ragazzina fuori di testa né tanto meno la croata. Erano tre tipi. Tre tipi di quella
razza bastarda e assassina che quando li incontri in una metropolitana affollata percepisci
nell’aria, come una rondine percepisce l’arrivo dell’inverno, odore di guai, di guai seri, di
sangue e ossa rotte e sai che se solo fiati, se solo li sfiori con uno sguardo, sono cazzi da
cagare, sai che loro non aspettano altro, sai che non vedono l’ora che tu gli dici di
piantarla di toccare il culo alla tua ragazza e allora smetti di respirare, abbassi la testa e
cerchi, come una falena, di assumere lo stesso colore dei sedili color pisello della
carrozza. Figuriamoci vederseli apparire davanti sopra una montagna dell’Appennino
centrale a diversi chilometri da un centro abitato e tu, solo, dentro un camper. Quello
davanti, che doveva essere il capo, riportò il cantante agli anni dell’elettrotecnico, a
quella volta che era andato in gita a Roma e lo avevano portato al Museo paleontologico
Pigorini dove c’era la statua di un ominide. Le differenze tra il nostro progenitore e il tipo
di fronte a Lino erano irrisorie. Quello lì era nudo e in mano stringeva una clava, questo
qui sfoggiava una tuta acetata adidas e in mano stringeva un crick. Gli altri due erano
decisamente più civilizzati, ma avevano facce altrettanto cattive. Poi la mente di Lino
Melone si concentrò sul perché quei tre volevano fargli del male, perché non c’erano
dubbi che gli volessero fare del male. Fu un fiorire di ipotesi, tutte assai spiacevoli e
suggestive, ma quella che lo convinse e contemporaneamente lo terrorizzò di più fu che
fossero stati mandati da Polio, uno strozzino di Petrizzi in provincia di Catanzaro, a cui
doveva ancora svariati milioni. Lino afferrò la porta con l’intenzione di chiuderla, ma il
Neanderthal gli schiantò il crick sulla rotula destra. Crollò a terra colpendo con la tempia
prima lo spigolo del mobiletto e poi il ciglio in acciaio del gradino. Una luce accecante,
come quella che si era immaginato ci fosse al fondo del tunnel che portava le anime
nell’aldilà, gli esplose davanti. Per un istante tornò a vederci e si rese conto che era steso
a terra e gli stava arrivando sulle gengive la suola di un mocassino di Ferragamo. Poi, per
misericordia del Signore, tenebre dolorose lo inghiottirono. La luna era un cerchio
perfetto, piazzata al centro di un cielo stellato. I suoi raggi si diluivano sulla superficie
argentata di un laghetto incoronato da una sottile e grigia striscia di nebbia da cui
spuntavano gli steli dei loti e delle canne acquatiche. Sentiva un coro di rane che gli
gracidavano nei timpani e nelle narici un odore buono di fango e di vegetazione. Per
essere bello era bello. Niente da dire. Rinvenire di fronte a uno spettacolo naturale di quel
genere avrebbe potuto rimettere in pace con il mondo Lino Melone se non avesse avuto
quel dolore lancinante agli arti inferiori. Aveva l’impressione che uno schiacciasassi gli
fosse passato parecchie volte sulle gambe e poi qualcuno gliele avesse aperte come si fa
con le luganeghe e gliele avesse imbottite di cocci di vetro e ricucite. La visione del lago
lentamente si trasformò in una roba grigia e opaca. Fortuna che nonno Luigi e nonna
Delia lo sostenevano per le braccia. Se non ci fossero stati loro, sarebbe finito a terra. Era
bello riaverli vicino, soprattutto perché erano morti e sepolti da vent’anni. «Grazie, nonni,
aiutate il vostro Linetto», mugugnò. Sentiva a ondate le loro voci. «Che facciamo? Lo
buttiamo, dici che è abbastanza duro?». «Scusa, ma quale hai usato?». «Quella che hai
detto te». «E quale ho detto io?». «Quella che stava nel bagagliaio». «Non ho detto solo
quella che stava nel bagagliaio». «Bello, non ci provare. Hai detto quella che stava nel
bagagliaio». «In effetti ho detto anche “prendi quella che sta nel bagagliaio”, ma la frase
finiva con “ma quella nel sacco bianco che è a presa rapida”». «Guarda che ti stai
smarrendo. La seconda parte della frase io non l’ho colta». «Sei sordo». «O forse tu hai
un principio di Alzheimer». «Va be’. Ma quale hai usato quella nel sacco bianco o quella
nel sacco azzurro?». «Quella nel sacco bianco». «Quindi quella a presa rapida». «Se
quella nel sacco bianco è a presa rapida». «Bene. Quindi ora dovrebbe essersi indurita».
«Infatti è bella dura». Lino non riusciva a capire su che diavolo stessero litigando i nonni.
Forse stavano decidendo di rifare un muro di casa. Era giusto. Casa loro era sempre stata
così sgarrupata. Certo se lo avessero almeno messo a letto prima di dedicarsi ai lavori di
edilizia. «Nonna… Letto…», sussurrò disperato. «Arnaldo, gli vuoi dire qualche cosa?
Te lo risveglio?». «E tanto a che serve? Tra poco muore». Una voce diversa, pensò Lino.
Più roca. Di qualcuno di famiglia. Forse zio Franco. «Va be’, che c’entra? Si fa così
quando uno ammazza un infame, un traditore». «Ma chi l’ha detto?». «Come chi l’ha
detto? è sempre così. Nei film, per esempio. De Niro lo fa sempre». «Vedi intorno
macchine da presa e luci? Io no». «No. Ma è più bello. Comunque fai come ti pare. Era
solo un suggerimento». «Va be’, se ci tieni tanto glielo faccio». Lino riaprì gli occhi
perché qualcuno, nonno forse, gli aveva dato uno sganassone, ma era tutto sfocato. «Hai
scopato mia figlia e adesso muori». Pausa. «Va bene?». «Benissimo, Arnaldo». Lino si
sentì improvvisamente precipitare. L’acqua fredda e fangosa lo avvolgeva. La sua gola
provò a emettere un grido ma si riempì di acqua fetida. Gli entrò nel naso. E
improvvisamente toccò il fondo. Adesso, secondo il principio di Archimede, aveva fatto
l’elettrotecnico, sarebbe dovuto risalire. Era un principio basilare della fisica un corpo
con un peso specifico minore galleggia, qualcosa del genere. Se non tornava su
significava che il cemento era…. Lino Melone comprese che voleva dire l’espressione
“toccare il fondo”. E si aspettò di vedere scorrergli davanti in un lampo tutta la sua vita,
ma ci fu solo il buio, il buio senza fine.
Nove.
BRECCOLA O IL TRADITORE DELLA RAZZA UMANA
La slitta d’alluminio del pronto soccorso su cui si trovava Paolo Pascarella, detto il
Breccola, schizzò sopra una cunetta ghiacciata della pista Zeus e decollò superando la
rete di recinzione, il ciglio del dirupo e librandosi tra le aspre montagne umbre come un
missile terra-aria durante la guerra del Golfo. La parabola disegnata dalla slitta sopra il
cielo color ghisa raggiunse il culmine dopo poche decine di metri e lentamente la prua
cominciò a picchiare verso il basso, verso un baratro di rocce e ghiacci. Tutto l’apparato
intestinale del Breccola gli si ammassò nell’esofago, un po’ come quando, da piccolo, era
stato in gita a Gardaland con la parrocchia. Solo che quella volta il vagoncino su cui era
seduto con padre Marcello era ben saldo alle rotaie. La mente fossilizzata dal terrore del
Breccola non ebbe nemmeno, come succede sempre negli attimi prima della fine, la forza
di rivedere come un film velocissimo la sua breve vita di merda. La parte rettiliana, più
arcaica del cervello del Breccola, che secondo il grande scienziato Paul D. McLian è
composta essenzialmente della parte superiore del midollo spinale, da parti del
mesencefalo, dal diencefalo e dai gangli della base cranica, era l’unica ancora ad avere
una lieve attività elettrica. Il cervello rettiliano, sempre secondo McLian, è pregno come
un babà di esperienze e memorie ancestrali ed è sostanzialmente fedele a quel che dicono
gli antenati. Quello che in quel momento suggerivano gli antenati bastardi al Breccola era
di non mettersi a sperare in un miracolo, ma di abbattersi perché entro pochi attimi di lui
sarebbero rimasti solo pezzettini di carne sanguinolenta e scaglie di ossa sparsi tra le
pietre. Nonostante ciò, Breccola cacciò un urlo disumano mentre precipitava tra baratri di
rocce e ghiacci. Ma a pochi metri dall’impatto la sua mente ne ebbe troppo e cadde in uno
stato vegetativo che assomigliava a un coma. La slitta s’incuneò come un giavellotto in
una cengia innevata che si affacciava sulla valle sottostante. Nell’impatto, venne sbalzato
lontano, affondando di testa in un mucchio di neve soffice come yogurt magro. Breccola
riprese coscienza e per prima cosa si accorse di avere la testa infilata nella neve e per
seconda di sentire A mi manera, la versione gitana di My Way dei Gipsy Kings. Quella
canzone faceva parte di una compilation latina che si era registrato alla radio qualche
giorno prima ed era nel piccolo riproduttore a cassetta che teneva nella tasca dei
pantaloni. L’apparecchio doveva essersi acceso con l’impatto e quindi… Non era morto!
Era vivo! Rimase così, con la testa infilata nella neve come uno struzzo ad ascoltare
Nicolas Reyes, il leader della band della Camargue che cantava in spagnolo: «Ho vissuto
una vita piena. Ho viaggiato su tutte le strade. Ma di più. Molto più di questo. L’ho fatto
alla mia maniera. Rimpianti, ne ho avuti alcuni. Ma ancora troppo pochi per citarli. Ho
fatto quello che dovevo fare. Ho visto tutto, senza risparmiarmi nulla». Non che Breccola
sapesse lo spagnolo. Aveva trovato su Internet la traduzione e se l’era imparata a
memoria perché quel testo era molto toccante e così lontano dalla sua esperienza. In
effetti, rispetto a Nicolas Reyes, Breccola non aveva mai fatto niente di quello che voleva
fare. Aveva una vita vuota e non aveva visto un cazzo di niente se non quel paesino
sputato da Dio su quelle montagne. Aveva un mucchio di rimpianti, ma era stato
miracolato! Era vivo dopo un volo di diverse centinaia di metri e questa era la cosa più
bella del mondo, ricompensava tutte le tonnellate di merda ingoiata in ventisei anni di
vita. Alla fine, Dio, nella sua infinita bontà, aveva allungato la sua mano invisibile e lo
aveva salvato. Alla faccia di tutti gli stronzi che gli volevano male. Tirò fuori la testa
semicongelata dalla neve, sputò, tossì e si guardò intorno. Ma dove era finito? Sembrava
una specie di pianoro stretto in una gola di rocce e ghiaccio. Mosse le braccia e quelle
risposero e anche le gambe sembravano stare bene. Cercò di mettersi in piedi, ma
affondava fino alla cintola nella neve fresca. Strisciò fino al bordo della cengia e guardò
giù. Fu assalito dalle vertigini. Sotto il suo naso, avvolto dalle nebbie, c’era uno
strapiombo che non finiva più. La felicità si dissolse lasciando un profondo disagio. Da
quel posto non sarebbe riuscito ad andarsene nemmeno Reinhold Messner. E ora?
Scendere era impossibile. Guardò in alto. Peggio. Si frugò nelle tasche e trovò il
riproduttore, lo spense e cercò il cellulare. Provò anche in tutte le tasche della giacca a
vento. Niente. Quando si ricordò che l’aveva lasciato nella cabina della sciovia gli venne
da vomitare. Era fottuto! Dio, come al solito, lo aveva fregato e si era rivelato ancora più
infame e perfido di quanto Breccola avesse mai immaginato. Gli aveva impedito di
schiantarsi contro una roccia, solo per farlo spegnere lentamente, assiderato sul pizzo di
una montagna. Tornò indietro verso la slitta, piantata come un’astronave aliena nella
neve. Il plaid scozzese e il kit del pronto soccorso erano finiti chissà dove. Proprio sotto
la punta, però, trovò una specie di borsetta. L’aprì speranzoso. Dentro c’era solo una
confezione di Gran Cereali del Mulino Bianco e una bottiglietta di chinotto. Forse era il
caso di razionare le scorte, ma era così depresso che non poté fare a meno di
sgranocchiarsi un paio di biscotti. Incominciava pure a fare parecchio freddo. Disperato,
accese il piccolo riproduttore. Forse la musica poteva aiutarlo ad affrontare quel
momento difficile. Dopo i Gipsy, c’era il trio femminile Las Ketchup con l’hit Aserejé.
Una delle canzoni preferite di Breccola. Si attaccò al chinotto. In quel momento uno
stormo di enormi corvi neri come pece lo sfiorò gracchiando. Breccola cercò di
allontanarli con le mani. Sembravano vomitati fuori da una fessura della montagna che
fino a quel momento non aveva notato. Poco dopo, dalla stessa fenditura, uscì una
sagoma umana. Il cuore di Breccola fece un doppio carpiato. La nebbia impediva di
vederla chiaramente e dovette aspettare che fosse più vicina. Una donna. Giovane. Alta
quasi due metri, con il seno pieno, le gambe ben piantate e le spalle larghe e muscolose
come se fosse iscritta in palestra. Tutto il suo corpo emanava una forza non comune,
senza togliere nulla a una femminilità prorompente. Addosso aveva un microscopico
tanga di pelo di cinghiale e un reggipetto di pelle scamosciata che conteneva a malapena
le tette turgide e bianche come mozzarelle di bufala. Ai piedi calzava stivali di pelle
morbida che le arrivavano al ginocchio. In mano stringeva un lungo spadone arrugginito.
Sculettava attraverso la neve fresca come una modella sulla passerella di Fendi. Breccola
con la sua bottiglietta in mano e la bocca spalancata la vedeva avanzare verso di lui. Nel
cervello aveva uno striminzito bouquet di possibilità sul perché una valchiria si trovasse
in un fazzoletto di neve incrostato su una parete irraggiungibile da chiunque non sapesse
affrontare una scalata di sesto grado.
1) Era la protagonista di uno spot (in effetti la bonona assomigliava assai a Megan Gale)
dimenticata dalla troupe mentre girava una pubblicità sui cellulari satellitari o su una
grappa. 2) Era una donna finita sotto i ghiacci durante il medioevo che ora si era
scongelata. 3) Era morto. E anche quella era una morta. Delle tre possibilità scartò la
seconda (troppo improbabile) e la terza (troppo orrenda) e quindi decise che quella non
poteva che essere una famosa modella. Da qualche parte, nascosti tra le nevi, ci dovevano
essere una cinepresa che li riprendeva, i fari e un regista. Adesso era più vicina. Il volto
spigoloso era incorniciato da una massa di capelli scuri e ribelli, quelli più vicini alla
fronte erano raccolti in treccine che terminavano con anelli di osso. Aveva gli occhi gialli
come una civetta. Era la femmina più bella che aveva visto in vita sua, mille volte meglio
della fidanzata di Alberto Tomba. È sicuro una pubblicità, si è messa pure le lenti a
contatto gialle, pensò Breccola e cercò di darsi un contegno. Si passò una mano nei
capelli, si spazzolò la neve dalla giacca. La donna gli si avvicinò e lo osservò piegando la
testa come farebbe un labrador e poi con una voce da tenore gli domandò: «Sei tu il
traditore della razza umana?». Breccola si toccò il petto: «Che cosa? Scusi, non ho
capito». «Sei tu il traditore della razza umana?» «No. Io mi chiamo Paolo Pascarella».
Breccola si accorse di non aver balbettato. Aveva pronunciato la frase spedito dall’inizio
alla fine. Impossibile. Ci riprovò: «Mi chiamo Pascarella ma c’è qualche idiota che mi ha
soprannominato Breccola. Ma lei mi può chiamare semplicemente Paolo». Perfetto! Prese
aria e recitò: «Trentatré trentini entrarono a Trento tutti e trentatré trotterellando». Questo
sì che era un miracolo! Cominciò a ripetere: «Tre tigri contro tre tigri» e «Sopra la panca
la capra campa, sotto la panca la capra crepa». La guerriera lo osservava con la stessa
espressione vivace di un camaleonte ammalato, ma poi con uno scatto felino lo afferrò
per la gola: «Non credere che sia un miracolo. La tua lingua si è sciolta perché Satana ha
voluto così». Lo sollevò in aria come fosse un manichino di pezza: «Tu conosci il cuore
nero dell’uomo, sai quanto dietro una falsa bontà può essere malvagio. Vero?». Breccola,
in aria, con quella morsa intorno alla gola riusciva a malapena a parlare: «Io? Sì che lo
so… Mi hanno fatto uno scherzo di pessimo gusto. Per poco non ci lasciavo le penne».
«Lo sai che tutti ridono di te. Sei un povero giullare. Dicono che sei un ritardato e un
buono a nulla». E lo lasciò cadere. Breccola riprese fiato e quando poté di nuovo parlare
nel tono della sua voce c’era un grande dolore. Prese a dondolare il capo e a massaggiarsi
la gola: «Lo so. Lo so. Mi odiano. E io li odio. Ma tu chi sei? Mi sembra di averti visto in
televisione? A Canale 5, possibile?». «Il mio nome è Arianna. E sono stata assassinata
orribilmente da mio marito con un colpo di spada. Poi sono tornata a vivere, ma gli
uomini mi hanno rinchiuso in un antro buio. Ma adesso sei arrivato tu a liberarmi. Per
mille anni bui e solitari ti ho aspettato». In un documentario sull’Everest, Breccola aveva
visto che l’altitudine e la mancanza di aria può dare molti problemi al cervello degli
scalatori, procurando allucinazioni e follia. La donna doveva essere preda di una crisi
acuta di ipossia. Certo, lì erano a millecinquecento metri sul livello del mare... «Adesso
io e te dobbiamo accoppiarci. Poi spargerai il tuo seme su di me e insieme invocheremo il
Signore delle Mosche e i morti torneranno a camminare, poi ti condurrò nelle viscere
della montagna dove aprirai la grande porta del regno dei morti e tu, unico prescelto tra
gli umani, guiderai, a fianco di Satana, l’armata dei morti alla conquista del mondo». Di
tutto quel discorso delirante Breccola comprese fondamentalmente due cose: (a) che la
bona voleva trombare con lui e (b) che le doveva venire addosso come nei film porno.
Arianna piantò lo spadone nella neve, si strappò il reggipetto, afferrò Breccola per i
capelli e gli infilò la lingua biforcuta nella gola.
Dieci.
GIOVANNI RICORDÌ
Breccola stava steso nudo sulla neve e non sentiva freddo, gli sembrava di essere
adagiato sopra un soffice piumino di piume d’oca. Anzi, a essere più precisi, non era mai
stato così bene in tutta la sua miserabile esistenza. La modella psicopatica, vestita da
vichinga, gli dormiva accanto disfatta dall’amplesso furioso. Breccola continuava a
passarsi le mani sulla faccia e a sorridere, quasi imbarazzato da come quella assatanata
gli si fosse avvinghiata addosso. Da quello che gli aveva fatto con quella lingua lunga e
sinuosa. E lui (il suo coso) si era comportato veramente bene e non sapeva spiegarsi il
perché. La grave forma di eiaculazione precoce cronica era passata. Non che in vita sua
avesse avuto molte occasioni di avere rapporti sessuali, ma quelle poche volte era stato
un vero disastro. Nel 2000 con Miriana Rocchetti, una papa-girl di Cosenza che aveva
conosciuto nel grande campo di accoglienza di Tor Vergata quando era andato a Roma
per il Giubileo, aveva fatto una tale figura di merda che quando ci ripensava diventava
viola. È anche vero che era un’eretica arrapata che voleva organizzare un’orgia con quelli
di Comunione e Liberazione. Lei gli aveva solo accarezzato i capelli e Breccola era
dovuto scappare a gambe larghe. E invece ora a meno 40, sul ciglio di uno strapiombo,
dopo un volo di centinaia di metri in groppa a una slitta del pronto soccorso, con la donna
bellissima aveva fatto una prestazione da grande amatore. La osservò dormire
soddisfatto. Non capiva perché lo continuava a chiamare traditore della razza umana
mentre scopavano. E anche tutta la dinamica dell’amplesso non gli era così chiara. Aveva
solo dei fermi immagine. E alcuni, in verità, assai strani se non addirittura paurosi. Ma
ora era meglio muoversi, trovare un modo per tornare alla civiltà. Stava per svegliare la
modella quando, a una ventina di metri, vide, sfocati dalla nebbia, degli uomini che
camminavano barcollando sulla cengia.
Giovanni Ricordì, con la canna da pesca in mano, si svegliò con i coglioni che gli
giravano su una logora sedia a sdraio piazzata al centro di una barchetta in vetroresina
chiamata “Antonella II” che galleggiava in mezzo al laghetto per la pesca sportiva dei
fratelli Franceschini. Era sempre così quando si risvegliava dai suoi pisolini. Per almeno
un’ora era incazzato e intrattabile come un gatto randagio a cui hanno infilato un
termometro su per il culo. Giovanni Ricordì aveva compiuto da due settimane 73 anni e
da quando il cardiologo gli aveva proibito di bere caffè appena poggiava le chiappe su
qualcosa crollava in un sonno pesante, senza sogni, da cui si risvegliava mezzo
anestetizzato, di pessimo umore e con la sensazione che, prima o poi, la morte avrebbe
approfittato di quella stasi per portarselo all’altro mondo. Era riuscito ad assopirsi pure in
mezzo a un laghetto con quel vento siberiano che gli aveva ghiacciato la punta del naso.
Si stropicciò gli occhi cisposi chiedendosi che senso avesse pescare in questo stato di
letargia. Non si accorgeva nemmeno quando i pesci abboccavano e poi quei due cafoni
ignoranti dei Franceschini quando tornava al pontile lo prendevano pure per il culo. E
questo gli faceva così girare i coglioni che quasi si sentiva male. La cosa peggiore, a suo
giudizio, era una società che non aveva rispetto delle persone anziane, che rappresentano
la memoria e la tradizione. Sbadigliò. Quanto avrebbe dato per un bell’espresso ristretto.
Il sole, ammalato d’ittero, era apparso tra le montagne ricoperte di neve e rischiarava la
valle senza riscaldarla. Se ne sarebbe tornato a casa volentieri, a schiacciarsi un
sonnellino davanti a Unomattina, ma prima era imperativo prendere quattro trote da 500
grammi o, peggio, otto da 250. Sì, perché in quel dannato laghetto c’erano pesci di due
tagli. 250 e 500 grammi. Quella sera arrivavano quello scassacazzi psicopatico di suo
figlio Ippolito e la sua nipotina Isabella da Milano. Non poteva credere di aver generato
con i suoi spermatozoi un tale cretino patentato. Si era fatto lasciare dall’unica donna al
mondo che lo sopportava. Un angelo. Una santa. Una martire. Un eroe. Non sapeva
nemmeno lui come chiamarla. Una creatura capace di stare con uno che se gli si
macchiava la camicia aveva un attacco epilettico, che si lavava le mani 30 volte al giorno
e che si passava il filo interdentale per un’ora e mezza. Ora come diavolo avrebbe fatto a
occuparsi di sua figlia paralitica? Eh, come avrebbe fatto? Chiaro, la mollava ai nonni per
due settimane. Giovanni girò il mulinello. I pesci, mentre dormiva, gli avevano fatto fuori
l’esca. Prese da un barattolo un bel lombrico, lo innescò sull’amo e con un gesto artritico
lo scagliò vicino a un boschetto di giunchi ingialliti che spuntavano dall’acqua verdastra.
Rimase fermo e subito sentì le palpebre cadergli come serrande rotte. No! Doveva fare
qualcosa. Forse un po’ di musica poteva aiutarlo. Rovistò nel vecchio zaino militare dove
teneva l’attrezzatura da pesca e ne cacciò fuori una radiolina a pile Panasonic. L’accese e
cercò il terzo canale, a quell’ora di solito c’era la musica classica che lo rilassava. No, lui
non doveva rilassarsi. Trovò una radio “giovane” che produceva una serie di battiti con
una voce rauca che parlava e che blaterava una valanga di sciocchezze. «Perfetto», fece
impugnando meglio il manico di sughero della canna. Con quella porcheria alla radio non
ci sarebbe stato pericolo di crolli letargici. Ma i pesci, in tutto questo, dov’erano finiti?
Che succedeva? Al bar qualcuno sosteneva che quelle trote arrivavano dalla Cina
modificate geneticamente per abboccare. Come mai quella mattina invece sembravano
scomparse? Alla radio, il presentatore, uno che avevano tirato via dall’aratro, introdusse
una vecchia canzone, di un certo Lino Melone, una hit degli anni 80 chiamata: Concetta
pancetta. «Ma mente umana può concepire un titolo più cretino?», brontolò Giovanni e
stava per abbassare il volume quando si accorse che però il ritmo non era malvagio. Tutte
chitarre flamenche e percussioni. Il vecchio encefalo del pescatore fece un salto indietro
di mezzo lustro prima. A una notte tiepida e profumata di gelsomini e scampi ai ferri. A
quella notte in cui era stato a Siviglia in un locale con tutto il reparto vendite della Rizzoli
(per quasi un quarto di secolo era stato rappresentante della casa editrice milanese). A
quella notte indimenticabile in cui aveva incontrato la bionda Manola Guitierrez che poi,
nell’intimità della stanza d’albergo, si era rivelato essere Manolone Guitierrez. L’unico
tradimento in 45 anni di irreprensibile carriera coniugale. Un tradimento completo e
totale nei confronti di sua moglie Angela e, più in generale, del genere femminile.
Quell’infame segreto se lo sarebbe portato nella tomba, ma comunque il ricordo di quella
notte spagnola gli era rimasto conficcato tra i lobi temporali e ancora adesso dopo due
operazioni alla prostata, quando ci pensava uno strano miscuglio di libidine e imbarazzo
lo faceva rabbrividire. Alzò il volume della radio e cominciò a dondolare languido le
spalle ricordando il primo bacio strappato a Manolone, nello stesso istante sentì uno
strattone deciso sulla canna. «Eccoti!», fece Giovanni piantando i piedi a terra, stringendo
la canna e cominciando ad arrotolare la lenza.
Doveva essere una bestia da 500 grammi da come tirava. Strano, però, si disse, la barca si
muoveva verso il pesce e non il pesce verso la barca. Le cose erano due: o l’amo si era
incagliato o quello era un bestione. Mentre era lì che sudava con le braccia dure come
ciocchi di legno cercando di stancare il bestione, gli venne il sospetto che i fratelli
Franceschini gli avessero fatto un brutto scherzo. Tipo buttare un grande pesce nel
laghetto. Ma che bestia d’acqua dolce avevano potuto mettere quei due scellerati che
opponeva sì fiera resistenza? Uno storione russo? Un siluro del Sudamerica? Il famelico
barramundi, il mitico pesce australiano che poteva arrivare a pesare anche 60 chili e a
misurare un metro e mezzo? Impossibile. Francamente impossibile. I Franceschini erano
due cadaveri viventi pieni di droga fino agli occhi, figurati se si prendevano la briga di
mettere dei bestioni così nel loro laghetto di merda. Ora il filo di nylon scendeva giù a
picco nell’acqua marroncina, segno che doveva essersi incagliato sul fondo. Stava
stancando uno scoglio. Si girò verso la baracca dove stavano i due Franceschini sicuro di
vederli sul pontile che si rotolavano dalle risate, ma non c’era nessuno. Uno strattone. Un
altro. Allora non poteva essere un oggetto inanimato. Era un pesce, un pesce vero!
Adesso però si doveva calmare, riprendere fiato, sennò il cuore gli zompava nel petto
come un tappo di champagne. «Sei finito!», urlò verso il fondo. Quel figlio di puttana lo
avrebbe tirato in barca, quanto era vero iddio e dopo, non gli importava, poteva pure
schiattare. S’immaginò i Franceschini che lo ritrovano morto su quella barchetta accanto
a un barramundi di un metro e 80. Un gesto maschio con cui avrebbe fugato qualsiasi
dubbio sulla sua virilità. Con una parte del cervello si accorse che alla radio la canzone
spagnoleggiante non era ancora finita e che gli strattoni alla canna sembravano andare in
sincrono con il ritmo. Ma che minchia stava succedendo? Giovanni Ricordì cominciò a
sbuffare aria come un gonfiatore per canotti e a girare il mulinello che era diventato duro
come il crick di un tir. Si fece prendere dal panico, la canna non avrebbe retto a lungo,
era piegata a U, poi ripensò al suo romanzo preferito di sempre, Il vecchio e il mare del
grande Ernest Hemingway e si calmò. In quella storia semplice e commovente era
simboleggiato l’eterno scontro tra la vita e la morte. Quel vecchio pescatore gli
assomigliava da morire e non importava che lui non era nell’oceano ma in un laghetto per
la pesca sportiva a 200 metri da casa. «Non credere di fottermi». Era riuscito a recuperare
almeno cinque metri di lenza e quel laghetto non era più profondo di cinque. Il pesce
doveva essersi nascosto sotto la chiglia. Doveva tirarlo su lentamente, il rischio che il
nylon si spezzasse era altissimo. Aveva un filo per pesci da un chilo e ora stava
combattendo contro uno squalo tigre. Si sporse dalla barca e vide un guizzo azzurro. Per
poco, per l’emozione, Giovanni non finì in acqua. Il sangue gli rombava nei timpani e il
cuore gli sbatteva in petto. «Ti prego, Dio caro, fammi pescare il bestione e ti giuro sulla
testa della povera Isabella che tornerò a casa e dirò a mia moglie tutta la verità su
Manolo», chiese all’Onnipotente gonfiando e sgonfiando le guance come un rospo in
amore. La pressione gli era salita a 320. Pensò alla piccola Isabella inchiodata su una
sedia a rotelle da un destino amaro. Quanto sarebbe stata fiera del suo nonnino. Vedeva la
sagoma blu sotto il pelo dell’acqua, nonostante pesasse un accidente, sembrava che il
barramundi si fosse un po’ placato e che opponesse meno resistenza. Forse aveva capito
che dall’altra parte c’era un nemico troppo forte per poterlo combattere ed era meglio
arrendersi. «Bravo, pesciolino!», fece il vecchio Ricordì e nello stesso momento dalla
superficie del laghetto uscì un braccio scarnificato avviluppato nei resti di uno smoking
di paillettes che gli afferrò il labbro e la mandibola e lo strappò dalla barca e lo trascinò
giù, sott’acqua, in un crepuscolo liquido e buio come il terrore che gli attanagliava
l’anima.
Antonietta RICORDÌ
La signora Antonietta Ricordì, 64 anni, stava lavando il radicchio rosso nella sua nuova
cucina Snaidero quando sentì un toc. Un toc preciso. Un toc chiaro e distinguibile. Il toc
fatto, ad esempio, con la punta di un coltello su un vetro. La signora Antonietta trasalì e,
respirando con il naso, abbassò la radio che trasmetteva una compilation dei grandi del
rock. Guardò fuori dalla finestra e sfilò il coltello per il pane dal cubo di legno accanto al
lavello. Gli albanesi. Eccoli. Erano arrivati. Negli ultimi periodi gli albanesi avevano
catalizzato tutte le paure e le insicurezze della signora Ricordì. Era certa che prima o poi
sarebbero arrivati i diavoli dell’Est e l’avrebbero stuprata, avrebbero ucciso suo marito
poi avrebbero razziato la casa e per finire le avrebbero dato fuoco. Quella gente le aveva
tolto tutto il piacere di vivere in campagna, in una zona isolata della valle. Non voleva
trasformare quella casa in un bunker con le grate alle finestre e allarmi che scattavano a
ogni passo che facevi. Da un po’ aveva cominciato, a malincuore, a chiedere a suo marito
di vendere quella casa e di comprarne una in paese. Ma lui, figuriamoci, non la stava
neanche a sentire. E adesso, chiaramente, non c’era. Era andato a pescare al laghetto
quelle orrende trote che sapevano di cartone. Antonietta continuava a guardare fuori. Ma
non c’era proprio nessuno. Dalla finestra della cucina si vedeva il prato mangiato dal gelo
invernale, il pollaio, i panni appesi allo stenditoio e le montagne arcigne, ma nessun
albanese. Dopo un po’, sicura di esserselo immaginato, sollevò le spalle e ricominciò a
lavare l’insalata. Stava preparando la cena per suo figlio e sua nipotina che arrivavano
quella sera da Milano. Sarebbero stati affamati. Le cose preferiva farle con tranquillità e
non all’ultimo minuto. Toc. Un altro colpo. Più forte. Toc. Toc. Toc. Però non veniva da
fuori. Le sembrava che venisse da qualche parte della cucina. Come se… No! Questo è
uno scherzo di quel ricchione inespresso di Giovanni, si disse e guardò il vialetto. La
Croma di suo marito non c’era. Quindi non poteva essere lui. Il cuore le cominciò a
marciare nel petto. E se l’albanese era entrato in casa? Con il coltello in mano iniziò a
perlustrare la cucina. Toc. Toc. Dal forno. Veniva dal forno. Tirò un sospiro di sollievo.
Doveva essersi rotta di nuovo la resistenza. Aveva fatto un errore imperdonabile a farsi
infinocchiare dal venditore. Come aveva detto? I forni elettrici cucinano meglio. La
cottura è più uniforme. «Che scempiaggini», fece ad alta voce. «E adesso? Se si è rotto
come faccio?». Posò il coltello, afferrò uno strofinaccio e senza indecisioni aprì lo
sportello. Da dentro al forno schizzò fuori un grosso pollo ricoperto di pancetta
sprizzando olio dalla pelle semicotta e colpì la signora Antonietta al centro della fronte.
Ora, non dobbiamo stupirci troppo di tutto ciò. Proprio in quel momento il Breccola
dentro la caverna sotto la pista da sci Zeus aveva finito di pronunciare la lunga preghiera
per risvegliare i morti dalle tombe. E per morti non intendeva solo esseri umani. In quel
preciso momento, a un paio di chilometri, anche il consorte della signora Antonietta,
Giovanni Ricordì, era divorato al centro del laghetto dei fratelli Franceschini dal cadavere
putrescente del cantante neomelodico Lino Melone. Si sente spesso raccontare di coppie
che hanno vissuto insieme per un sacco di anni in cui la morte di uno dei due componenti
lascia l’altro vivo, ma in uno stato di tale malessere e confusione che in breve tempo si
secca come una pianta senz’acqua e raggiunge l’amato all’altro mondo. La scienza
medica di fronte a questi singolari eventi di morte per crepacuore non sa che pesci
pigliare e li giustifica con un abbassamento generico del sistema immunitario e di
conseguenza una predisposizione del soggetto ad ammalarsi per qualsiasi forma, anche
lieve, di contatto batterico o virale. Bene, questo non era assolutamente vero per i coniugi
Ricordì, la signora Antonietta avrebbe reagito alla morte del marito con una seconda
giovinezza, i suoi processi di invecchiamento fisici e mentali si sarebbero rallentati e
avrebbe campato almeno per altri 25 anni in un bell’appartamento in una palazzina al
centro di Forca di Mezzo. Ma un destino amaro volle che anche la signora Antonietta,
quel giorno, trovasse una morte violenta, per certi versi anche più efferata e
impressionante di quella di suo marito. Fu uccisa a beccate dal cadavere del vecchio
Jacopo.
Jacopo era un cappone di quasi cinque chili che prosperava nel pollaio dietro la casa dei
coniugi Ricordì da un paio d’anni. Nonostante fosse stato castrato quasi pulcino, gli era
venuto fuori un carattere assai cazzuto: dirigeva il pollaio con la decisione e la sicurezza
di un amministratore delegato di una grande azienda. I giovani galletti quando crescevano
ci provavano a spodestarlo, ma Jacopo anche grazie alla sua stazza da combattimento non
si lasciava mettere le zampe in testa da nessuno. Una volta aveva messo in fuga pure Tor,
il pastore maremmano dei Pariani. Il signor Ricordì provava per Jacopo una vera e
propria stima, era un esempio positivo per tutti, da imitare in questa Italia allo sfascio.
Anche senza testicoli, grazie a una forza di volontà indomabile, riusciva a far rigare tutti
dritti. Un leader. Ma come ogni leader che si rispetti anche il vecchio Jacopo aveva
nemici che nell’ombra complottavano contro di lui. In primis la signora Antonietta che
mal digeriva le prepotenze di quel pennuto nei confronti delle galline e dei galletti che,
poverini, cercavano solo di costruire una società dove ognuno avesse gli stessi diritti e
doveri, seguendo, in poche parole, un modello marxista. Antonietta era pronta a
capeggiare la grande rivoluzione avicola e a deporre il tiranno Jacopo su una teglia e, in
compagnia delle patate, del rosmarino e della pancetta, infilarlo nel forno. Era almeno un
anno che ogni tre giorni i due si scontravano sulla sorte del gallinaceo. «Mai! Mai e poi
mai! Prova a tirargli una sola penna e vedi che ti succede», urlava lui. «E sentiamo… Che
mi fai?», rispondeva lei e si metteva a sghignazzare. «Non mi sfidare, Antonietta. Io sono
buono e caro. Ma sono più caro che buono», fece enigmatico lui. «La cosa terribile, caro
il mio Giovanni, è che te lo mangerai con gusto e ti accorgerai di essertelo mangiato solo
quando andrai nel pollaio e scoprirai che quel bastardo non c’è più». Erano parole così,
buttate lì giusto per il gusto della polemica. In fondo Antonietta era una donna buona,
non era capace di fare quel torto a suo marito. Almeno fino a quella mattina. Quella
mattina tirando fuori dalla cantina la brandina per sua nipote Antonietta aveva trovato,
nascosta sotto un tappeto, una vecchia valigia di pelle coperta di ragnatele e muffa. Era
sicura che fosse vuota e invece pesava… L’aveva aperta e dentro delle foto… Delle foto
di suo marito e di un transessuale enorme… E con questo uomo… Non riusciva a
crederci. Insomma, a farla breve, suo marito era omosessuale. E scoprire che tuo marito è
un pederasta dopo trent’anni di matrimonio è una cosa sgradevole, peggio di scoprire che
la donna delle pulizie, quando non ci sei, chiama le Filippine. E le lettere? Vogliamo
parlare dei mazzi di lettere? Quel bastardo a questo Manolo Guitierrez, un trans che
avrebbe potuto essere un campione di wrestling, aveva scritto un sacco di lettere d’amore
che non aveva mai spedito. E le lettere erano così pervase di tenerezza, sensibilità e
intelligenza… Roba che non immaginava potesse possedere quello zotico. Quello che la
signora Ricordì aveva capito, dopo aver pianto in silenzio per un’ora in un angolo della
cantina buia, era che le bruciava non il fatto che fosse stata tradita e nemmeno scoprire
che suo marito aveva una vena ricchiona, ma l’idea di essersi repressa per tanti anni la
voglia di portarsi a letto praticamente tutti i maschi del paese con l’assurda idea di
rimanere fedele a un uomo… A un essere che s’immaginava, così aveva scritto, «di
viaggiare in un vascello di luce verso l’infinito» con un lottatore spagnolo con le zinne.
Che stronzata! Anche lei lo aveva tradito a Giovanni. Certo, solo con la testa. Ma in
fondo non era lo stesso? E perché? Lo volete sapere perché? Per seguire una moraletta
cattolica meschina e repressiva. Tutti e due non avevano dato spazi ai loro bisogni. Se
solo quell’imbecille di Giovanni avesse avuto il coraggio di esternare i suoi gusti sessuali,
la loro vita sarebbe certamente cambiata, avrebbero potuto essere una coppia aperta,
disponibile a provare esperienze diverse. Che bella vita sarebbe stata, libera dalle
costrizioni di quell’etica fascista che odiava ogni diversità. E improvvisamente le era
venuto in mente il vecchio Jacopo, il cappone dittatore che faceva il bello e il cattivo
tempo nel pollaio. Una squallida creatura castrata che per mascherare l’impotenza
terrorizzava tutti. Era esattamente la copia speculare di suo marito. Per quello Giovanni
lo amava in quel modo. Un sorriso cattivo aveva piegato la bocca di Antonietta. Era
uscita in giardino e aveva tirato il collo a quel prepotente di Jacopo.
Quindi, quando la signora Antonietta si riprese dal colpo in fronte, si disse che quel pollo
morto vivente era tornato dall’inferno per vendicarsi. Poi cercò di scappare fuori dalla
cucina. Si sollevò da terra mentre il sangue le colava sulle labbra e fece tre passi in
direzione della porta quando il pollo spuntò da dietro al frigorifero e dondolando sui
moncherini delle zampe le venne incontro. La cosa terribile era che mentre avanzava
sbatteva le ali croccanti. Antonietta Ricordì con un balzo artritico cercò di superare il
volatile, ma quello le s’infilò sotto la gonna. La povera donna cominciò a zompare per la
cucina strillando come un’invasata. Da sotto l’orlo della gonna le spuntavano i due
monconi vibranti di quella innaturale vita. Dal culo del pollo cadde un grosso limone
unto che le finì sotto una suola. La casalinga scivolò finendo dritta contro la dispensa che
le rovesciò sopra scatole di pasta, confezioni di riso e barattoli di pelati. Urlando di
dolore, Antonietta afferrò il pollo che cercava di farsi spazio sconciamente tra le sue
cosce e lo lanciò contro il muro. Il pollo stampò una macchia di olio sulla parete e cadde
a terra fremendo. Poi scivolando sulla schiena spalmata di grasso schizzò sotto il lavabo.
La signora Ricordì non era mai stata un amante dei film di fantascienza e quindi non
aveva mai visto il primo Alien, sennò non avrebbe potuto non notare con stupore le
somiglianze tra quello che le stava accadendo in quel momento e quello che era successo
a Ripley all’interno dell’infermeria quando aveva trovato l’essere alieno. Nonostante il
dolore che le era esploso nel bacino, allungò una mano, aprì il cassetto delle posate e ne
estrasse un coltellaccio affilato. Non era intenzionata a farsi ammazzare da un cappone
zombie. Avrebbe venduto cara la pelle. Si trascinò lentamente verso il lavandino con il
coltello sollevato, pronta ad afferrarlo. Ma quello che restava del vecchio Jacopo le arrivò
addosso talmente veloce che la vecchia lo lisciò e si piantò mezza lama nell’intestino
crasso. Nello stesso istante il pollo arrosto allungò il collo rinsecchito e le diede una
beccata precisa asportandole il globo oculare destro. Antonietta crollò a terra in una
pozza di sangue scuro, mentre il volatile le portava via anche il secondo occhio e la
rendeva cieca. Il suo cervello terrorizzato, prima di smettere di funzionare, riuscì a
cogliere dei brandelli di Bob Dylan che cantava alla radio Knockin’ on Heaven’s Door.
La signora Ricordì si chiese, mentre la morte se la prendeva, se quella canzone doveva
interpretarla come un buono auspicio o come l’ultima presa per il culo di una esistenza
votata alla tristezza.
Undici.
Dal diario personale di padre Marcello, parroco di Forca di Mezzo:
Mentre marciavi con il fucile in spalle vedesti uno zombie in fondo alla valle che non
aveva il tuo identico umore e arti cadenti di un altro colore. Sparagli uomo, sparagli ora e
dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai decollato cadere in terra a
colpire il selciato e se gli spari in fronte o nel naso soltanto il tempo avrà per morire e il
tempo a te resterà per vedere vedere gli occhi marci di uno zombie che muore.
25/1/2003
I morti si sono risvegliati. Doveva succedere ed è successo. Non so se questa è
l’Apocalisse, ma i morti hanno preso a camminare a Forca di Mezzo. Sono usciti fuori
dal cimitero e dai ghiacci a centinaia. Non avrei mai immaginato che in questa valle
solitaria potesse essere morta così tanta gente. Se il contagio dovesse uscire da qui e
invadere il pianeta quanti milioni di morti tornerebbero a cercare di placare la loro fame
con carne umana? Quante persone sono morte dall’alba della nostra razza? E non sono
solo uomini. Galline, pesci, mucche e cani morti si sono svegliati, mio Signore.
Io, tuo umile servo peccatore, devo riportare alla pace queste carcasse ambulanti. Sono
pronto. E non ho paura di morire. Ho paura, una volta morto, di vagare inquieto tra le
rovine dell’umanità.
Preferisco finire fra le fiamme dell’inferno.
Chi dovesse leggere questo diario si ricordi di giudicarmi con pietà, che è stato nostro
Signore Gesù Cristo il primo a resuscitare un morto.
Un bel giorno Gesù arrivò in una cittadina, non lontano da Gerusalemme. Era andato lì
perché c’era una famiglia che aveva chiesto di lui. Quando arrivò a casa loro gli dissero
che erano distrutti di dolore perché gli era morto il figlio chiamato Lazzaro. Lazzaro era
un bellissimo giovane, un po’ scavezzacollo, che correva per la città con la biga e andava
a caccia di quaglie con l’arco. Per Natale la sua fidanzata, Stella, voleva assolutamente
una pelliccia. Senza pelliccia si sentiva brutta e poi tutte le sue amiche giravano coperte
di pelli di gazzelle, lupi e conigli. Ogni giorno rimproverava il povero Lazzaro:
«Lazzaro! Lazzaro! Voglio una pelliccia! E prendimi una pelliccia». Fino a quando
Lazzaro non ce la fece più, sbuffò, prese l’arco e si avventurò nel deserto dove abitavano
i leoni. I leoni sono bestie tranquille, ma se gli tiri le frecce o gli spari diventano
veramente feroci. Lazzaro vide un enorme leone con una criniera bellissima che dormiva
sotto una palma, puntò l’arco, chiuse gli occhi e tirò. Quando li riaprì vide davanti a sé
una caverna rosa con delle stalattiti e delle stalagmiti bianche come l’avorio intorno ai
lati. Da dentro spirava un alito terribile, di carne. Poi la caverna si chiuse sulla testa di
Lazzaro. Il giovane morì nel deserto. Lo trovarono mezzo maciullato. Stella urlava
disperata, il suo fidanzato era morto per colpa della sua sciocca vanità. I genitori di
Lazzaro presero il cadavere e lo chiusero nella tomba facendo un gran funerale. Ma,
passata una settimana, non riuscivano a smettere di piangere, di tormentarsi. E allora
decisero di chiamare Gesù. E Gesù, quando arrivò, si fece portare al sepolcro e fece
spostare l’enorme pietrone che avevano messo davanti alla tomba. In quattro dovettero
mettercisi a fare quel lavoro. Appena fu tolta, una puzza terribile uscì da dentro, di
carogna, un odore dolciastro, tutti cominciarono a vomitare, ma non Gesù. Gesù entrò
dentro accompagnato da uno stormo di colombe e si avvicinò ai resti di Lazzaro e gli
disse: «Lazzaro, alzati e cammina». E Lazzaro si alzò e camminò.
Da questa storia del nostro Vangelo, mio adorato Signore, si evince facilmente che sei
stato tu il primo a volere, nella tua infinita quanto imperscrutabile perfezione, che i morti
viventi, questi esseri immondi, camminassero sulla terra, e io credo, nella mia umiltà, di
sapere anche il perché. Per punire, in generale, gli uomini che si ergono a dei e credono di
essere i padroni dell’universo.
È colpa mia se oggi i cadaveri sono tornati a camminare e sarà mio impegno riportarli
tutti alla pace.
Chi poteva credere che un libro chiamato Macumba for Dummies (per cretini) potesse
contenere la formula per risvegliare i morti. Me lo sono procurato in una grande libreria
Feltrinelli per pochi euro. Ero così accecato dal dolore che ho eseguito la macumba
numero tre, a pagina 92, e non meno di 12 ore dopo mi sono ritrovato in quest’incubo.
Ora tu che leggerai queste misere pagine devi sapere che anche un sacerdote, come ogni
altro essere umano, è fatto di carne (come sanno bene gli zombie) e che può cadere in
peccato.
La ragazza si chiamava Alessia. Alessia C. (non posso rivelare il cognome). L’ho vista in
chiesa una domenica di circa un anno fa. Aveva da poco vent’anni. Una massa di capelli
neri le incorniciava due grandi occhi scuri e peccaminosi. Molto sexy. Carnagione chiara
e un seno che non si faceva scorno di mettere in mostra anche durante la funzione. I jeans
che le fasciavano le cosce e le rotondità dei fianchi. Una tentazione continua in cui un
giorno di primavera sono caduto. Si veniva a confessare. E raccontava storie di lussuria e
perversione che avvelenavano la testa. Chiudevo gli occhi e non potevo non immaginare
che al centro di quelle storie ci fossimo io e lei. Era il diavolo. Il diavolo nascosto dentro i
panni di una ragazza di montagna. Persi la testa. Lei non aspettava altro. Mi disse che mi
aveva sempre desiderato, già dai giorni della prima comunione. A me, umile prete. In
ogni uomo aveva cercato me. Nascosti nelle tenebre del confessionale ci siamo baciati.
Non pensavo più a niente, la fede mi aveva abbandonato come le pulci abbandonano un
cane morto e una sete peccaminosa mi divorava nel silenzio della sagrestia. Ho
cominciato a vederla. Non c’era che lei in ogni pensiero. Una febbre, un tifo, mi aveva
preso e l’unica medicina era lei, Alessia. Ci vedevamo di nascosto. Di solito io mi
allontanavo dal paese e lei passava a prendermi con il pick-up del padre e ci
nascondevamo a peccare tra le guglie di queste aspre montagne. Ho vissuto nel vizio per
qualche mese, poi un giorno ci siamo fermati sopra il Salto della Vedova. Il Salto della
Vedova è un pauroso baratro che scende giù per centinaia di metri tra rocce affilate come
coltelli e ghiacci duri come diamanti. Le piaceva farlo lì a qualche metri dall’orrida
vertigine. Diceva che il vuoto l’eccitava ed era vero. Avemmo un amplesso bestiale, lei
stesa sul pianale di carico del pick-up io a terra che la pompavo come un materassino.
Nel momento del massimo godimento le diedi l’affondo finale e mi sfuggì dalle mani.
Quando Alessia si era fermata, non aveva tirato il freno a mano. E io con quel colpo
finale l’ho spinta giù dal Salto della Vedova. L’ho vista, a occhi chiusi e gambe
divaricate, precipitare giù per l’abisso sopra il camioncino. Non me lo dimenticherò mai.
Le autorità non sospettarono mai che ci fosse stato qualcun altro quando Alessia era
precipitata. Le cause della sua morte non risultarono chiare, ma il fascicolo venne
archiviato come suicidio. Era terribile. L’avevo ammazzata, e la memoria di Alessia era
legata a un suicidio incomprensibile. Mi toccò anche officiare la messa funebre e non
potei che scoppiare a piangere sulla spalla di sua madre. E tutti a dirmi che ero una
persona buona, un pastore sensibile. Quella notte io, astemio da sempre, mi attaccai al
Tavernello che usavo durante la messa e nell’arco di una settimana mi trasformai in un
alcolista. Fino a quando la mia mente era inzuppata di alcol riuscivo a sopravvivere. Mi
trascinavo a messa con la barba non fatta e le ascelle significative e mi sembrava di
vedere tra i banchi il volto di Alessia. Era sempre nei miei pensieri e oramai non ero più
un prete. Ero solo un assassino disperato.
Un giorno decisi di andare a Roma. Lì arrivai alla Stazione Termini e me la feci a piedi
fino a piazza Esedra alla libreria Feltrinelli e cercai un romanzo noir di Carlo Lucarelli
per provare almeno a distrarre la mente. Accanto c’era il reparto “Religioni occulte e
magia”. Un grande libro blu, con in copertina una bambola piena di spilloni, era ben
esposto e aveva pure il 20% di sconto. Sembrava quasi che brillasse come se fosse stato
immerso in una pozione. Lo presi in mano. Il titolo era: Macumba for Dummies di un
certo Aleandro Vasques. Un libro che solo un anno fa avrei fatto bruciare nella piazza
centrale e che invece adesso leggevo cercando una risposta che il mio Dio non mi poteva
dare.
Il capitolo 7 era tutto dedicato agli zombie. Sembra che nel 1911 un medico russo che
lavorava in Siberia a esperimenti segreti con i non morti, un certo Morton Subotnik, abbia
isolato il ceppo virale che riporta in vita i cadaveri e abbia prodotto un vaccino contro i
morsi degli zombie. Ma la maggior parte degli esperti è convinta che l’unico sistema per
combatterli è sterminarli. Il virus che risveglia i morti parrebbe propagarsi attraverso il
contatto organico. E dovrebbe essere più infettivo nelle regioni a clima caldo. E
sembrerebbe essere intraspecifico e attaccare tutti i vertebrati. Dai pesci all’uomo.
I tre stadi dell’infezione sono: a) Infezione. Che dura uno-due giorni e causa febbre,
tremore, vomito e diarrea. L’uso di antipiretici e antibiotici non produce miglioramenti
significativi. b) Coma. Che è considerevolmente più breve del coma vampirico. I
cambiamenti fisiologici dell’infetto sono un abbassamento irreversibile della temperatura
corporea, alitosi, seborrea, psoriasi. Il coma dura dalle sei alle otto ore. c)
Trasformazione. Gli zombi si risvegliano dal coma in stato catatonico. Sono insensibili
alla maggior parte degli stimoli e si mettono subito alla caccia di carne umana.
A causa della loro condizione catatonica, gli zombie non hanno mai dato testimonianze
personali del loro stato di salute. E quindi tutto ciò che conosciamo sugli zombie è dovuto
a ricerche empiriche sul campo. Quello che si può certamente affermare è che uno
zombie è, sostanzialmente, una sorta di essere che deve assolvere a tre bisogni:
localizzare la preda, catturarla e nutrirsi. I grandi cambiamenti fisiologici sembrano
interessare il sistema nervoso. (A mio modesto parere di parroco di campagna, dopo aver
visto un morto, so che gli zombie vanno annientati e basta. Non mi interessano queste
ricerche pseudoscientifiche. So per esperienza personale che se gli spari, se li crivelli di
colpi e gli amputi le gambe, quelli si trascinano sulle braccia e lentamente ma inesorabili
come una maledizione ti arrivano addosso fino a quando non senti prima il loro alito
pestilenziale e poi i loro denti marci affondarti nella giugulare. Bisogna che gli spappoli il
cranio per rimandarli da dove vengono. E ricorda, gli zombie non sono vampiri, non
hanno un cazzo di affascinante da dire. Gli zombie vanno massacrati e basta. E gli
zombie sono dovunque, sotto i cimiteri, pochi metri sottoterra, in attesa. E hanno fame
della tua carne. E quando arriveranno anche la tua nonnina adorata farà parte di
quest’allegra brigata).
Ebbi quasi un mancamento quando lessi il titolo del capitolo successivo: “Come imparare
a risvegliare i morti senza complicazioni”.
Afferrai il libro, lo comprai e me ne tornai dritto alla stazione. Ora sapevo cosa fare.
Dodici.
Ippolito Ricordì
Il sole era improvvisamente cascato dietro le cime degli alberi, come se qualche dio lo
avesse tirato giù, ma a Ippolito Ricordì non poteva fregare di meno. Il suo van Ford 2550
turbodiesel aveva una doppia fila di fari al tungsteno che metteva a giorno il bosco. Il
professor Ricordì era un uomo gracile, con gli occhi spiritati, i capelli corti e castani
appiccicati sulla fronte. Degli occhiali con la montatura pesante si poggiavano sul naso
sottile. Aveva messo il cd in cui Keith Jarrett interpretava magistralmente il
Clavicembalo ben temperato di Bach. Accanto a lui c’era sua figlia Isabella che guardava
assorta il bosco scuro dal finestrino.
Erano partiti presto, quella mattina da Cologno Monzese, per arrivare in tempo per la
cena dai nonni a Forca di Mezzo, ma uno sciopero degli autotrasportatori gli aveva
mandato al diavolo tutta la tabella di viaggio. Quegli sciagurati avevano formato un lungo
convoglio che procedeva sull’Autostrada del Sole alla velocità di sette chilometri all’ora.
Ippolito Ricordì, 39 anni, di professione insegnante di storia e filosofia in un liceo
classico, dietro a quei tir che avanzavano a passo d’uomo aveva sentito la rabbia
ribollirgli come lava incandescente nelle viscere, ma come sempre aveva cominciato a
respirare con il naso impedendo di abbandonarsi a gesti avventati tipo salire su uno di
quei camion del cazzo e prendere uno di quei figli di puttana e sbattergli la testa contro il
cruscotto. «Brutto stronzo di un camionista, ti rendi conto che per colpa tua la mia vita sta
andando in pezzi?». Con gli anni e l’esperienza il professore era diventato un mostro di
bravura nell’arte della simulazione. A tutto il mondo faceva credere di essere un uomo
sereno e posato, ma in verità era l’essere vivente a cui rodeva più il culo in tutto
l’emisfero australe. Era capace di ingoiare vagonate di merda con il sorriso sulla faccia.
Di prendersi una crickata su una rotula e ringraziare caramente. A volte, soprattutto
durante le notti insonni, si immaginava di essere un bunker scavato nella roccia viva in
cui puoi fare esplodere una bomba atomica e in superficie non si sente niente, al massimo
un sottile borbottio. Nell’ultimo anno aveva resistito a una serie impressionante di
esplosioni termonucleari globali che in effetti cominciavano a incrinargli la supercorazza.
1) Sua moglie lo aveva lasciato. E si era messa con la sua massaggiatrice jatzu
abbandonando baracca e burattini. 2) Aveva avuto la conferma che sua figlia Isabella,
l’unica luce in un’esistenza buia come il traforo del Gran Sasso, non si sarebbe mai
sollevata dalla sedia a rotelle. 3) Un fulmine durante un temporale gli aveva carbonizzato
in ordine di importanza: il forno a microonde, la televisione, l’impianto stereo, un piede.
Sì, proprio un piede. E per la precisione il piede destro. Una specie di serpente azzurro
era uscito da una presa elettrica si era impossessato del lettone Ikea dove lui stava
dormendo (era una delle poche volte in cui dormiva) e gli aveva avvolto il piede con una
corrente di migliaia di volt per un tempo non sufficiente a metterglielo a fuoco ma ad
abbrustolirglielo. Adesso il suo piede era nero come un filone di pane dimenticato nel
forno. Riusciva a fatica a camminare e ogni tanto la gamba gli cominciava, senza alcuna
ragione, a tremare come se avesse il tetano. 4) Aveva investito tutti i suoi soldi
nell’azienda di insaccati di suo cognato. E suo cognato un giorno, durante una riunione
con gli azionisti, aveva deciso di andare a prendere le sigarette in macchina. E in questo
non c’era niente di strano. Il problema era che invece di prendere l’ascensore aveva scelto
la via più rapida: aveva aperto la finestra e si era gettato dal settimo piano. Dopo si era
scoperto che suo cognato, in silenzio e con la collaborazione del casinò di Campione,
aveva mandato in fallimento l’azienda e il nostro Ippolito Ricordì era stato portato in
tribunale dai creditori perché faceva parte del consiglio di amministrazione, senza
saperlo. 5) E per finire l’ultima, terrificante, notizia: avevano anticipato la puntata di
Supergenius di tre settimane. E Isabella, nonostante fosse un genio, non era
assolutamente pronta. Aveva lacune che non avrebbe certo colmato in 20 giorni.
Isabella Ricordì guardava suo padre che guidava e corrucciava le folte sopracciglia preso
dai suoi pensieri catastrofici. Meglio così. Almeno, se pensava alle sue sfortune non la
interrogava. Da quando erano partiti da Cologno Monzese non le aveva dato un attimo di
pace. Una sfilza di domande estenuanti a cui lei aveva stancamente risposto. Ma lui non
era mai contento, nemmeno quando rispondeva correttamente. Maledetti gli inventori di
quel quiz. Si poteva inventare un programma televisivo più razzista di quello? Per
partecipare dovevi avere 60/60 di quoziente intellettivo, avere meno di 13 anni e per
finire, conditio sine qua non, dovevi essere sfigato.
Quando gli organizzatori del programma avevano visto Isabella Ricordì entrare nello
studio sulla sedia a rotelle, dalla gioia per poco non si erano messi a saltare sul tavolo.
Che vuoi di più? Una bella ragazzina con dei lunghi capelli neri e lucenti come le penne
di un corvo. Un volto magro con due occhi grigi e grandi come monete da due euro. E
sotto due gambette secche e storte da un male incurabile. Lei era il caso umano per
antonomasia. Bella come un’elfa dei boschi, intelligente come un fisico nucleare, con la
memoria di un elefante e deforme come il Gobbo di Notre Dame.
Isabella aveva implorato suo padre di non farla partecipare, gli aveva spiegato che lei non
voleva essere commiserata da nessuno, che lei era, evidentemente, solo un patetico
mezzo per fare audience, che era disposta a fare qualsiasi cosa pur di non essere
trasformata in un fenomeno da baraccone, ma non c’era stato niente da fare. Suo padre
aveva detto, molto serio, che se lei non partecipava (e vinceva 500 mila euro, il premio
finale) lui si sarebbe suicidato come suo zio. Di fronte a questa risposta, Isabella aveva
dovuto capitolare.
«Quando arriviamo dai nonni, papà?», domandò e si sollevò sulle braccia per far
circolare un po’ di sangue nelle gambe atrofizzate. «Tra circa 40 minuti dovremmo essere
arrivati. Occupiamo questo tempo con un po’ di orografia. Lo sai che sull’orografia sei un
po’ debole». «Dai pa’, ti prego. Basta». «Allora, Isa, dimmi: quanto è alto Pizzo
Carbonara? E soprattutto: dove si trova?» Niente. Come se non l’avesse sentito. Isabella
sbuffò. «In Sicilia. Ed è alto 1978 metri. È la seconda cima della Sicilia dopo l’Etna».
«Quante sono alte le cime di Lavaredo?» «3003 metri». «Il massiccio dell’Annapurna
quante cime principali possiede?» «Sei». «Bene. E quanto sono alte?» «Dai, papà non me
le chiederanno mai». Ippolito Ricordì diede un’occhiataccia a sua figlia e poi riprese a
osservare la strada. «Senti Isa, questo per favore fallo decidere a me». Isabella chiuse gli
occhi e si concentrò: «L’Annapurna primo è alto 8091 metri. L’Annapurna secondo
793…».
Il pulmino frenò improvvisamente in uno stridio di pneumatici e Isabella non si ruppe la
faccia contro il parabrezza solo per la cintura di sicurezza.
Riaprì gli occhi e vide suo padre saldamente avvinghiato al volante. «Che succede, papà?
Sei impazzito?» «C’è un uomo sulla strada». Gli abbaglianti si allungavano sull’asfalto e
illuminavano un corpo umano steso al centro della strada stretta dalle braccia nere del
bosco. Isabella si mise una mano davanti alla bocca: «Che gli è successo?»
Ippolito Ricordì sorrise. Non gli era mai successo in vita sua di non saper dare una
risposta. «Quello che vedi lì è solo un esempio lampante di come la società italiana è
oramai agli sgoccioli. Saprai perfettamente che l’alcol, il tabacco e i grassi polinsaturi
sono le tre maggiori cause di morte nell’Occidente. Quello lì è chiaramente un coltivatore
diretto che ha alzato troppo il gomito. Il nostro dovere di bravi cittadini è accertarsi che
stia bene, aiutarlo e riportarlo a casa dai suoi familiari certamente in pensiero. Poi
andiamo dai servizi sociali e dai carabinieri e facciamo regolare esposto. Questa è la
procedura che dovrebbe seguire qualsiasi persona responsabile, ma che stranamente in
Italia non è la regola». Isabella non rispose. Il professor Ricordì aprì il cassetto del
cruscotto e tirò fuori una lunga torcia di alluminio nero. Spalancò lo sportello e scese
dall’automobile: «Tu aspettami qui». Poi, vedendo che sua figlia era immobilizzata su
una sedia a rotelle, sollevò le spalle: «Scusami. Intendevo dire che torno subito». Ippolito
Ricordì si avviò verso il corpo inspirando ed espirando con il naso. Quando arrivò a pochi
metri dal corpo lo illuminò. Il coltivatore diretto era steso a terra a pelle di leone. Al
centro della schiena gli era passato un camion perché nella polpa sanguinolenta erano
rimaste le impronte del battistrada Pirelli Touring. Il poveraccio, con la faccia appiccicata
contro la strada, muoveva ancora le braccia e le gambe in una patetica imitazione di un
nuotatore di rana. Il professor Ricordì rimase un attimo perplesso: «Tutto bene?» Il
contadino si lamentava in modo strano. Più che un lamento, sembrava il ringhio rabbioso
di un cane San Bernardo. «Stia calmo, signore. Non è niente… Oggi con le nuove
tecniche chirurgiche... Non è assolutamente il caso di preoccuparsi». Poi urlò alla figlia in
macchina: «Isa, cara, presto, la scatola del pronto soccorso». Isabella controllò nel
cassetto del cruscotto, ma non trovò nulla. Il professore si avvicinò al ferito: «Adesso le
metto un po’ di disinfettante e poi chiamiamo una bella ambulanza». L’uomo che al posto
degli occhi aveva due uova sode, con uno scatto improvviso sollevò la testa e allungò il
collo e affondò gli incisivi marci nel piede carbonizzato del professor Ricordì, che cacciò
un urlo e cercò di divincolarsi: «Ahhhaaa!!! Ma che fa?!!! Molli la gambaaa!!!
Ahhhaaa!!!». Intanto, nel pulmino, Isa aveva trovato il kit del pronto soccorso sotto il
sedile. «Papà! Ho trovato la cass…». Sollevò la testa e vide il padre che, come un
invasato, stava colpendo il contadino con la torcia. Schizzi di sangue si sollevavano
macchiandogli la camicia immacolata, gli occhiali, la fronte. Isabella era a bocca aperta.
Suo padre stava massacrando il povero coltivatore etilista.
Ippolito Ricordì riuscì finalmente a liberarsi. Tornò alla macchina zoppicando
vistosamente e aggiustandosi la frangetta. «Papà che è successo? Stai bene?” Il
professore fece segno di sì, avviò il motore e partì sgommando. Con uno scatto deciso
dribblò il corpo a terra e cominciò a rimettere a posto lo specchietto retrovisore. Ma la
mano gli si era come paralizzata.
«Sicuro di stare bene?», fece Isa preoccupata. «Sto benissimo! Benissimo!», ghignò suo
padre a denti stretti e staccò lo specchietto e lo buttò di dietro. Ma che diavolo gli era
successo a suo padre? Era pieno di strani tic, aveva preso da una tasca dello sportello una
cartina stradale e la ciucciava. «Sicuro di stare bene, papà?», balbettò Isa. «Hai una
zampa del pantalone tutta imbrattata di sangue». «Piantala! Piantala per favore di
chiedermi come sto. Sto in piena forma, ragazzina. Adesso riprendiamo le domande.
Allora in che anno Mohammed Alì ha dipinto la Cappella Sistina?». «Ma che dici? Tu
non stai be...!». Isa non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase che suo padre fece un
rutto e si accasciò morto sul volante. Il pulmino cominciò a sbandare paurosamente.
Isabella provò ad afferrare il volante. Ma non ci riuscì, la macchina sterzò verso sinistra e
rotolò giù nel bosco.
Tredici.
ISABELLA RICORDÌ
Isabella Ricordì rinvenne di colpo sul ciglio della strada. Era contusa, un lungo graffio le
attraversava la fronte, ma per il resto stava bene. Ma cosa le era successo? Ricordava solo
che suo padre era andato ad aiutare un coltivatore diretto etilista ed era tornato in
macchina assai diverso e all’improvviso si era accasciato sul volante e il furgone aveva
sbandato e poi… ...Niente. Il buio. Ora c’era un odore di bruciato fortissimo, un misto di
gomma e benzina. Isa girò la testa e la prima cosa che vide fu un fosso profondo cinto da
querce e cespugli di pungitopo e il furgone avvolto dalle fiamme. Ippolito Ricordì,
l’autore dei suoi giorni, poteva essere dentro quell’orrenda pira. «Papà!? Papà!?»,
cominciò a urlare la bambina trascinandosi disperata verso il rogo. «Forza, aiutatemi»,
ordinò ai suoi arti e provò a tirarsi su, ma ricadde a terra. Se avesse avuto due gambe
funzionanti e non due appendici storte e senza vita, forse avrebbe potuto salvarlo. Perché
Dio, nella sua infinità bontà, si era accanito proprio su di lei e l’aveva fatta nascere
paralitica? Nonostante Isabella avesse studiato la Bibbia, il Corano e un’infinità di testi
teologici a questa innocente domanda non aveva trovato una risposta. L’unica risposta
che le era sembrata significativa era quella che diceva che le colpe dei padri ricadono sui
figli. Ma che diavolo aveva potuto combinare suo papà perché il Padreterno avesse deciso
di punirla così facendola nascere storpia? E, soprattutto, l’Onnipotente non conosceva la
norma elementare per cui ognuno è responsabile delle proprie azioni? Se gli uomini
riconoscevano istintivamente questo principio come uno dei grandi cardini su cui si
poggia la convivenza sociale, perché il Signore, che ha creato gli uomini a sua immagine
e somiglianza, usa metodi e regole morali disumane e aliene? Isabella, a nove anni, aveva
ragionato un sacco su questi problemi e la conclusione a cui era giunta era assai amara:
Dio non esisteva e se esisteva era un prodotto della mente degli uomini. Nessun principio
primo, nessun senso all’esistenza. La vita era il prodotto casuale di un’aggregazione di
molecole. «E le molecole? Visto che sai tutto, cara Isabella, chi ha inventato le
molecole?», chiedeva Ippolito Ricordì a sua figlia Isabella. «Caro papà, le molecole non
sono il prodotto di una creazione o, come dici tu impropriamente, di un’invenzione.
L’atomo composto di elettroni e protoni esiste da sempre ed esisterà per sempre.
L’affermazione di realtà dell’atomo e delle sue aggregazioni molecolari coincide con
l’affermazione che esiste una realtà fisica oggettiva. E non è necessaria una creazione,
perché la creazione richiede un nulla precedente che non riusciamo a pensare e
tantomeno a definire. Per questo Dio non esiste». E quindi, ora che si trascinava sul ciglio
della strada, Isabella avrebbe voluto bestemmiare Dio e la Madonna che avevano infierito
su di lei, ma non lo fece. Dio non c’era e le sue bestemmie non avrebbero offeso nessuno,
se non i poveri ingenui che liberamente ci credevano. Quindi si limitò a esclamare un
generico: «Porca paletta!».
Raggiunse il bordo del fossato e attraverso le fiamme e il fumo nero vide che nella cabina
del pulmino non c’era nessuno. Il parabrezza era distrutto, suo padre doveva essere stato
sbalzato fuori quando l’automobile era finita nel bosco. Sempre trascinando le gambe,
Isabella seguì il ciglio del fossato e vide davanti a sé la sedia a rotelle, rovesciata sotto il
tronco di una quercia. E dietro vide suo padre. Era finito contro l’albero e un lungo ramo,
largo una decina di centimetri, gli trapassava lo stomaco da parte a parte come un pollo
allo spiedo. Le gambe e le braccia gli pendevano giù senza vita.
Isabella, in silenzio, cominciò a piangere e le lacrime le sfocarono il nero del fumo, il
giallo delle foglie morte, il verde del muschio e il marrone del completo di suo papà. Ora
era sola. La mamma era scappata con quel massaggiatore jatzu. Non le restavano che il
nonnino e la nonnina, ma ormai avevano una certa età. Quanto potevano campare ancora?
Cinque, sei anni, al massimo. Già le mancava suo papà. Nonostante avesse tanti difetti,
era stato un uomo buono e un bravo padre. «Ciao papà. Ti voglio bene», fece Isabella
tirando su con il naso e poi, pragmatica, cercò di rimettere in piedi la sedia. Doveva
tornare sulla strada e chiamare aiuto, ma sapeva già che mettersi sulla sedia con la forza
delle sole braccia sarebbe stato difficile, se non impossibile, ma doveva tentare
ugualmente. Non poteva rimanere lì, in mezzo a un bosco, accanto al cadavere dell’autore
dei suoi giorni. Afferrò una ruota e facendo uno sforzo terribile la tirò verso di sé, senza
ottenere risultati. Ci riprovò ancora e ancora. Possibile? Sembrava piantata a terra, quella
maledetta sedia. La verità è che una sedia come quella, con il motore elettrico, pesa da
morire. «Pensa, Isa, pensa», si disse. Certo, la Storia ti può essere sempre maestra, in casi
disperati. Archimede Pitagorico cosa aveva detto? «Datemi una leva e vi solleverò il
mondo». Afferrò un ramo e lo incuneò sotto la sedia, poi cominciò a spingere e al terzo
tentativo riuscì a rimetterla su. Adesso veniva la parte più difficile, mettercisi a sedere.
Stringendo i denti e afferrandosi con le mani ai braccioli riuscì a issarsi. Poi con un
ultimo sforzo ruotò su se stessa e ci poggiò sopra il popò. Aveva il cuore che gli pulsava
nei timpani ed era tutta sudata, ma era salva. «Isa… Isa…». Si voltò di scatto al suono di
quella voce bassa e rantolante. Vide suo padre che allungava le braccia verso di lei e
sorrideva. Ai lati della bocca gli colavano due rivoli di bava rossiccia e gli occhi erano
appannati da un velo bianco. «Papà!? Papà, non sei morto?», urlò di gioia Isa e spinse in
avanti la leva di comando. Le piccole ruote della sedia, lamentandosi, si mossero. Ma
quando arrivò a pochi metri Isa si fermò. In effetti non era possibile che fosse ancora
vivo! Aveva un buco nello stomaco dove sarebbe passata tranquillamente una pallina da
tennis. Sotto di lui c’era una pozza di sangue larga un metro e profonda un paio di
centimetri. Aveva subìto un danno molto esteso all’apparato digerente, che aveva
prodotto un’emorragia letale. Allora, perché suo padre si contorceva come un ossesso
cercando di liberarsi dal tronco che lo infilzava? «Papà, come stai? Ti senti bene?» «E
come sto? Non mi vedi? Se non mi liberi subito, piccola troietta, mi farai arrabbiare
moltissimo». «Ma papà!?», Isa si mise, scandalizzata, la mano sulla bocca. «Perché mi
dici queste cose?» Ippolito Ricordì cominciò a tirarsi su il ramo cercando di sfilarselo
dalla pancia. Dietro di sé lasciava una scia di siero e sangue. «Lo sai che sei solo una
puttanella paralitica? E che adesso pagherai per avermi rovinato l’esistenza», ringhiò il
signor Ricordì a sua figlia. «Io ho cercato di far abortire quella zoccola di tua madre, ma
sai come sono fatte le donne... Anzi, non lo sai perché tu non sei una donna, ma un
povero mostriciattolo costretto su una sedia a rotelle». Isa si costrinse a non piangere.
Quell’essere lì non poteva essere suo padre. Si ricordò di aver letto su un libro sul
folclore dei Monti Carpazi di una leggenda che parlava di morti viventi parlanti. Secondo
questa storia popolare i morti viventi-zombie almeno nelle prime fasi della loro non vita
potevano parlare, fino a quando le corde vocali non gli venivano colonizzate da batteri
saprofiti che gliele mandavano in pappa. E sempre secondo questa storia folcloristica i
non morti dicevano la verità, tiravano fuori ogni segreto e pensiero proibito che avevano
avuto nella vita precedente. E quindi, se voleva dar credito a questa favola, dentro il
guscio di professore moralista si nascondeva un uomo malvagio che l’aveva sempre
odiata. Questa amara riflessione le diede la forza di reagire. Girò la carrozzella e puntò
dritta verso la strada senza voltarsi indietro e cantando Luna di Gianni Togni per non
sentire la voce di suo padre. Attraversò la boscaglia riparandosi la faccia con un braccio.
La striscia di asfalto era lì, davanti a lei. Era quasi arrivata quando, improvvisamente, la
carrozzella si piantò. Isa sentì un rumore di frullatore rotto. Abbassò lo sguardo e vide
che le ruote della sedia erano finite in un pantano e giravano impazzite sollevando schizzi
di fango. Isa si era ripromessa mille volte di sostituire le gomme con radiali della Pirelli
da cross, ma si sa, gli impegni quotidiani...
E adesso? Si girò e vide che suo padre si era praticamente liberato dal palo e le urlava
parole irripetibili. Un’altra cosa che Isa sapeva bene, per i numerosi film che aveva visto
sull’argomento, era cosa ti fa uno zombie quando ti si avvicina. Ti mangia vivo. E ti
lascia lì tutto smozzicato e sanguinante a vagabondare come un idiota. Molti critici
cinematografici che videro nel 1968 il film di Romero La notte dei morti viventi
identificarono la figura dello zombie con il tipico consumatore americano cieco e
insaziabile come era in quel momento il suo paparino. «Arrrggghhh!!! Strooonzzzaaa!!!»,
grugnì l’ex professore liceale e barcollando si avviò verso la figlia impantanata come una
Toyota durante il rally di Sardegna. Isa si piegò da un lato e con un colpo di reni riuscì a
smuovere la ruota destra dal fango e a spostarla fuori dal pantano e come d’incantesimo
si ritrovò sulla strada. Mise a manetta il controllo della velocità e sentì sotto al culo il
motore elettrico ronzare soddisfatto. Isa girò la testa e vide suo padre che la inseguiva a
mani in avanti, con un buco nel bacino da cui si vedeva il furgone alle sue spalle. «Ti
uccido a te e a quella bocchinara di tua madre», urlava. Isa si piegò in posizione
aerodinamica, ma, invece di aumentare la velocità, rallentò. E ora? Che cosa succedeva?
Osservò l’indicatore della batteria. Rosso! Era scarica!!! Si girò disperata. Suo padre
aveva guadagnato strada e non aveva nessuna intenzione di mollare. Isa si rese conto, in
quel momento, di quanto fosse attaccata a quell’esistenza sfortunata. Non le importava di
essere una bambina menomata, non le importava che non avrebbe mai camminato, voleva
vivere, voleva morire centenaria in un ospizio, non voleva essere mangiata da suo padre.
Guardò di nuovo l’indicatore: era al minimo, tra una decina di metri si sarebbe fermata!
Lasciò l’acceleratore e si abbandonò sulla sedia, pronta a farsi divorare. «Eccooo!!!
Arriva Paparinooo!!!», urlò Ippolito Ricordì. Isa chiuse gli occhi nel momento in cui vide
con la coda dell’occhio le fauci di suo padre spalancarsi. Un’esplosione. E un liquido
caldo le imbrattò la faccia. Riaprì gli occhi e vide il corpo di suo padre, decapitato,
avanzare e crollare a terra come un burattino. Nello stesso momento, una Vespa 50
azzurra gli sgommò davanti, scivolando sul sangue. In sella c’era un prete. Un uomo con
i capelli bianchi e la barba sfatta che imbracciava una doppietta a canne mozze. Al posto
del mirino aveva un piccolo crocifisso. Il prete le sorrise. Isa si pulì con le mani dal
sangue e gli domandò: «Ma tu chi sei?» Il sacerdote s’infilò un toscano tra i denti e disse:
«Padre Marcello».
Le tenebre, come sempre succedeva d’inverno, erano cadute sul paesino di Forca di
Mezzo con la rapidità della lama di una ghigliottina. Il freddo tagliente. Il cielo era tanto
zeppo di stelle che la Via Lattea sembrava un lenzuolo steso sul firmamento. La luna non
c’era ma bastavano tutti quegli astri a pennellare d’argento le cime gelate dei pini e i
costoni affilati di roccia. La notte era un buon compagno per gli abitanti delle montagne.
E se nel Medioevo era il regno dei ladri, delle streghe e di Satana in persona oggi era un
comodo drappo nero che nascondeva incontri sconvenienti. E in quella Toyota
parcheggiata di fronte al laghetto per la pesca sportiva dei fratelli Franceschini ne stava
avvenendo uno particolarmente sconveniente. Tra Matteo Antonucci, l’assessore alle
politiche giovanili e Laura Trentalance, l’insegnante delle elementari venuta da Roma. Le
malelingue, in paese, mormoravano, che la nuova insegnante delle elementari, Laura
Trentalance, fosse in realtà una famosa pornostar rumena che si faceva chiamare Ortensia
Colonna. Era chiaro che quella donnaccia era venuta nel loro paese per cercare di rifarsi
una faccia. «Nella vita uno può fare tutto quello che vuole. Io non giudico. Ognuno è
libero di scegliersi la propria vita. Ma la signora si sbaglia se crede di rifarsela a spese dei
nostri bambini», diceva la proprietaria del negozio di articoli da regalo. «Mi sono visto
per un secondo i film della nostra professoressa. È lei al cento per cento. Che maiala…
Negri, arabi, donne… Di tutto». In paese era circolata tutta la filmografia di Ortensia
Colonna. E l’assessore alle politiche giovanili Matteo Antonucci aveva deciso che
bisognava scoprire se dietro l’ingenua insegnante si nascondesse quel mostro di
perversione. Va detto che Matteo Antonucci era convinto di essere uguale a George
Clooney, ma si sbagliava alla grande. Non basta avere i capelli brizzolati, farsi le
lampade e sbiancarsi i denti per assomigliare al divo americano. Eppure quella assurda
certezza gli rendeva l’esistenza migliore e gli dava una sicurezza nei suoi mezzi che alla
fine gli permetteva di fare grandi, mirabolanti acchiappi nella fauna selvatica di Forca di
Mezzo. Per esempio, rimorchiarsi Laura Trentalance era stato facile. Secondo l’assessore
era spiccicata ad Angelina Jolie. Stesse labbra ad anello di totano. Stessi occhi da
zoccola. Stesse tette rifatte. Stesso tutto. Era incredibile che lì, in mezzo agli Appennini
centrali, in una Toyota Rav 4 parcheggiata davanti a un fetido laghetto per la pesca
sportiva, ci fossero i cloni di George Clooney e Angelina Jolie che amoreggiavano. Per
essere precisi, finalmente, dopo un piatto di linguine allo scoglio, una trota all’acqua
pazza e una bottiglia di Fiano d’Avellino, Angelina stava per praticare un pompino a
George. L’assessore aveva una vera fissazione per il sesso orale. Adorava vedere una
donna appena conosciuta che si prostrava di fronte al suo enorme membro. Era un atto di
rispetto verso il simbolo della potenza maschile. Un po’ come quello che fanno i
corazzieri verso la bandiera italiana. Il problema era che Matteo Antonucci non voleva
solamente questo. Aveva promesso a tutti i suoi amici del bar Civetta di portargli una
prova filmata della prestazione dell’insegnante/pornostar. Ora però doveva dirle che
voleva filmarla. Come l’avrebbe presa? Se era una pornostar benissimo.
Laura Trentalance seduta nella Toyota di Antonucci rimpiangeva di aver accettato
l’uscita con quel tipo. L’aveva obbligata ad andare a vedere le stelle che si specchiavano
nel laghetto della pesca sportiva. Fuori le rane, assiderate, gracidavano. Laura osservò
Antonucci. Sembrava Claudio Baglioni. Doveva essersi riempito di botulino perché
aveva la faccia tirata come il sedile di una poltrona e la vivace espressività di una statua
di Madame Tussauds. Laura Trentalance odiava il sesso orale. Ma spesso era meglio di
un rapporto completo. Finiva subito. E non dovevi nemmeno spogliarti. Ma adesso che
aveva quella specie di tubo in bocca non era per niente felice. Sperava che finisse presto.
E intanto cercava di pensare al fatto che non aveva ancora pagato l’assicurazione allo
scooterone, che era scaduta, e che voleva però prima chiedere un preventivo a una di
quelle compagnie on line di cui parlano tanto bene. Ma ’sto rompiballe quanto ci
metteva? In un documentario aveva visto che i monaci tibetani sono in grado di astrarsi,
attraverso tecniche di meditazione e non pensare più a niente. Forse ci poteva riuscire
anche lei. Anche se i monaci tibetani non si devono astrarre dalle cose mondane con un
lungo coso infilato nella bocca. E poi l’assessore aveva anche dei problemi di erezione.
«Che succede?», gli domandò la professoressa. «Credo che sia colpa della ciabatta con i
peperoni che ci hanno dato per antipasto. Non li digerisco. Ma forse conosco un
rimedio». Antonucci tirò fuori un cd dal cruscotto della Toyota e lo infilò nell’autoradio.
Una musica flamenco alla Gipsy King riempì l’abitacolo del fuoristrada. «Amor. Amor.
Le cose de la vida non se parar. O amor!», gorgheggiava il cantante. «E questo chi è?»,
chiese l’insegnante tutta incastrata sotto il volante. «È Lino Melone. Il più grande dei
cantanti neomelodici. Vive da ’ste parti. È un amico mio. Se vuoi, un giorno te lo faccio
conoscere. È un grande. Una persona eccezionale». La Trentalace osservò l’effetto della
musica gitana sul membro dell’assessore alle politiche giovanili e si rimise, più serena, al
lavoro. Nessuno dei due guardava fuori, ma nella calma placida del laghetto illuminato
dai fari della macchina a un tratto ci fu un movimento. Tre rane saltarono scocciate dalle
ninfee e un essere scuro emerse dalle acque. Era quello che restava di Lino Melone. Uno
scheletro su cui erano appesi brandelli di uno smoking di paillettes. Nonostante lo stato di
decomposizione avanzata riusciva a ballare con un certo stile. Tipo Ricky Martin con
Livin’ la vida loca. Le alghe e i mitili gli avevano coperto il cranio. La mascella che gli
cadeva da una parte si abbassava e si alzava in un orrido playback della sua canzone che
arrivava dalla macchina.
L’assessore alle politiche giovanili, Matteo Antonucci, continuava a dondolare la testa a
ritmo della musica. L’insegnante ci sapeva proprio fare. Adesso doveva tirare fuori la
videocamera e riprenderla. Forse riusciva a farlo senza che lei se ne accorgesse. Allungò
un braccio sul sedile posteriore e infilò una mano nella sacca dove teneva la Sony
Handycam. Dov’era finita? Mentre girava la testa ebbe l’impressione che nel lago ci
fosse stato un bagliore blu. Dovevano essere le trote contaminate dei Franceschini. Ma
strizzando gli occhi gli sembrò di vederlo di nuovo. E non era nell’acqua. Ma sopra la
superficie. Cos’era? Non riusciva a capire. Sembrava una sagoma umana. Possibile?
Azionò gli abbaglianti. E vide una cosa assolutamente impossibile. C’era un uomo che
cantava in mezzo al laghetto. «Guarda…! Guarda…!». La Trentalance sollevò la testa.
«E ora che succede?». L’assessore era a bocca aperta. «Lo vedi!?». L’insegnante si mise
gli occhiali da vista e guardò fuori. «Chi è?». Antonucci prese il cd dove c’era in
copertina la foto di Lino Melone. «È Lino Melone». «E che ci fa lì?». «Non lo so».
L’assessore cominciò a riprenderlo con la videocamera. Intanto il cantante neomelodico
continuava a cantare come un invasato. E come Ricky Martin diede un colpo d’anca
mettendo in mostra la cassa toracica scarnificata. I due amanti si guardarono e cacciarono
un urlo di terrore. In realtà Antonucci con tutto il botulino che aveva sotto pelle, riuscì
solo a spalancare la bocca come avrebbe fatto un coccodrillo. L’assessore accese la
macchina e mise la retromarcia, ma le ruote presero a slittare in una pappa di fango e
nevischio. Lino si avvicinava lentamente ma inesorabilmente, allora Antonucci chiuse le
sicure. Lo zombie diede una capocciata contro il finestrino mandandolo in mille pezzi e
infilò una mano scheletrica verso il collo dell’assessore che lo colpì con la videocamera.
Ma lo zombie lo afferrò per un orecchio e lo tirò fuori dalla Toyota. L’insegnante
elementare aprì la portiera e si gettò fuori e finì nel fango; si risollevo e cominciò a
scappare. Continuava a vedere la faccia di Antonucci impassibile e tonica che veniva
divorata dallo zombie.
Quattordici.
La mora si agitava sul pianale arrugginito del pick-up come se gli artigli di un grifone le
scivolassero lungo la spina dorsale. Sembrava che stesse soffrendo pene lancinanti, ma
poi sorrideva e rideva, allora eri certo che stesse morendo di piacere. Si muoveva sinuosa,
poi scatti improvvisi la irrigidivano e le strizzavano la bocca in un rictus che le portava
via tutta la bellezza. Il lento e faticoso ansare le faceva sollevare il petto costretto a
malapena dentro il reggiseno di pizzo nero. I grandi capezzoli come due soli nascenti si
intravedevano tra i nastrini di raso del completo intimo La Perla. «Ancora! Ancora figlio
di puttana miscredente! Sfondami, pastore di anime dannate!», miagolava la giovane
mora affondando le unghie laccate di rosso nel pianale del camioncino. Sorrise e poi aprì
gli occhi. Le orbite erano due crateri neri da cui colavano grosse larve albine e millepiedi.
Spalancò la bocca e uno sciame di calabroni ne uscì in una scura nuvola ronzante. Un
orrendo zombie disteso sul pianale di un pick-up che precipitava in un gorgo
psichedelico.
Padre Marcello si risvegliò urlando nella sagrestia della chiesa di San Nicola di Forca di
Mezzo. Quell’incubo mostruoso non lo abbandonava più. Appena chiudeva gli occhi,
ecco che la mora gli si ripresentava nel suo subconscio malato. Dio, per ora, lo stava
punendo così per quello che aveva fatto a quella povera ragazza. Ma dopo avrebbe
gettato la sua anima all’inferno, se, ancora peggio, non lo avesse costretto ad aggirarsi
come quegli esseri non morti alla ricerca di carne umana. Si sollevò dall’amaca appesa
tra la statua della Madonna e quella di San Pietro. Raccolse da terra il pacchetto di Camel
senza filtro e se ne accese una. Poi prese la mezza bottiglia di Biancosarti e ci si attaccò.
Passando davanti a un vecchio specchio non poté fare a meno di fermarsi e guardarsi. Si
era dimenticato di avere un aspetto, da quando aveva deciso di sterminare tutti gli zombie
della valle. S’impressionò osservandosi. Com’era ridotto. Aveva 53 anni, ma quel lavoro
mostruoso gliene aveva caricati almeno altri dieci addosso. I capelli come stoppa e con la
ricrescita bianca dritti in testa. La barba sfatta che gli arrivava poco sotto gli zigomi. Gli
occhi cerchiati da due anelli violacei e ragnatele sanguinolente gli attraversavano i globi
giallognoli. Il prete fece un passo indietro e osservò il vestito. La lunga palandrana nera
era tutta macchiata di sangue e altre sostanze organiche. Sul colletto bianco era incrostata
una roba verdastra simile al moccio di un ragazzino con la Sars. Erano pezzi di materia
cerebrale di Franco Mariani, il tabaccaio di Forca di Mezzo che era morto di infarto solo
un mese prima. Padre Marcello aveva officiato il rito funebre. Un funerale triste e fatto in
fretta: solo la figlia, i due nipotini che giocavano con il Gameboy e una vedova senza
lacrime. L’aveva vista lui la tomba che veniva calata nella fossa. Li aveva visti lui i due
becchini poggiarci sopra la lastra di travertino con la scritta in oro “Franco Mariani
1950-2005”. E allora perché dopo nemmeno un mese il tabaccaio si aggirava con il
vestito nero e in stato di avanzata decomposizione per corso Maresciallo Diaz? Perché lo
aveva trovato in un angolo del negozio di sport che si sbranava il volto di Fiorenza
Tessari, un’attrice di una certa fama che aveva affittato uno chalet proprio a due passi
dalle piste da sci? Perché i morti si erano risvegliati? Continuava a tormentarsi con questa
domanda. Non poteva essere stata la strana formula che aveva recitato, completamente
ubriaco, dal manuale pratico di resurrezione che aveva comprato alla Feltrinelli? No! Si
rifiutava di crederlo! Doveva essere successo qualcos’altro. Ne aveva la certezza e lo
avrebbe scoperto.
Aprì il grande armadio dove aveva sempre tenuto gli arredi sacri. Adesso c’erano due
fucili a pompa, un fucile a canne mozze e una balestra in fibra di carbonio. E un sacco di
scatole piene di proiettili e frecce. Padre Marcello tirò fuori il fucile a canne mozze e lo
caricò con proiettili esplosivi. Prese anche la balestra e se la mise a tracolla. Poi,
stiracchiandosi, entrò nella chiesa. La luce del tramonto s’insinuava attraverso le assi
inchiodate sulle lunghe finestre in stile finto gotico dipingendo sul pavimento una
scacchiera luminosa. Contro la grande porta, in fondo alla navata, erano accatastate le
panche. La chiesa, in quello stato, sembrava essere sopravvissuta per miracolo a un
bombardamento. Padre Marcello andò all’altare su cui aveva poggiato una vecchia
macchina da scrivere Olivetti Lettera 32. Ammonticchiati accanto, pile di fogli su cui
aveva scritto le sue osservazioni scientifiche sulla natura biologica degli zombie. Un po’
più in là bottiglie vuote di superalcolici presi dai bar del paese. S’inchinò di fronte alla
statua della Vergine Maria e cominciò a recitare il Padre nostro. Mentre era lì che cercava
un contatto con il suo Dio, sentì come un fruscìo, simile a quello che potrebbe fare un
serpente a sonagli sulla sabbia del deserto. S’irrigidì ma continuò a pregare a denti stretti.
Schiuse un occhio e girò appena la testa. Una pallina da tennis. Una pallina da tennis
verde e strisciata di sangue era ai piedi dell’altare. Era stata quella a fare rumore. Il prete
prese un grande respiro e si voltò. In mezzo alla chiesa, a una ventina di metri da lui,
c’era uno zombie vestito da tennista. A essere precisi assomigliava maledettamente a
John McEnroe dopo che un pendolino gli fosse transitato addosso. Aveva una fascetta a
strisce intorno alla testa. Be’ non era proprio una testa, ma piuttosto avanzi di testa. La
parte destra del volto sotto il sopracciglio era completamente assente e la mandibola gli
pendeva sbilenca come il batacchio di una campana. Addosso aveva una maglietta Fila
con il colletto blu. Da una manica gli spuntava un braccio, dall’altra gli spuntava l’omero
a cui erano appesi pezzi di carne sanguinolenta. Dai calzoncini gli spuntavano le gambe,
stranamente ancora in buona forma. Nell’unica mano che gli rimaneva, stringeva una
racchetta da tennis nera. Padre Marcello lo riconobbe subito. Quello lì era Franco
Sartogo, l’insegnante di tennis del circolo sportivo “Camoscio bianco”. Un brav’uomo.
Era stato campione regionale nel 1982 e raccontava di essere stato amico di Panatta e
Galeazzi e chissà, poteva pure essere vero. Lo zombie, a gambe aperte e con il busto in
avanti, sembrava che stesse aspettando la battuta. Dondolava pure un po’.
«Inginocchiati!», fece il prete con la voce rauca e impastata dal Biancosarti. Se la schiarì
e ripetè: «Inginocchiati nella casa del Signore». Sapeva che i non morti non erano in
grado di capire e recepire nulla, eppure non poteva fare a meno di continuare a parlargli.
L’ex tennista fece un ringhio cavernoso e si piegò ancora di più. Padre Marcello prese la
doppietta e con calma inquadrò una rotula del maestro di tennis nel piccolo crocifisso che
aveva saldato in punta al fucile e fece fuoco. L’esplosione rimbombò nella volta a botte
della chiesa. Lo zombie, incredibilmente, era ancora in piedi. Su una gamba sola, come
una specie di strano fenicottero. Il sacerdote puntò di nuovo l’arma e fece fuoco sull’altro
ginocchio. Il tennista finalmente si ritrovò a terra. «Bravo. Ti sei inginocchiato. E adesso
chiedi pietà per i tuoi peccati», disse il prete e caricò la balestra con una freccia esplosiva.
Prese la mira e tirò il grilletto. Ci fu un “fiuuu” della corda dell’arco e la freccia finì
proprio al centro della fronte di Franco Sartogo. Il resto della scatola cranica esplose in
schizzi di schegge ossee e materia cerebrale e contemporaneamente il corpo, come al
rallentatore, si piegò indietro e sollevò il braccio con la racchetta come in ultimo e
disperato tentativo di servire una battuta. Poi del maestro non rimase che un troncone.
Anche quella roba che assomigliava alla vita si era dissolta. «Riposa in pace», fece il
sacerdote, aprì una porta e salì su una stretta scala a chiocciola che portava sopra al
campanile. Da lì si aveva una visione globale della situazione in cui versava il paese.
Prese il binocolo e osservò. Un disastro. C’erano oramai solo morti viventi che si
aggiravano senza meta tra le stradine. Più in lontananza vide una spirale di fumo
sollevarsi dalle chiome del bosco e poi vide sulla strada una ragazzina su una carrozzella
inseguita da uno zombie. «Resisti! Resisti! Ti salvo io, piccoletta», fece, sputando via il
mozzicone di sigaretta e si gettò giù per le scale sulla sua coscia malandata.
Quindici.
CARLA COTUGNO
Nilo Papadopulos, il greco, era alla guida di una Lexus berlina, nera come la coscienza di
un vecchio pedofilo. Accanto, gli sedeva il suo compare, Enzo Tavazzi, che guardava
assente le tenebre gelate che avvolgevano la macchina. Il greco continuava a scuotere la
testa come una frisona che voglia scacciare le mosche cavalline. «Io sono sicuro che
Veronica mi ama. Dal punto di vista cosciente lei non lo sa, ma dal punto di vista
incosciente, invece, è pazza di me. È come quando uno odia i cani ma poi, stranamente, li
accarezza. Quante volte vedi persone che odiano i cani e li accarezzano e gli danno da
mangiare? Oppure, quando c’è un incidente stradale e non puoi fare a meno di guardare,
anche se ti fa schifo. Perché credi che va a letto con quel pezzo di merda allora?».
Tavazzi non si degnò nemmeno di aprire gli occhi: «Perché è suo marito. Idiota».
Papadopulos sorrise. «È incredibile come non capisci un cazzo delle donne. Se
conoscessi un briciolo di psicologia femminile lo sapresti. Lo fa perché ha paura di
innamorarsi, di diventare debole, di riconoscere che io l’attraggo da morire». Da dietro
venne la voce di Arnaldo Cotugno, il grande boss. «Basta, state zitti, porca troia. Non
sento niente». Teneva stretto in mano il cellulare come se fosse un rompighiaccio.
«Carla! Carla! Mi senti!? Fermati, dove vai? Fermati!».
Carla Cotugno, a qualche chilometro di distanza, alla guida della sua Mini Cooper
fuggiva da suo padre e dalla sua gelosia che la strangolava. E poi aveva fatto uno strano
sogno. Anzi, a essere precisi, un incubo in piena regola. Aveva trovato finalmente
qualcuno da amare. Uno che la voleva sposare. Il cuore al solo pensiero le si gonfiava di
una terribile tenerezza, di un desiderio di scappare con lui in capo al mondo. Erano
scappati insieme e senza dirlo a nessuno si erano andati a sposare. La chiesa li aveva
avvolti, inghiottiti. Nelle tenebre dell’alto edificio, illuminate di luce propria, colonne
scarne come tibie. Intorno all’altare migliaia di candele ritorte come serpenti deformi
bruciavano in fiammelle tremolanti, piccoli punti accesi, mozziconi di sigarette. Carla si
sforzava di vedere in faccia il prete, ma un velo opaco le impediva di farlo. Affioravano
solo gli occhi che trapassavano la coltre come tizzoni ardenti, il naso e gli zigomi come
staccati dalla figura, sembravano avere vita propria. E il sacerdote puzzava di cicche e di
alcol rancido. Carla aveva tentato, risvegliandosi in un lago di sudore, di mettere insieme
quelle immagini singole per ricostruire la trama dell’incubo, ma le riusciva impossibile.
Anche nel sogno si era concentrata per capire chi diavolo si stesse sposando, ma gli occhi
arrossati dallo sforzo le si chiudevano. Nel buio della sala, davanti a un film, le era
successo lo stesso; le palpebre come serrande abbassate gli chiudevano lo sguardo,
incapaci di sentire i vaghi comandi del cervello lontano. Piaghe purulente sembravano
formare una rete nella carne del prete. Solchi rossi. La voce del prete le si era insinuata
dentro come olio caldo, ma non capiva il significato di quelle parole distanti. Troppo
difficile concentrarsi. I pensieri le scivolavano nella mente senza lasciare impronta. Poi
aveva capito. «Vuoi tu, Carla Cotugno, sposare quest’uomo, nel bene e nel male, nella
buona o nella cattiva sorte? Eh?! Lo vuoi?». «Sì... Sì, lo voglio!», aveva risposto di getto.
Si era stupita di come aveva pronunciato quelle parole senza nemmeno rendersene conto.
Le erano uscite così, le aveva vomitate come aveva vomitato il gin liscio la prima volta
che lo aveva provato. Alla fine aveva baciato suo marito. Era strano, vedeva il naso, la
bocca, gli occhi eppure non riusciva a metterli insieme per formare il volto. Lui le aveva
messo in bocca una lingua lunga, agile. La sentiva muoversi in bocca, giù fino al palato e
dentro la trachea. Non riusciva a prendere aria. Si era voltata, nell’ombra il sacerdote le
sorrideva con un ghigno di complicità. Mentre le sorrideva, con le mani il prete si
staccava i capelli dal cranio, a ciocche, li guardava e poi li buttava per terra, sopra il
marmo chiaro. L’uomo le si era avvinghiato addosso. Sentiva un odore buono sulla carne
scura di lui, di chiodi di garofano, di incenso, ma che poi mutava in qualcosa di diverso,
affumicato, di salsicce ai ferri. Era troppo vicina a lui per poterlo distinguere interamente.
Le metteva le mani addosso. Poi le aveva alzato il lungo strascico e messo le mani tra le
cosce, sotto gli elastici delle mutande. Carla aveva preso ad agitarsi, a gemere di piacere e
a muoversi in modi assurdi. Ruotava le membra in posizioni impossibili. Suo marito la
teneva sollevata, reggendola con un braccio, le dita nascoste nel buio della fica. Poi,
tenendosi per mano, quasi di corsa, erano usciti dall’alto edificio. Fuori il sole l’aveva
abbagliata, era come stare in un ghiacciaio. Doveva tenere gli occhi chiusi. Mano nella
mano. Intorno mulini di foglie secche portate dal vento. Carla sapeva che adesso
avrebbero fatto il viaggio di nozze, ma non sapeva dove. E poi aveva capito dove. Nella
casa al mare dove era morta mamma. Non ci sarebbe stato nessuno e suo padre non lo
avrebbe mai scoperto. Mentre, in macchina, percorrevano la strada per il mare, Carla si
sentiva in colpa. Aveva fatto qualcosa di male, qualcosa che non si deve fare. Ma non
ricordava che cosa. La casa era grande, stanze vuote si succedevano una dopo l’altra,
porte sempre uguali le univano. Non c’erano corridoi. Nella loro stanza, l’unica con un
letto sul centro, c’era una grande finestra che si affacciava sull’alta scogliera rocciosa. In
lontananza una lunga spiaggia coperta dalla neve. Formava uno strato uniforme e nessuno
l’aveva mai calpestata. Carla passava intere giornate appoggiata alla finestra. Aquile
marroni volteggiavano tra i picchi della scogliera sotto un cielo denso e pesante,
rincorrendosi in folli piroette. Per il resto, il paese sembrava abbandonato. Non ricordava
che in quel posto potesse nevicare. Era un elemento che stonava e le lasciava da pensare.
Dormivano molto e poi facevano l’amore. Non parlavano. Era intorpidita e apatica e tutto
era fermo. Non aveva ancora riuscito a capire chi cavolo fosse suo marito, ogni tanto
scompariva senza dire niente, bastava che voltava lo sguardo e non c’era più. Dove
andava? Appena pensava a lui altri pensieri si aggiungevano, lasciandola confusa. Un
giorno, mentre era alla finestra, la casa aveva incominciato a trillare. Sembrava che tutto
l’edificio e i muri suonassero a intervalli. Il telefono. Carla correva nelle stanze vuote alla
ricerca dell’apparecchio. Il trillo continuava e Carla, d’improvviso, aveva capito cosa
aveva nel petto che la faceva sentire in colpa. Ora ricordava. Suo padre non voleva che lei
si sposasse, soprattutto con quello. Aveva mentito, l’aveva tradito. Lui si aspettava
tutt’altro da lei, ma cosa? Continuava a correre, il suono come un martello s’incuneava
come una scure tra i lobi del cervello. Dove cazzo stava il telefono? Le camere, tutte
uguali, sembravano infinite. Stava per disperare quando trovò quello che cercava.
L’apparecchio in mezzo alla stanza, nero e lucente, avanzava lentamente trascinandosi.
Sembrava ferito, si tirava dietro il filo come un cordone ombelicale. Più si avvicinava e
più sembrava un grosso insetto. Una blatta nera. Tra le elitre, poggiata in mezzo,
spuntava la cornetta. Vincendo lo schifo, la sollevò. Era viscida, coperta di un liquido
denso e lattiginoso. «Pronto! Pronto chi parla?». «Pronto! Carla sono tua madre, come
stai? Domani siamo lì... Con tuo padre. La casa? La casa come sta? Hai messo in
disordine? Sei contenta? Faremo di nuovo le vacanze insieme... Come una volta. Qui fa
un caldo terribile. Be’... Ci vediamo domani. Ciao».
Tornando verso la sua stanza si era chiesta come era possibile che venisse anche sua
madre. Era morta da… Ma, a ripensarci, non ne era più tanto sicura. Aveva trovato suo
marito che guardava fuori. Si era voltato, l’aveva presa per il collo e l’aveva sbattuta
contro la finestra, le aveva allargato le braccia e poggiato le palme sul vetro umido di
condensa. Le aveva divaricato le gambe, e con lentezza le aveva tirato su il vestito da
sposa, poggiandoglielo sulla schiena. Non aveva mutande. Si era girata e vedeva il sedere
emergere dal candore della stoffa. Le natiche abbronzate confluire insieme in una valle
più buia, le gambe lunghe e magre unirsi in un delta. Ondeggiava le chiappe come una
cagna in calore. Poi un salto improvviso e si era ritrovata a correre per un groviglio di
strade e rampe di scale. Lui davanti, lei di dietro. Il paese aggrappato a quei sassi scoscesi
taceva. Il vento sbuffava indisturbato tra le case bianche e sbatteva le imposte e,
turbinando, si infilava giù per le canne dei camini per poi riuscire tra lo stridore di cardini
arrugginiti. Avevano imboccato un piccolo sentiero che faticosamente aggirava le
costruzioni fino a raggiungere la scogliera a picco sul mare. Il sentiero come una ferita
tagliava in due un grande campo di stoppa gialla, bruciata dal sole. Alla fine del viottolo
si trovarono su un enorme faraglione che precipitava nel vuoto. L’odore del mare
arrivava fin lassù, odore di alghe seccate sul bagnasciuga. Onde grandi come colline, in
basso si sfondavano sugli scogli neri formando schiuma bianca. Lui, incurante della
vertigine, era salito fino alla punta del faraglione, in piedi su uno sbalzo. I capelli, agitati
dal vento, gli coprivano il volto. Non sembrava aver paura del vuoto. Carla gli era
arrivata alle spalle e senza esitazione l’aveva spinto giù. Lui non aveva opposto
resistenza. Era precipitato e basta, allargando le braccia, come un manichino. Dopo un
lungo volo si era schiantato sulle rocce. Le onde lo coprirono e una più grande delle altre
se lo prese, inabissandolo. Carla era tornata a casa di ottimo umore, ora poteva far trovare
tutto in ordine. Era contenta che sua madre avesse deciso di venire.
Il giorno dopo era una bella giornata. La neve si era sciolta lasciando lo spazio a
ombrelloni e bagnanti. Le case si erano riempite di vita, di voci, di urla di bambini. Dalla
finestra il mare era piatto come una tavola e sopra, come spilli appuntati, barchette
colorate piene di gente in costume. Riconobbe subito il gozzo azzurro dei suoi genitori
che avanzava piano lungo la costiera. Era uscita di corsa, tra motorini e frotte di
vacanzieri. Aveva superato il faraglione e sceso la scalinatella di pietra che portava alla
spiaggia. Intanto, la barca era quasi arrivata, vedeva distintamente suo padre al timone e
sua madre in costume sdraiata a prendere il sole sulla coperta. Urlava forte da lì sopra per
attirare la loro attenzione. Si erano accorti di lei e si erano avvicinati. Ora erano sotto, a
pochi metri dalla roccia. «Dai! Buttati! Buttati!». Quando era piccola si era tuffata, ma
mai da così in alto. C’erano dieci metri buoni. Poteva farcela, non era tanto. Li avrebbe
sicuramente stupiti. Si chiese, per un attimo, come mai la mamma la spingesse a saltare.
Salì sul muretto di pietra e guardò giù. La barca rollava dolcemente mossa dalle onde.
Ebbe solo un momento di esitazione, poi spiccò il volo. Chiuse le braccia contro il busto,
serrò le gambe, incuneò i piedi. Bucò l’acqua perfettamente, senza schizzi, composta. Il
mare le si chiuse sulla testa. Non aveva pensato a quanto era profondo, ma era scesa
molto senza toccare, non c’era pericolo. Il corpo terminò la sua corsa verso il basso, la
spinta di Archimede ebbe il sopravvento. Sotto, a pochi metri, vedeva le rocce spuntare
tra la sabbia, in alto la pancia ovale della barca. Mentre remava con le gambe guardando
in su, vide nello specchio che formava la superficie del mare qualcosa luccicare sul fondo
tra i prati di posidonia. Le sembrava un banco di alici. No, era un panno. Un panno
ricoperto di paillettes. Lo stomaco le si chiuse e lo stesse fece il cuore, allora pedalò più
forte anelando aria, non ne aveva più. Mancava poco, era finalmente arrivata, quando una
morsa l’afferrò tirandola di nuovo giù, verso il fondo. Artigli nella carne. Si girò e vide
Lino con lo smoking blu attaccato alla sua gamba. Era enorme, la bocca dilatata.
Mostrava i denti aguzzi, le alghe intrecciate ai capelli. Carla provò a nuotare
disperatamente e ad allontanarlo colpendolo con il piede libero, ma era pesante per via
dei blocchi di cemento attaccati ai piedi. La tirò giù, più giù, tra le rocce, mentre l'acqua
si tingeva di rosso. La chiglia della barca si rimpicciolì mentre Lino, il suo amore, le
diceva: «È stato tuo padre… È stato tuo… È stato… È…».
Sedici.
ANTONELLO PEDROTTI
«I morti camminano tra noi. Zombie, morti viventi, comunque li si voglia chiamare,
questi sonnambuli sono la minaccia più terribile per l’umanità, dopo l’umanità stessa.
Sarebbe impreciso chiamare loro predatori e noi prede. Altro non sono che una peste e la
razza umana ne è l’ospite. Le vittime più fortunate vengono divorate, le ossa
completamente spolpate, la carne consumata. Quelle meno fortunate passano dalla parte
degli aggressori, trasformate in putridi mostri carnivori. Contro queste creature, le
strategie di guerra e il pensiero tradizionale non servono a nulla. La scienza del porre fine
alla vita, sviluppata e perfezionata fin dai primordi della nostra esistenza, non può
proteggerci da un nemico che non ha alcuna “vita” cui porre fine. Significa dunque che i
morti viventi sono invincibili? No. È possibile fermare queste creature? Sì.
Sopravvivenza è la parola da ricordare: non vittoria, non conquista, ma solo
sopravvivenza». Dall’introduzione del saggio “Zombie” di Max Brooks
Il greco, Nilo Papadopulos, guardò nello specchietto retrovisore, spense la cicca nel
portacenere e disse: «Cacacazzi a ore 6». Dietro la Lexus, a una cinquantina di metri
c’era una volante della polizia. Enzo Tavazzi diede un’occhiata indietro e abbassò il
volume della radio. «Non te la inculare di pezza». «Rallenta, no? Non vedi che stai a
150?». Dietro, il boss Arnaldo Cotugno, cellulare in mano, cercava di mettersi in contatto
con sua figlia. «Capo, se rallentiamo facciamo una cazzata. Gli facciamo capire di temere
qualcosa e quello, al 1000 per cento ci ferma», si accalorò Tavazzi. «E infatti abbiamo
qualcosa da temere visto che il limite è 120. Se rallenti gli fai capire che sai che stavi
andando troppo veloce e ti lasciano perdere. Mi segui, genio?», fece Cotugno. Tavazzi si
sporse indietro, infilando il muso da faina tra i due sedili anteriori: «Capo, scusa se ti
contraddico, ma se capiscono che hai rallentato vuol dire che hai paura di loro e quindi ti
fermano. È così che funziona la mente della polizia. È una mente se…». «Non ho capito
che devo fare. Rallento o no? E se accelero? Me lo bevo in un attimo», s’intromise
Papadopulos. Quasi che il poliziotto avesse sentito quello che diceva il greco, la volante,
con uno scatto improvviso, affiancò la Lexus. I tre, con la simultaneità di tre marmotte
minacciate, girarono la testa e guardarono i poliziotti. La risposta fu immediata: la sirena
sul tetto dell’Alfa Romeo si accese e un braccio cominciò a sventolare una paletta
facendogli segno di accostare. «Visto?», fece soddisfatto Tavazzi. Cotugno si massaggiò
con una mano le tempie. «Visto cosa?». «Visto? Ci hanno fermato!». «Lo sai che tu devi
avere una tara familiare grave. Hai detto che non doveva rallentare. Nilo, hai rallentato,
per caso?». Il greco fece no con la testa. «Ma che cazzo c’entra? Non hai rallentato,
d’accordo, ma non hai nemmeno accelerato. Sei rimasto lì come un imbecille a 150.
Ma…». Mentre i tre discutevano, la volante li stringeva indicandogli il ciglio della strada.
«Che faccio allora?». Cotugno: «Nascondete i ferri. Poi accosta. E fate parlare a me». Il
greco controllò che la pistola fosse nascosta dalla giacca, mise la freccia a destra, si
fermò in una piazzola di sosta. Intorno c’era il solito marrone. Foglie. Alberi. Sassi. Tutto
marrone. Dalla volante uscì fuori un solo poliziotto. L’altro rimase dentro. Tavazzi
sorrise mettendo in mostra la chiostra di denti rifatti. «Guardate che testa di minchia». Il
poliziotto della stradale era alto un cazzo e mezzo e camminava a gambe larghe, alla John
Wayne, o, meglio, come uno che aveva subito un’operazione alle emorroidi. «Ha pure i
RayBan a specchio. Si crede… Quello….». Papadopulos fece una smorfia di sofferenza.
«Dai come si chiama…? Quei due poliziotti sulle moto…?». «Che stai dicendo?». «Il
telefilm. Che vedevamo da bambini, dai… I due…?» «Tu da bambino vivevi in Grecia.
In qualche isola del cazzo. Che ne so di che minchia vi vedevate voi alla televisione? Ma
ce l’avevate la televisione?». «Guarda che alla fine, gira che ti rigiri, il mondo è uno solo.
E le stronzate circolano». «Tu l’hai mai visto Sandokan?». «Sandokan?!». Il greco cadde
dalle nuvole. «Visto? Che cazzo di infanzia hai avuto senza Sandokan? Sandokan con
Kabir Bedi e Carole André non ti dice niente? Buio totale, eh? Tremal Naik? Yanez
De…». Il poliziotto bussò al finestrino. Il greco mise su un sorriso con troppe gengive e
abbassò. «Salve, agente». «Patente e libretto, per cortesia». Il poliziotto doveva essersi
visto troppe volte Terminator 2. Aveva la faccia scolpita nel legno e puzzava di
dopobarba scadente. «Qualche problema?». Si fece avanti Arnaldo Cotugno. «Avete
superato il limite di velocità». «Sa. abbiamo un po’ fretta… Sto cercando mia figlia.
Anzi, non è che per caso ha incrociato una Mini Cooper rossa?». Il poliziotto scosse
appena la testa: «Le devo fare la multa…». Cotugno: «Faccia… Faccia... Quando è giusto
è giusto. D’ora in poi terremo d’occhio il contachilometri». Il poliziotto, fece due passi
indietro, tiro fuori una penna d’alluminio e incominciò a scrivere il verbale. «Quant’è
cattivo?», ghignò Tavazzi indicando con il mento il rappresentante della legge.
«Tostissimo. Si sente un padreterno». A un tratto ci fu un colpo attutito, come se
qualcuno avesse dato un pugno sulla carrozzeria della Lexus. Cotugno s’irrigidì come un
nasello: «Che è? Che cazzo succede?». Tavazzi si diede una manata rumorosa sulla
fronte: «Porca puttana maiala infame. Mi sono dimenticato!». «Cosa!? Cosa ti sei
dimenticato?». Soffiò fuori il greco cercando di fare il vago. «Pedrotti. Me lo sono
dimenticato». «Pedrotti Pedrotti? Nello Pedrotti?». Antonello Pedrotti, detto Nello, era
stato, nell’ultima parte della sua esistenza, l’allenatore del Forca di Mezzo Calcio Club,
di proprietà di Arnaldo Cotugno. La squadra, a fine campionato, era retrocessa
all’inferno. E gli era stato gentilmente consigliato di prendersi i suoi stracci e darsela il
più veloce possibile e di non scendere mai più sotto la linea dell’arco alpino. Ma
l’allenatore era un tipo che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e aveva
minacciato un mucchio di cose: denunce al Coni, alla Lega Calcio, addirittura aveva detto
che suo cugino conosceva benissimo Aldo Biscardi.
E che Cotugno era un camorrista e che… Parole in libertà. Intanto il poliziotto, fuori,
continuava a scrivere. Tavazzi, con la faccia di un ragazzino che ha fatto sega a scuola ed
è stato beccato dai genitori, sussurrò un sì. «Non l’hai ammazzato?». «Sì. Giuro su Dio.
Due pallottole in fronte. E poi gli ho dato pure fuoco». Il greco rimase perplesso. «Non
avevi detto che prima gli avevi dato fuoco e poi gli avevi sparato?». «In effetti sì. Gli ho
dato fuoco, ma quello si è messo a correre come un indemoniato per tutti gli spogliatoi,
così gli ho sparato. In testa. Preciso. Pareva la torcia umana». Un nuovo tonfo nel
bagagliaio. Il poliziotto sollevò gli occhi dalla cartellina come se avesse sentito qualcosa,
ma poi, dopo un attimo, riprese a scrivere. «Ma quando lo avete ammazzato?», domandò
Cotugno. «E che sarà? Una settimana circa», Tavazzi chiese conferma a Papadopulos,
che concordò. «Sì. Più o meno». Cotugno si cominciò a grattare nervosamente i capelli
tinti color teak. «E lo avete lasciato nel bagagliaio della mia Lexus per una settimana?
Vivo?!». Tavazzi non capiva. «Quando l’ho messo dentro mi pareva proprio morto. Ma
vai a capire… Due pallottole in testa, arrostito e una bella settimana dentro un bagagliaio.
So’ cose che sfiorano l’incredibile». «Lo stimo, all’allenatore». Un colpo. E un altro. Più
forte. Come se ci fosse veramente qualcuno dentro il bagagliaio. Il poliziotto finalmente
sentì qualcosa. Rimase un attimo perplesso e poi si avvicinò al finestrino e: «Che c’è li
dentro?». Indicò il bagagliaio. Il greco sollevò le spalle: «Niente». Il poliziotto: «Può
scendere e aprire?». Papadopulos chiese con gli occhi al boss che cosa doveva fare.
«Aprigli». Uscì dalla macchina. Aveva dieci centimetri di tacco nascosti sotto un paio di
pantaloni a zampa d’elefante. Sopra aveva una giacca a due bottoni, troppo stretta sui
fianchi, color marrone. Si aggiustò il pacco e andò al bagagliaio seguito da quello della
stradale. «Aspetti ad aprire». Il poliziotto tirò fuori la pistola e la puntò, tutto concentrato,
sul bagagliaio. Non si accorse che il greco, veloce come un gatto, aveva cacciato fuori
anche lui l’artiglieria e la nascondeva dietro la schiena. «Apra! Apra ora!». Il sicario
sollevò lo sportello. Dal buio del bagagliaio uscì una specie di ruggito basso. Il poliziotto
fece due passi indietro. E poi spuntò fuori Nello Pedrotti. Completamente carbonizzato.
Sembrava una mummia senza fasce. Grigio come cenere con le appendici carbonizzate e
resti di tuta bruciata che gli pendevano addosso. «Oh mio Dio!», fece il poliziotto.
«Signore! Signore, si sente bene?». L’ex allenatore grugnì. Il poliziotto con un scatto
improvvisò puntò la pistola contro il greco: «Fermo! Non una mossa». Poi allungò una
mano per aiutare lo zombie che non riusciva a uscire fuori e quello per ricambiare la
cortesia gliela mozzò con un sol morso. Il poliziotto monco cadde indietro e tirò il
grilletto e colpì il non-morto che finì sotto la macchina dibattendosi tra le ruote come se
avesse una crisi epilettica. Il greco, senza pensarci troppo, sparò in testa al poliziotto un
paio di colpi poi chiuse lo sportello e rientrò in macchina. Mentre infilava la chiave disse:
«E poi dicono che è facile morire al giorno d’oggi». La Lexus ripartì verso Forca di
Mezzo.
Diciassette.
CARLA E ARNALDO COTUGNO
Carla Cotugno, la figlia del boss Arnaldo Cotugno, era certa di essere inseguita da suo
padre e dai suoi orrendi tirapiedi. La ragazza guardò per l’ennesima volta nello
specchietto retrovisore sicura di trovarci la Lexus nera. «Se hanno ucciso Lino, li
ammazzo a tutti e tre. Quant’è ver…». Fece appena in tempo a poggiare gli occhi sulla
strada che si srotolava davanti come una striscia di caucciù che una hostess della
Vodafone (la riconobbe dall’uniforme rossa) le si schiantò sul parabrezza come un
moscone impazzito. La macchina cominciò a sbandare. Il vetro era ricoperto dal sangue e
dal materiale organico della hostess. Carla usò i tergicristalli e la pompetta dell’acqua per
vederci qualcosa, ma quando qualcosa le apparve finalmente davanti fu troppo tardi per
frenare. Si schiantò contro l’insegna di una pompa dell’Agip. L’airbag esplose
impedendole di sfracellarsi la faccia contro il vetro e mandando in fumo il lavoro
sopraffino del suo chirurgo estetico. Carla uscì dalla macchina tremante e, barcollando,
andò verso la stazione di rifornimento. Non c’era nessuno e sembrava abbandonata da un
sacco di tempo. Dietro le pompe c’era un minimarket snack bar. Entrò dentro. Sembrava
che ci fosse passata una banda di hooligan o peggio un tornado. La gran parte degli
scaffali era a terra. La cassa aperta e i soldi sparsi dovunque. Carla con una vocina
striminzita domandò: «C’è qualcuno? C’è qualcuno?». E avanzò tra sacchetti aperti di
popcorn e patatine. Poi sentì una specie di ruggito. Quello che potrebbe fare un leone
mentre sbrana una gazzella. Carla si ricordò di avere un Uzi nello zainetto di Fendi.
Prima di scappare di casa l’aveva rubato dall’armeria di suo padre. Tolse la sicura e fece
due passi trattenendo il respiro. Dietro gli scaffali dei deodoranti seduta a terra, a gambe
allargate, c’era la cassiera con il grembiule e la cuffia in testa. Non stava per niente bene,
aveva due occhiaie nere, con al centro due globi bianchi che sembravano due uova di
quaglia e soprattutto si stava mangiando la gamba di un uomo. Era così presa a ripulire il
femore dai resti della polpa che non si accorse nemmeno di Carla. A terra, poco distante,
fremeva e scalciava, come fanno, alle volte, i cani quando dormono, la carcassa di un
bassotto con tutte le interiora di fuori. Carla non riuscì a trattenere un urlo e fece due
passi indietro e andò a sbattere contro l’espositore di cd. Si girò e vide un benzinaio senza
un braccio che la osservava. Carla per anni aveva fatto gli esercizi di aerobica di Jane
Fonda e aveva un fisico tonico e scattante che le permise di scartare lo zombie ma non di
scivolare su un Fattoria, il famoso panino ripieno di speck e brie che ha reso celebri gli
Autogrill del nostro bel paese in tutto il mondo. La mitraglietta Uzi, roteando, le volò di
mano e le finì sotto uno scaffale. Nello stesso momento Nilo Papadopulos, il greco, Enzo
Tavazzi e il boss Arnaldo Cotugno inchiodarono davanti alla pompa di benzina. Nessuno
dei tre si era accorto che la Mini Cooper di Carla era accartocciata contro un palo a poche
decine di metri. Nilo Papadopulos si stiracchiò ed espresse un desiderio: «Vado a
pisciare. Sono due ore che la tengo. Tu fai il pieno». «Mi compri un panino?», fece da
dietro il boss. «Che vuoi? Un Positano? Un Ghiottone? Un Camogli? Un Icaro?», chiese
Papadopulos. «Non lo so… Tu che mi consigli? Come si chiama il classico, quello con lo
speck e il brie?». «Il Fattoria?». «Bravo. Quello lì». Tavazzi si accese una sigaretta
scuotendo la testa. «Lascia perdere». «Perché?», chiesero in coro Cotugno e
Papadopulos. «Li fanno in Cina». «Come li fanno in Cina?». «Sì. Oramai tutti i panini li
fanno in Cina». «Ma che stai a dire? ’Mo, secondo te, i panini li fanno in Cina?».
Papadopulos era scettico. «Ma mi senti quando parlo? L’ho appena detto». Papadopulos
cominciò a scuotere la testa a destra e a sinistra. «E come fanno a essere così fragranti e
freschi? Sai quanto ci mettono a farli arrivare dalla Cina? E non mi raccontare la
stronzata che arrivano congelati perché non è vero. Io li so riconoscere i panini congelati
pure se li scaldano per bene». «E infatti arrivano freschi. Niente congelamento». «E
secondo te, caro greco sotuttoio, un panino fatto in qualche merdosa fabbrica di panini di
Pechino può fare un viaggio di 10 mila chilometri e arrivare qui fresco?». Papadopulos
sorrise mettendo in mostra i denti gialli di nicotina. «Usano il Dhl. Non lo sai che la Cina
ha fatto un accordo internazionale con il Dhl?». I due non seppero come replicare. Il
greco li guardò un istante. «Anche la mozzarella di bufala arriva dalla Cina. Stai a sentire
a zio». Cotugno si mise una mano in fronte. «Pure la mozzarella?». «Vabbe’, io vado al
cesso». Il greco si avviò.
Il benzinaio/zombie si stava avvicinando. Carla Cotugno, stesa a terra, tentava
inutilmente di afferrare la mitraglietta finita sotto un espositore. Non ce l’avrebbe fatta
mai a recuperare l’arma. Si guardò intorno. Proprio accanto a lei c’era un lungo scaffale
con un bel cartello “offerta speciale”. Esposte in ordine c’erano delle statuette che
cambiavano colore a seconda della temperatura della torre di Pisa, del Duomo di Milano,
del David di Donatello e di Padre Pio. Ci fu un istante di indecisione poi Carla afferrò la
statuetta di Padre Pio e la cacciò nell’orbita destra dell’ex benzinaio. Lo zombie emise un
gorgoglio e crollò contro la figura cartonata di Andrea De Carlo che sorrideva con il suo
romanzo in mano.
Nilo Papadopulos entrò nel gabinetto abbassandosi la lampo dei pantaloni. In fondo,
accanto alla sfilza blu delle porte dei cessi, c’erano due pisciatoi. Uno era occupato da un
tipo alto e il greco, dopo aver gettato la cicca nel lavandino, si posizionò davanti a quello
libero. Tirò fuori l’uccello e cominciò a liberarsi. Cazzo, stava scoppiando. E raggiunta
una certa età fa malissimo tenersela. Rischi l’incontinenza. Chiuse gli occhi, ma li riaprì
subito. Il tipo accanto gli stava guardando il cazzo. Oramai i froci so’ dovunque. E in più
’sto frocio aveva gravi problemi di inestetismi della pelle e la mascella gli pendeva da
una parte, come una porta senza un cardine. «Bello, eh?», gli sorrise il greco. «Peccato
che non lo puoi avere e se non ti giri entro tre secondi sarà l’ultima cosa che vedrai in vita
tua». Il frocio sembrò non sentirlo e allungò una mano. Con un unico gesto Nilo
Papadopulos estrasse dalla fondina la pistola e gli piazzò un proiettile calibro nove tra le
sopracciglia.
Mentre Carla Cotugno recuperava la mitraglietta il bassotto zombie cominciò a morderle
una scarpa. «Eh no!!! Sono di Fabrizio Cavalli!!!». Fece esplodere il cranio dell’animale
e uscì fuori dal minimarket con l’Uzi che fumava e senza un tacco.
Enzo Tavazzi stava facendo benzina quando vide la figlia del boss uscire dal minimarket.
Per una frazione di secondo non seppe che fare poi infilò la testa in macchina. «Capo!
Capo! C’è tua figlia!». Il boss uscì dalla macchina. «Carla! Pipotta mia». La figlia guardò
il padre, poi strinse gli occhi e osservò le cime degli alberi, i corvi e il sole che sembrava
una noce di burro che si scioglie in un tegame rovente. «Che vuoi?». «Sono venuto a
cercarti. Perché sei scappata?». «Perché ti detesto. Hai ammazzato l’unica persona che io
ho amato in vita mia». «Non ci posso credere che amavi quel mezzo uomo». «Era più
uomo dei tuoi fedeli scagnozzi. Sai quante volte hanno tentato di scoparmi? Sai quanti
pompini gli ho fatto al signorino?». E indicò il povero Tavazzi. L’impressione, vedendolo
da fuori, fu che il fantasma di Tyson avesse affondato uno dei suoi micidiali destri nello
stomaco del boss che divenne paonazzo come un polpo minacciato. «Non è vero! Non è
vero! Non ci ho mai provato, capo! Non le devi credere capo». Tavazzi sollevò le mani e
poi inferocito si rivolse alla ragazza. «Che bastarda che sei! Io non ti ho mai nemmeno
avvicinata! Lo giuro sulla Madonna del valico di Chiusi!». Carla sembrò non sentirlo,
con gli occhi ridotti a due fessure buie disse solo: «Io a casa non ci torno». «Tu a casa ci
torni. Lo dico io che sono tuo padre». E le puntò addosso la sua Luger con il calcio in
ebano. Carla gli puntò a sua volta la sua Uzi contro. «Ce l’ho pure io. E la mia è meglio».
«Avresti il coraggio di sparare a tuo padre? Non ci credo». Carla chiuse gli occhi e gli
sparò a una spalla. «Credici». «Ahhh!!! Che dolore! Che cazzo fai, Pipotta, spari?». Il
boss si stringeva il braccio ferito. Carla puntando la mitraglietta contro tutti e due diede
un calcio alla Luger che finì lontano. «Adesso mi prendo la macchina». Salì e il tubo
della benzina finì a terra allagando il piazzale. Cotugno era disperato: “No, la Lexus, no!
No, ti prego! La Lexus no! È in leasing». Ma Carla si era già allontana.
Il greco si scrollò l’uccello e si chiuse i pantaloni. Se c’era una cosa che odiava era
quando gli rimanevano quelle quattro gocce che gli bagnavano le mutande. Il frocio si
rialzò da terra. «Sei duro a morire». Papadopulos gli sistemò altri due colpi nel torace ma
quello si rimise in piedi. Il greco lo guardò, si accese una sigaretta. «Ho finito le
pallottole». Lo scavalcò e uscì. Tavazzi era alla guida di un carroattrezzi. Seduto accanto
stava Cotugno con una mano sanguinate premuta sulla spalla. «Sali, svelto!». «E la tua
Lexus?». Tavazzi come se nulla fosse: «Ce l’ha fregata Carla. Sali! Cazzo, sali!». Il greco
scosse la testa perplesso. «Ma che succede in questo posto? Prima un frocio immortale mi
ha spizzato il cefalo e adesso ci hanno fregato la macchina?». «Sali, forza!». Alle loro
spalle, apparvero lo zombie benzinaio con la statua di Padre Pio piantata in un occhio e la
cassiera non morta. Il killer montò sul camion e gettò la sigaretta nel lago di benzina.
Diciotto.
Padre Marcello inchiodò la vespa davanti a una villetta a due piani che dava le spalle alle
montagne aspre e spolverate di neve. Il tetto con le tegole marroni. Finestre. Balconi.
Infissi anodizzati. Un giardino con una fontana di cemento. Un orto. Un pollaio vuoto. «E
qui che stanno i tuoi nonni?», fece il sacerdote. Si accese una sigaretta, poi prese il fucile
a canne mozze e lo infilò in una custodia che teneva allacciata dietro la schiena. «Hai
ucciso mio padre!». Con quei due squarci bui che aveva al posto degli occhi guardò la
ragazzina con la frangetta nera seduta sulla sedia a rotelle e il cielo stinto come la tuta di
un metalmeccanico. Isabella si stropicciò gli occhioni lucidi. «Perché? Perché l’hai
fatto?». Padre Marcello tirò fuori dalla tasca della tunica una dozzina di bottigliette di
Jack Daniel’s, quelle che si trovano dei minibar degli hotel e se le scolò una dietro l’altra
poi fece una smorfia e disse: «Ascoltami bene, piccola. Quello lì non era tuo padre.
Quello era un essere sfortunato condannato a vagare per l’eternità sospeso tra la vita e la
morte. Tuo padre non c’era più e quell’essere rifiutato dal paradiso e dall’inferno era solo
un mangiauomini. Tranquilla, nessun problema». Isabella si passò una mano nei capelli
lisci e neri come fili di liquirizia. «Vuoi dire che era uno zombie?». «Brava, ragazzina.
Hai detto la parola giusta. Un fottutissimo zombie dalla punta dei capelli alle unghie dei
piedi. Non riesco proprio a capire cosa gli succede alla gente che improvvisamente si
trasforma in non morti». «Padre non ha letto il testo fondamentale sugli zombie di Peter
Brook?» Il prete fece spallucce. «No». «Bene, secondo l’eminente anatomopatologo,
questo stato dipende da un virus, il Solanium. Il Solanium è un retrovirus che si sposta
nel circolo sanguigno e in quello linfatico e infetta il cervello, lì si riproduce nella zona
dei lobi frontali. Questa infezione porta rapidamente alla morte del soggetto infettato. O
almeno il soggetto appare morto. Niente più battito cardiaco. Niente più respirazione.
Anche la temperatura corporea passa da 36,5 alla temperatura ambientale. La cosa
interessante che in questo stato di anossia nel cervello persiste un metabolismo
anaerobico che trasforma morfologicamente e istologicamente l’organo. Alla fine di
quella che potremmo definire metamorfosi, questo nuovo organismo rianima il cadavere
dando vita a quello che con parole comuni e inappropriate viene chiamato zombie o non-
morto». «Non ho capito quello che mi stai dicendo. Forse che gli zombie sono il prodotto
di un’infezione, di un virus come il raffreddore o la scarlattina?». «Sì, secondo l’eminente
scienziato Peter Brook e molti altri esperti, sì, è così». «Il fenomeno…». Non gli veniva
la parola. «Questa roba insomma per cui i morti camminano non può essere originato
quindi da formule magiche, da riti voodoo?». Isabella lo fissò e poi gli chiese: «Non
penso proprio. A meno che uno non voglia credere alla presenza, nel mondo, di forze
ultraterrene legate a culti animisti e demoniaci. Lei crede al folclore, padre?». «Io?
Scherzi, piccoletta? Io credo solo nel Nostro Signore, Gesucristo e la Madonna. Nella
triade divina. Ma come si sviluppa ’sto virus?» «Be’, la sintomatologia infettiva può
essere suddivisa in cinque stadi successivi». Isabella sollevò il pollice. «Uno. Dolore e
gonfiore della parte infetta». Isabella sollevò l’indice. «Due. Febbre. Brividi. Demenza.
Vomito. Dolore alle articolazioni non dissimile dal raffreddore. Isabella sollevò il medio.
«Tre. Demenza aggravata. Aumento della temperatura corporea. Paralisi e rallentamento
della frequenza cardiaca». La ragazzina paralitica sollevò l’anulare. «Quattro. Coma».
Infine alzò il mignolo. «Cinque. Per finire, morte e rianimazione» Padre Marcello era a
bocca aperta. Ma chi era quella ragazzina vestita come un corvo che sapeva tutto di
quelle cose? «Ma esiste una terapia?». Isabella sorrise mettendo in mostra la dentatura
bianchissima. «Sì. Esiste». «E qual è?». Isabella osservò le grigie cime delle montagne, i
ghiaioni, la statale, poi tornò a fissare l’uomo di Dio. «Fargli esplodere il cranio come
una torta alla crema!». «Evvai!!! Dammi il cinque, ragazzina!!!». I due con un sonoro
sciak si colpirono le mani. «È questa la casa della tua nonna?». Isabella fece segno di sì.
Padre Marcello smontò dalla vespa. «Aspettami qui. Vado a chiamare la nonnina. Vedrai
andrà tutto a posto. Tranquilla. Ci penserà lei a te». Si avviò verso la porta della casa
zoppicando. Proprio accanto all’ingresso, poggiato contro una parete, c’era un
decespugliatore. Per chi non lo sapesse un decespugliatore è un affare di ferro, un tubo
d’acciaio per essere precisi. Su un’estremità c’è un piccolo motore a scoppio e sull’altra
un’elica a tre pale affilate come rasoi. Il prete lo afferrò, s’infilò la tracolla e tirò il
cordino d’accensione. Il motore fece due pernacchie e poi cominciò a vibrare e a sputare
fumo bianco. La porta era socchiusa e un mazzo di chiavi pendeva dalla serratura. Padre
Marcello bussò alla porta. Niente. Infilò il testone e con la sua voce ruvida come una
grattugia chiese: «C’è nessuno in casa? C’è nessuno in casa?» Fece due passi
nell’ingresso arredato con mobili rustici. A destra una porta affacciava sulla cucina, a
sinistra si apriva un lungo corridoio su cui erano appese fotografie di un signore anziano
che mostrava alla macchina delle carpe e delle trote. S’affacciò nella cucina. Sembrava
che là dentro fossero passati degli hooligan. Tutto quello che poteva stare a terra era a
terra. Cibo, posate, piatti e bicchieri rotti. Schizzi scarlatti sulle pareti e poi una pozza di
sangue rappreso proprio vicino al forno spalancato e un tacchino mezzo cotto con
addosso dei rametti di rosmarino e un limone che gli usciva dal culo, si aggirava sotto il
tavolo poggiandosi sui moncherini e sbattendo le ali croccanti e unte di olio. Il sacerdote
diede gas al decespugliatore e con l’elica lo ridusse a un omogeneizzato di tacchino. Poi
andò in salotto. E lì trovò la nonna di Isabella. Non stava molto in forma. La vecchia
signora, senza un braccio e con le budella che le colavano tra le gambe continuava a
sbattere contro un angolo del soggiorno e a ripetere come un robot in corto circuito: «300
grammi di cipolle, 200 grammi di guanciale, uova e una bella spruzzata di parmigiano
reggiano, ecco la perfetta ricetta per la carbonara». Il prete si fece il segno della croce e
poi azionò la manopola del gas del decespugliatore e infilò la lama rotante tra la seconda
e la terza vertebra cervicale dello zombie. La testa per l’azione centrifuga impressale
dall’elica si avvitò come una trottola e con una parabola perfetta finì tra le gambe di
Isabella, che arrivava in quel momento. La ragazzina urlò disperata: «Nonnina!». E poi
lanciò fuori dalla finestra la testa della vecchia. Carla Cotugno, la figlia del boss Arnaldo
Cotugno, aveva girato tutto il paese a bordo della Lexus alla ricerca del suo amore, il
cantante neomelodico Lino Melone. Le strade, le piazze, le scale del comune erano
affollate di zombie che si trascinavano da una parte all’altra alla ricerca di carne umana.
Aveva riconosciuto Massimo D’Antoni, un suo compagno di scuola, che si nutriva del
corpo di Marisa Meniconi, la merciaia. Il sindaco Rossano Dall’Orto si stava spolpando il
consulente familiare Italo Petriccione. Dove poteva essere finito Lino? Uscire così dalla
macchina era un suicidio bello e buono. D’accordo, aveva la pistola di suo padre. Ma
dopo che ne hai uccisi sei, ti rimane da affrontare tutta la comunità. Passò accanto al
negozio di oggettistica medievale, “L’antica Gubbio”, di Pasquale Ricciardi. Le venne
un’idea. Un’idea geniale. Carla sterzò di colpo e s’infilò di muso nella bottega.
Padre Marcello e Isabella avevano appena finito di sotterrare la testa della nonna e
stavano per mettere la croce, quando di fronte alla villetta si fermò un carro attrezzi
sgangherato. Dentro c’erano Nilo Papadopulos, Tavazzi e il boss Arnaldo Cotugno. Il
greco si levò gli occhiali da sole, mostrando il suo muso da topo: «Prete, hai per caso
incontrato una ragazza, una bella ragazza?». Si fece spazio il boss: «Mia figlia. Carla».
«No», rispose Padre Marcello piantando la croce. Tavazzi si fece spazio tra le teste dei
suoi compari: «E un cantante l’hai visto?». Tirò fuori una fotografia in bianco e nero dei
tempi migliori di Lino. «No, mi dispiace». I tre, senza nemmeno ringraziare, ripartirono.
Diciannove.
Carla Cotugno, la figlia del boss Arnaldino Cotugno, stava girando a bordo della Lexus di
suo padre alla ricerca del suo amor perduto, il cantante neomelodico Lino Melone che, in
quel momento, in uno stato di semiesistenza, si trascinava per Forca di Mezzo alla ricerca
di carne umana. D’altro canto, le strade, le piazze, le scale del comune erano affollate di
morti viventi e le persone ancora regolarmente in vita si potevano contare sulla punta
delle dita di una squadra di calcetto. Carla Cotugno aveva riconosciuto Massimo
D’Antoni, un suo compagno di scuola che si nutriva del corpo di Marisa Meniconi, la
merciaia. Il sindaco Rossano Dall’Orto che si stava spolpando il consulente familiare
Italo Petriccione. La vecchia baronessa Ristolfi che si divorava il suo nipotino Pierangelo.
E poi macchine rovesciate. Case che bruciavano. Colonne di fumo nero che si
sollevavano verso un cielo cupo come una padella di ghisa. Corvi. Cani che si
nascondevano sotto i cassonetti dell’immondizia. Insomma, la solita squallida
scenografia di un qualsiasi film sugli zombie. Carla Cotugno, che aveva sin da bambina il
sogno di frequentare il Dams di Bologna, indirizzo spettacolo, si rese improvvisamente
conto che l’immaginario di certi registi come Romero, Argento, Baldacci non era poi così
distante dalla realtà. Ma in fondo, se lei, in quel momento, avesse avuto una telecamera
digitale, avrebbe potuto filmare questo fenomeno prodigioso, usare la sua voce, in
fuoricampo, per raccontare chi erano gli zombie nella loro vita precedente, mostrare
come si erano ridotti e poi montarlo con il suo portatile Powerbook (Mac X) e vincere
l’Oscar come migliore regista esordiente. Altro che quella figlia di papà di Sofia
Coppola. E poi poteva trasferirsi a vivere a Los Angeles e lì aiutare Lino a diventare una
star del melodico, mille volte meglio di Michael Bublé. Che coppia pazzesca! Se solo
avesse avuto una telecamera. Ma dove poteva trovarla? A Forca di Mezzo c’era solo
l’Ottica Baldoni che vendeva macchine fotografiche e telecamere. Era lì che doveva
andare. Con una brusca sterzata imboccò corso Maresciallo Diaz. Gli si parò davanti la
sua vecchia maestra delle elementari, la professoressa Pini, che avanzava ciondolandosi a
destra e a sinistra e si tirava dietro i resti di Coccolone, uno schnauzer nano. Del povero
Coccolone rimanevano la testa, gli arti anteriori e metà busto e poi, come una lunga e
grassa coda, gli pendeva la massa violacea degli intestini, che lasciavano una scia
rossastra sull’asfalto. Il cagnetto zombie rognava nello stesso identico modo in cui aveva
rognato per tutta la sua esistenza. Segno che forse certi aspetti del carattere non cambiano
dopo la morte. Ecco, questo poteva essere un buon incipit per il documentario. Si cambia
realmente dopo la morte? La professoressa e Coccolone finirono sotto il cofano della
Lexus. Carla guardò nel finestrino. Erano a terra e sgambettavano cercando in qualche
modo di rimettersi in piedi. Anche la loro ostinata volontà a continuare ad avanzare,
questa voracità, questa smania antropofaga che li spingeva avanti, era qualcosa che
andava indagato nel suo documentario. Esistevano zombie pigri? In effetti, a Forca di
Mezzo la gente non aveva voglia di fare un tubo dalla mattina alla sera. E adesso che si
erano trasformati in zombie, gli abitanti erano pervasi da un dinamismo insospettabile.
Lento ma tenace. Che assomigliava un po’ all’attitudine che ha la gente del Nord rispetto
al lavoro e all’esistenza. Per certi versi si poteva mettere in confronto lo zombie
appenninico con lo yuppie milanese degli anni 90. La Milano da bere con la Forca di
Mezzo da divorare. Ecco qui, si disse Carla Cotugno, un altro ottimo spunto per il
documentario. Sentiva, improvvisamente, il cervello girarle a mille. Era viva come mai
prima. Che emozione provare finalmente la sensazione di aver trovato una strada da
percorrere. È proprio la condizione di assenza di stimoli che abbruttisce la gioventù di
oggi. E anche lei negli ultimi anni, chiusa in quell’albergo del cazzo di suo padre, si era
abbruttita appresso a Maria De Filippi e alla casa del Grande fratello. Ecco, doveva
diventare la regista/sceneggiatrice di documentari impegnati, un po’ come Roger
Moore… No, Roger Moore era l’agente 007… Vabbè, insomma, come quel ciccione con
il cappelletto da baseball. Carla Cotugno inchiodò davanti l’Ottica Baldoni. La porta del
negozio era spalancata. E a terra c’erano centinaia di occhiali. Dovevano averla
saccheggiata, ma ora sembrava non esserci dentro nessuno. Carla rimase a fissare la
vetrina senza sapere che fare. Non si fidava a uscire così. Aveva sempre la pistola di suo
padre. Ma le rimanevano solo quattro pallottole. E con quattro pallottole sai che ci fai
contro un gruppo di zombie affamati? Proprio accanto all’ottica c’era una bottega di
anticaglie e mobili rustici e oli al tartufo. L’Antica Gubbio. In vetrina c’era una splendida
riproduzione a grandezza naturale di un’armatura medioevale. L’elmo a becco con
visiera. Il pennacchio viola che partiva dalla nuca come una lunga coda di cavallo. Gli
stemmi sulle spalline. A due mani stringeva un lungo spadone. Sotto c’era un cartello che
ne spiegava le caratteristiche: «Secolo XV/XVI. Realizzata in una lega di alluminio
leggero (solo 37 kg!). Indossabile. € 2599. Sconto irripetibile». Ecco qui la soluzione!
Carla scese dalla Lexus tenendo puntata la pistola. Rapidamente si avvicinò alla porta
dell’Antica Gubbio e fece esplodere la serratura. Entrò nel negozio e subito abbassò la
saracinesca elettrica. Si tolse i jeans Replay con i ricami e i finti tagli, le Camper e la
camicetta Diesel e indossò l’armatura del XV/XVI secolo. Altezza perfetta, solo che le
andava un po’ stretta, soprattutto sui fianchi e sul culo per via della disgustosa cellulite
che spingeva contro i paragambe e anche le tette se le sentiva un po’ strizzate dalla cotta
d’arme in maglia di ferro. S’infilò l’elmo e quando abbassò la visiera si rese conto di non
vederci un accidente. Ma come diavolo facevano Re Artù e i cavalieri della tavola
rotonda a compiere le loro imprese mitologiche, con tutto quel popò di ferramenta
addosso? Poi prese lo spadone a doppio taglio e lo scudo. Lo scudo è un oggetto che,
stranamente, è sempre stato sottovalutato, ma che invece nello scontro corpo a corpo e
contro gli attacchi aerei degli arcieri può veramente salvarti la vita, rifletté la figlia del
boss. Era indecisa se prendersi anche una bella balestra in mogano e un’alabarda a doppia
penna, ma con tutta quella roba addosso si sarebbe inchiodata come un robot con le pile
scariche. Carla finalmente sollevò la saracinesca e avanzando rigida e, cigolante come un
androide su Marte, si avviò verso l’Ottica Baldoni. Entrò nel negozio e si avviò
ondeggiando verso il reparto fotografia e video. Su uno scaffale era in bella mostra il top
di gamma della Sony. La Z1P1 ad alta definizione con la possibilità di cambiare gli
obbiettivi, che su eBay si trova a circa 4000 euro. Era perfetta. C’era solo un piccolo
problema: con la spada a due mani e lo scudo come faceva a prendersela? Decise che
avrebbe fatto a meno dello scudo. Mentre stava per prendere la videocamera, da dietro il
bancone degli obbiettivi e delle memorie uscì fuori il dottor Baldoni, il proprietario del
negozio. Stava messo parecchio male. Doveva essere stato sbranato da un branco di
zombie. Gli mancava un arto superiore, aveva la gabbia toracica spalancata come un
orologio a cucù e dentro era rimasto ben poco: qualche simpaticone aveva fatto razzia
degli organi interni, compreso il cuore. Eppure, il dottore se ne stava impettito con
quell’atteggiamento un po’ altezzoso che aveva avuto nella vita passata. La osservava
con un’espressione strana e circospetta. Sembrava indeciso se attaccare o disfarsi in
pezzi. Sollevava un polso, strizzava l’unico occhio che gli era rimasto e sorrideva non si
sa di che. Carla afferrò la telecamera e spinse rec. Puntò l’obbiettivo in faccia al dottore.
«Ci troviamo dentro l’Ottica Baldoni e questo è quello che resta del dottor Baldoni. Il
dottor Baldoni aveva una quarantina d’anni, padre di tre figli e marito divorziato. Come
potete vedere anche voi adesso è uno zombie o morto vivente che dir si voglia». Zoommò
all’interno della carcassa. «Osservando il torace si può notare la mancanza degli organi
interni, questa situazione assolutamente inaccettabile per un essere vivente è
assolutamente norm…». L’ottico scattò sibilando come un serpente a sonagli ma Carla
Cotugno lanciò la telecamera in aria, sguainò la spada, affettò la testa dello zombie come
un gambo di sedano, rinfilò lo spadone nell’elsa e riprese al volo la telecamera. «Bene»,
disse nel microfono. «Per rendere inoffensivo uno zombie, come tutti sapete, è necessario
recidergli il capo». Fece un primo piano della testa del negoziante. Uscì dal negozio
reggendo la telecamera e cigolando come un cardine arrugginito. In mezzo a Corso Diaz
c’era un cavallo non-morto. Che cosa ci facesse là e come ci fosse arrivato non è dato
saperlo, comunque era là. Il collo ridotto a una serie di vertebre. Il ventre slabbrato che
lasciava pendere gli intestini e il fegato. Gli occhi ridotti a due biglie bianche e una
schiuma rosata tra le fauci. Carla gli si avvicinò e con un salto gli salì in groppa. La bestia
emise una specie di nitrito svuotato e partì al galoppo. Adesso Carla Cotugno era un vero
Paladino della Razza Umana. Da sopra una collina, Briccola, il traditore della Razza
Umana, osservò e poi cominciò a ridere.
Venti.
Ora però, affezionato lettore, è necessario lasciare alle loro sorti la nostra schiera di eroi:
la paladina Carla, figlia del noto boss Arnaldo Cotugno, il greco Nilo Papadopulos,
Tavazzi, Padre Marcello, la disabile Isabella e il cantante neomelodico Lino Melone. Ci
toccherà, per qualche tempo, occuparci di Lui. Lui il più cattivo di tutti. Lui il più
rosicone di tutti. Lui il vero, unico, bastardo di questa triste storia. Breccola, alias il
traditore della razza umana. Qualche lettore obietterà a queste mie dichiarazioni. Già me
lo sento che in camera con la moglie con i bigodini, la mascherina e la maschera
ringiovanente, dice: «Ma come? Allora sto Ammaniti, sto scrittorucolo da quattro soldi
mi prende in giro? E tutti quegli zombie, quei non-morti che si sono divorata la
popolazione di Forca di Mezzo? Che, sono buoni? Che, sono brave persone?». Mi
piacerebbe aprire un dibattito filosofico sull’etica dei non-morti, ma non posso proprio
permettermelo. Devo occuparmi di Breccola, il traditore della razza umana. Per quanto
riguarda gli zombie io non li considererei cattivi. Questo mai. Sono solo creature infelici,
che per cause esterne hanno interrotto il sonno eterno per vagare sul nostro mondo
affamate e senza la possibilità di saziarsi. Per caso direste che i tarli che crivellano le
travi su cui poggiano i nostri tetti sono cattivi? No, sono solo dei bastardi insetti che
vanno eliminati prima che ci crolli la casa sulla testa. Stesso discorso vale per gli zombie.
Agiscono così, perché quella è la loro natura e per questo vanno massacrati. Ora basta
però, perché Breccola è lì.
Eccolo lì, il traditore della razza umana, in piedi sopra il tetto del centro commerciale I 2
pini. L’uniforme in goretex del soccorso alpino stracciata come se fosse stato ingurgitato
e sputato da una mietitrebbia, gli occhi gonfi e spiritati, il cranio ustionato da cui pende
una massa informe di capelli carbonizzati e pezzi di cuoio capelluto abbrustoliti.
Ghignava soddisfatto osservando, come un fiero generale, plotoni di non-morti aggirarsi
per Forca di Mezzo sotto il suo comando telepatico. Accanto al traditore zompettava il
suo demone personale, Gelnik. Un diavoletto custode di terza categoria. Un essere
nervosetto, alto un cazzo e mezzo con le corna torte come fusilli e un lungo e sottile pene
che pendeva come la coda di una bertuccia. Il demone aveva un pessimo carattere e il
linguaggio di un cassaintegrato del porto di La Spezia. E in più lanciava delle palle di
fuoco su qualsiasi cosa si muovesse nei paraggi. Piccioni, zanzare, scarafaggi, sprecando
un sacco di energia. Per ricaricare l’energia necessaria a produrre quei globi di fuoco,
ogni mezz’ora aveva bisogno di recuperarla da Breccola. Sodomizzandolo.
Un’operazione, a essere onesti, non così traumatica e così drammatica come si potrebbe
immaginare e a cui il nostro antieroe si era adattato con filosofia (nella vita precedente in
effetti aveva avuto diverse di queste esperienze, anche se esclusivamente metaforiche).
L’apparato riproduttore (sempre che fosse un apparato riproduttore) del demone
assomigliava alla coda di un formichiere. Umido, rossiccio e snodabile, si introduceva
nello sfintere di Breccola per circa una trentina di secondi, il tempo necessario a
ricaricare l’energia ignea. Il problema era che ogni mezz’ora l’intervento di rifornimento
andava ripetuto. Breccola sopra il tetto del centro commerciale I 2 pini si sentiva addosso
una grande responsabilità. Sarebbe stato lui a eliminare la razza umana dal pianeta. Ed
era stato Satana in persona a dargli questo incarico. Lo aveva chiamato al suo cospetto e
gli aveva spiegato che grazie a lui, l’unico essere umano degno di stare al suo fianco, la
vittoria sul mondo dei vivi e in una seconda fase sul mondo celeste sarebbe stata
definitiva e irreversibile. E lui, proprio lui, nient’altro che lui, unico fra sei miliardi di
uomini, aveva avuto l’onore di spalancare le immense porte dell’inferno e portare alla
vittoria l’esercito dei morti contro quello dei vivi. Breccola sulle prime si era esaltato, alla
prospettiva. Mai in vita sua aveva avuto un compito così importante e poi lui odiava tutti,
nessuno escluso. Tutti quelli del suo paese che lo avevano sempre trattato come un
povero scemo, i bambini che lo rincorrevano e gli tiravano le pietre e i fichetti davanti al
bar La stella alpina che una volta lo avevano legato dietro a un Cayenne e lo avevano
trascinato fino a L’Aquila. Certo dopo che la razza umana sarebbe stata sterminata sulla
Terra, sarebbe rimasto solo con demoni, diavoli, satiri, zombie, elementali di pietra e
fuoco (che poi non erano nient’altro che aggregati rotolanti di pietre e fuoco
perennemente incazzati), entità blu che si aggiravano intorno a grossi cristalli. Insomma
gente a cui, per principio, rodeva parecchio il culo. Ma com’era possibile che Andrea
Tavazzi, detto il Breccola per via della balbuzie, il più coglione di tutta Forca di Mezzo,
adesso fosse diventato così importante? Il generale dell’esercito dei morti e il traditore
della razza umana? Del Breccola, per colpa dell’autore, abbiamo perso le tracce nelle
prime puntate di questa storia. Dopo lo scherzo di pessimo gusto che gli avevano fatto i
colleghi del campetto di sci, il vecchio Breccola era schizzato giù dalla pista Zeus sopra
un lettino del pronto soccorso e dopo un volo di un centinaio di metri tra lastroni di
ghiaccio e guglie affilate era finito su una sottile cengia che si affacciava sulla valle
sottostante. Una gola dimenticata da dio e dagli uomini, dove nel corso dei secoli erano
precipitati sventurati guerrieri al seguito di Annibale, viaggiatori solitari, alpinisti e
sciatori della domenica. Nessuno ne era uscito vivo. Se non era stata la caduta a finirli, il
colpo di grazia glielo aveva dato il freddo. Invece il nostro eroe, per miracolo, era
sopravvissuto e aveva giurato che avrebbe odiato per sempre la razza umana, creature
schifose e senza cuore. Poi aveva chiesto a Satana e alle forze dell’ombra di prenderlo
con loro. E per magia si era accorto di non essere più balbuziente. E tanto per gradire una
donna bellissima, con addosso perline e gioielli tribali, che sulle prime Breccola aveva
scambiato per Megan Gale, la signorina Vodafone, lo aveva sedotto e gli aveva strappato
la verginità con la stessa gentilezza e romanticismo con cui il buttero marchia i suoi buoi.
E poi, senza sapere come, si era risvegliato in fondo a una enorme caverna. Laghi di
fiamme, mostri alti come palazzi che si trascinavano sotto cattedrali di pietra bruciando
come tizzoni, serpenti lunghi centinaia di metri. Megan Gale lo aveva preso per mano e
lo aveva portato di fronte a Satana in persona, che stava in una specie di monolocale di 50
metri quadrati arredato con poche cose di gusto che a prima vista potevano pure essere di
Ikea. Tutti gli avevano descritto Satana come il peggio del peggio. L’essere più orrendo
mai esistito dalla nascita dell’universo. Peggio di Hitler, di Stalin, di Aguirre. E invece,
Breccola, non lo aveva trovato niente male, anzi, a dire la verità, molto simpatico. Ecco,
si capiva che era un uomo con un grande potere e carisma, tipo Berlusconi per intenderci,
uno che si era fatto da solo e non ti faceva sentire la sua posizione, i suoi soldi. Ti trattava
come se tu fossi suo amico. Breccola aveva pensato che non c’è niente di peggio della
gente che giudica senza conoscere, tutti a dire che il diavolo è un essere spregevole. Ma
lo conoscete sul serio? E il diavolo che poi si chiama Enrico Tavazzi lo aveva salutato
cordialmente e gli aveva offerto due uova al tegamino e un bicchierone di Fanta. E senza
troppi preamboli gli aveva chiesto di entrare nell’azienda. Breccola aveva accettato e
aveva acquisito dei poteri incredibili. Per prima cosa, poteva scudarsi con una specie di
sfera impenetrabile che durava mezz’ora. Poi, poteva lanciare dei raggi di fuoco e
d’ombra che facevano un male terribile. Poi, poteva evocare dei demoni come il piccolo
Gelnik che lo aiutavano. E per finire, con la mente poteva controllare le schiere di zombie
uscite dall’inferno. Era praticamente invincibile. Aveva raso al suolo Forca di Mezzo, il
luogo in cui era nato e non aveva risparmiato neanche i suoi parenti. Una passeggiata.
Solo un gruppo di sopravvissuti era ancora là. Un prete alcolizzato, una ragazzina
paraplegica e una donna nascosta in un’armatura in sella a un cavallo-zombie. Breccola
sapeva che vincerli sarebbe stato difficile. Soprattutto la paladina. Ma non aveva paura di
morire, perché forse era già morto e non lo sapeva. Il traditore della razza umana ghignò,
fece un gesto al piccolo demone che gli zompettava accanto, si scudò con un’aura
luminosa e si gettò dal tetto del centro commerciale. Eccola lì, la troia sul suo cavallo di
ossa. Breccola allargò le gambe, tirò indietro un braccio e caricò un raggio di fuoco che
attraversò tutto Corso maresciallo Diaz e colpì la donna con un colpo critico, facendola
cadere da cavallo. «Sei finita!!!», urlò e cominciò a correre e a saltare.
Ventuno.
Alessio Cantilli era stato un perfetto piccolo imprenditore dell’Italia centrale prima di
trovarsi a essere uno zombie. Un metro e 80 d’altezza. 37 anni. Capelli brizzolati e
dentatura candida. Sposato con una bella donna. Buon padre di famiglia. Frequentava la
chiesa e detestava la politica. E cosa più importante, i suoi soldi erano puliti e odoravano
di sudore (li aveva fatti mettendo su dal niente la Globgarden, un’azienda di prodotti per
il giardino, con un catalogo che spaziava dai gazebo in alluminio alle fontane in cemento
armato). Quella mattina, Alessio si svegliò intorno alle cinque e rimase per mezz’ora nel
buio, fermo accanto a sua moglie che dormiva. Per buoni 30 minuti la sua mente rifletté
sul fatto che, come un idiota quando aveva ordinato la Range, non aveva fatto montare i
nuovi fari ai vapori xeno. Per risparmiare un paio di migliaia di euro aveva fatto una delle
peggiori cazzate degli ultimi dieci anni. Quando si alzò, andò nello studio dove scrisse
diverse email. Una al circolo sportivo di Forca di Mezzo per sapere a che punto era la sua
domanda di iscrizione. Un’altra a un certo BBFuco per domandargli se il suo annuncio su
eBay per la vendita di un set di coprimaniglie cromate era ancora valido. Poi scrisse una
risposta inviperita a un certo Aristide66 che asseriva nel forum di 4x4 che il Touareg
della Volkswagen su terreno misto si comportava meglio della Range Rover. Si fece una
doccia e indossò un completo blu di Ralph Lauren con cravatta blu e camicia bianca
pregustandosi il viaggio nell’autostrada deserta. Aveva da poco sostituito i diffusori
all’autoradio e moriva dalla voglia di provare come si sentiva la chitarra di Pino Daniele.
Lo attendeva una giornata di fuoco. Alle 8.20 gli partiva il volo da Roma per Brindisi,
dove alle 10.30 avrebbe avuto un incontro con l’assessore ai parchi che voleva acquistare
dalla Globgarden 20 gazebo e un centinaio di panchine in noce naturale. Alle 6.40, in
perfetto orario, aprì la porta di casa e si vide davanti un fenomeno straordinario. Dallo
sconcerto gli cadde dalla mano la cartella della Bottega Veneta. Un’allucinazione? La
vicina, Bianca Cerutti, si aggirava in vestaglia nel suo giardinetto come fosse ubriaca. E
quello era il meno. Le mancava il braccio destro strappato via come fosse stata un’ala di
tacchino e al posto di una tetta aveva un buco da cui si vedevano le costole. Dietro aveva
il piccolo Davide, il figlio di 11 anni, che in pigiama ringhiava e strappava dei brandelli
dalla carcassa di Coccolone, il loro labrador color miele. Provò a fare un passo indietro e
a tornare in casa ma non poteva lasciare lì la sua ventiquattrore. Dentro c’era tutto il
consuntivo del progetto da consegnare all’assessore. «Il lavoro mi ha fottuto l’esistenza»,
amava ripetere agli amici quando gli dicevano che lavorava troppo. Mai frase fu più vera.
Allungò il braccio pronto a prendere la borsa e a barricarsi dietro la porta blindata, ma la
Cerutti con uno scatto atletico gli si avventò sulla mano e gli portò via in un sol boccone
il mignolo, l’anulare e la falangetta dell’indice. Urlando a squarciagola, l’imprenditore
diede un calcio alla vicina e, tra gli spruzzi di sangue, si chiuse in casa.
Paoletta Cantilli, la moglie di Alessio Cantilli, aveva da qualche settimana un segreto che
la straziava e che non poteva confessare a nessuno. La vita di Paoletta, a quei tempi, era
interessante e piena di imprevisti quanto quella di uno gnu in una gabbia di uno zoo.
Un’esistenza divisa tra lezioni di acquagym, shopping e involontari esperimenti di
eugenetica. Stava tentando di far accoppiare Lourdes, la loro nuova filippina, con
Enrique, il domestico venezuelano dei vicini. Secondo lei, da quell’unione poteva nascere
un figlio bellissimo. In realtà, inconsciamente, quello che desiderava era creare il colf
perfetto. Con le migliori caratteristiche delle due razze. Ma come spesso accade, i fatti
più importanti della nostra esistenza sono generati da fatti all’apparenza senza valore. Il
segreto di Paoletta, in fin dei conti, nasceva da un innocuo tortino dal cuore caldo di
cioccolato. «Non sai quant’era buono. Era accompagnato da una pallina di gelato di
crema. Così il cuore caldo si fondeva con il freddo…», aveva raccontato una sera Alessio
alla moglie, tornato a casa da un viaggio di lavoro a Milano. E poiché ogni desiderio di
Alessio era un ordine, Paoletta aveva deciso di farglielo trovare a cena. Il problema era
che né sul Talismano della felicità né sulla Cucina italiana c’era la ricetta del tortino. Sua
figlia Daria le avrebbe trovato in un secondo la ricetta su Internet. Ma in fondo poteva
farcela anche da sola. Aveva acceso il computer nello studio di suo marito e dopo un paio
di tentativi aveva cliccato sull’icona di Explorer. Come per incantesimo le si era aperta la
pagina di Google. Tutta soddisfatta, aveva battuto sulla tastiera “tortino dal cuore caldo di
cioccolato”. Ed erano usciti fuori un sacco di siti. Aveva aperto il primo. Sopra la ricetta
era apparsa una finestra più piccola su cui era scritto a grandi caratteri: «Sei abbastanza
maliziosa per essere una Calendar Girl?». D’istinto ci aveva cliccato sopra sperando che
sparisse e invece davanti le si era aperta una pagina con foto di centinaia di donne.
Paoletta non aveva potuto fare a meno di guardare. Alcune non erano nemmeno tanto
giovani, ce n’erano parecchie che avevano da un pezzo passato la trentina e che si
facevano fotografare in autoreggenti e reggiseno accasciate sulla squallida scala di un
condominio popolare, stravaccate su un divano Ikea in una grottesca imitazione di certe
modelle dei giornali. Aveva scoperto che c’era anche una classifica e le prime 12
avrebbero fatto parte di un calendario e avrebbero vinto una settimana in Tunisia.
Paoletta se le era studiate attentamente. Avevano tutte dei soprannomi. E ognuna di loro
aveva risposto a un questionario divertente. La prima, Astridina, una brunetta niente di
che con una rosa tatuata sul petto, era stata votata da ben 456 persone. «Ma perché si
umiliano così?», si era chiesta Paoletta. Aveva chiuso la pagina e si era appuntata la
ricetta del tortino. Ma dopo, in cucina, mentre impastava la cioccolata con la farina e il
burro, si vide riflessa nella finestra. Prese il bicchiere di gin tonic e se lo scolò in un sorso
e provò a guardarsi con gli occhi di uno sconosciuto. Aveva una bellezza inoffensiva e
sobria come quella di una Bmw berlina. Sarebbe stata perfetta in uno sceneggiato
americano degli anni 80, stesa in bikini sul bordo di una piscina di Dallas o Dynasty.
Biondina. Magra e gamba lunga. Zigomo alla Bo Derek. Nasino all’insù. Due globi
oculari azzurri ed espressivi quanto quelli di una testuggine delle Galapagos. 35 anni che
si era ritrovata addosso senza accorgersene e senza patire. Le sembrava ieri che aveva 18
anni e che arrivava seconda al concorso nazionale di Miss Eleganza. Grazie a quel
concorso, per un paio di anni aveva fatto la modella per i cartelloni pubblicitari di
un’azienda di infissi anodizzati. Lì aveva conosciuto Alessio Cantilli, il figlio del
proprietario, un bel ragazzo elegante, che lavorava al reparto marketing. Dopo un
corteggiamento lampo durato un paio di sere Alessio le aveva tolto la verginità su un
sedile di una Maserati Biturbo. La faccia premuta contro il reggitesta di alcantara. Una
mano di Alessio che le stringeva la carotide come un abbacchio da vaccinare. L’odore
dell’arbre magique al pino selvatico. E la lucina che impietosa mostrava la smagliatura di
una calza. Paoletta Catania (questo era il suo cognome da nubile) non aveva sofferto, ma
nemmeno goduto. Era stato veloce e si era sbarazzata di un fardello. Si erano sposati
subito dopo e per il viaggio di nozze erano andati al Salone dell’automobile di Monaco. E
poi…? E poi i fatti rilevanti della sua esistenza si potevano contare sulle dita che
rimanevano a suo marito dopo l’incontro con la vicina. Aveva abbandonato la carriera di
modella (Alessio preferiva così). Aveva messo al mondo una bambina con il parto
cesareo. Aveva aperto e chiuso una bottega di erboristeria. Si era fatta levare un ovaio e si
era sottoposta a un intervento di mastoplastica additiva. E fra tutte, la cosa più dolorosa
era stata rifarsi le tette. Non aveva sofferto quando suo marito aveva smesso di avere
rapporti sessuali con lei. Era stato passare dal poco al niente. Questo significava che era
diventata una vecchia scopa consumata? Probabile. Paoletta si sentiva decrepita dentro
nonostante le mezze giornate che passava dall’estetista, dal massaggiatore e in palestra.
Eppure le donne che avevano più successo in tv avevano tra i 35 e i 40 anni. Anche lei,
come quelle, aveva la pancia piatta, le tette tonde come due pompelmi e un leggero filo di
cellulite sulle cosce. In effetti, in palestra c’erano un sacco di ragazzotti che la
squadravano in un modo... Ma chissà, forse era solo la sua immaginazione… Riflessa
nella finestra della cucina, Paoletta Cantilli aveva cercato di vedersi in una posa sexy con
poca roba addosso, si era immaginata le sue foto tra quelle delle ragazze di Internet e
aveva pensato con un brivido agli sconosciuti che davanti ai loro schermi si toccavano
guardandola e poi la votavano. Quel pensiero le aveva mozzato il fiato e illanguidito le
articolazioni. Si era dovuta attaccare al bancone di marmo per non finire a terra. E se mi
fotografassi? (No. Non si può. Se lo scopre Alessio, oppure Daria...). Ma perché no?
Perché non provare? Che faceva di male? Si sarebbe data un soprannome carino e
nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Chi andava a pensare che quella biondina era
proprio Paoletta Cantilli di Forca di Mezzo? Dai messaggi che le sarebbero arrivati, però,
avrebbe almeno capito se piaceva o no. In tutta la sua esistenza, Paoletta Cantilli non si
era mai sentita così eccitata. Si era fatta un altro gin tonic bello carico e aveva deciso che
doveva fotografarsi subito. Uno perché in casa c’era solo Lourdes, sia Daria che Alessio
sarebbero tornati tardi, due perché sapeva che o lo faceva adesso o mai più. Aveva
mollato a metà i tortini, aveva preso la boccia di gin e aveva tirato fuori da un cassetto la
Nikon digitale che le aveva regalato Alessio per Natale e che aveva usato tre volte in
croce. Aveva studiato le istruzioni al capitolo autoscatto, aveva tirato fuori la lingerie più
sexy e aveva detto a Lourdes di non disturbarla per nessuna ragione al mondo. E
finalmente si era chiusa a chiave in bagno. Ne era riuscita fuori un paio di ore dopo
sghignazzando come una bambina che ha infilato le dita nella marmellata. Non si
ricordava di essersi mai divertita così. «Sono una pazza! Sono una pazza!», aveva detto
ad alta voce mentre collegava la fotocamera al computer e scaricava le foto. Quando le
aveva viste, per attenuare l’imbarazzo aveva dovuto attaccarsi al gin. La sessione
fotografica nel bagno aveva prodotto circa una cinquantina di scatti. Gran parte presi
sotto la doccia. Paoletta Cantilli con addosso un microscopico slip nero, una canottiera
bagnata che mostrava i capezzoli scuri e i capelli impiastricciati di gel. Paoletta Cantilli
seduta sulla tazza del cesso a gambe larghe con addosso solo l’ombretto, le mutande e
delle scarpe con dei tacchi esagerati. E per finire in bellezza una decina di scatti immersa
nella Jacuzzi. La maggior parte, secondo Paoletta, erano orribili. O aveva gli occhi rossi.
O la luce del flash era troppo forte. Ne aveva salvate una decina non male. E le aveva
spedite al sito. Immediatamente dopo le era arrivata un’email in cui la invitavano a
rispondere al più presto al questionario allegato alle sue foto. Quella era la parte più
difficile di tutta l’operazione. Ci mise un mucchio di tempo a rispondere al questionario.
Questo fu il risultato.
Nickname: Fragola.
Stato civile: nubile.
Le mie misure: non le so.
Il colore dei miei occhi: azzurri.
Professione: casalinga.
I miei valori in ordine di importanza: famiglia, denaro, amicizia, amore, sesso.
La parte del mio corpo che mi piace di più: il sedere, credo.
La parte del mio corpo che mi piace di meno: le orecchie un po’ a sventola.
Mi dò i voti (da 1 a 5). Bellezza: 4. Intelligenza: 1. Simpatia: 1. Creatività: 1. Sensualità:
1.
Sono: una donna di mezz’età.
Mi sento: vuota.
La mia marcia in più: non lo so.
Dicono di me: niente.
La parte del corpo sulla quale potrei far intervenire la chirurgia estetica: le cosce.
Non saprei dire di no a: un viaggio ai Tropici e dormire su una palafitta.
Su un isola deserta, porterei con me: mia figlia.
Vi racconto un aneddoto divertente su di me: l’altro giorno Beppe il giardiniere ha
trovato una talpa morta nel mio giardino e per farmi uno scherzo le ha messo gli occhiali
da sole.
La dote che apprezzo di più in un uomo è: la dolcezza.
Una situazione che mi imbarazza: aver fatto queste foto.
Un uomo per conquistarmi deve: essere dolce.
La cosa che sopporto meno nelle persone: l’ipocrisia.
Vi racconto una situazione che NON mi imbarazza: cenare senza parlare.
La mia maggiore virtù: il silenzio.
La mia posizione preferita: la pecora, si dice così?
Il mio tallone d’Achille: non lo so.
Perché dovreste votarmi: non lo so.
Se fossi un peccato capitale sarei: non lo so.
La cosa che mi porterebbe a fare una pazzia: non lo so.
Per sedurre un uomo sono arrivata fino a: non lo so.
Vi descrivo la mia tecnica di seduzione: non lo so.
Accetterei di recitare in un film a luci rosse solo con: Nessuno.
Nei giorni successivi, Paoletta Cantilli aveva scoperto di piacere parecchio al popolo di
Internet. In una settimana era tra le prime cento. In due era al primo posto.
Ventidue.
Adesso che la battaglia contro le forze del male era finalmente alle porte e che Breccola
si era rivelato essere supremo generale dei morti viventi e insigne traditore della razza
umana, padre Marcello, nascosto in sagrestia, era preso da dubbi e paure di non essere
all’altezza della missione. A dirla tutta, quel gran casino a Forca di Mezzo era opera sua.
Se, accecato dall’amore, non avesse usato il manuale Voodoo per negati, a quest’ora in
quella valle avrebbero regnato la pace e la tranquillità, e non schiere di zombie. Come
prete era uno schifo. Come uomo peggio. Aveva amato sempre il Signore, ma anche le
donne, con la stessa passione. Aveva preso i voti per colpa di una donna. Katrine Krog.
Danese. 90-60-90. La triade divina. Aveva conosciuto Katrine Krog in Zaire, nel progetto
umanitario internazionale “Un sorriso per l’Africa”. A quel tempo lui si chiamava
Marcello Barretta ed era solo un giovane che s’impegnava per cause umanitarie. Credeva
in dio e soprattutto credeva che bisognava fare qualcosa per chi soffriva. Insomma,
volontaria lei, volontario lui. Un metro e ottantadue lei, un metro e sessantadue lui.
Katrine Krog veniva da una fredda isoletta danese. Figlia di pescatori di merluzzi, prima
di convertirsi al volontariato cattolico aveva militato per qualche anno con Greenpeace.
Al campo si raccontava, e Barretta non stentava a crederci, che una volta la ragazza si era
avvinghiata per protesta al periscopio di un sottomarino atomico americano e che l’aveva
mollato solo a venti metri di profondità. Era una creatura di una bellezza da levare il
respiro. Due fanali blu al posto degli occhi. Lentiggini. Era magra come un’antilope ma
con i muscoli lunghi e definiti e con un paio di tettone di dimensioni decisamente
sproporzionate. I capelli color fuoco, lisci e sempre perfetti come se fosse su una
passerella di Fendi e non a spalare merda in una latrina maleodorante. Katrine Krog se la
giocava con Monica Cannavale, una biondina di San Giorgio a Cremano, e con Dolores
Fuente, una moretta portoghese, per la pole position della più gnocca del campo Zigoru.
Ma secondo Marcello Barretta, non c’era proprio storia. Era un po’ come confrontare le
fettuccine Barilla con quelle che faceva nonna Maria. Nei primi giorni del campo Katrine
aveva subito un vero e proprio assalto da parte del contingente maschile. Ma la Valkiria,
come la rocca di Masada, aveva resistito senza dare segni di debolezza. Era refrattaria
alle battutine maliziose, insensibile ai complimenti e non si accorgeva nemmeno degli
sguardi che la sondavano come sonar alla ricerca di tesori nascosti. Katrine era gentile
con tutti, indistintamente, in quel modo impersonale tipico della gente del Nord. Grandi
risate. Grandi bevute. Grandi pacche sulle spalle. Era la prima a iniziare a lavorare e
l’ultima a staccare. E più il lavoro era duro e umile più lei ci si buttava con entusiasmo.
Katrine si era beccata il soprannome di “BiBi”. Non era per Brigitte Bardot, ma per Boris
Becker, il tennista tedesco. Marcello invece, nel buio della tenda, nei fumi dello
zampirone e nell’assordante russare dei compagni, si faceva una serie di torbide fantasie
su Katrine che lo facevano smaniare e rigirarsi sul materassino di poliuretano come una
luganega in padella. Lasciatela stare, quella. Quella lì, una volta che l’hai ammansita
(addomesticata, mai), deve essere una furia della natura. È di quelle che a letto decidono
tutto loro, ti afferra per il collo come un abbacchietto e ti mette sotto. Sì, doveva essere
così. Ne era certo. Peccato che lui non lo avrebbe mai sperimentato. Per prima cosa, il
suo l’inglese faceva schifo e con i pochi mezzi linguistici di cui disponeva non avrebbe
potuto mostrare la sua affascinante complessità mentale ed emozionale. Poi c’era la
famosa Sindrome Di Pamela Carbone che lo affliggeva dagli amari anni della pubertà.
Pamela Carbone aveva fatto l’alberghiero con Marcello Barretta. E lui era pazzo di quella
ragazza bellissima. Aveva tentato diverse volte di avvicinarla con goffi stratagemmi, ma
ogni volta, a un passo dalla conclusione, aveva battuto in ritirata. Le donne troppo belle
lo mettevano in soggezione. Di fronte a codeste forme femminili superiori il volontario di
Azione Cattolica era sopraffatto dal senso d’inferiorità e di conseguenza, infelice e
imbarazzato, retrocedeva ai margini del gruppo, un po’ come farebbe l’ultimo gregario
vicino alla femmina della iena alfa. Se il nostro eroe avesse avuto la coda, se la sarebbe
infilata tra le gambe e poi si sarebbe acquattato a terra e avrebbe mostrato il ventre nella
classica postura di sottomissione. La Sindrome Di Pamela Carbone, secondo Marcello
Barretta, colpiva la gran parte degli uomini sensibili ed era, in definitiva, responsabile del
lento degradare della nostra civiltà in una nuova era di barbarie e brutalità. La ritirata dei
“gentili” lasciava inevitabilmente il campo aperto all’attacco a umanoidi inferiori, a
colonie di esseri primitivi, organismi volgari che con poche zampate facevano proprie le
donne più belle. Ecco spiegato perché in generale le fighe sono sempre contornate da
branchi di coatti che le profanano, le ingravidano, strappano loro ogni bellezza e le
abbandonano come pallidi spettri senza dimora. E quindi io non avrò mai Katrine.
Eppure, nonostante la ragione, nelle notti africane senza fine la fantasia lo portava a
immaginare Katrine Krog. Gli pareva di vederla che entrava nella tenda con addosso solo
un paio di scarponi da lavoro, unta di sudore e d’olio di motore, e gli diceva: «Mi piace
come ragiona la tua testa». E poi lo afferrava per i capelli e lo trascinava come Achille
con Ettore per tutto il campetto dei volontari. Ma il giorno di Natale, finalmente, il
destino – o la sfiga – aveva voluto che le strade di Katrine e Marcello s’incontrassero. Per
festeggiare il compleanno di Gesù Cristo era stata organizzata una ricca scaletta di attività
e appuntamenti. La mattina alcuni volontari inglesi si erano vestiti da Papà Natale e da
pagliacci e avevano fatto uno spettacolo nelle baracche dei bambini. Poi c’era stata la
messa tenuta da don Fabio. E un picnic nella savana con partita di rugby alla quale
chiaramente Marcello non aveva partecipato. Alle quattro era arrivato il momento di
Marcello Barretta. Aveva organizzato il cineforum. Era riuscito a farsi mandare per posta
dall’Italia tre vhs: Gesù di Nazareth di Zeffirelli, L’ultima tentazione di Cristo di Martin
Scorsese e Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. La sua idea era di proiettarli uno dietro
l’altro, in una lunga maratona cristologica che avrebbe aperto uno spazio di confronto
critico sui differenti punti di vista dei tre registi. L’iniziativa era stata, ovviamente, un
fiasco totale: un po’ per i 60 gradi che aveva raggiunto la baracca di lamiera sotto le lame
torride del sole africano, un po’ per le mosche e un po’ per la mancanza di sottotitoli. Si
erano presentate una decina di persone che erano crollate in uno stato di semi-incoscienza
dopo i titoli di testa. Chiaramente, Katrine aveva disertato. Alle dieci di sera era
finalmente arrivata la fiesta. Tutti i volontari, i missionari e qualche indigeno erano
intorno a un enorme fuoco e intonavano canzoni di Bob Marley, Bob Dylan e Simon &
Garfunkel. Marcello Barretta sedeva distante dagli altri. Era cotto e infelice. Si era
scolato un quarto di un bottiglione da due litri di limoncello distillato dalla madre di un
volontario di Benevento. Tra le mani stringeva un flauto di canna che diceva di saper
suonare – ma non era vero. Con la testa appoggiata su un tronco osservava, con lo
sguardo arzillo di un tacchino in batteria, Katrine che giocava a frisbee con tre
energumeni tedeschi. Il disco fosforescente planava davanti alla sagoma scura della
chiesa in costruzione. Barretta non riusciva a togliere gli occhi brilli dalla ragazza danese.
Era una silhouette nera, che ogni tanto si ravvivava alle fiamme del falò. Il Nostro
l’osservava ridere mentre correva per afferrare il disco con la velocità e la grazia di un
ghepardo, o quando beveva dalla borraccia e un rivolo d’acqua le scendeva lungo il collo
sudato, quando si sistemava i capelli tenendo una forcina tra i denti, quando con le mani
sulla vita, leggermente ingobbita, ansimava aspettando il passaggio. E la canottiera le si
gonfiava per la brezza calda.
Ventitré.
A un tratto un tiro sbagliato e il disco che vola in alto, troppo in alto per la foresta di
braccia tese e che finisce, planando dolcemente, in mezzo al fiume. Katrine e gli altri
erano corsi sul greto, mentre il frisbee, sotto una volta immensa traforata da miliardi di
stelle, veniva lentamente portato via dalla corrente. Si diceva che in quel fiume ci fossero
i coccodrilli. Anche se nessuno li aveva mai visti. Di giorno centinaia di bambini ci
facevano il bagno e le donne lavavano i panni colorati e li mettevano ad asciugare su
grandi pietre lisce. Sulla riva era cominciato uno scambio di battute in inglese. Marcello
era riuscito, più o meno, a capire che scherzavano sui coccodrilli e su chi aveva il
coraggio di tuffarsi e andare a recuperare il frisbee. Katrine improvvisamente si era tolta
la maglietta, mettendo in mostra il generoso décolleté punito da un reggiseno sudicio: ne
aveva fatta una palla e l’aveva gettata sulla riva fangosa. Poi, via i pantaloni, che avevano
subito la stessa sorte della maglietta. È in reggiseno e mutande, aveva gorgogliato Baretta
afferrando la bottiglia. Un tipo con una torcia l’aveva illuminata come si farebbe per una
valletta al centro del palco. Erano partiti applausi e fischi di approvazione. Altri erano
corsi verso il fiume tenendo in mano rami infuocati che avevano sparso macchie
vermiglie sulla superficie oleosa dell’acqua. Una grossa radio sparava a tutto volume
White Rabbit dei Jefferson Airplane. Sembrava una scena di Apocalypse Now. Marcello
Barretta si era tirato su. Katrine era splendida. Come se l’era immaginata nelle sue
fantasie. Anzi, forse pure meglio. Forza, levati quel reggipetto, stupiscili tutti, le aveva
ordinato mentalmente attaccandosi al resto del liquore. Ma Katrine, insensibile e bastarda
come al solito, con un tuffetto elegante era sparita sotto la superficie dell’acqua per
riapparire qualche metro più in là gracchiando come una cornacchia. Quel grido era stato
una specie di comando e tutti, compresi i preti, intontiti dal cibo e dall’alcol si erano
messi in mutande e si erano buttati, lanciando strilli, nel fiume tiepido. Vai, vai pure tu,
gli aveva comandato una vocetta estremamente seria, e Marcello aveva ubbidito. Sì, devo
andare. A fare cosa, non lo sapeva. Ma doveva trovare un contatto con quella donna. E
quella era la sua ultima possibilità. Mancavano pochi giorni e poi il contingente di
volontari sarebbe stato sostituito. E addio per sempre. Quasi che non fosse la sua volontà
a comandarlo, Marcello si era osservato mentre si sfilava freneticamente i bermuda, la
camicetta coloniale, i calzini, le mutande... Sì, pure le mutande. Sai che me ne frega di
cosa pensa la gente! ...le Superga, e cacciava uno striminzito: «Banzai!!!». Poi, nudo
come una salamandra albina, zompettò sui ciottoli acuminati e si gettò nel fiume tra
decine di corpi che urlavano e schiamazzavano come bambini facendo finta che ci fosse
un coccodrillo. In mezzo a quegli esseri insulsi, a quei mostri che rubano l’otto per mille,
da qualche parte c’era la sirenetta di Copenhagen. Ma dove? Finalmente, nella penombra,
intravide due semisfere che emergevano dall’acqua sporca come le cupole gemelle delle
chiese di Santa Maria del Popolo. Si è tolta il reggipetto.
Nuotando piano, con gli arti dolcemente intorpiditi dal limoncello, il volontario aveva
evitato per un soffio una pallonata, un paio di manate e si era avvicinato, silenzioso e
invisibile come una ventresca, alla sirenetta. Era rimasto lì, alle sue spalle, continuando a
fare rutti al limoncino e a ingoiare quella broda fetida pullulante di ogni forma di
organismo patogeno e a pinneggiare e a sentire la corrente che gli accarezzava i coglioni.
Non poteva chiudere gli occhi perché il mondo si avvitava in una folle spirale e, come in
un film porno, gli apparivano lui e lei che si rotolavano sulla riva del fiume tra aironi
cenerini, uccelli dal becco a spatola, trampolieri e rospi. Lui sotto di lei. Lei che lo afferra
e... Perché diavolo mi sono ubriacato così? Perché era triste da morire. Non era giusto.
Non era giusto che soffrisse così tanto per un essere che, in un mese e mezzo, lo aveva
salutato a malapena tre volte. In effetti, come poteva innamorarsi e desiderare una donna
che era solo lo specchio delle sue più oscure fantasie, di cui non conosceva l’anima, la
sensibilità e i desideri? Marcello aveva sempre sostenuto che l’amore nascesse dalla
comunicazione e dalla comunione degli intenti. Ma con quella stronza aveva avuto la
stessa comunicazione che può avere un paramecio con un falco pellegrino. Lei era a capo
della piramide alimentare e lui al fondo, no, anzi, era ancora più sotto, nelle segrete della
piramide. E poi cos’erano quelle orrende fantasie che lo tormentavano legate al suo ano?
Oggetti, dita, bottiglie, manufatti di forme e dimensioni disparate che finivano
inevitabilmente nel suo buco del culo? Basta, allontanati. Hai 35 anni, sei una persona
seria, non puoi ragionare come un ragazzino di 16. Lascia perdere. Tornatene nella
tenda. Stava tornando indietro quando un moto di orgoglio lo fece fermare. No! No e no!
Almeno un tentativo doveva farlo. Perché se non lo faceva, il rimorso lo avrebbe
tormentato per il resto dell’esistenza. Si voltò verso gli altri e vide che continuavano a far
finta di essere divorati dai coccodrilli. Ecco cosa doveva fare. Uno scherzo. Si gonfiò i
polmoni d’aria e s’immerse nell’inchiostro. Scese in profondità, spingendo di braccia e
gambe. Con i timpani che gli pulsavano, ma resistendo stoico alla tentazione di tornare a
galla. Secondo i suoi calcoli lei doveva essere più o meno lì. Allungò una mano e sfiorò
la gamba della sirenetta. Che ridere... Marcello spalancò le fauci, le afferrò una caviglia
e... Stava per emulare scherzosamente il morso di un alligatore sul polpaccio quando sentì
rimbombargli nei timpani il rumore della cartilagine del setto nasale che si schiantava,
mille flash gli esplosero davanti agli occhi e un’ondata di lava gli avvolse il volto. Cacciò
un urlo disperato e prese aria. Solo che non era aria ma acqua, l’acqua fetida del fiume
che gli entrava nella gola e da lì scendeva nei bronchi, giù per i polmoni fin dentro gli
alveoli, e poi sentì il mondo crepitare, accendersi e spegnersi come un neon scarico e i
suoi pensieri, il terrore di affogare, i sensi che se ne andavano portati via dalla corrente
nera del fiume. Intanto, un metro e mezzo più su, in superficie, Katrine Krog urlava e
scalciava, disperata, affondando tallonate contro il coccodrillo che stava per divorarla e
poi starnazzando, quasi camminando sull’acqua, schizzò fuori e tutti, in un istante, si
resero conto che qualcosa, qualcosa di terribile, stava accadendo sotto i loro piedi. «C’è
un coccodrillo! Ha cercato di azzannarmi un polpaccio», urlò la danese continuando a
massaggiarsi la gamba. E non fece in tempo a finire di dirlo che anche gli altri erano fuori
e strillavano. Puntarono le torce elettriche e gli indigeni, risvegliati dalle urla, uscirono
dalle baracche armati di machete e bastoni. Non si riusciva a vedere il rettile.
Probabilmente la bestia si era nascosta nel greto fangoso. Poi qualcuno riuscì a vedere
qualcosa, una gobba, che galleggiava al centro del fiume. Era il ventre bianco del
coccodrillo. Sembrava morto, ma nemmeno i pescatori si fidavano ad avvicinarsi, così
gettarono le loro reti e in venti cominciarono a tirare il mostro a riva. Dal terrore si era
passati a un’atmosfera d’eccitazione per l’improvvisa caccia. C’era chi diceva che il
coccodrillo andava fatto arrosto, chi scuoiato e la pelle messa sull’altare della nuova
chiesa, chi diceva che se non era morto bisognava liberarlo. Ci misero un po’ a capire che
quello che avevano catturato non era un coccodrillo ma Marcello, l’italiano con i ricci
che aveva organizzato il cineforum. Quando lo liberarono dalla rete era più morto che
vivo. Nudo e viscido come una salamandra albina fu trascinato sulla riva fangosa. Don
Fabio gli praticò la respirazione bocca a bocca, rianimandolo. Quando riaprì gli occhi,
Marcello, senza nessuna rivelazione ad aiutarlo, decise che si sarebbe fatto prete.
Ventiquattro.
Padre Marcello, nel buio della sagrestia, prese una sorsata di Amaro Lucano e storcendo
la bocca si disse che le femmine, o meglio le donne, gli avevano distrutto l’esistenza. Le
aveva amate troppo e loro, in cambio, l’avevano fatto sempre soffrire e per colpa loro si
era fatto prete. La sua scelta, in definitiva, era stata una rinuncia e non un cieco abbraccio
alla fede. Il sangue che gli scorreva nelle vene era troppo caldo per il temperamento di un
sacerdote. «Un servitore di Dio dovrebbe essere freddo come un rettile». Disse
cominciando ad armarsi. I rettili sanno come affrontare il digiuno. In lunghi periodi di
assenza di cibo questi animali straordinari riescono a ridurre le dimensioni di alcuni
organi come l’intestino, i reni, i polmoni, il cuore. Il cuore. Anche lui doveva ridurre il
volume del suo cuore, farlo diventare piccolo come una noce, duro come l’acciaio e
freddo come un blocco di ghiaccio. Basta pensare a Katrine Krogg. Basta pensare a
quella povera ragazza che si era sfracellata in un burrone per colpa della sua perversa
libidine. Adesso però sapeva che cosa doveva fare. Combattere contro l’armata dei morti
viventi che aveva fatto di Forca di Mezzo, un ameno paesino degli Appennini,
l’avamposto per invadere il mondo. E se questa battaglia richiedeva l’estremo sacrificio
era pronto a compierlo, senza paura e senza rimorsi tanto quella che viveva non era
vita… Ma mai avrebbe permesso alla sua carne dopo la morte di tornare a rianimarsi
sotto l’influsso di Satana in persona. Prese una croce di ferro alta una decina di centimetri
che usava per officiare la messa e la mise sul gas a scaldare. Aspettò in silenzio ripetendo
il Padre Nostro e quando la croce diventò rossa si tolse la tonaca e la maglia della salute.
Prese la croce arroventata con un paio di pinze da sopra il fornello, si riempì i polmoni
d’aria, strinse i denti e se la premette sul pettorale destro. Si levò un fumo acre di pelle
abbrustolita e peli bruciati che gli entrò nelle narici. Il sacerdote però non emise
nemmeno un suono. Muto e stoico sopportò quel dolore mostruoso. Barcollando andò nel
piccolo bagnetto e si fece una doccia. L’acqua fredda si portò via tutta la sporcizia, il
sangue raggrumato tra i capelli, lo sporco, i brandelli di pelle che cadevano dall’ustione.
Si rasò. Si mise il dopobarba. Poi prese dall’armadio la sua tonaca migliore, quella che
usava solo per la messa di Natale e Pasqua, la tolse dalla plastica e la indossò. Si cacciò
in testa la papalina. Da dentro all’armadio tirò fuori due Remington calibro 12 a cui
aveva segato le canne e li caricò con pallottole esplosive. Poi prese una mazza da baseball
e un lunga ascia bipenne che un tempo era stata proprietà dei pompieri di Forca di
Mezzo. Mise un coltello in ogni stivale. Così armato salì sul campanile e con il binocolo
osservò quello che restava del paese. Rovine. Dalla pompa di benzina, appena fuori
dall’abitato, si levava una cortina di fumo nero. Alcune costruzioni, tra cui la Coop,
bruciavano come Troie. Sulle strade poi era il delirio. Automobili rivoltate. Pali e
cartelloni abbattuti. Cassonetti di rifiuti rovesciati sulla strada. E Zombie. Dovunque. I
figli di puttana si muovevano lentamente, a caso, come se non sapessero bene che fare,
trascinandosi arti mangiati dalla putrefazione, ricoperti di larve e vermi. Piazza Diaz non
era mai stata così affollata. Nemmeno durante le elezioni comunali o la sagra del fagiolo
borlotto c’era stata tanta calca. Questa era un po’ diversa da quella che riempiva la piazza
fino a poco tempo prima. Ma nemmeno tanto. Gli abitanti di Forca di Mezzo avevano
certamente meno voglia di vivere ed erano meno determinati di quei mostri laggiù. Fece
una carrellata con il binocolo su tutto il Corso e nella zona del Palazzo comunale alla
ricerca di qualche superstite. Non sembrava esserci rimasto nessuno vivo. I bastardi si
erano tutti sbranati tra di loro. Guardò in basso, intorno alla chiesa si era radunata una
folla di morti viventi che sbattevano contro il portone e le mura. Alla lunga le assi che
aveva inchiodato contro porte e finestre non avrebbero retto. Lo sapeva ma non gliene
importava nulla. Sotto la campana aveva messo due scatoloni pieni di bottiglie di olio di
arachidi, le versò in un pentolone e lo poggio su un fornello da camping. Padre Marcello
si accese una sigaretta e aspettò che l’olio diventasse bollente. Poi lo gettò di sotto.
Arrivò su un puzzo da vomitare. Stava per andarsene quando si accorse di uno strano
movimento vicino al negozio di ottica. Regolò il fuoco del binocolo. C’era un tizio
completamente ustionato che aveva intorno una specie di palla d’energia. Accanto aveva
un animale… Una scimmia sembrava… No, non era una scimmia. Era un piccolo
diavoletto rosso che saltava e lanciava delle sfere di fuoco contro un uomo coperto da
un’armatura in sella a un cavallo. L’osservò meglio. E si rese conto che quello era
Breccola. Un mezzo idiota che lavorava agli skilift. Ma che gli era successo? Lo vide
allungare le braccia e fare degli strani movimenti. Neanche fosse un direttore d’orchestra
o un vigile urbano che dirige il traffico. Un gruppo di morti viventi, una ventina, come se
fossero stati telecomandati, risposero al suo comando, si riunirono rapidamente e si
disposero ordinatamente in tre file come un plotone di fanti prussiani. Poi fece un segno e
tutti avanzarono verso il cavaliere che con un’alabarda faceva massacro di zombie. «È lui
che li muove!». Fece Padre Marcello gettando la cicca. «Quello lì non ce la farà per
molto». Doveva andare ad aiutarlo. Subito. Il prete scese di corsa la scala a chiocciola che
portava giù nella sagrestia. Prima di uscire andò a controllare come stava la piccola
Isabella, la ragazzina paralitica che aveva portato dai nonni. Dormiva sul suo letto
avvolta nella coperta. Si vedeva solo un pezzo di fronte bianca come latte e una ciocca di
capelli neri come le piume di un corvo. La batteria della sedia a rotelle elettrica era
carica. Il sacerdote non sapeva se lasciarla lì o portarla con lui. Dove sarebbe stata più al
sicuro? Meglio lì. Le porte reggevano ancora e lui sarebbe tornato al più presto. Le
scrisse un bigliettino: «Non ti preoccupare. Rimani qua. Io torno subito. Non uscire, è
pieno di morti viventi». Lo firmò Padre Marcello.
Venticinque.
Mentre Padre Marcello, a bordo della sua Vespa 50, era alla ricerca dei superstiti della
popolazione di Forca di Mezzo, i killer Tavazzi & Papadopulos, dopo uno scontro a
fuoco con una dozzina di morti viventi, si erano rifugiati all’interno dell’Antica
Pasticceria Sazbon. Del loro capo, il boss Cotugno, avevano perso le tracce. Stessa cosa
per sua figlia. Erano stanchi e in quella bottega c’era una strana e amena tranquillità
d’altri tempi. Fuori, oltre le tendine di lino ricamate e la vetrina il corso era affollato
come i giorni precedenti a Natale, quando la gente si spende tutto quello ha risparmiato in
cazzate da regalare al prossimo. Solo che ora quella folla era formata da esseri che
deambulavano, anzi si trascinavano, senza una meta precisa e uno scopo se non quello di
saziare una fame insaziabile. Cosa c’è di peggio che mangiare fino a esplodere e avere la
sensazione di non aver ingerito nulla, di star morendo di fame? Una punizione così
atroce, quella dei morti viventi, che nemmeno il sublime Dante, nel suo inferno, è riuscito
a immaginare per i suoi golosi. Cerbero, il cane con tre teste e coda di serpente, ma dotato
di particolari umani (barba, mani, facce), mostro infernale dell’antica mitologia pagana,
la cui cattura fu la dodicesima e ultima fatica di Ercole, fa da custode nella Divina
Commedia al triste mondo dei golosi. E, proprio come gli zombi, ha una fame che non si
può soddisfare. È la guardia del terzo cerchio, quello dei golosi, appunto. Dice il poeta:
«Urlar li fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; volgonsi
spesso i miseri profani» (Inferno, Canto VI, 19-21)
«La dannosa colpa de la gola» (Inferno, Canto VI, 53) è infatti l’ingordigia, la rinuncia,
cioè, al controllo degli istinti. E la pena? Una pioggia incessante di acqua sudicia,
grandine e neve che diventa una fanghiglia maleodorante in cui sono distesi i dannati che,
sbranati da Cerbero, implorano come disgraziati. Invece gli zombi che popolavano Forca
di Mezzo erano silenziosi, alle volte emettevano dei mugolii strozzati, dei rantoli
svuotati, che facevano accapponare la pelle. Esseri senza un braccio, senza una gamba,
tronchi che strisciavano sulle aiuole bruciate dal freddo, organismi ricoperti di vermi e
larve d’insetto, avvolti da nuvole di mosche. Questo esercito di dannati era composto in
gran parte dagli abitanti della ridente località sciistica, ma non solo. Dal cimitero posto
dietro il complesso del mobilificio dei maestri del legno, un enorme parallelepipedo in
cemento armato cinto da schiere di cipressi, erano usciti fuori i defunti degli ultimi
vent’anni. Avevano sfondato, con la forza della disperazione, i microscopici loculi in cui
riposavano e si erano buttati di sotto da quell’immenso condominio di ossa. Alcuni di
quei resti, vecchissimi, avevano partecipato alla Seconda guerra mondiale e alla Prima.
Moltissimi bambini morti agli inizi del Novecento per un’esplosione micidiale di
difterite. I piccoli cadaveri, ridotti a ossa e stracci avevano creato una lunga fila che,
mano nella mano, si avviava verso quella che un tempo era stata la scuola elementare,
condotti da uno scheletro con un lungo vestito nero, forse la loro maestra. Eppure, questa
macabra processione era lontana dall’Antica Pasticceria Sazbon e i nostri due eroi seduti
a un tavolino si mangiavo un ciambellone e si bevevano un liquore al mirtillo dei monaci
trappisti. Una radio trasmetteva le note dolenti delle Gymnopedie di Erik Satie. Erano
stanchi e non avevano ancora capito bene quello che stava succedendo là fuori. L’inferno
aveva spalancato le porte? Tavazzi si tagliò un altro pezzo del dolce e chiese al greco.
«Senti, quindi, secondo te, questi sono morti? Come quelli dei film. È possibile?»
Papadopulos si stropicciò gli occhi e poi poggiò i gomiti sul tavolino. «Non lo so… Certo
questi qua non sono esseri viventi. Di questo ne sono sicuro». Si versò un bicchiere di
liquore e se lo butto giù in un’unica sorsata. «Io sono nato a Menetes, un piccolo
villaggio nell’isola di Karpathos. Una grande isola a Sud-ovest di Rodi. Mio padre faceva
il tappezziere e mia madre si occupava dei cinque figli. Io ero il terzo. Nella nostra casa
ci vivevano anche i nonni. Non ho conosciuto mai due persone che si amavano come quei
due. Si erano sposati da bambini. Mia nonna Corinna aveva 14 anni e mio nonno Dimitri
16. Le famiglie avevano deciso di unirli e quando si sposarono non si conoscevano quasi.
Quel matrimonio serviva a sancire un patto tra la famiglia Papadopulos e la famiglia
Mesochori. Avrebbero unito le terre confinanti per permettere alle rispettive greggi di
pascolare su un terreno più ampio. Nei film i matrimoni combinati sono sempre sinonimo
di dolore e assenza di amore. Nel caso dei miei nonni non fu così. Mai in tutta la Grecia
ci fu un matrimonio più perfetto di quello. I due non si lasciarono nemmeno un giorno, ne
passarono di dure, la guerra, la fame, la carestia, ma niente riuscì a incrinare il loro
amore. In paese si diceva che Corinna e Dimitri sarebbero morti se fossero stati separati.
E nessuno mai riuscì a separarli. Io me li ricordo, vecchissimi, seduti nel cortile di casa,
sotto un albero di carrubo, mano nella mano. Non parlavano quasi mai, negli ultimi anni.
Si guardavano e noi sapevano che riuscivano a comunicare con uno sguardo. Il nonno,
una sera che aveva bevuto un paio di bicchieri di ouzo in più e gli si era sciolta la lingua
ci disse a tutti noi che la morte sarebbe arrivata presto a prenderli. Erano vecchi ed era
ora di andarsene. E che lui ci aveva parlato con la morte e l’aveva convinta a prenderli
insieme, nel sonno, nello stesso istante, mano nella mano. Per lui e sua moglie il triste
mietitore avrebbe fatto un’eccezione. Ne era sicuro. Ma si sbagliava. Circa tre mesi dopo
mia nonna Corinna morì cadendo dalle scale. Sbatté la nuca contro un gradino e spirò
senza emettere nemmeno un suono». «E tuo nonno? Sicuro è morto di crepacuore?».
Tavazzi si accese una sigaretta e sbuffò una nuvola di fumo. «No. Sembrò anzi non
rimanerci nemmeno tanto male. L’unica cosa che faceva era salire sull’asino la mattina e
tornare la sera». «E dove andava?». «Nessuno lo sapeva. Mio padre glielo chiedeva ma
mai che il vecchio gli rispondesse. Un giorno decisi, insieme a mio fratello maggiore di
seguirlo di nascosto. Non era una cosa troppo difficile. L’asino, Bucefalo, era una bestia
pelle e ossa e avanzava zoppicando sui viottoli di pietra come se camminasse su schegge
di vetro. Noi, nascosti dietro i muretti a secco, lo seguimmo per più di un’ora. Alla fine
mio nonno, dopo due ore si fermò in un piccolo villaggio abbandonato in cima a una
collina pietrosa ricoperta di ulivi e vite selvatica. Quattro case di pietra, i vecchi infissi
mangiati dal sole e dal tempo. I colombi ci avevano fatto i nidi. Una chiesetta con il tetto
sfondato e una selva di rovi che avvolgeva l’abitato come a proteggerlo. Mio nonno legò
Bucefalo a un ramo e si fece spazio tra quel muro compatto di spine. Proprio come se lo
facesse ogni giorno. Io e mio fratello aspettammo un po’ e poi, senza respirare, lo
seguimmo. Lo vedemmo entrare in una vecchia casa con un arco che dava su una grande
stanza buia. Poteva essere una stalla abbandonata. Rimanemmo lì, senza sapere che fare e
che pensare. Era rischioso avvicinarsi troppo, ci avrebbe sentito certamente. Ma a un
tratto lo sentimmo che parlava. Non era chiaro quello che diceva. Ma pareva proprio che
stesse dialogando con qualcuno. Qualcuno che non gli rispondeva. La curiosità era
troppa. Io presi coraggio e saltando come una cavalletta mi appiccicai al muro e infilai un
occhio dentro la stalla dove stava mio nonno. Sulle prime vidi solo la figura secca e
affilata di mio nonno. E poi, appena gli occhi si abituarono all’oscurità, mi accorsi che
c’era anche qualcun altro la dentro. Una donna. Sì, sembrava una donna che si
nascondeva in un angolo buio come se avesse paura, come una bestia braccata. Mio
nonno tirò fuori dalla bisaccia che teneva a tracolla un coniglio. Un coniglio morto, con
addosso ancora la pelle e il pelo. Lo poggiò a terra e fece due passi indietro. La figura
nell’ombra fece due passi avanti, timorosa e poi si avventò sul cadavere del coniglio».
Nilo Papadopulos prese un respiro e spense la cicca nel portacenere. «Era mia nonna. Era
lei. Te lo giuro sulla testa di mia madre. Era lei... Ancora più magra. Con i capelli, che
aveva tenuto per tutta la vita raccolti, sciolti, bianchissimi e lunghi fino a terra. Gli occhi
senza vita. Opachi e spenti. Si mangiava il coniglio con la foga di un orso famelico e
faceva degli strani versi» «Ma com’era possibile? Non era morta? Non l’avevate sepolta?
Che ci faceva lì? E perché si mangiava i conigli con tutto il pelo?». Chiese Tavazzi
schifato. E Papadopulos avrebbe voluto dargli una risposta, cazzo se avrebbe voluto, ma
le assi di legno sotto i suoi piedi esplosero come se avessero messo una bomba e una
selva di braccia scarnificate lo afferrarono per le gambe e lo succhiarono negli scantinati
dell’Antica Pasticceria Sazbon. Poi ci furono spari e urla. Tavazzi spalmato contro il
muro caricò il fucile, si fece il segno della croce e si gettò in aiuto del suo compagno.
Quando riemersero dal magazzino erano sporchi di sangue, con i vestiti stracciati ma vivi
e incazzati. Uscirono puntando le pistole fuori dalla pasticceria proprio nel momento in
cui Padre Marcello smontava con il suo Remington dal vespino e i tre, senza conoscersi
ma uniti dall’amore per l’esistenza, presero a sterminare zombie.
Ventisei.
Era arrivata la resa dei conti. Padre Marcello, i due killer, Tavazzi e Papadopulos, erano
oramai accerchiati dall’intera popolazione morta di Forca di Mezzo e le prospettive non
erano delle migliori. 600 e passa zombie che lentamente ma inesorabilmente avrebbero
tolto di mezzo le ultime tre forme di vita come noi l’abbiamo sempre intesa dalla ridente
località montana. E poi? E poi niente. Il male a capo di sterminati eserciti di non-morti si
sarebbe sparso ovunque, avrebbe ingrossato le proprie fila contaminando gli Appeninini,
assoldando truppe nelle autostrade, a Roma, a Pomezia, a Castel Gandolfo. E poi l’Italia,
la comunità europea, il pianeta intero una sola razza, una sola specie. Zombie. E fine
della razza umana. The end. Un ricercatore della facoltà di microbiologia dell’Università
di Castelfranco Veneto, Roberto Alberto Savaglia, ha fatto una lunga ricerca teorica
ipotizzando un’invasione di zombie sulla terra. Zombie con le caratteristiche biologiche e
morfologiche di quelli dei film dell’immenso regista statunitense Romero. L’infezione,
secondo Savaglia, avrebbe il solito andamento di una curva epidemica di Reed e Frost.
C t+1 = S t (1- q Ct)
C t+1: numero dei casi contagianti al tempo t-1
S t: numero degli esseri umani suscettibili al tempo t (1- q Ct): probabilità che almeno
uno dei casi Ct infettanti al tempo t compia un contatto efficiente.
q: probabilità per un essere umano di non avere un contatto efficiente.
Diciamo subito che per un essere umano non avere un contatto efficiente è praticamente
impossibile. Infatti non è necessario che uno zombie ti azzanni per trasmetterti
l’infezione, è sufficiente un graffio leggero, venire a contatto di mucose con qualche
effluvio corporeo del morto vivente per ritrovarti, sei ore dopo, a zoppicare emettendo dei
disgustosi versi gutturali e cercando di sbranarti tua madre. Comunque, senza essere
troppo tecnici, la tesi di Savaglia è che in breve tempo (più o meno 10 anni) sulla terra
non ci saranno più esseri umani. E dei poveri zombie che sarebbe? Secondo Savaglia
essendo il non morto un organismo dal basso consumo metabolico, più basso addirittura
di organismi a sangue freddo come i rettili o gli anfibi, si consumerebbe lentamente in un
digiuno prolungato. Ci vogliono circa venti anni a un non-morto per sospendere qualsiasi
attività metabolica (usare il termine vita, per questi organismi, è sbagliato) ed essere
trasformato in un oggetto inerte come un sasso. Sempre secondo il ricercatore di
Castelfranco Veneto non è escluso che lo zombie, privato della sua unica fonte di energia,
la carne umana, si trasformi in una sorta di bozzolo, di cisti, e che, se debitamente
stimolato, possa tornare a risvegliarsi. Ma in fondo a noi cosa diavolo ce ne importa? A
noi niente. Ma a Roberto Alberto Savaglia importava moltissimo. Nel suo bilocale, ogni
mercoledì sera, incontrava un gruppo di amici. Si beveva birra, si mangiava pizza nelle
scatole di cartone e si parlava dello sterminio della specie umana. Tutta. Nessuno escluso.
Compresi i presenti, che si sarebbero suicidati con una dose letale di psicofarmaci.
Questa allegra comitiva aveva un nome di battaglia: Gaya Armata. Erano ecologisti
integralisti che volevano estirpare alla radice i colpevoli della distruzione dell’ecosistema
Terra. Dopo essersi fatti un cannone di erba calabrese, ascoltando un cd di ululati di lupi
e pianoforte s’immaginavano il pianeta senza più l’umanità bastarda, le piante che
ricrescono, gli animali che riprendono a moltiplicarsi, il buco dell’ozono che si richiude.
La piaga umana solo un ricordo. Città ricoperte di giungle. Tane per pipistrelli e animali
amanti delle tenebre. Come nel più classico romanzo di fantascienza. Quindi Roberto
Alberto Savaglia, nel laboratorio di microbiologia, facendo esperimenti su gatti randagi,
cercava di sintetizzare in vitro un retrovirus capace di trasformare gli uomini (e pure i
gatti) in zombie. Per fortuna, senza grande successo. Poi fu scoperto a fare questi
esperimenti illeciti e buttato fuori dall’università e ora credo faccia il tecnico in un
laboratorio di analisi a Cabras, un piccolo comune in provincia di Oristano. Ma ora, per
fortuna la nostra piccola banda di eroi, era ancora viva e poteva ancora tentare di salvare
il destino della razza umana. «Cazzo facciamo?», chiese Papadopulos arretrando verso la
pasticceria alle sue spalle. L’orda di non morti gli si chiudeva davanti. Padre Marcello
imbracciò il fucile Remington, prese la mira e fece esplodere il cranio di Giacomo
D’Alessandro, il proprietario della Casa della bomboniera di via Serpieri: «In testa.
Sparategli in testa. Sennò non serve a niente». «Ma dai? Veramente? Questa non la
sapevo». Fece ironico Tavazzi piazzando un proiettile calibro 9 nell’orbita destra di
Giuseppina Cafini, che era morta nel 1986 soffocata da suo nipote Mariano mentre
dormiva. «Allora la situazione è questa. Qui resistiamo ancora pochi minuti. Dobbiamo
ritirarci in un luogo sicuro e con l’aiuto del Signore decidere una strategia per sterminare
questi sciagurati». Il prete mise in moto, con un colpo preciso la Vespa. Tavazzi diede un
calcione, allontanando da sé una roba che assomigliava a uno zombie, tanto era ricoperto
di larve e avvolto da un nugolo di mosche. «Mi sembra un’ottima idea, prete». «Forza,
salite, su. Non credo ci faranno la multa». I due killer non se lo fecero ripetere due volte.
Facendosi largo a colpi di pistola montarono sullo scooter del sacerdote e sbandando,
dando calcioni a destra e a sinistra, riuscirono ad allontanarsi.
I tre erano nella piccola sacrestia illuminata dalle candele e da una lampada a petrolio.
L’elettricità, come il telefono, erano fuori uso. Padre Marcello, nella radio portatile,
aveva messo un cd e Willie Nelson e Ray Charles cantavano «It was a very good year».
Le due voci così diverse eppure così in armonia riuscivano in qualche modo a coprire i
versi e i mugolii dei non morti che grattavano senza sosta contro le pareti della chiesa.
Sul modesto tavolo c’era un tagliere con del salame, un paniere e una zuppiera fumante di
bucatini all’amatriciana. Padre Marcello cominciò a fare delle porzioni belle abbondanti e
a grattarci su il parmigiano. «Prima di combattere bisogna mangiare come Dio comanda.
Questo potrebbe essere il nostro ultimo pasto». Tavazzi ebbe un gesto di stizza. «Scusi,
padre, ma così mi fa passare l’appetito. Il nostro ultimo pasto… Scusi, ma chi l’ha detto?
Basta trovare una macchina e filarsela da ’sta valle di, di…». Non gli veniva. «Insomma.
Diamoci prima che sia troppo tardi». Papadopulos, con il boccone in bocca, sollevò le
spalle d’accordo con il suo collega. Padre Marcello si sedette, chiuse gli occhi e poggiò le
mani una sull’altra e con la voce rauca cominciò a recitare. «Padre Nostro benedici
questa tavola e le persone che ci sono intorno. La situazione qui è parecchio incasinata.
L’inferno ha scatenato le sue forze. E a NOI…». Sottolineò il NOI guardando negli occhi
Tavazzi e Papadopulos che li abbassarono sui bucatini. «...hai dato il compito di
combatterlo. Siamo pochi, indegni, ma siamo stati scelti da te per questo compito
altissimo e lo accettiamo senza fare discussioni inutili. Amen». Tirò fuori dalla tasca
della tonaca una bottiglietta di rum e ci si attaccò con un gesto ieratico come fosse il vino
della messa. Tavazzi scosse la testa. «Scusi padre, ma che cazzo di preghiera è questa?
Ma queste sono le preghiere che fa in chiesa? Accettiamo senza far discussioni… Ma è
impazzito? Io non accetto un benemerito cazzo…». Fu un attimo. Padre Marcello, come
un prestigiatore che tiri fuori la colomba, da sotto il tavolo cacciò la bocca scura e
micidiale del suo Remington. Contemporaneamente, come se fosse scattato un
meccanismo a molla, i due killer tirarono fuori le pistole e le puntarono sul pastore. E
rimasero così, avvolti dai fumi della salsa di pomodoro, del guanciale e del pecorino.
«Che succede?». Dalla porta che dava in sagrestia entrò Isabella sulla sedia a rotelle. I tre
con le pistole puntate si voltarono e si videro di fronte la ragazzina bianca come un
cencio, con quei capelli neri come le piume di un corvo che li osservava e
immediatamente, come a comando, abbassarono le armi. «Niente… Non è successo
niente, si discuteva…». Bofonchiò Padre Marcello. «È pronto da mangiare. Vieni». Isa
non si mosse. Con quei due occhi enormi e liquidi li osservava. I due killer si alzarono da
tavola, in uno stridio di sedie, e goffamente si presentarono. «Che aspetti? Dai che si
fredda!». «No…», sussurrò. «Io con voi che litigate e vi puntate le pistole contro non ci
mangio». Prese aria e poi più decisa continuò. «Voi non vi rendete conto di che inferno si
sta scatenando. Per ora sembra essere coinvolta solo Forca di Mezzo, ma presto il
focolaio si estenderà e sarà la fine dell’umanità. Quindi non possiamo scappare… Né
affrontarli senza una precisa strategia. Siamo in quattro e loro… Quelli saranno almeno
mille. Loro hanno i numeri, noi il cervello. Non credo che nessuno di voi tre possa dirsi
senza colpe, con la coscienza senza una macchia. Nemmeno io lo sono pure se sono una
bambina». Si guardò le gambe inermi. «Per colpa di queste deformi appendici ho
invidiato fino a odiare il mondo, i miei compagni che correvano e saltavano, la gente che
mi guardava con infinita pietà, la mia maestra che mi diceva di essere felice e che le cose
importanti sono nel cuore… Stronzate! Comunque… Ora abbiamo la possibilità di
riscattarci e di salvare il mondo. Vi sembra poco? E poi tra quei bastardi c’è pure il mio
paparino e i miei nonnini. E non posso immaginare di lasciarli in quello stato. Allora,
forza, alzi la mano chi è con me». Padre Marcello, solevò tutte e due le braccia e corse a
baciare la ragazzina e i due sicari si guardarono, sbuffarono e timidamente alzarono le
loro. E s’immolarono.
Bene… La storia è finita. Cosi? Sì. Preferisco non raccontare di come i nostri quattro eroi
si sacrificarono in uno scontro impari contro l’esercito dei morti viventi. Questa non è
una storia d’amore, né tantomeno una storia dell’orrore a lieto fine. Vi dirò solo che tutti
e quattro si comportarono da veri eroi. Padre Marcello, che si credeva colpevole della
calamità, si fece esplodere davanti all’Ottica Baldoni portando con sé una cinquantina di
zombie. Sacrificio sostanzialmente inutile. Tavazzi e Papadopulos si chiusero nello snack
bar La Perla. Ma dopo tre giorni, a cornetti e tramezzini, tentarono la fuga. Vennero
sbranati da circa mille ex abitanti di Forca di Mezzo. Isabella fu più fortunata, fu divorata
da suo padre appena fuori dalla chiesa. Breccola, il traditore della razza umana, ebbe la
meglio su Carmela Cotugno dopo uno scontro che lo lasciò in fin di vita. In testa alle
armate oscure in circa cinque anni si prese il mondo intero e trasformò gli esseri umani in
carne morta zoppicante. Lo scontro tra bene e male è finito zero a uno. Ma, come dice
mio zio, non è detto che non ci sia la partita di ritorno.
Baci e abbracci.
Niccolò Ammaniti