Walter Mauro La Storia Del Jazz

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Walter Mauro


LA

STORIA

DEL JAZZ



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Walter Mauro è scrittore e critico musicale. Collabora ai programmi

di musica jazz della Rai. Ha pubblicato numerosi testi saggistici sul

jazz, fra i quali, Jazz e universo negro; Il blues e l'America nera; una

biografia: Louis Armstrong il re del jazz e, per la Newton Compton,

Gershwin, la vita e l'opera, e due antologie, Il Blues e Gli Spirituals,

in collaborazione con Elena Clementelli. è inoltre autore della voce

Jazz dell'Enciclopedia Treccani.

1. La leggenda di New Orleans

Nata e sviluppatasi dall'epicentro degli Stati Uniti, per poi

diffondersi nel nostro secolo in tutto il mondo con una progressione di

interessi culturali che nessuna altra musica può esibire nel tempo, la storia

del jazz, fin dalle sue origini, va a confluire, parallelamente e

comparativamente, nella vicenda stessa del Nord America, in misura così

evidente che molto spesso gli slanci e le crisi, i sobbalzi di coscienza e i

momenti di depressione sociale, hanno finito con il reperire il loro naturale

contrappunto nella suggestiva avventura di questa musica. Secondo

un'opinione corrente, che gli storici di questa espressione della creatività

hanno ormai codificato - pur con qualche contrasto - il centro motore dal

quale il fenomeno ha preso l'avvio, lungo infinite componenti di sviluppo,

va individuato nella zona della Louisiana, una regione del Sud degli States,

e più particolarmente nella città di New Orleans, al delta del grande fiume,

il Mississippi, che ne ha accompagnato, con il suo stanco e a volte

impetuoso fluire, l'origine e lo svolgimento.

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La matrice popolare di questa musica, tuttavia, esige che, ancora

prima di parlare della nascita del jazz e del suo diffondersi dalla città del

delta in tutto il mondo, si faccia cenno ai due momenti musicali che ne

hanno preceduto la nascita, lo spiritual e il blues: non a torto, un noto

studioso di questa musica, Jain Lang, era solito affermare che tutto il jazz

deriva dal blues, in ogni sua componente, tecnica e culturale.

Il canto spirituale nero ha origini remote, che potrebbero farsi

risalire alle prime forme di mercato degli schiavi provenienti dall'Africa

nera e sbarcati sulla Congo Square, la grande, antica piazza di New Orleans

tristemente nota perché lì si svolgeva la compravendita della mano d'opera

africana, destinata a consumare i suoi giorni nelle grandi piantagioni di

cotone adiacenti il delta del grande fiume. I temi degli spirituals erano tutti

di carattere e di ispirazione religiosa, ed erano la diretta conseguenza di

quel processo di evangelizzazione delle comunità nere tentato dal

Cristianesimo nei confronti di popolazioni sradicate dalla loro terra,

emarginate e condannate a vivere in condizioni di schiavitù dai grandi

proprietari terrieri bianchi. Per questa ragione, nei testi poetici del canto

spirituale nero, ricorrono con insistenza i momenti cruciali del sacrificio di

Cristo, oltre che la forte tensione interiore verso quell'approdo nella Terra

Promessa che in tanti versi - e nella musica struggente che ne accompagna

la dolente tematica - si esprime attraverso l'infelice anelito verso un premio

irraggiungibile. La condizione di orfanità, così presente in tanti testi poetici

di spirituals, ricorre come esemplificazione di uno stato di dolore e di pena

che il colore della pelle, la diversità dell'aspetto, contribuivano a rendere

ancora più doloroso, fino a confondersi con la condizione stessa dell'uomo,

un duro e tormentoso vagare sulla terra desolata: un aspetto questo che, nel

canto spirituale, può produrre le più diverse reazioni, comprese quelle

dell'ironia, della satira, talvolta del sarcasmo come matrice di una

compressione interiore che solo il canto, con la sua prassi liberatoria, riesce

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ad esprimere.

Se il canto spirituale riflette la componente religiosa, ben congiunta

a quel senso di sacralità e di identificazione nel martirio di Cristo che la

storia del Cristianesimo comporta, il blues a sua volta esprime l'aspetto

profano del conflitto di razza, in una condizione di succube esistenza che la

tematica religiosa degli spirituals si era sforzata di lenire attraverso il

diretto rapporto uomo-fede. Venuta meno quest'ultima, o meglio

individuata la componente più marcatamente umana della condizione

esistenziale, il canto religioso andò assumendo una funzione e un ruolo

diversi, di intrattenimento se si vuole, privilegiando quei temi dell'amore

terreno strettamente connessi allo stato di soggezione, e di emarginazione,

in cui il nero si trovava a vivere nelle regioni del Sud degli States. Perciò

fra il country blues, nato nelle campagne attorno al Mississippi, e il city

blues, sviluppatosi nelle metropoli d'America all'indomani della grande

migrazione verso i grandi centri urbani, esistono differenze che riguardano

sia le scelte tematiche che l'aspetto puramente tecnico dell'esecuzione

musicale.

Non va infatti tralasciato di ricordare che il blues, dopo una

stagione iniziale dominata dal canto solistico, successivamente ha avuto

dapprima un accompagnamento di chitarra, poi di pianoforte e di altri

strumenti di raccordo del blues-singer, confluendo infine nel blues

strumentale, che già va a far parte della storia della musica jazz.

Per tutti questi motivi, di ordine sociale oltre che musicale, il

country blues è caratterizzato dalla presenza massiccia di cantanti uomini,

da Robert Johnson a Charlie Patton, da Blind Lemon Jefferson a tanti altri;

il city blues viene cantato e interpretato prevalentemente da personaggi

femminili, Bessie Smith su tutte, e ancora Ma Rainey, Clara Smith, Ethel

Waters e molte altre, con motivazioni di fondo che vogliono evidenziare la

mutata condizione sociale: da una parte un canto di campagna dominato da

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amori contrastati, violenti, tipici di una esistenza emarginata di dolore e di

pena, dall'altra, nel blues urbano, lo stato di abbandono in cui la donna

viene a trovarsi all'interno del nucleo, una solitudine provocata dall'assenza

del compagno, costretto a vivere la propria giornata di lavoro nelle grandi

fabbriche di Chicago, di Kansas City, di New York, di Detroit. L'America

bianca, in tal modo, attraverso un patrimonio musicale quanto mai vario e

fascinoso, cominciava a costruire la storia di una musica nata come

condizione alternativa al conformismo del potere, e sviluppatasi poi anche

sul filo di una fruizione, talvolta geniale talaltra mediocre e conformista, di

moduli espressivi tipici e inconfondibili degli afroamericani: storie di

prosperità e di miseria negli show-boats di New Orleans, di Chicago, di

New York che servirono a diffondere negli States e nel mondo una musica

angosciosa e crudele in cui la componente evasiva, tipica di tanta musica

popolare, cedeva il posto alla tragedia di tutto un popolo.

Il clima che si respirava nella New Orleans agli albori del secolo era

esattamente quello descritto da Ida Cox, una delle tante blues-singers di

città, in I've Got the Blues for Rampart Street: "Rampart Street a New

Orleans è conosciuta per varie miglia all'intorno, /piena di creoli e con delle

vere orchestre jazz, è il posto più bello della regione, /in quasi tutti i

cabarets si fa musica tutta la notte fino a che viene il giorno, /mi sento triste

dalla testa ai piedi, pensando alla cara vecchia Rampart Street. /Me ne

tornerò al Carl Madison's Cafè, /voglio sentire quell'orchestra nera,

/Cadillacs, Red Onions, Boudoirs e orchestre sui marciapiedi, /è tutto un

divertimento su e giù per Rampart Street".

Centro di confluenza di varie culture, quella francese di antica

napoleonica memoria, quella spagnola delle contigue terre dell'America

Latina, e infine la locale, costituita dai neri che da alcuni secoli erano giunti

dall'Africa, New Orleans non tardò ad assumere un ruolo primario nella

geografia dell'intrattenimento degli schiavi. In quella vasta, tragica area

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chiamata Congo Square, simbolo oggi di una schiavitù nera durata nel

tempo e ancora non del tutto conclusa, i neri si esibivano in giochi, in canti

accompagnati dal tam-tam, ultima eredità di una terra lontana e simbolo

dello sradicamento, in riti e cerimonie Voodoo. Erano nenie molto strane e

singolari, suoni indecifrabili, antiche grida tribali, filtrate nel crogiuolo di

altre culture, quella francese e quella spagnola. Dominavano le bamboulas,

grandi tam-tam fatti con barili e pelle di vacca percossa con lunghi ossi di

bue; le canne di bambù servivano a dare ai suoni primordiali un carattere di

affascinante melodia.

Da questa prima forma di espressione musicale, ereditata dall'Africa

nera, verso la fine del secolo scorso i suonatori neri di New Orleans

cominciarono a costruire i primi intrecci musicali, sotto forma di marce,

soprattutto nell'accompagnamento di funerali e nel ritorno dalle sepolture,

un rituale, questo, che nel tempo ha rivelato le radici stesse di questa

musica. Stava nascendo un gigantesco repertorio musicale, una miniera di

suoni così ricca e fertile da perpetuarsi nel tempo, fino alle più recenti

fruizioni, da parte della pop e della rock music.

Nacquero così anche le prime organizzazioni di divulgazione della

musica jazz, e fra i protagonisti va ricordato Clairborne Williams,

suonatore di cornetta, musicista tuttofare, impresario molto astuto e con lui

John Robechaux, batterista e direttore, come Williams, di numerosi

complessi che si esibivano sui battelli che risalivano la corrente del

Mississippi, toccando le varie città sul delta: figure leggendarie, come

leggendaria ci appare oggi la vita di questa straordinaria città, ancora viva e

vitale, tutta musica ad ogni angolo di strada.

Negli anni compresi fra il 1895 e il 1907 andò formandosi dunque

un vero e proprio stile legato al nome della città del delta, soprattutto per

merito della Ragtime Band di Buddy Bolden, un'orchestra che prendeva

nome e sostanza dal ragtime appunto, una delle prime espressioni musicali

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di intrattenimento per pianoforte solista, cui poi, nel gruppo di Bolden,

andarono ad aggiungersi una o due cornette, clarinetto, trombone,

contrabbasso, chitarra e batteria. Suonatore instancabile, capace di soffiare

per ore nel suo strumento, Kid e King al contempo, ragazzo e sovrano,

Buddy Bolden ha incarnato la leggenda di New Orleans meglio di chiunque

altro, anche per aver proposto i canoni fondamentali per la disposizione

armonica e melodica del jazz sotto forma di polifonia, di certo la

componente più affascinante della musica di New Orleans: nel contesto la

melodia veniva condotta dalla cornetta, mentre il trombone operava da

controcanto, e il clarinetto forniva una elegante tessitura di raccordo.

Questa era la front-line che si affacciava al proscenio, nelle sale dei battelli

come nei numerosi clubs della città, mentre dietro si esibivano gli strumenti

di accompagnamento, banjo o chitarra, pianoforte e batteria - che allora era

ancora il washboard, la tavola per lavare che con i suoi gradini picchiati da

un legno produceva i ritmi della percussione temporale - in modo da

costituire un magma sonoro di rara intensità espressiva. Gli accordi erano

quelli del blues, e Bolden se ne servì in abbondanza donandoli poi a

Freddie Keppard, l'altro protagonista assoluto della musica nera di questi

anni, stella nascente e lungamente viva al comando della Olympia Band,

che annovera altri musicisti che hanno fatto la storia del jazz: Alphonse

Picou, Louis "Big Eye" Nelson, Joseph Petit, suonatore di trombone a

pistoni, inventore dell'accompagnamento ritmico forse più suggestivo del

jazz delle origini. Su questa scia andò formandosi una infinità di altri

gruppi orchestrali: la Original Creole Band di Bill Johnson, che aveva in

organico altri personaggi di primo piano del jazz primitivo: il già citato

Keppard, e inoltre i clarinettisti George Baquet e Jimmy Noone, un

maestro, caposcuola di una serie di musicisti che vanno da Johnny Dodds a

Sidney Bechet. Anche nella Eagle Band c'erano musicisti di primo piano,

primo fra tutti Bunk Johnson, e ancora Mutt Carey, Lorenzo Tio e molti

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altri. Ma il più leggendario di tutti resterà Bunk Johnson, scomparso fino

alla fine della seconda guerra mondiale, quando venne rintracciato; gli fu

regalata una dentiera e riprese a soffiare, contribuendo in modo

fondamentale alla rinascita di quello stile New Orleans che alla fine degli

anni Quaranta del nostro secolo rappresentò un malinconico ma

affascinante ritorno alle sorgenti di questa musica.

Il passaggio dalla leggenda alla realtà va a confondersi con la

presenza a New Orleans di due personaggi di grande spessore espressivo,

che rapidamente assumeranno il ruolo di guida nella vicenda del jazz:

Joseph King Oliver e soprattutto Louis Armstrong, "Ambassador Satch",

come verrà definito per il grande ruolo ricoperto nella diffusione di questa

musica nel mondo. Nato nel 1885, Joseph Oliver, il King di quegli anni, era

già un discreto cornettista agli albori del secolo, e si era messo in luce in

una orchestra di fanfare di ragazzi. Fu poi maggiordomo presso famiglie di

ricchi proprietari terrieri sulla Royal Street, e infine seppe affermarsi come

sovrano incontrastato già dal 1918, prima di trasferirsi a Chicago con

quella Original Creole Band, vera dominatrice del paesaggio musicale

jazzistico del tempo. Attorno a lui si formarono altri jazzmen che avranno

un ruolo e una funzione di primo piano, da Kid Ory, fra i più famosi

trombonisti di New Orleans, a Sidney Bechet, clarinettista poi passato al

sax soprano (con il quale per anni dominerà la scena musicale d'America e

d'Europa), Johnny Dodds e Baby Dodds, clarinettista l'uno, batterista

l'altro, Jimmie Noone, altro clarinettista di grande rilievo, scomparso molto

giovane dopo aver dato innumerevoli prove del suo talento musicale. Fra i

pianisti spicca il nome di Jelly Roll Morton, musicista leggendario, autore

in seguito di una colorita storia del jazz registrata per la Library of

Congress, ma famoso in quegli anni per essersi attribuito il titolo di

inventore del jazz, definizione forse eccessiva; ma fu sicuramente un

personaggio unico nella New Orleans del tempo, e soprattutto in quel

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quartiere a luci rosse, Storyville, che è passato alla storia come l'epicentro

donde è nata questa musica, con i suoi postriboli, le sue prostitute bianche e

nere, i suoi clubs, gli speakeases, i locali in cui si vendeva l'alcool e tutte

quelle bevande come l'ubriacante mint julep, ad esempio, che dovevano

servire ad ottenebrare la mente e guidare verso il vertice della permissività

di comportamento. Tuttavia, al di là di questo folclore di cui fu

incontrastato protagonista, Jelly Roll Morton fu un grande pianista,

inventore di quel gruppo dei Red Hot Peppers che rappresenta una pietra

miliare nella storia del jazz di New Orleans, specialmente per aver offerto

alla polifonia una raffinatezza di dettato musicale difficilmente

riscontrabile in altri gruppi del tempo.

Su tutti questi personaggi si erge una figura gigantesca, Louis

Armstrong, detto "Satchmo" per quelle inconfondibili "labbra a sacco"

dalle quali ha saputo sprigionare scintille di talento musicale unico e

irripetibile, capace di edificare attorno ad una musica, che a quel tempo si

serviva di schemi molto semplici e talvolta limitati, un colossale universo

di suoni, una proliferazione di intuizioni straordinarie, ancora oggi

insuperate. La sua fama nacque una notte di capodanno, quella del 1913,

quando tredicenne - era nato a New Orleans il 4 luglio del 1900 - sparò un

colpo di pistola in aria per festeggiare l'anno nuovo su quella Canal Street

che allora era una splendida baraonda di suoni e di avventure.

Finì al riformatorio, imparò a suonare la cornetta, andò a far parte

dell'orchestra della Waif's Home e una volta fuori, a diciassette anni, era

già a capo di una sua orchestra, proprio in coincidenza con l'entrata in

guerra degli Stati Uniti e con la chiusura del quartiere a luci rosse di New

Orleans per ordine del ministro della Marina. Due eventi determinanti,

soprattutto il secondo, poiché la chiusura di quel quartiere malfamato e il

proibizionismo che colpiva i venditori di bevande alcoliche provocarono

l'esodo da New Orleans di una vasta parte del mondo della musica jazz

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verso le regioni del Nord degli Usa, soprattutto a Chicago.

Pochi jazzmen rimasero nella città del delta, a cercare di tener viva

la fiamma di una tradizione arcaica che ormai andava privilegiando altri

luoghi e altre istanze della creazione musicale.

Questa forma di autoemarginazione finirà poi per accendere

qualche polemica fra chi era fuggito in cerca di gloria e di fortuna e quelli

che erano rimasti a New Orleans: da una parte insomma Armstrong, King

Oliver, Johnny Dodds, Kid Ory e tanti altri emigrati, e dall'altra, al di qua

del grande fiume, Bunk Johnson, George Lewis, Billie e Dede Pierce e

molti altri ancora che ogni sera si raccoglievano, e i superstiti ancora lo

fanno, alla Preservation Hall, il più tradizionale club della città del delta, a

rievocare antichi miti e remote leggende delle origini di questa musica.

Louis Armstrong, a sua volta, giunto a Chicago, inizierà quel volo

nell'universo del creativo musicale che lo ha reso protagonista assoluto di

questa musica e maestro dello stile New Orleans, del quale è stato

certamente il più valido esecutore.

Per tornare alla città del delta, non mancavano le orchestre bianche

in grado di aprire un solco e inaugurare una tradizione che avrà poi il suo

splendido seguito a Chicago. La prima famosa orchestra bianca della

capitale della Louisiana, diretta progenitrice dell'ancor più nota Original

Dixieland Jazz Band, fu la Ragtime Band di Jack Laine, che trionfò tra la

fine del 19esimo e l'inizio del 20esimo secolo. Fu proprio l'orchestra di

Laine a lanciare, e avviare ad uno strepitoso successo, un famoso tema

dixieland, The Livery Stable Blues, che diventerà un motivo di grande

successo, ma ancora maggior riscontro nel pubblico incontrò Tiger Rag,

eseguito infinite volte dai gruppi tradizionali, ricavato da una vecchia

quadriglia che si ballava a New Orleans, che anticamente aveva il nome di

uno squisito dolce locale, il Praline. Il gruppo di Laine serviva un po' a

tutto: ad annunciare un incontro di pugilato come alla promozione di un

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ristorante o di un veglione nel giorno del Mardi Gras, la più classica delle

feste carnevalesche della città. Il suonatore di trombone restava appollaiato

sul sedile posteriore del carro pubblicitario, muovendo la coulisse dello

strumento al di fuori, per evitare di accecare gli altri suonatori.

Altrettanto nota fu in quegli anni la Original Dixielaad Jazz Band,

che non avendo ottenuto un grande successo nella città d'origine, New

Orleans, si scelse l'appellativo di "Dixieland", che da allora in poi venne

attribuito ad un genere e ad uno stile sviluppatosi a Chicago negli anni

successivi alla leggenda della città del delta, a conferma di un progresso,

oltre che dell'immissione di una più moderna sintassi espressiva. Il dettato

della Original Dixieland Jazz Band era spesso volutamente ironico e

comico, con l'imitazione di suoni animali, ad esempio in Barnyard Blues, o

di voci umane deformate, una sorta di commedia drammatica priva di

dialogo, ma al contempo ricca di suoni curiosi e anomali, con il commento

di fragorose risate che scoppiavano all'improvviso, nel bel mezzo

dell'esecuzione musicale. è da sottolineare che di questa orchestra facevano

parte alcuni oriundi italiani, che vanno quindi annoverati fra gli inventori di

questa musica: Nick La Rocca e Leon Roppolo su tutti gli altri, ma non va

dimenticato Eddie Lang, che in realtà si chiamava Salvatore Massaro, e

divenne un celebre chitarrista, nella stagione chicagoana di questa musica,

assieme ad un altro ben noto personaggio di origini italiane, il violinista Joe

Venuti.

Essenziali e ben lontani da ogni forma di interpretazione barocca,

questi musicisti bianchi appresero perfettamente la lezione dei maestri neri,

al punto da ripeterne i modelli di vita, oltre che la musica: l'esistenza

tragica ed emarginata di Leon Roppolo, italiano di New Orleans morto di

stenti in un manicomio nel 1941, ne offre una tragica testimonianza. Ma

ancor più che a dolorosi modelli esistenziali, questi jazzmen bianchi della

Louisiana, prima di emigrare a Chicago, diedero inizio ad una musica

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carica di dolenti significati: oltre alle bands già citate, ecco i New Orleans

Rhythm Kings, guidati da Paul Mares, con un organico del quale andarono

a far parte ancora Leon Roppolo, clarinettista di rara finezza, e il

trombonista George Brunis con il sassofonista Jack Pettis, il pianista Elmer

Schoebel, il banjoista Lew Black, il bassista Steve Brown e il batterista

Frank Snyder.

Se il mondo leggendario di New Orleans si colorava di tinte

bianche e nere, in quel gran crogiuolo di avventure sonore che fu la musica

del delta, un ulteriore contributo all'affermarsi di questa musica recarono,

alle origini, i jazzmen che suonavano sulle chiatte che solcavano il

Mississippi, che avevano qualche cabina per passeggeri e impiegavano tre

o quattro mesi per risalire il grande fiume - il Grande Padre, come lo

chiamavano i neri, con un timore reverenziale che derivava anche dalle

paurose alluvioni e inondazioni che provocava - da New Orleans a

Louisville.

I marinai, fra un'operazione e l'altra a bordo dei battelli, ballavano,

suonavano, litigavano con tutti e facevano l'amore ad ogni tappa del lungo

viaggio. Non si conoscono i nomi dei primi musicisti di New Orleans che

regalarono la loro musica ai passeggeri e ai marinai di quei battelli. Ma di

qualcuno si conoscono alcuni particolari: di Sugar Johnny ad esempio,

solido cornettista, alcolizzato e donnaiolo, costretto a smettere ancora

giovane per questi suoi vizi incorreggibili; ma nel suo organico aveva gente

che poi avrà un ruolo di rilievo alle radici di questa musica: il trombonista

Roy Palmer, il clarinettista Laurence Dewey, il chitarrista Louis Keppard, il

bassista Wellman Braud, che diventerà uno dei pilastri dell'orchestra di

Duke Ellington, il batterista Minor Hall che, una volta emigrato a Chicago,

andrà a far parte dell'orchestra di King Oliver.

La più vivace e solida delle orchestre che suonavano sui battelli fu

quella che faceva capo a Fate Marable. Eseguiva prevalentemente musica

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da ballo ed erano figure destinate poi a diventare famose, come Louis

Armstrong, Pop Foster, Johnny St. Cyr, Baby Dodds, Picou.

C'era anche Davey Jones, che suonava il mellofono, uno strano

incrocio fra il corno francese e la cornetta, strumento che produceva suoni

languidi e melodiosi che faceva un affascinante contrappunto con

l'aggressività, non priva di struggenti armonie, che sprigionava la cornetta

di Louis Armstrong, il futuro re indiscusso di questa musica. La vita dei

musicisti a bordo delle chiatte e dei battelli era quanto mai suggestiva, e per

molti di loro rappresentò un formidabile tirocinio per l'esplosione degli

anni futuri. Di Armstrong si racconta, a proposito dei suoi polmoni a

stantuffo e della resistenza della bocca a sacco che gli valse l'appellativo di

"Satchelmouth", che con il gruppo di Marable, lungo il corso del fiume,

cominciava a suonare ad Alton nell'Illinois, a quindici miglia da Saint

Louis, e ancora soffiava instancabile quando il battello attraccava.

L'ultimo viaggio, triste e doloroso, fu quello dell'emigrazione a

Chicago, dopo il proibizionismo e la chiusura delle case di tolleranza del

quartiere delle luci rosse di Storyville. Fu un esodo angoscioso, poiché tutti

erano ben consapevoli che mai più sarebbe stato possibile recuperare

quell'atmosfera irripetibile del Mardi Gras nella città del delta e che la

stessa forza di solidarietà che li univa nella capitale della Louisiana si

sarebbe sfrangiata sotto i colpi del business, del professionismo, della lotta

per la sopravvivenza. Furono questi stessi battelli a trasportare a Chicago

una fitta schiera di suonatori di New Orleans; proprio Louis Armstrong,

tanti anni dopo, canterà al pubblico di tutto il mondo una canzone che

disvelava appieno un tale stato d'animo. Il canto, doloroso e struggente, si

chiamava Do You Know What It Means To Miss New Orleans, e un

fragoroso applauso ccompagnava la voce "sporca" di Satchmo.

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2. A Chicago, a Chicago

Fu davvero un paradosso, forse il più macroscopico che l'avventura

del jazz abbia dovuto vivere e consumare, il fatto che questa musica, nata a

New Orleans, dovesse poi andare ad esplodere in un'altra città, quella

Chicago che in quegli anni fu il punto d'incontro di una emigrazione forzata

cui furono costretti i jazzmen neri di New Orleans quando chiusero

definitivamente i battenti i locali di Storyville, dove il jazz aveva trovato la

sua prima ragione di vita. Secondo statistiche molto precise, tra il 1910 e il

1920 trecentocinquantamila neri emigrarono per varie ragioni dal Sud verso

il Nord degli States, e le concause sociali che determinarono tale

drammatico e massiccio flusso vanno ricercate nelle maggiori possibilità di

lavoro che le regioni del Nord offrivano ad una comunità che ancora

andava cercando disperatamente una propria connotazione umana e civile.

Il famoso parassita del cotone, quel boll-weevil mille volte cantato

dai bluesmen del Sud, aveva ridotto alla fame migliaia di neri nei campi

sterminati della Louisiana, lungo il corso del Padre Fiume, e fu questa la

causa determinante dell'esodo, ma non la sola: c'era anche il desiderio, da

parte degli afroamericani, di cercare un nuovo lavoro, meno avvilente e più

sicuro. Accadde però che una volta trasferitisi a Chicago, come a New

York, a Detroit e in tante altre megalopoli d'America, i neri finirono per

trovarsi a vivere in condizioni ancora più tristi e miserevoli, come

scaricatori nei grandi magazzini o come operai alla giornata, senza alcuna

qualifica, nelle fabbriche, nelle acciaierie, nei grandi porti mercantili.

Bastarono insomma cinque anni perché la comunità nera del Beach Belt, il

quartiere chicagoano compreso fra la Dodicesima e la Tredicesima strada,

aumentasse del doppio, provocando fatali contraccolpi sociali in un

contesto sul quale già stavano addensandosi le nubi della Grande

Depressione. Ecco come una donna nera di cinquantadue anni, Lucy

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Jefferson, racconta i rapporti bianchi-neri al tempo dell'emigrazione:

"Com'ero giovane e ignorante, quando arrivai qui dal Mississippi! Ma ero

più libera, capisci? Potevo darmi da fare un po' più di adesso. I bianchi

allora non avevano tanta paura. Non eravamo così numerosi. Adesso siamo

in troppi e secondo me si sono spaventati per questo. Allonon ti notavano.

C'eri ma non si prendevano neppure il fastidio di vederti". Il più immediato

contraccolpo di tale situazione fu la nascita del ghetto, tipica invenzione

delle grandi città del Nord: uno spazio dell'angoscia e della disperazione

che proprio nelle dolorose e traumatiche notazioni sonore del blues e del

jazz rintraccerà la propria ansia di comunicazione, la feroce condanna

all'isolamento e alla solitudine. I due grandi universi concentrazionari della

segregazione razziale di Chicago, il South Side, e di New York, Harlem,

non casualmente saranno i due epicentri di sviluppo di questa musica, e non

soltanto per gli afroamericani, ma anche per i musicisti bianchi che proprio

a Chicago venivano ogni sera ad apprendere il dettato e la nozione di

questa musica per poi filtrarla, a loro volta, nella propria condizione di

emarginati dell'altra razza, ebrei, emigrati europei, creature dolenti ai

confini della cosiddetta società civile.

Anche i jazzmen neri emigrati da New Orleans si trovarono, come

la signora Lucy, a dover fronteggiare la totale indifferenza, e l'irritazione,

della borghesia bianca nella città del vento, in un ambiente carico di

fermenti e di rischi, ricettacolo delle più difformi confluenze sociali. Fin

dal 1830, quando veniva definita "il pantano delle praterie", Chicago era un

covo di attaccabrighe, di canaglie, di vagabondi di ogni specie che

frequentavano le centinaia di locali malfamati e di spacci alcolici sparsi per

tutta la città.

Ma la vera esplosione si verificherà negli anni Venti di questo

secolo, in coincidenza con l'esodo dei musicisti dalla Louisiana, quando la

capitale dell'Illinois pareva, per usare una colorita immagine del sociologo

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Allsop, un'isola caraibica del Settecento, con le tante gangs di

commercianti già ricchi, in perenne conflitto con il basso proletariato

criminale, che sfruttava in ogni modo il crollo e la corruzione delle forze di

polizia e le collusioni della magistratura.

Lungo questo drammatico crinale, nel gorgo di una lotta senza

quartiere in cui la posta in palio era il duplice monopolio dell'alcool e del

vizio industrializzato, Al Capone aveva iniziato a costruire il suo mito con

pazienza e cinismo, fino a raggiungere il dominio incontrastato della città.

La sua ascesa si colloca entro precise concause sociali, e va di pari passo

con la continua, tenace eliminazione di tutti gli avversari, a cominciare da

quel Dion O'Banion che si era troppo montato la testa, fino a Mike Merlo -

abbondano purtroppo i cognomi italiani - Carmine Vacco, Scalise e

Anselmi, coppia di killers di eccezionale freddezza, e soprattutto Hymie

Weiss che, dopo la fine di O'Banion, si trovò all'improvviso alla testa della

famigerata banda del North Side.

Di certo, la ragione per cui la musica che i neri produssero a

Chicago fu più dura, spigolosa e amara di quella suonata a New Orleans,

sui battelli o tra il profumo delle magnolie del Vieux Carré, va ricercata

appunto nel difficile clima che tale condizione creava: "Nessuno si stupiva

- ricorda Jain Lang - fra i suonatori dei locali notturni, se tornando sulla

pedana dopo l'intervallo, ritrovava il suo trombone pieno di buchi provocati

dai proiettili".

Il senso profondo di comunità culturale creatosi nel ghetto, fin

dall'avvio del suo drammatico costituirsi, agì sul jazz chicagoano suonato

dai musicisti emigrati da New Orleans in modo determinante, così da far

ritenere legittimamente il decennio fra il 1920 e il 1930 l'epoca d'oro di

questa musica. I jazzmen neri, inoltre, operarono in modo suggestivo come

matrice di ispirazione verso quel nutrito gruppo di musicisti bianchi che

vivevano nella città del vento, contribuendo in modo decisivo alla nascita e

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allo sviluppo di quella scuola jazzistica bianca, nata nel catino dell'Illinois,

che ereditò nome e stile dalla città di origine.

Del resto, già agli albori del secolo, Jelly Roll Morton aveva fatto

qualche isolata capatina a Chicago, suonando e dando lezioni di piano-jazz

al Pekin Theatre-Cabaret, e molti gruppi di New Orleans, fra il 1912 e il

1916, si erano esibiti al Lamb's Cafè nel cuore del Loop, il quartiere

industriale della città.

Ma il 1918 fu l'anno cruciale dell'evoluzione del jazz nero di

Chicago, non soltanto in conseguenza dell'arrivo di King Oliver, che dopo

poco si insedierà al Dreamland Cafè, epicentro musicale della città, ma

anche perché fu quello l'anno di maggior flusso migratorio nella Chicago

anni Venti, specialmente da New Orleans, dove la Marina degli Stati Uniti

aveva fatto chiudere nel 1917 le case di tolleranza di Storyville per

proteggere l'integrità fisica della flotta statunitense. Ecco la colorita

descrizione di una tipica strada nera di Chicago, la South State Street, da

parte del grande poeta afroamericano Langston Hughes: "Una formicolante

via negra piena di teatri, di ristoranti, di cabarets sempre affollati.

Ed eccitazione da sera a sera. Mezzanotte come mezzogiorno. I

ladri, i gangsters, i truffatori avevano tutto un loro ambiente perfettamente

organizzato". Un fermento di vita, anche crudele e traumatica, che tuttavia

agì sulla musica jazz sì da provocare un vasto fenomeno di sviluppo e di

ricambio culturale che andò a riconoscersi nei tanti locali, ristoranti, caffè,

clubs e speakeasies del South Side, dove le orchestre si esibivano

ininterrottamente, sforzandosi di ricostruire quel clima di Storyville, cosa

che il mutare dei tempi rendeva molto ardua e difficile. Inoltre, a Chicago

esisteva un folto gruppo di giovani jazzmen bianchi, fra i quali Eddie

Condon, Muggsy Spanier, Pee Wee Russell, Mezz Mezzrow, George

Wettling, Red McKenzie, Joe Sullivan, Dave Tough, Ray Bauduc, Bix

Beiderbecke, Art Hodes, Jimmy McPartland, Bud Freeman, Frank

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Teschmaker e altri, che presero a frequentare i locali del South Side con

l'avidità degli adepti; da tale fervore di interesse e di ricerca nacque una

musica che poi prese il nome di "stile Chicago" in cui gli influssi europei

risultano notevoli, ma ben filtrati attraverso talune precise soluzioni

poliritmiche ereditate dalla meravigliosa polifonia della musica di New

Orleans. D'altronde, il carattere un po' frenetico di questo stile - che però

ereditava anche la temperie delle vecchie "spasm bands" della città del

delta - rifletteva decisamente il sotteso senso di inquietudine che

serpeggiava in una città controllata interamente dal fantasma del

gangsterismo. La sequenza stessa degli assoli, privilegiati in assoluto sul

tipico collettivo di New Orleans, stava a dimostrare quale difficoltà di

assuefazione esistesse all'interno del gruppo dei bianchi, in bilico fra

soggezione fascinosa a quella musica irripetibile, e volontà di differenziarsi

da essa. Tutto questo accadde inconsapevolmente, malgrado lo slancio e

l'entusiasmo che i jazzmen bianchi avevano verso i neri emigrati, al punto

che alcuni di essi, Mezz Mezzrow ad esempio, vollero negli anni a venire

persino cambiare sulla carta d'identità la propria connotazione di bianco

con quella di afroamericano.

Ciò tuttavia non impedì allo stile Chicago di orientarsi verso

soluzioni più dotte e acculturate, di matrice occidentale, nei confronti della

musica eseguita dagli artisti neri provenienti dal Sud.

Sui quali, invece, l'universo della segregazione, il senso di rivolta e

di ribellione determinato dall'imposizione di un nuovo esodo, dopo secoli

dalla deportazione dall'Africa nera, operò come forza propulsiva di forte

impegno creativo, e senza dubbio i capolavori che la documentazione

discografica del jazz di quegli anni ci ha lasciato rappresentano la più

compiuta conferma di tale forte tensione emotiva. Al di là del fermento che

coinvolgeva tante orchestre e infiniti "small groups" che andavano

formandosi sulle rive del Michigan Lake, il jazz nero di quel decennio

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faceva capo alle due figure dominanti di King Oliver e di Louis Armstrong,

quest'ultimo mandato a chiamare proprio da Oliver come seconda cornetta

nella sua orchestra: e se da una parte nel gruppo di Oliver,

indipendentemente dalla forza progressiva degli assoli e dalla personalità

dei musicisti, il motivo dominante era costituito dallo sviluppo armonico

dei "collettivi", in cui ogni vuoto veniva colmato in modo da non

infrangere il rigoroso impasto sonoro, un più sotteso sentore di

individualità si manifestò all'interno del gruppo degli Hot Five e Hot

Seven, che Armstrong formò con alcuni musicisti di Oliver fra il 1925 e il

1928.

A dimostrazione e verifica della diversa personalità di questa

coppia di dominatori dello scenario jazzistico di quegli anni, due reazioni

del tutto diverse di fronte all'universo concentrazionario della segregazione

razziale. In King Oliver, infatti, è sempre stata presente una sorta di

frustrazione e di alienazione, che Satchmo invece riuscì a vincere

rapidamente e che forse non ebbe mai, se si ascoltano con attenzione le

formidabili sortite in assolo nei brani suonati con la Creole Jazz Band del

suo maestro. D'altronde, è ben noto il timore di Oliver nei confronti del suo

allievo, e la percezione di un senso di inferiorità che lo spinse più volte a

scoprirsi e a commettere qualche ingenuità nei confronti di Louis, piccoli

dispetti di cui ridevano abbondantemente gli altri dell'orchestra. Oliver fu il

tipico nero protagonista del romanzo di Richard Wright, Black Roy,

succube oltre misura dell'emarginazione razziale, fragile psicologicamente

e incapace di difendersi nella giungla della società bianca e dei discografici

di quel tempo: e da tale senso di frustrazione dolente sgorga una musica

carica di sensi di colpa inequivocabili. In Mabel's Dream, come in

Riverside Blues, in Canal Street Blues, in Workin' Man Blues e persino in

brani sottesi di una parvenza ancora più drammatica di felicità intuitiva

come in Dippermouth Blues, si avverte tale soggezione che Satchmo cerca

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invano di esorcizzare, ad esempio nel famoso assolo di Chimes Blues, il

primo eseguito da Louis. Una figura da collocare sull'opposto versante

psicologico di Oliver, tenace nel reagire nel modo più disalienante alla

logica del ghetto, e nel reperire in una esplosiva personalità artistica le

sorgenti di uno scatto morale in grado di affrancarlo dallo stato di

soggezione in cui invece King Oliver si sentiva tragicamente calato. La vita

così diversa dei due, negli anni successivi, è la migliore verifica di quanto

si dice: l'uno morirà povero, di stenti, e verrà trovato cadavere su una

panchina dei giardini pubblici di una megalopoli che lo rifiutò, l'altro

diventerà ambasciatore di una musica che per suo preciso merito al di sopra

degli altri, si affermerà nel mondo.

Il distacco dal maestro era inevitabile e venne legalizzato il 12

novembre del 1925, quando la casa discografica Okeh registrò per la prima

volta, negli studi di Chicago, i primi brani sotto il titolo di Armstrong's Hot

Five, autentiche pietre miliari nella storia del jazz. Era un piccolo

complesso di cui facevano parte alcuni musicisti di Oliver, Johnny Dodds e

Lil Hardin, prima moglie di Louis, ai quali si aggiunsero il trombonista Kid

Ory e il banjoista Johnhy St. Cyr; e fu davvero un cantiere sonoro di

capolavori, esecuzioni perfette in cui lo straordinario solismo di Armstrong

domina su tutti, sul filo di una improvvisazione istantanea - forza motrice

della componente più suggestiva di questa musica - che riesce a trasformare

in raffinato fraseggio il più volgare dei motivi, come accade, per esempio,

con una canzoncina in voga in quegli anni, Big Butter and Egg Man.

Nacquero perle di spiccata luminosità in quelle sessions, My Heart, Gut

Bucket Blues, Come Back Sweet Papa, Heebie Jeebies, Muskrat Ramble,

Lonesome Blues, Cornet Shop Suey; e poi, con l'organico degli Hot Seven,

con l'aggiunta del batterista Baby Dodds e di altri musicisti fra i più in vista

del tempo, ecco nascere dal talento di Louis altri brani esemplari, Willie the

Weeper, Wild Man Blues, Potato Head Blues, Melancholy Blues, Ory's

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Creole Trombone, Savoy Blues, fino a quel West End Blues in cui Satchmo

raggiunge vertici di assoluta liricità, rigenerando totalmente un brano che

pure il suo inventore, King Oliver, aveva eseguito in modo impeccabile. è il

preludio, per Armstrong, ad un'attività febbrile che dura negli anni, fino

alla morte, con un'assiduità e un calore umano che percorrono

trasversalmente non soltanto la storia del jazz, ma l'intera vicenda dei neri

d'America, che in lui non videro uno zio Tom passivo e inerte, come spesso

l'estremismo radicale della negritudine volle definirlo, bensì un simbolo, un

esempio del riscatto di una intera comunità segregata, che poteva esibire il

prorio talento in una musica che ormai andava percorrendo le strade del

mondo.

Sorretti anche psicologicamente dall'esperienza acquisita nel

sodalizio con gli emigrati da New Orleans, i musicisti bianchi di Chicago

suonavano negli anni Venti con una foga inesauribile, nelle posizioni più

strane, in piedi sulle casse di sapone o chiusi in qualche stamberga: il

problema era quello di ricreare la musica appassionante della città del delta,

fondendola con talune confluenze provenienti dall'ambiente della borghesia

chicagoana, in modo da raggiungere una perfezione stilistica la cui

documentazione discografica è ancora oggi ben viva e vitale.

L'improvvisazione collettiva, punto di forza dello stile New Orleans,

andava così evolvendosi verso schemi più liberi e autonomi, centrata su

sequenze solistiche improvvisate che seguivano le introduzioni affidate alla

polifonia del vecchio formalismo della Louisiana.

Stava nascendo insomma l'hot solo, che rifletterà la vera e autentica

fase innovativa di questa musica, con forti proiezioni, sorprendenti se si

pensa che alcuni dei chicagoani bianchi, a cominciare da Pee Wee Russell,

diventeranno strutture portanti del ciclo evolutivo di questa musica,

soprattutto nella stagione di passaggio del middle jazz. Ma ancora un altro

aspetto di fondo si deve segnalare: per la prima volta bianchi e neri si

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trovarono a suonare negli stessi gruppi; le formazioni miste negli studi di

registrazione di quegli anni furono tante, con gli afroamericani Sidney

Bechet, Jimmy Archey, Baby Dodds, Henry Red Allen accanto a Muggsy

Spanier, a Mezz Mezzrow, ad Eddie Condon, grande artefice e protagonista

di questa storica unione.

Anche una dolente comunità di destini congiunse bianchi e neri nel

grande catino della città del vento, la Windy City di continuo battuta dalle

folate provenienti dal lago Michigan: i New Orleans Rhythm Kings,

originari della città del delta, divennero ricchi a Chicago sotto la protezione

di Al Capone e dei suoi, al Friar's Inn e in tanti altri clubs della metropoli,

ma sperperarono ogni ricchezza, come accadde alla vita dolorosa di Leon

Roppolo, che aveva assimilato esistenza e dolore dei neri, come dimostra in

un blues struggente inventato da lui, She's Cryin'for Me; ma la biografia

più emblematica di una vita e una musica alternative al potere fu quella di

Bix Beiderbecke. Il luogo di nascita, Davenport, incise di certo sulla sua

formazione: la vicinanza con il Mississippi, ma soprattutto il trasferimento

a Chicago, fu determinante per lui, perché lo mise a stretto contatto con i

grandi di questa musica, Louis e King su tutti, anche se la leggenda parla di

un certo Emmet Hardy come primo, valido maestro. Chicago tuttavia fu

decisiva per lui, e di quell'avventura tragica e breve ecco la testimonianza

di colui che più di ogni altro gli fu vicino, Mezz Mezzrow: Bix era una

specie dì giovane campagnolo, un po' più alto della media, che cominciava

a crescere. I suoi occhi di rana affioravano da una faccia rosea; i capelli

castani erano sempre spettinati e incolti. Aveva un'aria cinica e stanca. Già

prima dei vent'anni aveva sviluppato quei gusti e quegli interessi particolari

che mantenne poi per tutta la sua breve vita: e il suo atteggiamento

mostrava chiaramente che quanto interessava la maggioranza della gente lo

lasciava del tutto indifferente. Soltanto la musica lo commuoveva. Bix

suonava una cornetta che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso

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affare inargentato che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel

momento dalla spazzatura.

Mentre suonava, si era piantato davanti a me, perché noi eravamo i

due strumenti di spalla, e le esalazioni di whisky che mi soffiò nel naso per

poco non mi fecero svenire; e anche la musica che usciva dal suo strumento

sembrava sotto spirito. Alcune delle sue modulazioni erano come quelle di

Joe Oliver, the King, o di Freddie Keppard. Tutto considerato, il suo stile

era più che altro uno stile riverboat, sia pure raffinato e più colto. Ma

questo non può stupire chi ricorda che Bix era cresciuto a Davenport ed era

sempre vissuto in riva ai fiumi.

Bix morì a ventotto anni, dopo essersi trascinato pietosamente negli

ultimi mesi di vita fra slanci di generosità e violente crisi provocate

dall'alcool, tragica conseguenza di una congenita fragilità e soprattutto di

un terribile senso di autodistruzione, che neppure l'amicizia di Mezz e di

Frankie Trimbauer riuscì a vincere. Resta la musica, documentata da

registrazioni discografiche talvolta discontinue e ibride poiché, dopo aver

fatto parte dei Wolverines con i quali poté esibire appieno il suo talento,

per vivere fu costretto ad entrare nell'orchestra commerciale di Paul

Whiteman, un ricco industriale con manie ritmo-sinfoniche che costrinse

per anni la musica di Bix a comprimersi nella vanità di leziosi

arrangiamentì.

Ma Chicago era anche la città del blues, e lo è ancora oggi, dal

momento che il quartiere del Market continua ad essere l'epicentro di

questa musica. L'emigrazione dal Sud aveva condotto nella città del vento i

tanti jazzmen già ricordati, ma anche tanti altri bluesmen con il diavolo a

tracolla. Questi vagabondi, i famosi Hobos della leggenda di questa musica,

viaggiavano nascosti sugli assali dei treni per non pagare il biglietto, e una

volta giunti in città cercavano lavoro e fortuna nel South Side talvolta da

soli, talaltra con la compagnia di uomini-guida: spesso chitarristi, che li

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dirigevano e pilotavano, poiché molti di loro erano ciechi per nascita o per

la vita stentata che avevano condotto in Louisiana.

Dal blues al boogie-woogie il passo è molto breve poiché

quest'ultimo, evocando nell'accompagnamento l'ossessivo rumore dei treni

sulla strada ferrata che correva a due passi dal South Side, aveva trasferito

nel solo pianistico l'intera tragica avventura del nero del Sud per la seconda

volta sradicato.

Il boogie-woogie ebbe il suo grande momento di splendore nella

Chicago del 1925. Il fondatore può riconoscersi in Jimmy Yancey,

stabilitosi a Chicago dopo una carriera di ballerino e di cantante molto

noto, al punto da venir ascoltato addirittura da re Giorgio d'Inghilterra, a

Londra. Molto ricercato nei rent-parties, ebbe non pochi seguaci, primo fra

tutti Pinetop Smith, che imparò da Yancey lo stile tremolante, con il quale

il vibrato degli strumenti a fiato si trasferisce sul pianoforte attraverso un

sapiente gioco di mani, come accade nel brano più famoso del suo ricco

repertorio, Pinetop's Boogie Woogie. C'erano brio e fascino nella musica

dei maestri di questo stile e degli allievi Speckled Red, Montana Taylor,

Romeo Nelson, Cow Cow Davenport; Jimmy Blythe, Clarence Lofton, ma

soprattutto nel fraseggio ubriacante della triade formata da Meade Lux

Lewis, Albert Ammons e Pete Jonhson.

Ammons e Lewis erano autisti della Silver Taxicab Company nel

1924, pianisti dilettanti di blues, esecutori entusiasti di boogie-woogie;

suonavano nelle feste di famiglia della comunità nera del ghetto

chicagoano: poi si fecero strada, ebbero successo, e più volte tornarono

vincenti a New Orleans. Ci si avviava verso il trionfo di questa musica e di

tutto il complesso della creatività jazzistica in tutto il mondo.

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3. L'impareggiabile Duke

Il significato che la presenza di Edward "Duke" Ellington ha

assunto nel corso della storia del jazz e, per una più precisa collocazione,

nello spazio della musica in generale, va esteso verso approdi e motivazioni

che in parte vanno oltre i confini del linguaggio jazzistico in senso stretto,

per assumere un ruolo universale di proporzioni molto vaste, che accoglie

tensioni culturali che coinvolgono il rapporto stesso fra le due razze negli

Stati Uniti, oltre che la forte incidenza della creatività nera nell'avventura

dell'invenzione e dell'immaginario. Questa notevole capacità di proiezione

è andata sviluppandosi nelle più varie direzioni durante più di un

cinquantennio di attività, e ha così costituito un ampio tessuto culturale che

dalla musica si è poi dilatato nella letteratura, ponendo in modo ancora più

marcato il problema di fondo della fruizione, da parte dell'intellettuale

afroamericano, di tutti quei segnali che la coscienza del creativo

occidentale poteva offrire come materia di studio e di ricerca. Duke

Ellington pertanto, come James Baldwin, Ralph Ellison, Langston Hughes,

Leroi Jones e tanti altri scrittori neri, è andato a cercare non i suoi modelli,

bensì i suoi archetipi, nella forza inventiva della musica colta di matrice

europea, dalla quale ricavare ed elaborare tutti quei frammenti

dell'immaginazione, da utilizzare per offrire alla musica jazz un punto di

riferimento capace di riscattare la primordialità creativa dell'Africa nera

lungo i crinali di più complesse e profonde possibilità di sviluppo. Per

questa ragione, se in punto preciso di riferimento è lecito rintracciare nella

sua musica nei confronti dei tributi occidentali ed europei, esso va

riconosciuto nell'incontro che Ellington seppe realizzare, ad una svolta

importante della sua biografia interiore, con l'universo sonoro proveniente

dall'impressionismo europeo, soprattutto francese.

Tale linguaggio gli dava la possibilità di tradurre, in corpose

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immagini, la radice stessa di quella drammatica vicenda della sua gente,

proprio come in Baldwin o Ellison sono ben visibili tensioni dell'io

profondo dedotte dai maestri della narrativa dell'inconscio, da Kafka a

Proust, a Joyce, ai più moderni esempi della creatività decadente.

Questa scelta culturale, pur conseguita da Ellington più

concretamente in un preciso momento della sua lunga carriera - quando si

fa strada in lui la volontà di lasciare una più vasta e significativa eredità

culturale alla sua gente - comincia a manifestarsi fin dalle prime stagioni

della sua attività di musicista, già negli anni in cui va realizzando il

progetto di recupero e di individuazione di più vasti orizzonti culturali

all'interno di una tradizione, quella africana, che già di per sé poteva

offrirgli una consistente base culturale. Tutte queste confluenze si spiegano

nel momento psicologico in cui l'artista nero, emigrando dal Sud verso il

Nord, tende ad inserirsi con più decisa consapevolezza nel processo

evolutivo dal quale la condizione di schiavo nel Sud e l'occupazione

prevalentemente agricola che vi svolgeva lo avevano finora escluso. Si vuol

dire che, fin dall'esordio, Duke Ellington, con la raffinata maestria dei suoi

arrangiamenti, ha significato l'alternativa alla musica espressa da King

Oliver, proprio su quel terreno evocativo del richiamo all'Africa nera che

rappresentava un comune spazio del creativo. Se da una parte la Creole

Jazz Band di Oliver volle esemplificare musicalmente tutto quel fondo di

disperazione senza luce del country blues delle regioni del Sud, l'orchestra

di Duke Ellington operò fin dagli inizi lungo un versante molto più ampio,

in grado cioè di impegnare tutto quanto di suggestivo potesse trovarsi

nell'esperienza africana.

Un rapido sguardo alle origini della famiglia di Ellington può

servire ancor meglio a chiarire quanto profondamente l'estrazione sociale

abbia inciso sul tipo di musica che Duke ha prodotto nel corso degli anni:

originaria di Washington, la sua famiglia godette sempre di un notevole

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benessere rispetto alla normale condizione dei neri nella capitale degli Usa

alla fine del secolo scorso.

Il capo-famiglia prestava servizio come maggiordomo alla Casa

Bianca, e tale qualifica socialmente voleva dire qualcosa in un tempo in cui

la condizione di privilegio per un nero era un'utopia di ardua realizzazione.

Una famiglia, quindi, della borghesia afroamericana, cui non mancava

nulla, e già inserita in un contesto di vita propenso ad annullare le proprie

origini africane o comunque ad attenuarle in un modello "cittadino". I neri

che frequentavano le scuole superiori e l'università agli inizi del nostro

secolo non erano numerosi, ma fra questi ci fu certamente il futuro "Duca";

lo troviamo per tre anni in una delle migliori scuole esclusive per neri di

Washington, e bisogna anche ricordare che mentre i nomignoli di King per

Oliver, di Count per Basie, provennero da incidenze musicali, ad Edward

Kennedy Ellington il titolo nobiliare fu imposto ancora prima che

diventasse uno dei grandi del jazz, proprio per definire i modi evoluti e

nobili che già da allora distinguevano la sua personalità. In questo

ambiente, Duke Ellington andò maturando le sue prime esperienze

musicali: egli stesso ricorda che la prima impressione sonora fu quella della

madre che sgranava il rosario quando lui aveva appena quattro anni.

Episodio di rilievo, se a parecchi anni di distanza gli ispirerà uno dei brani

più suggestivi del primo repertorio ellingtoniano, quel Saturday Night

Function registrato nel 1929 da un gruppo che già comprendeva alcuni fra i

maggiori solisti dell'orchestra, Barney Bigard al clarinetto, e il trombonista

Tricky Sam Nanton.

Gli incontri e i raccordi affascinanti fra musica colta da una parte e

tradizioni africane dall'altra, erano già iniziati alcuni anni prima, quando

Duke si era trasferito a New York nel 1922. Cinque giovani musicisti di

Washington, Ellington, Hardwick, Whestol, Greer e il banjoista Elmer

Snowden finirono in quel vasto universo sonoro che era l'irripetibile

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Harlem degli anni Venti: un'isola magica nel cuore di una città già divenuta

metropoli, con i suoi neri in cerca di sollievo all'intensità di una

disperazione situabile nella loro stessa preistoria. Intanto, da Chicago gli

emigranti della Louisiana si erano in parte trasferiti a New York, e fu

prorio King Oliver a cedere il posto al gruppo ellingtoniano nel 1927 in

quel Cotton Club che, oltre ad essere il più famoso locale di Harlem, ha

rappresentato una sorta di tempio della musica di Duke: alla stagione

meravigliosa del Cotton Club risalgono del resto alcuni fra i brani più

famosi dell'orchestra di Ellington.

Lanciato alla conquista della metropoli, ne divenne facilmente il

dominatore, soprattutto quando gli avventori del club compresero che non

si trattava della consueta orchestra da ballo, ma di un complesso che voleva

far rivivere, attraverso la musica, le stagioni di un tragico calvario.

L'organico era formato da musicisti straordinari: c'erano il trombettista

Bubber Miley, un vagabondo proveniente dal South Carolina che conferiva

uno stile marcatamente selvaggio ad ogni esecuzione, e il trombonista

Tricky Sam Nanton, maestro della sordina wa wa, un artificio tecnico che

permetteva di ricavare dallo strumento i toni e i lamenti di una voce umana.

Queste due pedine vincenti fornirono ad Ellington quel sostrato africano sul

quale poter poi inserire le più colte esperienze europee, come si verificherà

in seguito. Atmosfere tristi, remote evocazioni di un passato doloroso,

scatti dell'immaginario individuale e collettivo, sono facilmente

individuabili in brani come East St. Louis Toodle Oo o la Black and Tan

Fantasy.

Bubber Miley abbandonò l'orchestra nel febbraio del 1929; tre anni

dopo moriva, a soli ventinove anni, lasciando un vuoto difficilmente

colmabile nella storia del jazz, poiché il clima emozionale che Miley

riusciva a creare era davvero irripetibile. Ellington si vide costretto a

mutare di molto le sue scelte stilistiche: ma il talento di Duke seppe

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trasformare un musicista come Cootie Williams, sostituto di Miley, in un

erfetto continuatore di quello stile jungle che nei locali del Cotton Club era

ormai una moda.

Con il perfezionarsi dell'affiatamento in un gruppo che nel tempo

ha annoverato maestri indiscutibili del solismo jazz, dal trombonista

Lawrence Brown al già citato Tricky Sam Nanton, al trombettista Cat

Anderson, ai sassofonisti Johnny Hodges, Paul Gonsalves e Harry Carney,

caposcuola del sax baritono, a Russel Procope, fino alla formazione di una

sezione ritmica capace di creare sottofondi di rara perfezione formale con

Jimmy Blanton, bassista, scomparso giovanissimo, Wellman Braud, il

batterista veterano dell'orchestra Sonny Greer e Sam Woodyard, la musica

di Ellington è andata via via facendosi sempre più complessa, specialmente

in virtù delle continue influenze che un particolare sinfonismo europeo è

andato esercitando sul musicista. Talune evocazioni classiche già erano

rintracciabili nella Black and Tan Fantasy e in altre esecuzioni di anni

lontani, come The Mooche o Mood Indigo, a dimostrazione e verifica

dell'ambizione di creare attorno al dramma del popolo sradicato dall'Africa

nera una sorta di saga sonora di vaste proporzioni, spesso sviluppata

classicamente in trittico o in altri schemi occidentali in cui convergono, con

significati qualche volta esasperatamente intellettualistici, i più svariati

percorsi del doloroso tracciato di una comunità umana.

In questo senso si debbono intendere i primi tentativi sinfonici che

Ellington cominciò a realizzare fin dal 1931 con la Creole Rhapsody, un

lavoro di eccezionale durata per quei tempi, sei minuti, cui poi seguiranno

altri brani del genere, vere e proprie suites musicali nelle quali Ellington

intendeva trasfondere le proprie ambizioni culturali. Si arricchiscono nella

sua musica - specialmente in quegli anni Quaranta-Cinquanta che furono

l'epoca d'oro per l'orchestra - i timbri e le incidenze impressionistiche in

brani come Blue Serge, un pastello elaborato con straordinaria capacità di

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cesello, di raffinata tessitura, in cui il trombone growl di Tricky Sam si

insinua in ardui meandri, fino ad ottenere una temperie sonora di decadente

suggestione formale.

Una possibile identificazione delle ragioni della scelta ellingtoniana

va ricondotta al modello di Debussy e di Ravel in modo particolare. Il

senso di libertà espressiva che la musica dell'autore di La Mer riesce a

sprigionare da un contesto sonoro al cui interno le colorature e i riflessi

cangianti operano in modo determinante è davvero di ampia portata

culturale, e si colloca nel novero raffinato del parallelo fenomeno pittorico

e letterario: del resto, Duke è stato un discreto pittore negli anni della

giovinezza e, da dilettante, ha sempre continuato ad alimentare questa

iniziale passione. Questo vasto universo di dissonanze e di abbandoni,

dominati da una forte componente di sensualità espressiva, finì per attrarre

un intellettuale nero come Ellington. Ma al di là di tali pur importanti

implicazioni, il linguaggio jazzistico del "Duca" è sempre rimasto vivo e

presente come tessuto connettivo anche in quei brani in cui con maggior

insistenza si fanno sentire gli influssi della musica colta. Basterà ricordare i

quattro movimenti della suite Reminishing in Tempo e i due di Crescendo

and Diminuendo in Blue, ma il più consapevole approdo di tutti questi

tentativi rimane la Black Brown and Beige, un vasto poema musicale

scritto per la gente nera, eseguito per la prima volta al Carnegie Hall di

New York il 23 gennaio del 1943, della durata di 50 minuti. Il poema si

apre con Work Song, un movimento di continuo riportato al suo tempo

primordio da un incalzante rullare di tamburi, che fa da concitato sfondo

agli assoli di Harry Carney al sax baritono e di Tricky Sam al trombone;

subito dopo, Come Sunday riflette un di pausa nel fervore espressivo,

introdotto dal violino di Ray Nance e dal lungo assolo, quasi sussurrato, del

sax alto di Johnny Hodges. Seguono i due tempi della Brown, due danze

con un chiaro riflesso sociale, la West Indian e la Emancipation

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Celebration, mentre il terzo movimento consta di tre parti, The Blues,

Sugar Hill Penthouse e Carnegie Blues, delle quali il segmento più

significativo è il primo; The Blues è la raffigurazione sonora di uno stato

d'animo, che la cantante Betty Roche esegue ai confini della drammaticità

espressiva, ritmando le parole su accordi stoptime che servono a recuperare

un drammatico impasto coloristico, rotto e spezzato di continuo dal ruvido

innesto del sax.

Il carattere decisamente "nero" che Duke Ellington cerca di

salvaguardare nelle sue più ardite composizioni, dimostra come lo sforzo

del musicista si orienti in realtà verso un rapporto fra musica nera e musica

europea in cui vengano difese ad oltranza le suggestive origini del jazz. Su

tale tentativo di inserimento dell'afroamericano in un più ampio contesto,

agisce sicuramente la diversa situazione del nero ad Harlem rispetto a

quanto era accaduto nel South Side di Chicago: mentre il ghetto dell'Illinois

rifletteva l'universo della segregazione nelle sue più chiuse formulazioni, al

nero di Harlem si prospettavano più sottese occasioni di ricambio culturale,

a causa della grande affluenza di bianchi nel ghetto nero all'indomani della

chiusura delle case di tolleranza al centro della città.

La Lenox Avenue diventò un crogiuolo difforme e scompaginato

nel quale tutta la fragilità psicologica dell'ex schiavo venne messa a dura

prova: "I negri si accorsero di essere al centro dell'attenzione dei bianchi, e

allora cominciarono a strafare per divertirli", racconta Jain Lang, "i

ballerini si abbandonarono a danze acrobatiche, a salti, a scenette assurde

che sicuramente non avrebbero mai fatto senza la presenza dei bianchi. I

ballerini più famosi divennero ben presto maestri di ballo e impartirono

lezioni ai visitatori bianchi". Ben altra lezione era in grado di offrire Duke,

al Cotton Club, agli avventori di pelle bianca provenienti dalla contigua

Broadway.

La fama di Ellington comincia a diffondersi anche nel vecchio

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continente: già nel 1933 Duke si era imbarcato sull'"Olympic" ed era

sbarcato in Inghilterra, a Southampton, da dove si era trasferito a Londra, al

Palladium, per il concerto di esordio. Alcune musiche, come il celebre

Sophisticated Lady, vennero considerate troppo sdolcinate dal pubblico

occidentale, e britannico in particolare; anche quando gli organizzatori

vollero dedicare un concerto per soli esperti al Cinema Trocadero, le risate

ironiche che accompagnarono il rauco growl di Tricky Sam o di Cootie

Williams dimostrarono quale difficoltà di ricezione la musica ellingtoniana

andava registrando al primo impatto europeo. Poi le cose cambiarono e le

tournées dell'orchestra in tutto il mondo non si contarono più, creando così

un rapporto di sintonia tra pubblico e orchestra tale da permettere di

affermare che questo gruppo, assieme a quello di Armstrong, fu certamente

il maggior divulgatore del jazz in Europa. Se Satchmo, infatti, recava la

suggestione di una figura autentica e potenziata da grande umanità, le

armonie ellingtoniane recavano i segnali di vaste possibilità cromatiche di

cangiante sensualità espressiva. Proprio per questa ragione, ad un certo

momento del suo cammino nel creativo, Duke immise nel tessuto melodico

la pastosità espressiva del trombone di Lawrence Brown, sì da ricostruire al

massimo grado quella temperie bluesy che si ritrova in tante memorabili

composizioni, a ommciare da quel piccolo capolavoro che è Bundle of

Blues. Al vivo del processo alternativo, riflesso speculare delle due anime

conviventi nel musicista, quella razionale e occidentale e quella romantica

e suadente dell'africanità divenuta dolorosa negritudine, Ellington fa

confluire nell'orchestra musicisti in grado di contemperare un così

fascinoso intrico di suoni. Di qui l'immissione nel 1935 della tromba di Rex

Stewart, già compagno di sezione di Cootie Williams nell'orchestra di

Fletcher Henderson e adesso elemento di raccordo molto importante per

capricciosità di suoni e acrobazie armoniche; il successivo innesto di Ben

Webster al sax, d'altro canto, equilibra ancor più l'organico e conferisce alla

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musica ellingtoniana degli anni Quaranta un processo di accelerazione

espressiva di straordinaria qualità, come dimostrano brani quali Jack the

Bear, Ko-Ko, Cottontail, Never No Lament, Bojangles (gustoso ritratto del

famoso ballerino nero di tip-tap), Harlem Airshaft, Sepia Panorama, Across

the Track Blues. è tutto un viaggio in progress verso la grande invenzione

di Take the A Train, in cui la titolazione, ricavata dalla linea della Sub way

che da Harlem conduce a Broadway, nel cuore di Manhattan, diventa la

base di lancio per una sequenza straordinaria di assoli, dominati dal

superbo arrangiamento di Billy Strayhorn, protagonista nell'orchestra di

innesti timbrici in grado di proiettare il gruppo verso sempre più spericolate

avventure sonore.

Nel corso degli anni, il gruppo intanto subiva forzate defezioni:

Bigard aveva lasciato l'orchestra e il sostituto, Jimmy Hamilton, imponeva

una diversa impostazione orchestrale, mentre la morte di Jimmy Blanton,

bassista davvero insostituibile per la solidità del suo slappin', poneva il

problema del recupero di un impatto sonoro irripetibile, solo in parte

conseguito con l'arrivo di Alvin Raglin. La sezione delle trombe fu

arricchita con la presenza di Harold Baker e con quella di Taft Jordan, oltre

che di Cat Anderson, che con l'abilità sul registro acuto consentiva

all'orchestra di ampliare gli spazi del reticolo sonoro, come si può

verificare nel demoniaco brano Trumpet No End, esecuzione rilevata sulle

righe armoniche di Blue Skies, in cui le acrobazie nel superacuto di

Anderson si alternano a momenti di più angosciosa meditazione.

Fra gli anni Quaranta e Cinquanta l'attività di Ellington è senza

soste: da una parte la ripresa di vecchi temi legati alle prime avventure

musicali, dall'altra l'invenzione di nuovi brani che possano soddisfare anche

un pubblico meno raffinato, e infine il prosieguo del discorso sinfonico con

la suite A Tone Parallei To Harlem, brano lungo 17 minuti, in cui Duke

esibisce una sintesi di tutte le avventure sul territorio arduo della musica

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colta, non disgiunta dallo sforzo di consegnare al popolo nero una saga di

grande spessore culturale. L'orchestra appare in declino nella seconda metà

degli anni Cinquanta, ma avrà un'impennata al Festival di Newport del

1956, quando Paul Gonsalves provocò quasi una guerra fra i fans con una

interminabile serie di assoli improvvisati sul tema di Crescendo and

Diminuendo in Blue. Il vertice delle ambizioni ellingtoniane, e al contempo

la conferma dell'interesse verso le discipline del creativo, arti figurative e

letteratura, che sentiva più vicine alla sua musica, fu la suite shakespeariana

Such Sweet Thunder, divisa in dodici movimenti, un po' discontinua nelle

varie parti, ma sicuramente ravvivata da splendide prestazioni, come quella

di Johnny Hodges nel movimento di Romeo e Giulietta o il Sonnet for

Caesar, che ebbe come protagonista il clarinetto di Jimmy Hamilton, o il

divertente Up and Down, con la tromba di Clark Terry a costruire un

ironico contrappunto con il violino di Ray Nance.

Verso la fine degli anni Sessanta, Duke Ellington poté realizzare un

altro dei grandi progetti che da tempo aveva in mente, un concerto di

musica sacra in una chiesa. Il 6 di settembre del 1965 lo troviamo infatti

nella Cattedrale della Grazia di San Francisco, a presentare una ennesima

sintesi di tante avventure affascinanti: in quell'occasione vennero presentati

vari frammenti della Black Brown and Beige, di My People, con al centro

del concerto uno splendido brano mai eseguito fino allora, In the Beginning

God, cui dettero il proprio contributo liturgico le voci di Esther Marrow e

di Jon Hendricks. Il concerto venne replicato in oltre cinquanta chiese

americane, e ancora in Inghilterra, nelle Cattedrali di Coventry e di

Cambridge. Anche il Festival delle Arti Negre di Dakar, nel Senegal, lo

vide protagonista nel 1966 con l'esecuzione di una delle più liriche suites

ellingtoniane, La plus belle Africaine, mentre entrava nel gruppo di Duke il

figlio Mercer, già trombettista dell'orchestra, e adesso anche curatore degli

affari generali del "Duca", divenuto ormai una specie di capo del governo

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all'interno del complicato congegno orchestrale. Scompariva nel frattempo

Billy Strayhorn, il 31 maggio del 1967, ed Ellington perdeva un

collaboratore insostituibile: l'orchestra non sarà più quella di un tempo,

anche per le non buone condizioni di salute di Duke. Una impennata di

orgoglio sarà la Latin American Suite, eseguita all'università di Yale nel

1968, ma il progressivo cedimento non ha soste, tanto più che scompaiono i

protagonisti assoluti di quell'incomparabile congegno.

Nel 1970 muore Johnny Hodges e la "corazzata" Ellington, come

pittorescamente veniva definita, stenta a tenere il mare. Un estremo

bagliore di luce molto viva fu la New Orleans Suite, presentata al Festival

del Jazz della città del delta nel 1970, e a questa splendida fiammata di

orgoglio creativo potrebbe aggiungersi la musica scritta per il concerto

sacro presentato nell'Abbazia di Westminster nell'ottobre del 1973, in

apertura dell'ennesimo viaggio in Europa.

Le esibizioni tuttavia erano ormai un po' patetiche, l'orchestra

sembrava aver perduto il suo smalto e dava l'impressione di esibirsi

soltanto per onore di firma. Il suo settantacinquesimo compleanno Duke lo

trascorse nel lettino del Columbia Presbyterian Medical Center di New

York, in condizioni di salute molto precarie.

Resisterà ancora per qualche tempo, e morirà il 24 maggio del

1974. Il figlio Mercer, dopo le esequie solenni nella chiesa di St. John the

Divine, con più di diecimila persone presenti, tenterà di rimettere in piedi

un monumento irrecuperabile, ma inutilmente, anche se ancora oggi gira

per il mondo una Mercer Ellington Orchestra.

Non era possibile ripetere un modello che non ha avuto confronti

nella storia del jazz, e che figura certamente fra le più compiute vicende

musicali. Resta oggi il problema di storicizzare al più presto un'opera e un

artista che hanno agito all'interno di una cultura emarginata e sommersa,

duramente ostacolata perché non potessero emergere genialità e talento.

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Duke era solito ripetere spesso che non si preoccupava molto della

posterità: "Noi", diceva, "siamo egoisti. A noi basta che la nostra musica

sembri buona oggi. Non lavoriamo per la posterità". C'è l'intera condizione

della negritudine in tale affermazione, che pure proviene da un artista che

come nessun altro ha rappresentato il riscatto, sul filo del talento, della

comunità afroamericana. Una riflessione che si può condividere soltanto

sul piano della irripetibilità di un simile modello, del tutto inimitabile: ma

per quello che concerne l'eternità della sua musica, la storia non potrà che

produrre una condizione di continuità.

4. New York New York

Intorno agli anni Trenta, New York era diventata l'epicentro del

jazz, dopo che Chicago, nel precedente decennio, aveva accolto tutti quei

musicisti che il proibizionismo aveva allontanato per sempre da New

Orleans. La nuova musica, che doveva diventare la più alta espressione del

creativo d'America, tardò tuttavia ad affermarsi ai confini della follia, vera

cassa di risonanza dei più difformi umori, ritenuta da un'infinità di

americani il simbolo stesso del male. Per i jazzmen, invece, il nomignolo

più caro è sempre stato "The Apple", la mela, magari con qualche aggiunta

poetica, "of the eyes", degli occhi, forse a memoria della tentazione di Eva

in questa sorta di paradiso terrestre che è stata, e continua ad essere, la

megalopoli sulle rive dell'Hudson. Se per mela, inoltre, si intende la pupilla

degli occhi, si capisce anche la ragione per cui questa città, con i suoi clubs,

i suoi teatri, i suoi ritrovi, la vita luminosa che si consuma fra Times Square

e l'intrico che circonda la piazza, è sempre stata la mèta primaria di ogni

sogno vissuto dal musicista nero, emarginato dapprima nella Louisiana e

poi nel South Side chicagoano. L'epicentro era la Cinquantaduesima strada,

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la "via" per definizione, dove questa musica sortiva da ogni locale, da ogni

porta, da ogni cantina, con la sacralità di altre importanti arterie che hanno

costruito la storia del jazz: la Lenox e la Seventh Avenue, ad Harlem, il

ghetto nero della città dove per anni i bianchi di Broadway sono venuti per

sentire e vivere in una serata fuori le righe la vicenda dell'altra razza, che

con l'esorcismo della musica tentava di stordirsi dal disagio sociale della

segregazione. La Centoventicinquesima strada era quella di due famosi

locali, l'Harlem Opera House e soprattutto l'Apollo Theatre, mentre il

Birdland, il club dei futuri bippers, era sinonimo stesso della

Cinquantaduesima. Una topografia hot insomma, calda non soltanto per la

musica che sprigionava, ma anche per l'ambiente, la temperie che sapeva

accendere ogni sera, per un trentennio e più.

Provenienti dai luoghi più lontani e disparati, Kansas City, Chicago,

St. Louis, Tulsa, Pittsburgh, i jazzmen trovarono nella megalopoli quella

libertà espressiva indispensabile per inventare e creare ben oltre le

coercizioni cui il potere dell'altra razza costringeva l'afroamericano. Centro

vitale della sperimentazione artistica, New York ha tenuto a battesimo un

movimento di rivolta come il be-bop e il pianismo di Lennie Tristano, il

grande musicista bianco che proprio a New York organizzò la propria

scuola.

L'impatto con la durezza di una mela non del tutto matura per

accogliere il nuovo che proveniva dal Sud, fu faticoso e difficile: sia

l'Original Dixieland Jazz Band che la Creole di King Oliver vennero

accolte con una certa freddezza, e uguale accoglienza venne riservata a

tanti altri pionieri del jazz. I musicisti all'inizio vennero relegati nei

postriboli e nei clubs malfamati, nelle boŒtes ad imitazione parigina, ma

tanto più sordide e deprimenti. Eppure fra i jazzmen costretti a vivere e

suonare in questi locali c'erano Bubber Miley, l'inventore dello stile "rauco"

alla cornetta, e ancora il trombonista Jimmy Harrison, Edgar Sampson e

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Benny Carter, mentre l'orchestra di Charlie Johnson, un po' più privilegiata,

suonava, con un buon contratto, allo Smalls' Paradise, dove rimase per

quindici anni. Nella parte bassa della città dominavano Victor Herbert e

Irving Berlin, ma, già nel 1917, a scompaginare la vita notturna di questi

quartieri, giunse al Reisenweber's l'Original Dixieland Jazz Band a suonare

l'indemoniato Tiger Rag, Sensation Rag e Ostrich Walk; ma né la tromba di

Nick La Rocca, né il clarinetto di Larry Shields riuscirono a destare dal

torpore i newyorkesi, a differenza dei londinesi, letteralmente impazziti per

il gruppo di New Orleans.

Il riscatto partì da Harlem, ed era naturale che così fosse; anche se,

agli albori del secolo, il quartiere era una zona residenziale della razza

bianca e in seguito fu popolato da ebrei, italiani, tedeschi, irlandesi

appartenenti al ceto medio. Quando poi nacque la moda di andare a vivere

nel centro di Manhattan, fra le luci di Broadway, il quartiere venne

occupato dalle comunità nere provenienti dai luoghi più remoti in cerca di

fortuna, e nacque il ghetto, quella sorta di catino ribollente che venne

chiamato la "Parigi nera" proprio perché divenne lo spazio angusto del

divertimento, ma anche della trasgressione e del vizio, una specie di inferno

nel quale lo scrittore afroamericano Leroi Jones ha inventato addirittura dei

cerchi danteschi. Impegnati a far dimenticare il colore della pelle e secoli di

dolore e di pena, i neri del ghetto newyorkese si preoccuparono di offrire il

meglio del loro talento creativo ai bianchi che affluivano sulla Lenox

Avenue in virtù di una moda che durerà per molti anni, fino alla Black

Revolution quando, negli anni Sessanta, il quartiere diventò proibitivo per

l'altra razza e tutto finì sotto il dominio del Black Power, il Potere Nero.

Accanto a questa esplosione di musica e di invenzione artistica -

nella "Parigi nera" vivevano musicisti, pittori, scrittori - andò nascendo il

fenomeno dell'Harlem Renaissance, la Rinascita di Harlem, che visse

qualche anno di splendore con il supporto di una creatività sollecitata da

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una rivalsa che, al limite del più acceso radicàlismo, andava proponendo il

ritorno all'Africa nera, dopo un così lungo e difficile impatto con la razza

bianca. La negrità venne esibita come un vanto, una supremazia del fisico e

dello spirito, anticipazione ideologica di quello slogan "Black is beautiful"

che molti anni dopo durante la Rivoluzione nera degli anni Sessanta,

provocherà un duro sobbalzo di coscienza che coinvolgerà anche la storia

del jazz.

Al Garden of Joy, sulla Centoquarantesima strada, Mamie Smith, la

prima cantante di city blues che si conosca, attirava un grande pubblico, e

così Count Basie, che si esibiva al piano con un piccolo gruppo al Leroy's,

e Tricky Sam, che soffiava nel trombone wa wa al Bucker of Blood. Ma

erano i pianisti a dominare la scena di Harlem, James P. Johnson, Willie

The Lion Smith, Seminole, Fats Waller, al punto che l'unico stile jazzistico

che nacque e prosperò nel ghetto fu lo "stride piano", che già presentava

molte novità, nel pianismo jazzistico, rispetto al ruolo che questo strumento

aveva nelle orchestre del Sud degli States.

Bessie Smith già si era guadagnata il titolo di regina del blues nei

teatri e nei caffè di Harlem, e Clarence Williams, musicista, manager e

grande organizzatore, giunto a New York dopo la prima guerra mondiale,

cominciò a pubblicare ed eseguire motivi che poi diventeranno repertorio

classico di questa musica: Royal Garden Blues ad esempio, oltre

all'incisione di dischi con i Blue Five.

Ma le due stelle più luminose del ghetto rimanevano la cantante

Ethel Waters, che fra gli anni Venti e Trenta ebbe il suo periodo di maggior

splendore, e il pianista Fletcher Henderson, che organizzerà un'orchestra di

grande calore e significato nella vita del jazz newyorkese. Non va inoltre

dimenticata la soubrette Florence Mills, che esercitava un grande fascino

sul pubblico bianco che frequentava i clubs di Harlem, chiamata dai neri

"Blackbird" e protagonista di una commedia musicale di enorme successo,

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Shuffle Along, firmata da Noble Sissle ed Eubie Blake, due figure

leggendarie del ghetto. Fu proprio Ethel Waters a sostituire Florence Mills

al Plantation, e con un motivetto di successo, Dinah, divenne la regina

incontrastata di quel club. Qui la raggiunse Fletcher Henderson, già noto

per aver accompagnato molte blues-singers, Ma Rainey e Bessie Smith fra

le altre, a capo di un gruppo che comprendeva stelle di prima grandezza di

quel tempo, dal cornettista Joe Smith al trombonista Charlie Green, al

clarinettista Buster Bailey, al banjoista Charlie Dixon.

Chimico mancato, Fletcher Henderson aveva disobbedito al padre,

che lo avrebbe voluto in un laboratorio, e aveva cominciato a studiare il

piano, acquistando rapidamente una tale padronanza dello strumento da

saper suonare indifferentemente ogni tipo di jazz e di musica popolare. Si

esibiva al Club Alabama con un'orchestra che incise molti dischi per la

Vocalion prima che Louis Armstrong - che faceva un po' la spola fra

Chicago e New York - entrasse nell'organico, dove rimase per due anni

prima di venir sostituito da Rex Stewart. Don Redman rimase nel gruppo

per qualche anno, fin quando non giunse Bobby Carter, suo degno

sostituto, che si impose rapidamente come miglior solista del gruppo. Forte

di un organico di grande valore, nel quale passarono anche i trombonisti

Benny Morton e Claude Jones e il trombettista di New Orleans Tommy

Ladnier, uno dei più grandi solisti della storia del jazz, scomparso

giovanissimo, Fletcher Henderson dominò la scena musicale di Harlem per

molti anni, incidendo anche dischi memorabili grazie al talento di solisti

dallo stile molto diverso l'uno dall'altro: alla morbidezza di tonalità della

cornetta di Joe Smith in Snag It, faceva riscontro la superba asprezza del

solismo di Armstrong in Sugar Foot Stomp e in Money Blues, un brano al

cui ascolto si fa la conoscenza con il maestro incontrastato del sax tenore

Coleman Hawkins, allora alle prime armi, in seguito protagonista assoluto

della scena del jazz dei decenni successivi, caposcuola indiscutibile fin

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quando non comparve alla ribalta Lester Young.

L'atmosfera che l'orchestra di Fletcher Henderson era capace di

creare nelle esecuzioni era dominata da una grande foga interpretativa, una

febbrile concitazione che contaminava i musicisti uno dopo l'altro, sì da

creare delle vere e proprie battaglie musicali: il tutto intessuto entro un

reticolo di arrangiamenti magistrali, dovuti al talento di Fletcher e

all'esecuzione di solisti che nessun'altra orchestra - tranne quella di Duke

Ellington - potrà mai più vantare nello stesso organico e nello stesso tempo.

Il contributo che un musicista come Coleman Hawkins recò al gruppo fu

determinante, con tutto il rispetto per solisti del valore di Don Redman,

Benny Carter, Rex Stewart, Charlie Green e tanti altri. A quei tempi il sax

tenore si identificava con Bean, il nomignolo che gli avevano dato i

compagni dell'orchestra, inventore dalla sonorità irripetibile, maestro

dell'improvvisazione jazzistica per il grande profluvio di idee che sortivano

dal suo strumento, inimitabile al punto che forse soltanto Chuck Berry e

Ben Webster ne seppero raccogliere l'eredità.

Anche Duke Ellington venne a gustare la Grande Mela nel 1923

con un ristretto gruppo di amici, il batterista Sonny Greer e gli altri,

provenienti da Washington, e di qui, dal Cotton Club di Harlem, spiccò

quel volo che lo condusse in tutto il mondo: accortasi del jazz, New York

ne stava aiutando e promuovendo la conoscenza in tutta l'America e nei

vari continenti. Più tardi, non soggette al fenomeno dell'emigrazione,

arrivarono a New York le grandi orchestre bianche, quella di Paul

Whiteman che suonò al Palais Royal, e che ben poco aveva da spartire con

il jazz, a parte la presenza nell'organico di jazzmen del calibro di Bix

Beiderbecke e Frankie Trumbauer; ma furono soprattutto i gruppi di Red

Nichols e di Phil Napoleon ad emergere sulle altre formazioni.

Un buon jazz era quello prodotto dagli Original Memphis Five di

Napoleon, che operarono dal 1923 al 1928 con il clarinetto di Jimmy

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Lytell, il piano di Frank Signorelli e il trombone di Milfred Mole, il

migliore del gruppo. Una musica sicuramente superiore, seppure non al

livello dei jazzmen neri, fu inoltre quella che si poteva ascoltare dai Five

Pennies di Red Nichols, un nome divenuto celebre a New York dopo il

1925; nel gruppo andranno via via a confluire alcuni dei grandi protagonisti

del jazz bianco come Benny Goodman, Joe Sullivan, Jack Teagarden,

Glenn Miller, Tommy e Jimmy Dorsey. La musica che l'orchestra era

l'antitesi di quella di Henderson: l'una, quella nera, dominata da una foga

irruenta che sembrava provenire direttamente dalla rabbia dello

sradicamento; l'altra, quella bianca di Nichols, molto intellettualistica e

raffinata, che si caricava di un potenziale di sviluppo che nasceva dal

talento dei migliori solisti, ma anche dal diverso clima che il gruppo

respirava, molto meno privo di affanni. Per tutti comunque andava

avvicinandosi come un fantasma, che diventerà negli anni ben visibile, lo

spettro della crisi economica, esplosa il martedì 29 ottobre del 1929,

quando le quotazioni di 50 titoli principali scesero di circa quaranta punti.

Migliaia di persone che avevano acquistato non poterono più sostenere il

valore dei titoli e si ridussero sul lastrico. Tutta l'America entrava in una

crisi profonda e irreversibile, che avrebbe avuto la lunga durata di cinque

anni e di cui anche il jazz risentirà, poiché una enorme quantità di musicisti

si troverà senza lavoro.

I locali di Harlem, dove il jazz newyorkese era esploso, dopo tanto

splendore, si ritrovarono a vivere una vita grama. Osserviamoli più da

vicino, poiché è in queste caves che il jazz di New York è nato e ha vissuto

felicemente per anni. Il Cotton Club e l'Apollo Theatre furono sicuramente

i due locali più alla moda e più frequentati dal pubblico dei bianchi di

Broadway e dei neri del ghetto. Situato al numero 644 di Lenox Avenue,

all'angolo con la Centoquarantaduesima strada, fondato nel 1918 e

chiamato all'inizio Club Deluxe, il Cotton Club assunse questo nome nel

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1921. Per cinque anni, dagli esordi fino alla prima chiusura operata dagli

agenti della polizia federale nel 1925, l'orchestra fissa del locale fu quella

del violinista Andy Preer e i suoi Cotton Club Syncopators, di cui facevano

parte Louis Metcaf e R.Q. Dickenson alle trombe e, fra gli altri poco noti,

Leroy Maxey alla batteria.

Riaperto, cambiò gestione e per un po' di tempo si chiamò molto

pomposamente The Aristocrat of Harlem, fin quando, morto il violinista

Preer, venne chiamato alla guida del club rinnovato e restituito al suo

vecchio nome il giovane Duke Ellington, che aprì la stagione invernale del

1927 con i suoi Washingtonians, formati da Louis Metcaf e Bubber Miley

alle trombe, Tricky Sam Nanton al trombone, Rudy Jackson al sax tenore,

Otto Hardwicke al sax alto, Harry Carney al sax baritono, Wellman Braud

al contrabbasso e Sonny Greer alla batteria, oltre al banjo di Freddy Guy.

In un primo tempo l'orchestra accompagnava i grandi nomi del

negro show business, che comparivano sotto la sigla Cotton Club Parades:

Ethel Waters, Adelaide Hall, i Mills Brothers, Bill Robinson, i Nicholas

Brothers, mentre più tardi l'intero gruppo ellingtoniano diventerà

protagonista esso stesso del cosiddetto jungle style.

Quando Duke fu chiamato a Hollywood per girare il film Check

and Double Check, fu sostituito dall'orchestra del jazzista e showmen Cab

Calloway, mentre l'ultima orchestra ad apparirvi prima della nuova

chiusura del 1938 fu quella di Jimmie Lunceford. Riaperto poi negli anni

Quaranta, presentò le orchestre di Andy Kirk e di Billy Eckstine, per poi

chiudere definitivamente. Anni dopo il vecchio e glorioso edificio verrà

demolito per far posto ad abitazioni civili.

A sua volta, l'Apollo Theatre fu uno dei più prestigiosi teatri

d'America, ed ebbe una parte di grande rilievo nella storia del jazz. Situato

sulla Centoventicinquesima strada, in piena Harlem, ha visto sfilare sulle

sue scene, dagli anni Venti in poi, numerose orchestre, ma ha vissuto il suo

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momento magico al tempo dello swing, con le orchestre che si alternavano

sul palco. Inoltre, aspetto molto interessante che riguarda da vicino la storia

del jazz, ogni mercoledì notte veniva presentato, sotto la guida del ballerino

Toni Coles, uno show per dilettanti durante il quale si esibirono per la

prima volta giovani che diventeranno famosi, come le cantanti Ella

Fitzgerald e Sarah Vaughan. Tutt'intorno ai due locali, un pullulare di

clubs, il Savoy Ballroom, il Connie's Inn, il Lafayette Theatre, il Club Hot-

Cha, lo Small Paradise, il Glady's Glam House, il Radio Club, per ricordare

soltanto i maggiori. Accanto ai clubs e ai teatri, le case discografiche che

hanno consentito la nascita e lo sviluppo di una documentazione storica

preziosa, per una musica fondata essenzialmente sull'improvvisazione:

ormai epicentro della vita sociale e pubblica statunitense, New York

diventerà d'ora in poi assoluta protagonista dell'evolversi di questa musica,

dapprima con l'era dello swing, poi con l'esplodere della rivolta dei

boppers, infine con i movimenti dell'avanguardia jazzistica che nasceranno

fra gli anni Sessanta e Settanta.

5. L'era dello swing

Il 2 di febbraio del 1932, Duke Ellington si recò in una sala

d'incisione di New York per registrare un brano intitolato It Don't Mean a

Thing if It Ain't Got that Swing: Ivie Anderson cantò inconsapevolmente

quel tema, e pronunciò quella parola swing senza immaginare che, da quel

momento, quel sacro verbo doveva percorrere in lungo e in largo l'America,

e nel breve giro di tre anni indicare la moda e lo stile jazzistico che per non

poco tempo dominerà lo scenario di questa musica. Secondo le regole della

musica ellingtoniana il motivo si avvaleva di un arrangiamento elegante e

raffinato, sorretto dal supporto di un continuo e ossessivo dondolio ritmico

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che invitava irresistibilmente al ballo, oltre che rappresentare qualcosa di

diverso, una sorta di distrazione per esorcizzare i tempi duri che la Grande

Depressione del 1929 aveva imposto agli americani. Sicuramente sulla

swing craze, come appunto venne definita, agiscono concause sociali ed

economiche di vasta portata, prima fra tutte la grave crisi che colpì gli Stati

Uniti nel 1929, quando le banche di Wall Street andarono in tilt e la Borsa

di New York dovette registrare squilibri così sensibili da gettare nel pànico

un numero infinito di risparmiatori.

Il presidente Hoover adottò il metodo dell'autosuggestione per

costringere gli americani a controllare le proprie spese, magari

approfittando dei forti ribassi per acquistare con maggior raziocinio.

Ma tutto ciò significò ben poco di fronte al precipitare degli eventi,

che coinvolsero l'America per quattro anni, proprio fino all'inizio dell'era

dello swing.

Identificare quindi la swing craze con la fine di un incubo e con la

conseguente esplosione di gioia di tutto un popolo, liberato da una

condizione di paura durata ben cinque anni, può essere giusto e lecito, ma

lo swing all'interno del ciclo storico di questa musica non fu soltanto il

contraccolpo psicologico ad una condizione di incertezza e di timore.

Fenomeno prevalentemente bianco, cui il nero diede poi il suo contributo,

lo swing sta ad indicare un aspetto del jazz che trasferisce sulla psiche di

chi ascolta una sorta di febbre incontenibile, fatta di una scansione ritmica

fortemente evidenziata che infonde uno stimolo dinamico molto

particolare: più che naturale, pertanto, che contribuisse a creare una

condizione evasiva nel fruitore, come accade di constatare nella musica di

un jazzman che solo marginalmente visse l'avventura dello swing, ma che

certamente ha dato un rilevante impulso ai successivi sviluppi di questa

musica. Fats Waller, pianista e compositore morto giovanissimo e nel pieno

del suo fervore creativo, fu davvero il prototipo del musicista swing

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concitato e rumoroso, maestro di jazzmen come Lionel Hampton e Cab

Calloway, divertente e al contempo capace di costruire un suggestivo

discorso musicale. Molte orchestre nere ne seguirono la tendenza, ma

sebbene i gruppi di Louis Russell, di Fletcher Henderson, di Chick Webb,

di Jimmy Lunceford, di Benny Carter, di Count Basie e dello stesso Duke

Ellington si sforzassero di riaffermare un predominio musicale che andava

inesorabilmente spostandosi verso il mondo dei bianchi, solo in parte

riuscirono a recuperare quel contatto popolare che era nelle loro intenzioni,

e che esisteva ai tempi eroici delle origini.

Malgrado il mutare della situazione, non diminuiva il flusso della

borghesia bianca verso i locali di Harlem, che continuarono ad affollarsi di

un pubblico quanto mai eterogeneo, che esigeva anche uno scenario kitsch:

ragione questa per cui, durante gli anni di permanenza dell'orchestra di

Ellington al Cotton Club, gli addobbi erano costituiti da palmeti di

cartapesta ed altri elementi evocativi del paesaggio africano in omaggio a

quello style jungle con il quale l'orchestra intratteneva il pubblico

proveniente da Broadway. I neri, a loro volta, chiedevano qualcosa di

diverso, una musica che consentisse loro di recuperare quelle radici

culturali che la swing craze pareva avere smarrito; anche per questa

ragione, nacque la consuetudine dell'"after hours", un dopomezzanotte,

quando i jazzmen si raccoglievano in un piccolo locale appartato e, dopo

aver suonato tanta musica commerciale per far muovere i piedi di chi

cercava la distrazione e il divertimento, improvvisavano per tutto il resto

della notte, dialogando fra loro con quel linguaggio dell'azzardo e della

sfida che poco dopo assumerà i contorni di autentica avanguardia con

l'avvento del be-bop.

Di qui, da tale condizione, nasce lo stato di precarietà in cui si

trovano ad operare le grandi orchestre nere anche in un ambiente, come

quello di Harlem, contagiato fin nelle sue più segrete strutture dalla follia

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dello swing: tranne che le orchestre di Duke Ellington e di Count Basie,

tutte le altre big bands, pur ospitando in sezione i migliori musicisti di quel

periodo, si trovarono a dover vivere sotto un certo predominio dell'altra

razza, che dominava il business dello spettacolo di Manhattan, da Harlem

fino a Broadway, con figure di grande spicco, Benny Goodman su tutti,

Glenn Miller, Gene Krupa. Nell'universo dei neri nascono figure

drammatiche, come quella di Chick Webb, gobbo e fisicamente deforme,

uno dei più grandi batteristi della storia del jazz (cui va il merito di aver

scoperto Ella Fitzgerald), scomparso ancora giovane, ma al pieno della

maturazione espressiva, per consunzione; o temperamenti di artisti colti e

sensibili, già in grado di fornire soluzioni alternative, come Benny Carter,

Fletcher Henderson, Sy Oliver, che offrivano, con grandi risultati

espressivi, i loro arrangiamenti alle grandi orchestre bianchè, in uno sforzo

reciproco di consolidamento culturale fra le due razze che rappresenta uno

degli aspetti più fertili e pesitivi della swing craze.

L'orchestra di Jimmy Lunceford, a sua volta, riesce a trovare uno

spazio intermedio certamente interessante, creando una musica di

atmosfera che ricorda un po' quella di Ellington; almeno fin quando al

gruppo, molto omogeneo e affiatato, non riesce un sound più libero e

autonomo, che per qualche anno renderà inconfondibili i suoni di questa

orchestra, con il sostegno di solisti di grande valore come Trummy Young

e Willie Smith. Ma il gruppo non avrà vita lunga e facile.

Se per alcuni anni la band di Lunceford non ebbe rivali sullo

scenario dello swing di Harlem, il cui epicentro continuava ad essere il

Cotton Club, l'orchestra di Count Basie ne raccolse subito l'eredità,

inventando un sound del tutto nuovo e diverso, marcato suggestivamente

sull'ossessione del riff (unisono di strumenti a fiato che introduce gli

assoli), qua e là trapunto dalle brevi, rapide, folgoranti note del piano di

William Basie, nero di Red Bank, nel New Jersey, batterista all'avvio di

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una splendida carriera e in seguito pianista seguace dello stride piano di

Fats Waller e di James P. Johnson, già stella di prima grandezza al Reno

Club, poi al Grand Terrace di Chicago, infine al Roseland Ballroom, la

celebre sala da ballo al numero 1658 di Broadway, a due passi dalla

pittoresca Cinquantunesima strada: non a caso uno dei più noti brani di

Basie si intitola proprio Roseland Shuffle, in omaggio al locale che ne

accompagnò il successo. All'avanguardia del jazz di quegli anni e in grado

di produrre con la sua orchestra il miglior swing nero di tutta Harlem,

assieme a Duke Ellington, Count Basie poteva vantare musicisti di

primissimo piano nella sua orchestra, a cominciare da Lester Young al sax

tenore e Harry Sweet Edison alla tromba; ma ancora tanti altri personaggi

servirono a creare l'inconfondibile sound basiano: i trombonisti Benny

Morton, Dickie Wells e Vic Dickenson, il trombettista Buck Clayton, il sax

alto di Tab Smith e il sax tenore di Buddy Tate e di Eddie Lookjaw Davis.

Il cantante fisso dell'orchestra era un gigante, Jimmy Rushing, detto

"Mr. Five by Five" per la sua mole, in grado di creare anche gustose

scenette d'amore con immaginarie donne innamorate, o di scendere in pista

esibendo la sua pinguedine in balli scatenati. Il fiore all'occhiello era la

sezione ritmica, sicuramente la migliore che la storia del jazz abbia mai

esibito, con Basie al piano, Freddy Green alla chitarra, un fedelissimo che

mai abbandonerà il leader, nella buona e nella cattiva sorte, il bassista

Walter Page e il batterista Jo Jones, di raffinata eleganza nell'uso dei piatti,

sostenuto da un beat naturale e soffice, capace di creare straordinarie

piattaforme ritmiche.

Un'orchestra di tanto valore non poteva che dominare la scena

jazzistica del tempo, anche se, per concludere il discorso sulle orchestre

nere dell'era dello swing, non va dimenticata quella di Erskine Hawkins e i

suoi Bama State Collegians, proveniente dall'Alabama University, autore di

un brano di enorme successo, Tuxedo Junction, per la temperie morbida,

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soft, che era in grado di creare.

E ancora la possente Mills Blue Rhythm Band, con Henry Red

Allen alla tromba e Jack Higginbotham al trombone; e inoltre la fantasiosa

orchestra di Cab Calloway, showman incomparabile, ben sorretto da solisti

di valore come il tenorista Chuck Berry, il trombettista Jonah Jones, il

batterista Cozy Cole e il bassista Milt Hinton.

Per quanto successo potesse arridere alle orchestre nere, i veri

dominatori della swing craze furono però i leaders bianchi, primo fra tutti

Benny Goodman. Le origini chicagoane del clarinettista dell'altra razza, che

aveva appreso nella città del vento la lezione dei grandi musicisti di New

Orleans, in particolare di quelli della scuola creola del clarinetto, incisero

profondamente sul tessuto armonico delle orchestre bianche che

proseguirono anche a New York, durante l'era dello swing, quella

necessaria operazione di incontro e di fertile confronto fra bianchi e neri

che già aveva caratterizzato tanta musica della città del vento. Un discorso,

questo, che vale per Goodman prima di ogni altro, ma che coinvolge anche

Glenn Miller, la cui orchestra rivaleggerà proprio con quella di Benny al

proscenio della swing craze, Gene Krupa, batterista proveniente dalla stessa

scuola, e molti altri. In queste orchestre il sodalizio fra bianchi e neri,

soprattutto nel caso di Goodman, significò incontro con l'esperienza

dell'altra razza, nelle figure importanti del batterista Sidney Catlett, del

pianista Teddy Wilson, del vibrafonista Lionel Hampton, del trombettista

ellingtoniano Cootie Williams, ma soprattutto del chitarrista Charlie

Christian, che fra poco, all'alba del be-bop, diventerà un protagonista della

nuova musica nascente, troncato da una morte prematura ancora giovane e

in grado di offrire il grande contributo delle sue capacità inventive alla

storia del jazz.

Per parecchi anni, cinque lunghi e densi anni in cui trionfò

incontrastata l'era dello swing, Benny Goodman fu al centro del fenomeno

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e divise con Duke Ellington la gloria del musicista più ricercato nei balli e

nei concerti di musica hot. Tale tendenza, al processo di incontro e di

colloquio fra le due razze, in Goodman era anche conseguenza della sua

origine ebraica, e quindi dell'adolescenza già vissuta entro lo spazio

dell'emarginazione e della diversità: ebreo di origine russa cresciuto

nell'America dei ghetti e fra i suoni del jazz nascente di Chicago, il

clarinettista era nato nel 1909 nel West Side di Chicago, abitato quasi

interamente da ebrei e da pochi italiani, a due passi da quel quartiere della

città dell'Illinois che pochi anni dopo sarebbe diventato la roccaforte della

malavita italo-americana. Aveva iniziato lo studio dello strumento alla

sinagoga, ed era solito ascoltare ogni tipo di musica compresi i concerti che

si tenevano al Douglas Park la domenica pomeriggio o i dischi

dell'orchestra di Ted Lewis; ma un posto di rilievo, in tale universo così

variegato di ascolto, ebbero alcuni grandi del jazz, a cominciare dai New

Orleans Rhythm King che annoveravano nel gruppo quel Leon Roppolo di

origine italiana che più di ogni altro aveva assimilato alla perfezione la

lezione dei grandi clarinettisti creoli e neri della città del delta, Jimmie

Noone, Buster Bailey, Johnny Dodds, Sidney Bechet (che poi diventerà

uno specialista del sax soprano). Proprio a Chicago, fu importante per lui il

tirocinio dell'Austin High School, dove ebbe modo di suonare per le feste

studentesche e fece importanti incontri con i jazzmen bianchi della città: il

sassofonista Bud Freeman, il batterista Dave Tough, Frank Teschmaker e

soprattutto Bix, un maestro per tutti. Ancora molto giovane, a sedici anni,

poteva già vantare l'offerta di Ben Pollack, che in quegli anni era leader di

una prestigiosa orchestra; e, poco dopo, si aggiungeranno al gruppo di

Pollack il trombonista Glenn Miller, altra stella nascente della swing craze,

e ancora il trombettista Jimmy McPartland e l'altro trombonista chicagoano

Jack Teagarden.

Di qui, da questa prima importante esperienza, Benny Goodman

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spiccherà un volo che coprirà quasi l'intero arco della sua vita, con punte di

successo tali che neppure il famoso "giovedì nero" di Wall Street e la

conseguente grave crisi economica dell'intera America lo sfioreranno, nel

viaggio trionfale verso la gloria e la fama in tutto il mondo. La conoscenza,

e l'avvio di una fruttuosa collaborazione con John Ammond, all'Onyx Club,

significarono per lui l'ingresso nelle grandi case discografiche, e quindi la

possibilità di organizzare quei piccoli gruppi, trio, quartetto, quintetto, che

nella discografia goodmaniana sono altrettante perle molto vive e luminose:

proprio in tale contesto, il clarinettista realizza quell'idea, già presente a

Chicago, di incontro fra bianchi e neri che significò per lui, oltre che il

superamento dell'antitesi razziale, anche l'incontro, e la fusione, fra due

linguaggi e due scuole notevolmente diversificate, anche se collocabili alla

sorgente di una unica matrice nera. I nomi giusti che Ammond suggerì a

Goodman furono il batterista bianco Gene Krupa e i due neri Lionel

Hampton al vibrafono e Teddy Wilson al pianoforte.

Nel corso degli anni, questi mirabili gruppi di studio andarono ad

arricchirsi fino a comprendere altri protagonisti della storia del jazz: il

sassofonista George Auld e il pianista Count Basie, il trombettista Cootie

Williams e soprattutto il chitarrista Charlie Christian, futuro avanguardista

di questa musica. Quando Benny Goodman, con i suoi small groups e con

l'orchestra, molto affiatata e solida, si trasferì a New York per suonare

dapprima al Pennsylvania Hotel e poi, dal marzo 1937, al Paramount

Theatre, venne rapidamente incoronato re dello swing e poté avvalersi di

questo appellativo per un gran numero di anni, anche quando la swing

craze aveva ormai ceduto il posto ad altre avventure di questa musica:

Stompin' at the Savoy, Sometimes I'm Happy, Blue Skies, Body and Soul,

After you've gone, Dinah, Moonglow, Vibraphone Blues sono soltanto

alcuni fra i tanti temi che accompagnarono al successo l'orchestra e i

piccoli gruppi di Goodman.

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Una incoronazione che ebbe il suo cerimoniale di lusso nel

memorabile concerto alla Carnegie Hall del 16 gennaio 1938, quando

l'epoca della musica con il dondolìo andò a identificarsi con il nome del

clarinettista.

All'interno della swing era vissero e si consumarono anche

sperimentazioni interessanti in altre direzioni: ad esempio, il tentativo di

filtrare il linguaggio del jazz di New Orleans con il tessuto armonico

dell'orchestra da ballo. Ne fu promotore e protagonista Bob Crosby, fratello

del più noto Bing, cantante di successo di quegli anni, il quale mise insieme

i resti dell'orchestra di Ben Pollack nell'intento di recuperare almeno in

parte la musica di New Orleans; il centro motore del gruppo era il

sassofonista di New Orleans Edfie Miller, cui si aggiungevano, al vivo di

un sound molto sostenuto e solido, il clarinetto di Matt Matlock, la tromba

di Yank Lawson, la chitarra e il canto di Nappy Lamare, il contrabbasso di

Bob Haggart e la batteria di Ray Bauduc. Ma vanno ricordate, in questo

paesaggio così composito e articolato, anche le orchestre dei fratelli

Dorsey, il clarinettista e sassofonista Jimmy e il trombonista Tommy,

inventore di un sound molto dolce e sfumato, quella di Charlie Barnet e

quella di Woody Herman, aperta a sbocchi espressivi molto interessanti,

poiché di questo gruppo faranno parte nel tempo alcuni protagonisti del

jazz californiano.

Una sperimentazione del tutto nuova nella logica espressiva delle

grandi orchestre swing di questi anni andò a riconoscersi nella musica, ma

meglio sarebbe dire nel sound del gruppo che si raccolse attorno ad uno dei

più sensibili musicisti bianchi dell'epoca, Glenn Miller, scomparso con il

suo aereo militare durante un trasferimento da Londra a Parigi, alla fine

della guerra, in circostanze che non sono state mai chiarite. Nato a

Clarinda, nell'Iowa, nel 1904, cresciuto nel Missouri, chicagoano per

educazione musicale, visse le sue prime avventure con l'orchestra di Ben

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Pollack proprio al tempo del trasferimento del gruppo a New York.

Sostenuto da grandi idee innovatrici, tentò di sperimentarle con

varie formazioni, quella dei fratelli Dorsey, ad esempio, o quelle di Ray

Noble, di Glen Gray e di Ozzie Nelson, ma soltanto nel 1937, in piena

follia dello swing, riuscì con scarsa fortuna a formare una prima big band,

poi una seconda, che andò a insediarsi al Glen Island Casino, e cominciò a

lanciare temi che avranno grande successo come Moonlight Serenade,

Little Brown Jug, In the Mood, assieme a musicisti che avranno un ruolo

importante nel tessuto armonico dell'orchestra: Tex Beneke, Clyde Hurley,

Billy May, Ernie Caceres, essenziali per quel Gienn Miller Sound nato per

caso nel 1937 quando, per ragioni di necessità, il leader dovette sostituire

alla tromba il clarinetto; fu quindi obbligato ad una formula del tutto nuova

nelle orchestre da ballo dell'epoca, consistente nell'esposizione della linea

melodica da parte di clarinetto e sassofono tenore nello spazio di un'ottava,

su di una stratificazione armonica prodotta dalle altre ance e dagli ottoni

con sordina: era una dance band di lusso, come amava dire il leader,

splendida nell'esecuzione delle ballads e carica di un forte potenziale

dinamico sui tempi rapidi Per tornare ai piccoli gruppi che produssero il

miglior jazz, nel senso puro della parola, di questi anni, essi usavano

concentrarsi in prevalenza sulla Cinquantaduesima strada: accanto alle

piccole formazioni attorno a Goodman, verso il 1930, agli albori dello

swing, questa arteria, che fa parte della storia di questa musica, fu

l'epicentro di numerosi gruppi di studio e di ricerca. Alcuni furono di

matrice bianca e chicagoana, quelli di Red McKenzie e di Eddie Condon,

per molti anni vivace organizzatore e promotore di infinite iniziative, con

musicisti di notevole spessore artistico nell'organico come i trombettisti

Bunny Berigan, Max Kaminsky, Wild Bill Davison, il clarinettista Pee Wee

Russell, il batterista George Wettling, il trombonista George Brunis.

All'Onyx Club suonavano in alternanza i gruppi di John Kirby con il

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trombettista Charlie Shavers, il clarinettista Buster Bailey, il pianista Billy

Kyle, il batterista O'Neil Spencer, gli Spirits of Rhythm e l'orchestra di

Frankie Newton; cantavano singers come Billie Holiday, Ella Fitzgerald,

Sarah Vaughan alle prime armi, e si esibivano, in solitudine o in piccole

formazioni, pianisti come Art Tatum ed Earl Hines, a sua volta band leader

dopo aver fatto parte di alcuni vecchi gruppi di Armstrong, con il quale

tornerà a collaborare nel dopoguerra. Autore e pianista dallo stile originale

e irripetibile, Earl Hines ebbe doti di musicista e di improvvisatore

straordinarie, che mise poi a frutto quando poté finalmente obbedire alla

sua vocazione di caporchestra con l'ingaggio al Grand Terrace, il cabaret

del South Side chicagoano gestito e controllato da Al Capone. Proprio in

questo locale Hines ebbe modo di sviluppare, attraverso un sound molto

solido, del tutto diverso da quello di Glenn Miller (fino al 1936, quando

andò a raggiungere Benny Goodman), un tipo di musica tutt'altro che

commerciale, cosa che invece non si può dire per molte orchestre del

tempo, con punte di sperimentazione di grande rilievo se si pensa che

dell'orchestra di Earl Hines andarono a far parte, poco dopo il tramonto

della swing craze, due boppers come il cantante Billy Eckstine e il

trombettista Dizzy Gillespie, oltre che Charlie Parker, Benny Green e la

cantante Sarah Vaughan.

Al centro di numerose polemiche, tra i fautori che ne esaltavano le

risorse creative e i denigratori che ne condannavano l'inevitabile nozione

commerciale, l'era dello swing andava avviandosi verso il congedo dallo

scenario del jazz, che da quel capitolo in poi assumerà forme marcatamente

impegnate, e vedrà di nuovo gli afroamericani proiettati verso la

riconquista di una supremazia jazzistica che la swing craze gli aveva tolto,

affidandola nelle mani dei bianchi. Il verdetto di Jain Lang, studioso del

jazz in chiave sociologica oltre che musicale, finisce per essere fin troppo

esplicito in un brano del suo libro Jazz in Perspective: "Il riffing

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standardizzato, Goodman re dello swing, Harry James intento a suonare

sulla tromba, innanzi a turbe di giovanottelli plaudenti, il Volo del

calabrone, i pianisti di boogie woogie impegnati in assurde esibizioni ai

concerti della Carnegie Hall, i superstiti di Chicago che tentano, incidendo

dischi a limitata tiratura, di resuscitare un'epoca finita, questo in poche

parole l'aspetto del jazz alla fine del decennio 1930-40". Verdetto

drasticamente eccessivo, di certo: tuttavia, una nozione di dura crisi, le cui

matrici sociali e storiche sono rintracciabili ancora nella logica perversa

della segregazione razziale, oltre che in talune responsabilità storiche della

borghesia nera, sospinta alla commercializzazione dai falsi miraggi che il

bianco andava offrendole, troverà il suo sbocco dopo qualche anno di

preparazione e di intenso lavorio critico quando, proprio dai clubs sparsi

per la Cinquantaduesima strada, il jazz riprenderà il suo cammino

alternativo, il più naturale e congeniale ai suoi moduli espressivi.

6. Le voci

La voce, nella storia del jazz, ha un'origine remota, collocabile nel

momento in cui il canto spiritual cominciò a configurarsi come forma di

evangelizzazione delle comunità nere prima ancora che qualche strumento

di accompagnamento, l'organo nelle chiese ad esempio, iniziasse il suo

lavoro di supporto. Lo stesso fenomeno caratterizzò l'avvento del canto

profano, isolato in un primo tempo, e solo in seguito sostenuto dal supporto

di uno strumento, la chitarra o il pianoforte. Ciò significa che la voce, nella

vicenda di questa musica, ricopre spesso il ruolo sostitutivo di strumento, e

ciò spiega la ragione del suo diffondersi successivamente agli spirituals e al

canto blues, quando il jazz eseguito in forma polifonica iniziò la sua opera

di espansione.

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Si è parlato, nella parte dedicata alle origini, di un segno di

comunicazione, e di intrattenimento, che doveva coinvolgere il fruitore sì

da provocarne l'abbandono mistico o lirico: e se fra le voci spirituals, nel

progredire degli anni, l'appellativo di caposcuola spetta sicuramente a

Mahalia Jackson, di certo la più grande interprete di musica religiosa nera

che tale modulo espressivo abbia avuto in tempi più vicini a noi (non si

conoscono invece i nomi dei primi interpreti di questi canti religiosi),

seguita da Marian Anderson, per quello che concerne il blues la voce di

Bessie Smith ha rappresentato un punto costante di riferimento, anche

perché, a somiglianza della Jackson, la classica impostazione da contralto

delle due cantanti ha finito per riconoscersi nella più tipica e categorica

individuazione del rapporto che la loro voce-strumento ha saputo stabilire

fra esecutore e fruitore. Le voci del blues, a differenza di quelle degli

spirituals, sono numerose: dapprima voci maschili nel country blues, come

quelle di Charlie Patton e Robert Johnson, di Big Bill Broonzy o di John

Lee Hooker, in tempi a noi più vicini e nell'area chicagoana; dopo

l'emigrazione verso le metropoli d'America, si è detto, la voce blues è

andata a identificarsi con numerose figure femminili, a cominciare da

Bessie Smith, con Mamie e Clara che avevano lo stesso cognome, poi con

Ma Rainey, Ethel Waters, Lizzie Miles. Quando il jazz si afferma a New

Orleans e Louis Armstrong comincia a dominare la scena del jazz dapprima

della Louisiana, poi di Chicago e infine di New York, allora la voce

inconfondibile di Satchmo diventa in realtà l'alternativa di fondo al suono

della sua cornetta e poi della sua tromba, con l'aggiunta della nascita (sua

specifica invenzione) del cosiddetto scat-chorus, vocalizzo tutto fondato

sulla scansione ritmica in cui l'emissione della voce si realizza attraverso

l'uso di monosillabi, in tutto sostitutivi dello strumento. La leggenda

racconta che ad Armstrong, in una seduta d'incisione, cadde a terra il foglio

con le parole di una canzone, e a Louis venne allora l'idea di sostituire

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parole che non conosceva, con uno scat-chorus appunto, che poi, nel corso

degli anni, verrà più volte imitato ed avrà grandi personaggi fra le voci-jazz

ad eseguirlo, prima fra tutte Ella Fitzgerald.

L'era dello swing non poteva che rappresentare il momento di

maggior diffusione del canto nella storia del jazz: il bisogno di evasione

della gente, che faceva ogni sforzo per dimenticare la durezza della Grande

Depressione, e successivamente l'ansia liberatoria dell'uscita dal tunnel

della crisi, furono le due strutture portanti di un vasto fenomeno di

divulgazione, ma i cantanti mediocri furono in questo periodo una

maggioranza rilevante, con poche eccezioni. Nasce il crooner, una sorta di

cantante confidenziale che poco ha a che vedere con la storia del jazz, ma

fra i tanti vanno menzionati due dominatori della scena del business della

musica leggera, Bing Crosby e Frank Sinatra, al proscenio per molti anni,

soprattutto il secondo; Crosby morirà ancora giovane e nel pieno

dell'attività. Le grandi orchestre bianche e nere reclutavano le migliori voci:

Artie Shaw si avvalse per un certo tempo di Billie Holiday e Chick Webb

di Ella Fitzgerald mentre, nel 1936, in piena era della follia, Red Norvo,

vibrafonista molto noto in quegli anni, e Mildred Bailey vennero chiamati

"Mr. e Mrs. Swing"; e realmente riuscivano ad esprimere col suono e la

voce il tipico dondolìo di questo stile. Mildred Bailey era nata nei dintorni

di Washington nel 1903, aveva nelle vene sangue indiano per parte di

madre, e da giovane aveva ascoltato tanta musica della sua gente; entrò nel

gruppo di Paul Whiteman, pur senza mai incidere con questa orchestra,

mentre le sue esibizioni migliori interessano gli anni Trenta della swing

craze, con le orchestre di Benny Goodman, del marito Red Norvo, di Teddy

Wilson.

Era la stagione d'oro delle esibizioni, correva il 1935 e l'America

era da pochissimo fuori dalla Grande Crisi, una sera al Savoy Ballroom di

Harlem per uno spettacolo di beneficenza: fu la sua esibizione trionfale ma

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quella stessa sera si affacciava alla ribalta del canto jazz la più istintiva

delle voci di questa musica, quella di Ella Fitzgerald.

Reduce dalla sua prima incisione, significativamente intitolata Sing

Me a Swing Song, stava percorrendo appena l'inizio di una luminosa

carriera di cantante che si è protratta fino a tempi molto recenti, quando un

male agli occhi e altri guai fisici la costrinsero a misurare le proprie forze.

Era nata in Virginia nel 1918 da una famiglia davvero non ricca: sopportò

serenamente la povertà degli inizi e forse anche per liberarsi da questa

disagevole condizione di vita cercò presto di evadere nel mondo dello

spettacolo.

Pensava di voler fare la ballerina, e divenne cantante dopo aver

partecipato ad un concorso per dilettanti all'Apollo Theatre.

Vinse su tutti, ma la cosa più importante furono gli inviti rivoltile

da Benny Carter, John Ammond e Fletcher Henderson, malgrado con

questa partenza l'avvio sia stato meno brillante del previsto.

La sentì Chick Webb, uno dei dominatori dello scenario dello

swing; non ne fu subito persuaso, ma ad un successivo ascolto le cose

cambiarono, ed ebbe così inizio la carriera splendente di Ella, sicuramente

la più lunga e vincente che una cantante di jazz si potesse augurare: con il

gruppo di Webb, in lungo e in largo per i clubs, i teatri e le caves di

Broadway e di Harlem, ovunque suscitando meraviglia e applausi. Durò

poco la protezione paterna di Chick, poiché questo batterista gobbo e

deforme, che picchiava sui tamburi con precisione metronomica, morirà

giovane, a soli trentasette anni, nel 1939. Ella per un certo tempo ne

raccolse l'eredità mettendosi a capo dell'orchestra, fin quando non si liberò

anche di questo impegno e iniziò una carriera indipendente di cantante free

lance con numerosi gruppi, anche con quelli che seguirono l'era dello swing

e stavano preparando una vera e propria rivoluzione all'interno di questa

musica: lo scat-singing, che ne ha segnato le tappe più luminose, ebbe il

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momento di partenza con un vertiginoso Flying Home, cui seguirono How

High the Moon, Mack the Knife, Mr. Paganini, Air Mail Special, Stompin'

at the Savoy, It Don't Mean a Thing if it Ain't got that Swing, mille volte

cantati in pubblico e incisi su disco.

Sull'altro versante delle voci jazz, Billie Holiday simboleggia la

tragedia e il dolore nella misura stessa con cui invece Ella esprime la gioia

di vivere e di cantare. D'altronde ad una vita felice, a parte le difficoltà

degli inizi, fa riscontro, nel caso di "Lady Day" - il nomignolo che le diede

l'uomo che l'amò profondamente, Lester Young - una esistenza angosciosa

e dolente: a soli dieci anni subì violenza da parte di un inquilino della

madre, e giudicata corrotta venne chiusa in un riformatorio. Tutta la sua

vita fu condizionata da questo evento, al punto che da quel carcere uscì una

giovane prostituta che portava i clienti in una piccola pensione di Harlem.

Il canto fu la sua uscita di sicurezza: venne scritturata quindicenne al Jerry

Preston's del ghetto nero e di lì iniziò a vagare per l'America con le migliori

orchestre di grido, dal bianco Artie Shaw agli afroamericani Basie ed

Ellington.

Quello schema vocale dolce e delicato, il tremolio che esprimeva

tutta la pena che le infliggeva il vizio dell'alcool e della droga,

rappresentavano una suggestione alla quale il pubblico di Harlem non

sapeva resistere: bastava che intonasse Travelin' Light o lo struggente

Strange Fruit, con la descrizione degli alberi della sua terra, dai quali

pendono strani frutti, i cadaveri dei neri impiccati, perché non soltanto il

popolo afroamericano un brivido, ma il bianco si facesse un esame di

coscienza.

Il complessino di Teddy Wilson, suo partner per tanti anni, la tenne

a battesimo nelle prime incisioni, ma in seguito Billie registrò un po' con

tutti i grandi jazzmen del momento, da Roy Eldridge a Lester Young, da

Bunny Berigan a Johnny Hodges, Don Redman, Cozy Cole, Benny Carter,

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Benny Goodman. Si esibì per lungo tempo al Cafè Society, nel Greenwich

Village, e ancora in tutti i locali della Cinquantaduesima strada, a Chicago,

a Los Angeles: prese parte ad un famoso film sulla vicenda del jazz, New

Orleans, insieme a Louis Armstrong, ma la giustizia non la mollava:

arrestata a Filadelfia per possesso e uso di stupefacenti, fu condannata ad

un anno di reclusione. Uscì nel febbraio del 1948 e tornò a New York,

guardata a vista da quelli del Bureau of Narcotics; più volte arrestata, trovò

aiuto da parte di Norman Granz e poi di Leonard Feather, i due massimi

managers americani di jazz, ma ormai Billie, la deliziosa Lady Day, aveva i

giorni contati: non fu una sorpresa per nessuno l'annuncio della morte, al

Metropolitan Hospital di New York, il 25 di maggio del 1959, con un

poliziotto davanti al letto di morte per un nuovo arresto.

Molta critica jazzistica l'ha paragonata a Bessie Smith: a parte una

esistenza ugualmente dolorosa e tormentata, le due voci avevano in comune

il dono del più spontaneo dettato poetico, conseguito dall'una attraverso una

tipica voce nera da contralto, l'altra sorretta da un vibrato singultante e

sensitivo, di rara limpidità armonica. Certo, i blues sono rari nel suo

repertorio, ma basterebbe quel canto struggente, titolato Fine and Mellow,

per poter dire che Billie ha ereditato da Bessie la musica del ghetto nero di

New York, potenziandola con un carico di dolore e di pena difficilmente

riscontrabile nelle altre voci di questa musica.

La stanca malinconia della voce di Billie trova ancora un riscontro

nello splendore fisico di Lena Horne, altra protagonista dell'era successiva

a quello dello swing: debuttò con Benny Goodman al Carnegie Hall, nel

1947, e fu quella la sua pedana di lancio per Hollywood, dove girò almeno

un film dedicato alla saga della sua gente, Stormy Weather: il fascino che

sprigionava dalla sua bellezza trovava un esatto corrispettivo nella voce,

molto melodica, tutt'altro che nera bisogna dire, anche se le tonalità del suo

canto toccavano un'ampia gamma di percezioni, al punto che, con l'aiuto di

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Billy Strayhorn, riuscì ad interpretare uno dei più ardui brani di Stravinskìj,

La sagra della primavera. Questo esigeva la disponibilità verso un variegato

registro sonoro, e Lena Home dimostrò di possederlo al completo, anche se

con la voce non riuscì mai a compiere le acrobazie di cui sono state capaci

Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan.

Nata a Newark, nel New Jersey, a differenza di tante altre voci del

jazz, oltre che di tanti musicisti, Sarah Vaughan non ha avuto alle spalle

l'adolescenza misera di Ella o quella angosciosa di Billie, e la sua carriera

ha avuto uno svolgimento abbastanza regolare: soprattutto la madre,

cantante nel coro della chiesa del quartiere, educò la voce di Sarah verso

quella gamma variegata e difforme che appartiene all'inconfondibile

personalità della Vaughan, certamente la voce più spiritual e più "nera" fra

quelle che hanno fatto la storia del jazz. Si mise in luce per la prima volta

nel 1942, quando vinse un concorso per dilettanti all'Apollo Theatre di

Harlem: in quell'occasione l'ascoltò Billy Eckstine, allora cantante

dell'orchestra di Earl Hines, una vera fucina di jazzmen che dopo poco

opereranno la rivoluzione del be-bop, di certo la più consistente di tutta la

vicenda di questa musica. Entrò subito nell'orchestra e si ritrovò a cantare

con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Wardell Gray, che proprio in quel

periodo stavano mettendo a punto la nuova musica. Proprio con i boppers

intraprese la sua carriera di cantante, entrando appieno nella musica

rigenerata che stava nascendo. Quando Billy Eckstine decise di staccarsi da

Earl Hines e formare un suo gruppo, si portò dietro Sarah, anche se con un

ruolo di cantante scarsamente impiegata nell'orchestra. Fu l'esecuzione di

un brano che poi diventerà famoso, Loverman, nella seduta d'incisione

dell'11 maggio del 1945, accompagnata dal quintetto di Dizzy Gillespie,

con Parker, Al Haig, Curley Russell e Sidney Catlett, a far esplodere

"Sassy" - nomignolo che le diede il mondQ del jazz - poiché la Vaughan

ebbe la possibilità, offertale dalla vastità della gamma armonica di quel

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tema, di inserirsi pienamente nella logica del be-bop, con accenti e

marcature che la distinguevano nettamente da tutte le altre voci del jazz.

Grazie ad un fraseggio ricco di articolazioni sonore di ampio raggio e di

raffinata squisitezza formale, Sarah non ha punti di riferimento in altre

cantanti di jazz, anche perché la sua tecnica di impiego della voce come

strumento presuppone l'innesto all'interno del vocalizzo di una variabilità

cromatica che è poi quella che ritroviamo intatta negli assoli di Gillespie e

di Parker, i due musicisti jazz che più di altri l'hanno influenzata.

Fino alla recente scomparsa, Sarah Vaughan è stata la cantante

tecnicamente più dotata che il jazz abbia avuto, pur senza possedere la

drammaticità della voce della Holiday o la leggera freschezza della

Fitzgerald: e via via che è andata migliorando le capacità di estensione

della sua voce, più acrobatico e spericolato si è fatto il suo walking lungo

l'intera gamma sonora, attraverso un variare dal registro basso a quello

acuto sempre sostenuto da una cristallina limpidezza di voce.

Fra i cantanti bianchi la voce per antonomasia, è ben noto, è quella

di Frank Sinatra, straordinario interprete della musica leggera americana di

oltre mezzo secolo, di una grazia così raffinata da creare attorno a sé un

mito che il tempo e la storia non hanno minimamente scalfito. La sua

presenza in una storia del jazz è legittimata dal suo debutto, nel 1940, con

l'orchestra di Tommy Dorsey, uno dei maggiori gruppi della swing craze;

giocoliere abilissimo, in grado di intrattenere ogni tipo di pubblico e di

coinvolgerlo in virtù di una voce davvero unica e irripetibile, Sinatra ha

costruito all'interno dello swing un edificio stilistico di rara precisione e di

solida autenticità formale, con una morbidezza di accenti e una ostentata

fiducia nelle sue possibilità vocali che fanno di lui un dominatore assoluto

del paesaggio musicale d'America. A non poca distanza vanno situati gli

altri cantanti bianchi, a cominciare da Bing Crosby, di certo il più vicino

nel confronto, in possesso di un'avvincente tonalità sul registro basso, e

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ancora Herb Jeffries, che ebbe l'onore di essere per un periodo con

l'orchestra di Duke Ellington, per il quale interpretò un noto tema che

tuttavia ha ben poco a che vedere con il jazz, Flamingo.

Al di là delle voci citate, nel mondo del jazz bianco, la voce ha

significato un totale privilegiamento del canto di intrattenimento, pur con il

supporto di una professionalità innegabile: ma la voce nera nel jazz ha

avuto un ben altro ruolo, soprattutto quello di una continuità solistica nei

confronti dello strumento che identifica il canto in un assolo e un assolo in

un canto ininterrotto.

7. La ribellione dei boppers

La Cinquantaduesima strada, nel cuore di Manhattan, nel 1944, era

un pullulare di clubs e di locali minuscoli e assiepati, e proprio su questa

arteria che oggi è diventata un museo capace di evocare fantasmi di rivolta

di circa cinquant'anni fa, nacque il be-bop: una musica che nella storia del

jazz ha rappresentato, alla svolta degli anni Quaranta, la più autentica

ribellione del creativo musicale afroamericano alla situazione di

standardizzazione espressiva che la swing craze aveva condotto fino alle

estreme conseguenze, attraverso un lungo, inesorabile processo di

commercializzazione. I musicisti della tradizione non tardarono a

considerare folle quella nuova espressione che scompaginava le regole

codificate di questa musica, e rifletteva a chiare note una ribellione

interiore che il nero d'America aveva già consumato, con scarsi risultati,

più che un decennio prima con l'avvento dell'Harlem Renaissance, e che

ora si riproponeva in termini molto più perentori, poiché andava ad

occupare tutti gli spazi della creatività dell'afroamericano. Quando alcuni

jazzmen della tradizione di New Orleans e di Chicago, e precisamente il

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batterista Dave Tough e alcuni uomini dell'orchestra di Woody Herman, o

gente come Red Allen e Kid Ory, si recavano all'Onyx Club per ascoltare il

quintetto di Dizzy Gillespie e Oscar Pettiford, uscivano dal locale

completamente frastornati di fronte a musicisti che si interrompevano di

continuo, senza offrire a chi ascoltava la possibilità di comprendere quando

un assolo cominciava o terminava. Di qui le polemiche molto dure che

videro schierati su due fronti molto combattivi i modernisti e i

tradizionalisti, con scambio di epiteti poco edificanti come quello di moldy

figs, fichi fradici, con cui vennero spregevolmente definiti i tradizionalisti.

In realtà il re-bop, come venne chiamato per breve tempo all'inizio,

prima di assumere il suo nomignolo definitivo, non era nato all'improvviso

su quella famosa arteria di New York, ma aveva avuto solidi precursori in

alcuni musicisti degli anni Trenta in un minuscolo locale di Harlem,

proibito ai bianchi, ricavato da una saletta dell'Hotel Cecil nella

Centodiciottesima strada Ovest; era gestito da un certo Henry Minton,

sassofonista di scarso rilievo, e quando, in un secondo tempo, venne

rinnovato sotto la direzione di Teddy Hill, diventò il Minton's Playhouse

sul cui proscenio, per un importante gruppo di anni, passarono i

protagonisti della nuova musica nascente. Il club aveva una sua vita solo

notturna, poiché i jazzmen vi si riunivano dopo aver concluso la routine

nelle sale da ballo della swing craze, e vi si abbandonavano ad

interminabili jam sessions, che in gergo vuol dire libera espressione sul filo

di una improvvisazione totale, dopo che l'unisono aveva creato il riff-guida

su cui lavorare di fantasia e di immaginazione.

Risulta chiaro che, in questa situazione nuova e sul piano di una

completa rigenerazione del tessuto musicale, stava nascendo un modulo

espressivo diverso e per molti aspetti antitetico nei confronti di tutto quanto

il jazz era stato e aveva rappresentato nella sua vicenda. Il giorno

dell'incontro al Minton's era il lunedì, che per le grandi orchestre impegnate

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a far muovere i piedini alla borghesia bianca di Broadway era il giorno del

riposo settimanale. Una gran folla, soprattutto di curiosi, si addensava

all'ingresso del piccolo club, anche perché fra i musicisti che da mezzanotte

in su si abbandonavano a fascinosi after hours c'erano jazzmen che l'era

dello swing aveva reso celebri: Coleman Hawkins, Art Tatum, Teddy

Wilson, Benny Carter, Chu Berry, Mary Lou Williams, e con loro molti

giovani cultori della nuova musica, provenienti dalle più disparate regioni

degli Stati Uniti.

Il chitarrista Charlie Christian, che Benny Goodman con attento

fiuto aveva voluto nel suo gruppo, era fra i primi ad arrivare e a deliziare

con un tocco dotato di magica fantasia, capace di coinvolgere in un dialogo

serrato e captante tutto quel pubblico di neri che aveva finalmente un

angolo di Harlem dove vivere la propria musica lontano dagli avventori

bianchi. Lo seguivano Lester Young, il sassofonista dell'orchestra di Count

Basie che stava inventando una sonorità nuova e del tutto mutata sul suo

strumento, il trombettista Roy Eldridge, dallo stile spericolato e acrobatico,

capace di suonare sui più acuti registri con la massima disinvoltura.

Frattanto una terza generazione, ancora più giovane, si affacciava alla

ribalta e comprendeva alcuni personaggi che avrebbero fatto la storia del

be-bop: Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, pianista di grande talento e

allievo prediletto di Thelonius Monk, Tadd Dameron, Kenny Clarke, Max

Roach. Tutti insieme suonavano qualcosa che nessuno aveva mai sentito

prima, frutto di esperienze personali che nel piccolo locale avevano la

possibilità di tradursi in mirabile sintesi: Parker, per esempio, aveva

scoperto che era possibile realizzare un discorso sonoro estremamente

fresco e mordente con un sapiente gioco d'anticipo sulla partitura

tradizionale, e Kenny Clarke aveva capito al volo che utilizzando i piatti al

posto della grancassa alla batteria, avrebbe prodotto lo stimolo di un

accompagnamento vivo e vitale, fuori dagli schemi del tradizionale beat

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della batteria.

Nel momento in cui le orchestre di Earl Hines e di Billy Eckstine

cominciavano a disgregarsi, nacquero piccoli gruppi di studio e di ricerca,

il quintetto di Gillespie e Oscar Pettiford con Parker, Bud Powell e Max

Roach, con l'aggiunta del sassofonista Don Byas, tuttavia troppo

tradizionale per resistere ad un urto così violento con la nuova musica,

tanto che passò sul gruppo come una meteora. Lo schema era oltremodo

semplice: esposizione del tema da parte dell'unisono formato da tromba e

sassofono, poi libero sfogo all'improvvisazione individuale, quest'ultima un

singulto continuo con rapidi e folgoranti scansioni ritmiche della batteria:

tutto sotto la guida lucida di Dizzy Gillespie e di Charlie Parker, l'uno al

fianco dell'altro a inventare, a ricostruire sulle rovine dello swing, al Three

Deuces, nel tunnel dei nuovi suoni che ormai cominciavano a farsi strada, a

farsi accettare in nome di un rinnovamento che muoveva dalle fondamenta

stesse di questa musica in pieno progresso, che si poneva ormai il problema

di fondo di rompere ogni legame con lo stereotipo dello swing, categorica

musica da ballo che rappresentava proprio quello che i boppers volevano

che non fosse il jazz: musica "pura" da ascoltare, quindi, in piena antitesi

con quei tradizionali giri armonici che ormai producevano noia e

disinteresse. La testimonianza di un grande musicista bianco, il pianista

Lennie Tristano, può fornire una chiave di spiegazione molto precisa e

illuminante, quando si confrontano le due situazioni: "Lo swing era caldo,

pesante, rumoroso. Il be-bop è fresco, leggero e soffice. Il primo procedeva

sferragliando, e sbuffando come una vecchia locomotiva... il secondo ha un

beat più sottile, che diventa più pronunciato per mezzo dell'implicazione".

Anche nel modo di vestire si notava la profonda frattura: allo smoking della

swing craze fa riscontro un'immagine consistente in un berretto basco in

testa, un paio di occhiali nerissimi con montatura molto pesante, sotto il

labbro un piccolo ciuffo di peli, che Dizzy conserverà gelosamente fino al

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momento della morte recente.

Chiarito il significato tecnico-musicale del be-bop e descritta nei

suoi termini essenziali l'esteriorità di un aspetto che celava profonde

concitazioni interiori, è necessario andare a verificare quali furono le

concause di ordine sociale, ideologico, civile che determinarono la rivolta

dei boppers. A tale riguardo illuminanti risultano due figure di neri, Lester

Young e Charlie Parker, non soltanto per le innovazioni di carattere

stilistico che hanno apportato alla storia del jazz, ma anche per quanto

hanno rappresentato, forse a livello dell'inconscio privato e collettivo, nella

vicenda dei neri d'America. Lester Young era stato forse il musicista più

importante che l'era dello swing avesse prodotto e nella stagione

successiva, quella del be-bop, assunse rapidamente il ruolo di caposcuola,

anche in virtù del lavoro dirompente che il sassofonista di Count Basie

aveva svolto all'interno della swing craze, con impennate rivoluzionarie,

trasgressioni al vivo della ferrea rigidità del linguaggio dello swing. La

musica di Young pertanto si innesta entro tale contesto conformistico con

un potenziale di ribellione in grado di offrire una vasta gamma di soluzioni

armoniche alla tecnica dell'assolo. Si tratta di momenti fondamentali lungo

il drammatico tracciato che la musica del sassofonista percorrerà, di

continuo frantumata dall'uso e dall'abuso dell'alcool e della droga; fino alla

morte, del resto, il trauma dell'esistere ha finito per avvicinare l'uomo

Young alla più dolente figura che il canto-jazz abbia avuto, a Billie

Holiday, la cui biografia, si è detto, soprattutto negli anni estremi che

hanno preceduto la morte, immatura come quella di Lester, è stato un

continuo, tormentoso calvario, un lento trascinarsi struggente da una plaga

all'altra del mondo, con lo sguardo spento dal vizio irrefrenabile. Per

tornare a Lester Young, il processo di distacco e di isolamento iniziato

nell'orchestra di Basie troverà la sua più concreta realizzazione negli anni

successivi, quando Lester riuscirà ad affrancarsi dalla compressione

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psicologica della grande orchestra e inizierà a suonare con piccoli

complessi, come il quartetto formato con Johnny Guarnieri, Slam Stewart e

Sidney Catlett, donde nascono quattro memorabili brani, di estremo

interesse per le aperture che implicano nei confronti del linguaggio dei

boppers: I never Knew, Afternoon of a Basie-Ite, Sometimes I'm Happy,

Just You Just Me; o come il gruppetto di jazzmen di Basie, con il quale il

sassofonista realizza due brani sintomatici per gli sviluppi conseguenti di

questa musica: Blue Lester, e Jump Lester Jump. Tutti brani preparatori al

più esemplare della tematica younghiana, quel These Foolish Things inciso

con un complesso che comprendeva il pianista Dodo Marmarosa, il

chitarrista Freddie Green, il bassista Red Callender e il batterista Tucker

Green. La rarefazione qui diventa asettica e il solismo di Lester assume

movenze di forte compiutezza stilistica, e soprattutto quel crisma di

semplicità e naturalezza che, per quanto si voglia dire, resta il fondamento

del nuovo linguaggio boppistico.

Se da un'analisi comparativa delle singole esecuzioni si passa ad

una più globale individuazione della musica di Young, allora i rapporti con

quanto esprimeranno i boppers emergeranno con evidenza, poiché al fondo

di questo doloroso solismo persistono ramificazioni che si rintracciano poi,

tramutate in angosciosa aggressività sonora, nella musica di Charlie Parker,

il nome che con maggior insistenza ricorre nelle testimonianze di poeti,

intellettuali delle nuove generazioni afroamericane, che si riconoscono nei

versi di Leroi Jones come nel credo politico di Malcolm X.

Le ragioni vanno ricercate oltre quest'altra biografia lacerata

dall'alienazione e dalla frustrazione, come era già avvenuto per Young e

avverrà per John Coltrane. Al tempo della storica svolta, quando il nero

comincia a reagire su un diverso registro in cui convergono rabbia e dolore,

aggressività e rivalsa, allora la tragica figura di Parker assume contorni e

configurazioni struggenti, diventa un vero e proprio simbolo liberatorio.

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Nella stessa comunità nera che pure ha subito l'universo stravolto della

segregazione razziale, è difficile trovare una più compiuta simbiosi fra vita

e poesia, l'una e l'altra vissute e consumate attraverso una lucida sequenza

di allucinazioni, che la metallica, stridente sonorità del sax alto sembra

quasi tradurre in termini di voce umana: per questo "Bird" - il nomignolo

con cui è noto fra i musicisti e gli appassionati di questa musica, per i voli

lirici che un uccello del genere riusciva a compiere - è davvero il musicista

che più legittimamente si presta a quell'incontro, poiché i due linguaggi si

avvicinano, sul filo di una sonorità frantumata, e ritrovano così un comune

terreno di realizzazione artistica. Si potrebbe affermare insomma che i

momenti più drammatici e irreali - come accadeva del resto a due suoi

fratelli in dolore, Lester Young e Billie Holiday - della musica di Parker,

quelli cioè in cui il maledetto fantasma dell'alcool emerge con più perversa

gradualità, coincidono con gli squarci più veri e autentici della sua

personalità umana, come se la nebbia mentale provocata dal vizio agisse su

di lui come vera e propria matrice di intelligenza musicale. In questi

momenti, l'intera Africa nera ritorna in un compiuto recupero come somma

dei dolori del mondo, ma al contempo anche come capacità profetica di un

futuro più aperto, libero dalla solitudine e dall'isolamento. Quando Bird

viene colto a dialogare quasi segretamente con il suo sax, tale accensione

poetica si realizza in tutta la sua integrità, senza contaminazioni: la

differenza fra le povere evocazioni standardizzate dell'era dello swing e la

percezione "africana" delle cose e della vita reperibile nella musica di

Parker è tutta qui, in questa conseguita convergenza.

Sarà necessario a Parker il sodalizio con Gillespie, Monk, Clarke,

Bud Powell e gli altri boppers della Minton's Playhouse - dopo il tirocinio

in alcune orchestre swing nere, quelle di Jay McShann e di Billy Eckstine

fra le altre - perché egli possa realizzare appieno tutto quanto il suo talento

avvertiva ancora al primordio stato di idea. L'errore che la critica

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tradizionale commise in quel momento fu di ritenere transitorio un

movimento che, guidato da Young e da Parker, da Gillespie e da Monk, da

Powell, da Clarke, da Max Roach e da Miles Davis, l'altro genio musicale

che condurrà poi fino alle estreme conseguenze il discorso dei boppers,

rappresentava invece una svolta storica di enorme significato, tale da

condizionare l'intero corso della storia del jazz, dopo gli anni Quaranta. Lo

stesso concetto di swing subì via via una diversa configurazione, poiché sia

Parker che i boppers dimostrarono come fosse vero che il be-bop utilizzava

le strutture del blues, la più vera componente della musica afroamericana,

pur attraverso moduli di totale frantumazione. Sorretto dal supporto di una

sonorità senza eguali, del tutto diversa da quella di Willie Smith, di Benny

Carter, dello stesso Johnny Hodges dal quale pure tanto ha ereditato, Bird

riuscì a recuperare i congegni ardui e complessi della tecnica di Young

fornendoli di un nuovo, rigenerato sostegno creativo, con una più sottesa

varietà di intervalli, che rendono ancor più tragicamente frantumato l'intero

fraseggio sullo strumento, dominato dall'imprevedibilità e dalla sorpresa

nella sequenza stessa degli accordi, che lasciava stupiti gli stessi musicisti

che suonavano con lui. Improvvise e folgoranti, quali nessun jazzman

prima di Bird aveva avuto, le accensioni di un subconscio marcatamente

deciso che lo spingeva ad improvvisare nell'improvvisazione, in

obbedienza ad una libertà creativa totale, assoluta; tutto questo gli accadeva

nei momenti più drammatici della sua vita di musicista, quando le

allucinazioni dell'alcool e della droga aprivano squarci improvvisi di

lucidità mentale, intervalli della follia, tali da produrre un segreto,

imprevedibile legame fra accensione lirica e la sua conversione nella realtà

di una musica irripetibile. La seduta di registrazione, negli studi McGregor,

del 29 luglio 1946, dalla quale venne fuori un drammatico Lover Man

eseguito, oltre che da Parker, da Howard McGhee alla tromba, Jimmy

Bunn al pianoforte, Bob Kesterton al basso e Roy Potter alla batteria, è

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sintomatica di tale rapporto stabilito fra il musicista, la realtà e il mondo

circostante.

Il blues, con tutto il suo peso di dolore compresso e di solitudine, è

di continuo presente in questi momenti di allucinazione: soltanto il ruolo

risulta rovesciato, poiché la tematica del blues finisce per subire con i

boppers una vera e propria rivoluzione interpretativa, come se il linguaggio

fosse costretto ad assoggettarsi a regole e impegni nuovi che il nero, fino a

quella stagione storica non aveva pensato di dover affrontare. Nel momento

in cui l'intensità timbrica e melodica e l'idea da realizzare sullo strumento

ritrovano un proprio comune terreno d'azione, nasce un senso di rivolta che

non riguarda più solamente la storia del jazz, ma investe contesti molto più

ampi che avvolgono l'intero universo della segregazione in una spirale

diversa per impegno sociale e civile. La lucidità e il raziocinio con cui

Parker esprime le proprie idee, in stridente contrasto con un subconscio che

travalica ogni possibilità di raccordo con il vero e il reale, per situarsi in

una sfera di totale solitudine dalla quale ancora più difficile si fa il

colloquio con il resto degli uomini, convincono che ben oltre le

esemplificazioni musicali, del resto convergenti nel nostro discorso, con

Parker e con gli altri boppers, come soggetti e come gruppo, si verifica un

netto sforzo di recupero di quella matrice africana che l'era dello swing

sembrava aver del tutto smarrito.

Sta per verificarsi il ritorno alla poliritmia e alle strutture musicali

dell'Africa nera, pur con dettati molto diversi, ma ora, in piena stagione del

be-bop, l'atteggiamento anche psicologico dell'uomo parkeriano, del nero

che rifiuta il patrimonio artistico del bianco per cercare rifugio in un

contesto nuovo e diverso, va sottolineato come momento di recupero di

origini smarrite lungo un aspro cammino. La psicologia dell'africano

solitario si manifesta in artisti come Parker, Young, in intellettuali come

Leroi Jones, Eldridge Cleaver, Malcolm X, quale esigenza di riannodare il

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filo perduto del nesso più stretto fra vecchio e nuovo. Una volta isolatosi

dalle istanze standardizzate dello swing e accettata l'idea della

rigenerazione e del ribaltamento della tradizione, il be-bop si trova ad agire

in una condizione di disagio e di ostilità da parte di molti musicisti

tradizionali, che già malvolentieri avevano ingoiato le quattro battute entro

le quali si esprimeva il beat della migliore musica swing; tale situazione

sospinge l'intero movimento a ricercare formule nuove proprio in quel

mondo africano che lo swing aveva respinto per correre dietro a più

proficue esigenze commerciali. In questa direzione, uomini come Max

Roach e Kenny Clarke diventano portatori di una nuova musica che non

può più limitarsi ad un ruolo "esterno", ma deve penetrare al vivo della

decomposizione armonica tradizionale. Nel momento in cui il batterista

bopper comincia ad usare i piatti sospesi per tenere il tempo, lasciando al

tamburo basso le intermittenze occasionali, egli trascina decisamente nella

nuova dinamica il basso e il pianoforte, e offre così agli strumenti a fiato

quell'ampia libertà d'azione che Parker e Gillespie utilizzeranno al massimo

grado, e che consentirà a Miles Davis di arrivare agli ultimi suoi approdi

musicali, dopo il filtro dell'esperienza del cool jazz.

Il "nuovo nero", in grado di proseguire e condurre alle conseguenze

estreme il discorso aperto dai boppers, fu certamente John Coltrane,

scomparso anch'egli nel pieno della sua maturazione, ancora una volta

vittima inconsapevole dell'universo concentrazionario: quel processo di

isolarnento e di solitudine apertosi con Parker diventa in Coltrane una

forma di intensa malinconia, frutto e conseguenza di una lacerante

contraddizione interiore.

Coltrane diventa così l'intellettuale che cerca drammaticamente il

dialogo, per sconfiggere il mortale senso di alienazione che una negritudine

sofferta e subita determina nel soggetto umano. Tale ansia, unita ad un

naturale senso di riserbo che lo spingeva ad evitare il pubblico e a rifugiarsi

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nel camerino, quando si sentiva inseguito dai fans, è stata la causa prima

del ritardo con cui Coltrane si è rivelato come musicista: soltanto nel 1950

infatti, a trentaquattro anni, ottenne quel successo che altri realizzarono

almeno dieci anni prima. Ciò fu dovuto anche ad ingaggi errati, che lo

portarono a far parte di orchestrine di scarso rilievo che suonavano il

rhythm'n blues, per cui l'avvio decisivo si verificò in coincidenza con

l'amicizia che lo legò ad Howard McGhee e al batterista Philly Joe Jones.

In questo periodo, il 1948, lo stile di Coltrane non si è ancora

precisato, ma è evidente che la suggestione dei boppers opera su di lui in

modo molto personale, così da persuaderlo ad un tracciato musicale

radicato ancora nel blues, ma con ulteriori lacerazioni spirituali. Sarà il

sodalizio con Miles Davis, nel 1955, a determinare le scelte di Coltrane più

sicure: apertosi dunque alla musica con Parker, Coltrane finì per lasciarsi

guidare da Davis verso una più solitaria inquietudine, lungo la strada del

cool, tentata con il gruppo californiano di jazzmen bianchi come Lee

Konitz e Gerry Mulligan, nell'intento di offrire un più rarefatto e raggelato

risvolto intellettuale alla foga con cui i boppers avevano espresso la loro

rabbia. La sconvolgente personalità di Coltrane, tuttavia, in questa fase

transitoria non si esprime ancora nella sua pienezza: saranno le successive

avventure, con Thelonius Monk, ad orientarlo verso ancora più rischiose

incursioni, lungo l'asse di una ricerca ansiosa che segna tappe importanti

come in Giants Steps, Dahomey Dance, Africa, Ascension e infine A Love

Supreme, dove il profondo trauma spirituale di questo autentico talento

musicale si esprime nell'assunzione di una radicata fede religiosa, che

diventa una sorta di autoinvestitura di una forza rivolta al trionfo del bene,

sulla scia della predicazione di Martin Luther King. La musica che l'ultimo

Coltrane, ormai alle soglie della morte, esprime e sviluppa in brani come

Om, Ascension, A Love Supreme, Meditations, Kulu Se Mama, nei quali si

compie l'estremo tentativo di ritrovare un nuovo ricambio, impossibile, tra

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perfezione tecnica e senso della rivolta, esemplifica perfettamente quel

groviglio di rabbia e di rasserenamento al contempo, di lacerazioni interiori

e di equilibrio mistico, che si ritrovano come elementi comuni nelle tre

figure emergenti del jazz moderno: Parker, Young e Coltrane appunto, i

soli in grado di fornire alla storia di questa musica i mezzi espressivi per

marcare con un mordente contenuto le nuove connotazioni umane e civili

dell'afroamericano.

Mentre la nuova musica nera di Parker, Monk, Gillespie, degli altri

boppers, andava percorrendo un faticoso cammino, in mezzo all'ostilità

dell'Establishment e della "white supremacy" che vedeva l'afroamericano

inserito in un'area di affermazione sgradita, alcune orchestre bianche

finirono per beneficiare di questa situazione: quella certamente singolare e

diversa di Woody Herman, promotrice di un jazz ad alta tensione

espressiva, capace di suscitare facili entusiasmi, e ancor più quella di Stan

Kenton, definita progressista con un vocabolo allora di moda, creatrice di

un sound nuovo e originale dovuto soprattutto agli arrangiamenti di Pete

Rugolo. Pur filtrando l'esperienza dei boppers, Kenton riuscì a creare

qualcosa di nuovo e di diverso, utilizzando dissonanze talvolta rischiose e

azzardate in nome di quel Progressive Jazz che ebbe un suo momento di

notevole splendore.

Se queste orchestre bianche, cui va aggiunta quella di Boyd

Raeburn, di gran successo popolare, percorsero strade contigue a quelle dei

boppers, non mancarono reazioni dure e polemiche da parte di tanti

musicisti legati alla tradizione: fiorirono i gruppi dixieland attorno a Eddie

Condon, grande animatore di spettacoli, fra i quali dominò in quel periodo

quello chiamato "This is Jazz", etichetta battagliera e contestataria nei

confronti della musica irregolare e trasgressiva dei boppers. Né mancò in

quegli anni un New Orleans Revival esploso nel 1944 a seguito di alcune

popolari trasmissioni di Orson Welles a Los Angeles, che riportarono alla

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ribalta vecchi jazzmen della città del delta come Kid Ory e soprattutto

Bunk Johnson, Papa Celestin, il clarinettista George Lewis, che si

incaricarono di far resuscitare, con successo, il vecchio mito della

Louisiana.

8. La via californiana

Con l'intervento della California al nodo degli sviluppi e delle

ramificazioni della musica jazz lungo le ampie venature della terra

d'America, il nero si trova di fronte a problemi imprevedibili e nuovi, che

l'età dello swing aveva di certo evidenziato con caratteri talvolta negativi, e

che la nuova situazione, creatasi lungo la West Coast, accentua e al

contempo orienta in direzione diversa.

C'è quindi da chiedersi perché proprio in California sia nato, negli

anni Cinquanta, sviluppandosi poi per un breve arco di tempo, un nuovo e

diverso tipo di jazz, prevalentemente bianco, anche se taluni innesti di

musicisti di colore si riveleranno poi determinanti ai fini di una ipotesi di

rinnovamento, a differenza di quanto era accaduto presso altre aree di

sviluppo. Ampliare il discorso attorno ad un fenomeno del genere vuol dire

anche sottolineare in quale misura il grande esodo dei profughi della Dust

Bowl abbia contribuito a fare della California una sorta di terra promessa

che gli slogans pubblicitari definivano con frasi piuttosto attraenti e strane:

"La terra del mare al tramonto", "Lo Stato dell'occasione d'oro". La prima

conseguenza del flusso migratorio fu l'impatto tra i neocaliforniani, poveri

e costretti a provvisori lavori stagionali, e uno schema borghese alquanto

mistificatorio. La conseguenza fu la nascita, a cavallo degli anni Cinquanta,

del movimento della beat generation - che ebbe con il jazz rapporti molto

stretti - al punto che la definizione di jam session andò ad adattarsi anche

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alla poesia: in effetti, furono pittori, poeti, narratori, jazzmen, gli uomini

della bear generation californiana, e tutti potrebbero riconoscersi nella

concitata biografia di Allen Ginsberg: la madre morta in manicomio, lui

prima facchino in una stazione di autobus, poi estensore di discorsi politici

per un candidato al Congresso, lavapiatti in un locale alla moda, mozzo di

bordo su navi da carico.

Giunto a San Francisco in autostop, Ginsberg vi trovò due nuclei di

artisti, i tradizionalisti che si adagiavano su situazioni di comodo, di sicuro

retaggio, e giovani ribelli ansiosi di novità. Nel 1954, Ginsberg organizzò

una riunione di poeti davanti ad una gran folla incuriosita, costituita dalla

borghesia della città, e lesse il suo poema Howl: per la prima volta nella

storia delle tornate letterarie si verificò fra il pubblico bianco il singolare

fenomeno di ritrovarsi ad accompagnare i versi di Ginsberg con il tipico

beat della musica jazz, quasi a voler realizzare un più diretto incontro non

solo fra le due espressioni, ma fra le due razze. Il lungo processo liberatorio

si era compiuto nel connubio fra musica e verso, non più recepito come

anarchica liberazione, come accadeva fra i neri nei riguardi della stessa

simbiosi, bensì sul filo teso di una alienazione individuale che conduce

direttamente ad una totale resa metafisica, ad una sorta di esorcismo

fortemente intellettualistico, che ha sostituito la libera e primordia voce dei

poeti neri che fornivano il sottofondo al sax di Charlie Parker.

C'è insomma una radice diversa, frutto inevitabile di un lontano e

diverso processo di acculturazione, di evidente estrazione europea e

occidentale, che tenta di contrapporsi, e in qualche caso di integrarsi, con la

condizione nera espressa ad Harlem dalla disperazione prodotta

dall'universo del ghetto e della segregazione.

L'inno a Moloch, che fa parte appunto di Howl, esprime certamente

tutta l'esigenza protestataria di un poeta che cerca traumaticamente

l'antidoto alla propria alienazione, ma tale processo liberatorio

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dall'equivoco della civiltà massmediale cerca di riconoscere se stesso in un

retaggio culturale del tutto diverso, compresso entro radici difformi che

risultano individuabili nel processo estetico della cultura europea e

occidentale. Comincia insomma a serpeggiare quel contesto di ribellione

tipicamente bianca che avrà largo riscontro nella cultura degli hippies e

sarà facile identificare nella figura inquieta di Neal, il protagonista dell'altro

testo-chiave dei beatniks, On the road di Jack Kerouac.

Lungo una simile proiezione culturale, si muove il jazz degli anni

Cinquanta in California, al nodo di una ribellione che a quel tempo aveva

invaso tutta la West Coast. C'è anche da sottolineare che l'alternativa a tale

movimento avanguardistico, che andrà poi a sfociare nel cool jazz, il jazz

freddo molto cerebrale che ebbe il suo antesignano in Lester Young e avrà

il suo protagonista in Miles Davis - il maggior talento che abbia prodotto il

jazz moderno - era costituito dall'impegno di un gruppo di jazzmen bianchi

nel far rivivere certe formule espressive del vecchio jazz di New Orleans

attraverso quel fenomeno del revival che non tarderà a rivelarsi una

mediocre operazione commerciale. Una situazione, come si vede,

abbastanza simile a quella che aveva trovato il poeta Ginsberg al momento

del grido di protesta che la sua letteratura intendeva esprimere. Ancora San

Francisco - come per la cultura dei beatniks - fu l'epicentro del revival

californiano, e il profeta di tale operazione si chiamò Lu Watters, che si

assunse il ruolo non facile di far "rivivere" la musica di King Oliver, di

Jelly Roll Morton, di Louis Armstrong, come d'altronde era già accaduto a

New York, ma con musicisti neri come Bunk Johnson.

Se il movimento revival assunse gli aspetti piuttosto negativi di una

operazione commerciale, il movimento progressista del jazz californiano

offrì a sua volta elementi molto più utili e positivi di sviluppo del

linguaggio jazzistico. I musicisti che si resero protagonisti di tale

movimento furono soprattutto il trombettista, arrangiatore e compositore

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Shorty Rogers, e in seguito Gerry Mulligan, un sassofonista di New York

emigrato a San Francisco nel 1951, quando costituì un singolare quartetto

senza pianoforte con Chet Baker alla tromba, Bob Whitlock al basso e

Chico Hamilton alla batteria. Tale gruppo proveniva, nel suo nucleo

essenziale, dall'orchestra di Stan Kenton, e questo particolare riveste

notevole importanza se si pensa che fin dal 1941, con l'invenzione di

Artistry in Rhythm, Kenton aveva intrapreso a suo modo una strada

anticonformistica, sì da accostarsi alla musica colta senza rinnegare certe

essenziali radici del jazz. In verità, indipendentemente dagli interessi

culturali diversi che introdusse nell'ambito della musica jazz, è indiscutibile

il carattere di scisma che il jazz californiano volle operare nei confronti del

mondo e dell'ambiente dei neri d'America, almeno fino a quando cominciò

ad affermarsi il quintetto di cui faceva parte Chico Hamilton.

L'anello di congiunzione va poi a saldarsi allorquando un musicista

del calibro di Miles Davis va a riconoscersi nel movimento del cool jazz,

dopo la prima avventura vissuta con i boppers della Cinquantaduesima

strada. Una risposta eloquente alla perplessità che può suscitare tale

incontro può venire proprio dalle radici stesse del cool, nel quale andrà poi

a riconoscersi il jazz della West Coast. Esso in realtà ha rappresentato

qualcosa di radicalmente diverso, per il nero, dal senso che poteva

attribuirgli il jazzman bianco: la calma e la freddezza di Lester Young

vollero significare un ben preciso atteggiamento di angoscia e di tragica

solitudine di fronte agli sforzi reiterati dei bianchi di isolare

l'afroamericano: il sax di Young, nel contesto della musica di Basie come

nella rarefatta temperie dei piccoli gruppi, proprio un simile universo

struggente intese rappresentare. Per il musicista bianco, la calma e la

freddezza del cool significarono ricerca tecnica di una struttura musicale

nuova e diversa, spesso di estrazione occidentale, semmai da contrapporre

alla segreta protesta del nero. Per questa ragione, malgrado il forte

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contributo che musicisti come Davis dettero al cool jazz, la leadership del

movimento fu sempre essenzialmente bianca, e così come né Basie né

Ellington furono mai i re dello swing, Davis, Young, il pianista John Lewis

che con il Moderna Jazz Quartet produsse il jazz più freddo e rarefatto

dell'intero movimento, mai furono i re del cool, un titolo che andò invece a

musicisti come Mulligan, Baker, Brubeck, Desmond, che più sensibilmente

degli altri si adoperarono per recuperare all'universo bianco una musica che

non gli apparteneva.

Musica raffinata e al contempo corposa, il jazz californiano rimase

per qualche tempo saldamente alla ribalta, pur non rivelandosi mai così

divertente come la musica swing, dalla quale il jazz della West Coast si

distingueva proprio per il distacco un po' intellettualistico che esibiva di

continuo. In quegli anni, i californiani realizzarono parecchi dischi molto

impegnativi: il batterista Shelly Manne presso la Contemporary, coadiuvato

da jazzmen di primo piano come Jimmy Giuffre, ottimo clarinettista, Bud

Shank e Bob Cooper (i quali, compagni ormai inseparabili, diedero prova

di grande azzardo tecnico nel tessuto musicale californiano, impiegando in

duetto il flauto e l'oboe). Accanto a questi solisti ne vanno ricordati anche

altri, tutt'altro che comprimari, che si rivelarono buoni talenti musicali

durante gli anni ruggenti della West Coast: i trombettisti Maynard

Ferguson e Conte Candoli, il trombonista Frank Rosolino, i pianisti Russ

Freeman e Jimmy Rowles, il chitarrista Barney Kessel.

La ribellione a questo processo di recupero dei bianchi non tardò a

venire dalla cultura nera di Harlem, alla metà degli anni Cinquanta, con

l'esplosione dell'hard bop, nato e sviluppatosi come contrapposizione al

cool della West Coast, e al contempo come rivendicazione di una

supremazia che tutta una sequenza di cedimenti culturali andava mettendo

in pericolo. Nel momento di maggior splendore della musica cool, cui pure

aveva fornito i connotati inconfondibili della propria partecipazione, il

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musicista nero avverte la necessità di un ritorno alle autentiche radici della

"sua" musica, ben oltre il malinconico e improduttivo revival da una parte,

e al di là delle barriere gelide del cool, lungo un asse in grado di ricondurlo

alle sorgenti del gospel e del canto popolare come impegno di vita e di lotta

a fronte delle manovre eversive della musica californiana. Sulla scia di

Lester Young, il musicista nero rappresentò il momento culminante di quel

vasto processo di dolorosa soggezione, riconoscibile sul filo di una globale

sottrazione spirituale alla tensione emotiva della segregazione razziale, e

comprese inoltre che era giunto il momento di compiere il grande passo

verso quel tipo di rivoluzione totale, a tutto campo, che i boppers avevano

solo iniziato e poi interrotto per il timore di non trovare più la necessaria

comunicazione con il pubblico.

La suggestiva ipotesi della data di nascita dell'hard bop attorno al

1955, anno della morte di Charlie Parker, ha un suo reale fondamento e può

essere accettata proprio in funzione di tale registro di riscatto e di risveglio;

come punto di partenza, vale a dire, di una rinascita che darà ulteriori frutti

rivoluzionari, in larga misura con l'avvento del free jazz.

Definitosi East Coast Jazz, in polemica con la costa californiana

anche nella nomenclatura, l'hard bop si riconobbe nella sostanza di una

musica dura e impietosa, protestataria nel sangue, nella stessa misura con

cui il cool aveva reperito, in un dolente, disperato solipsismo le ragioni di

fondo della sua espressione.

Non andarono molto lontano nelle loro elaborazioni musicali gli

hard-boppers, tuttavia realizzarono un universo di rivolta che mai fino

allora aveva manifestato sintomi altrettanto forti e robusti, persuasivi nella

misura in cui trovarono più difformi canali espressivi per realizzarsi. Anche

in questo frangente, la componente psicologica serve a verificare come il

diverso atteggiamento del nero al cospetto dell'hard bop stia ad indicare

quanto grande e sensibile fosse in quella particolare stagione il senso di

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speranza e di attesa dell'afroamericano, nei confronti della stagione piena

del riscatto, del recupero delle radici. L'operazione di rivolta si mosse

attraverso le linee interne dei recessi dell'anima, tanto che l'hard bop non

tardò a riconoscersi, e a confondersi talvolta, con la soul music, sì da

provocare impulsi iniziali sicuramente più profondi degli eccessi che

produrrà in seguito. Il senso di aggressione sociale riconoscibile nel tempo

di passaggio dalla non-partecipazione della cool music al nuovo schema

proposto dall'hard bop, riflette realisticamente una svolta di estrema

importanza nella storia della cultura afroamericana, poiché penetra al vivo

della preistoria della sua attuale emancipazione in termini ancora più

sensibili, anche se musicalmente meno validi, di quelli espressi nel be-bop.

Il simbolo più concreto dell'irruenza con la quale l'hard bop aggredì il

mondo del jazz, proponendo i termini della rivolta in modo perentorio e

inconsueto, fu il trombettista Clifford Brown, morto prematuramente

proprio nella stagione in cui stava esprimendo il meglio di sé. Né va

sottovalutata l'ipotesi che il tramonto dell'hard bop, come musica

impegnata e non commerciale, abbia coinciso con la fine del suo esponente

più sensibile e appassionato, che assieme ad Art Blakey e a Max Roach ha

dato vita ai momenti più emotivi che il jazz degli anni Cinquanta abbia

saputo offrire. La definizione secondo la quale Clifford Brown è stato una

sintesi di tutto quanto i trombettisti, da King Oliver in poi, avevano

pazientemente scoperto, forse non rende piena giustizia ad un musicista che

dette una rilevante impronta di originalità a questa variante del creativo,

compresa quell'autonomia da modelli, stili e tendenze, in un frangente

alquanto confuso e concitato di questa musica: aver saputo guidarla con il

supporto di una forte componente spirituale, senza mai indulgere in

formule retoriche o consumistiche, rappresenta di certo uno dei maggiori

meriti del trombettista, caso più unico che raro di musicista che si lasciò

alle spalle, dopo la morte immatura, un esercito di imitatori, pur per quel

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poco che la sorte gli consentì di esprimere.

Infine, anche se nel circuito del creativo dell'hard bop andarono a

situarsi fenomeni commerciali come il rock and roll e il rhythm and blues,

almeno quello proveniente dalla cultura nera non contaminata dalle

numerose imitazioni bianche che i due movimenti musicali produssero, è

innegabile che l'hard bop ha rappresentato una forza di continuità solida

con il jazz moderno espresso dal be-bop, dal quale ha ereditato il substrato

culturale, fino a condurlo alle estreme conseguenze. Al seguito di Clifford

Brown, di Art Blakey e di Max Roach, non furono pochi i jazzmen che

percorsero quella strada impervia, dal pianista Horace Silver al sassofonista

Sonny Rollins, artefici assoluti di una improvvisazione senza soste che si

svolgeva dal principio alla fine, per cui in ogni session d'incisione, come in

concerto, il blowing, il soffiare nello strumento, rifletteva una ragione di

vita, una riflessione necessaria e inderogabile, seguendo sempre - va detto a

chiare note - lo schema armonico del blues, la musica madre di ogni

reazione. Via via negli anni si infoltì la schiera degli hard boppers, con

apporti di grande rilievo da parte, per esempio, di Julian Cannonball

Adderley, con il fratello Nat alla tromba a seguirne gli schemi

rivoluzionari. Né va trascurato il fatto che con l'avvento dell'hard bop

entrarono in crisi tutti quei vecchi standards sui quali la musica jazz

precedente aveva costruito la sua fortuna, mutuandoli dalla musica leggera

americana, anche quella di gran classe. In coincidenza con gli anni

Cinquanta, si moltiplicarono le composizioni jazzistiche originali,

emarginando la voce umana e affidando agli strumenti il ruolo di

protagonisti assoluti, in grado di trasmettere al fruitore della musica

l'integro sviluppo del discorso mentale. Tutto quanto è accaduto nei

tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l'affermarsi negli States di

una nuova sinistra, il fiorire della cultura underground, una vera e propria

controcultura, le rivolte studentesche, lo scardinamento di miti che

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sembravano intoccabili come il sentimento, la famiglia, il principio di

autorità, ha finito per incidere in modo massiccio sulla musica jazz,

accentuando i toni della protesta non soltanto sul filo di un contenutismo

impietoso, ma anche sul piano dei moduli espressivi, tutti tesi a creare i

presupposti per una più radicale presa di coscienza, e di posizione, del nero

d'America.

9. La liberazione del free

Nel giugno del 1966, il grido "Black Power" venne lanciato da una

voce sconosciuta nel corso della marcia dei neri sulla città di Jackson nel

Mississippi; fu quello il momento di una esplosione a lungo compressa, fin

dalla stagione storica dell'Harlem Renaissance e delle teorie di Garvey sul

ritorno e sul risarcimento dell'Africa nera. A ridosso di quel movimento

clamoroso, e imprevedibile per i bianchi, che prese il nome di "Black

Revolution" l'autobiografia di Malcolm X, nella sua drammatica

suddivisione in tre parti, rifletteva il lento ma inesorabile tracciato di

affrancamento dell'afroamericano dalla condizione di una negritudine,

subita con immobile orrore, verso una condizione di negrità che deve

identificarsi come un vero e proprio risveglio dello spirito, un sobbalzo

improvviso della coscienza. Il trittico assume un carattere quasi dantesco

nella sua configurazione in inferno, purgatorio e paradiso, riconoscibili

nell'adolescenza di Malcolm, la stagione dell'assunzione coscienziale in cui

il nero viene "addestrato e istruito ad onorare il mondo bianco", attraverso

il purgatorio di una prigione consumata come urgente bisogno di

conoscenza e di emancipazione morale, e necessità di esaltazione della

propria pelle nera, fino all'approdo ad una terra promessa che si riconosce

nel paradiso, ma che nella sua concretezza si identifica col momento della

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decolonizzazione. Il nomignolo di "coon", il tasso americano, roditore

appartenente alle razze inferiori che divorano i resti del banchetto bianco,

aveva perseguitato il nero fin dal suo primo contatto con il mondo esterno,

determinando uno stato di precoce alienazione: al tempo dell'inferno di

Malcolm fanciullo, il nero non si riconosce, cresce nel tragico ritardo della

propria emancipazione, e tale processo va accentuandosi negli anni, lungo

un percorso di tragico regresso. Dopo l'esperienza del carcere, vissuta e

consumata nella stagione del tentativo purificatorio, nasce e prende corpo

nel pensiero di Malcolm un insistente orientamento verso la riflessione

islamica come unica realtà solutoria in grado di consentire la liberazione

dei neri dall'incubo dell'"altra" razza, oltre che come momento

fondamentale nell'edificazione della Nazione Nera.

La metafora di Malcolm, così vicina alla realtà incombente su

quella comunità perseguitata, aveva il suo supporto ben preciso nella

predicazione di Martin Luther King, del quale fu discepolo almeno fin

quando i due non furono divisi da una diversa idea sulla strategia di lotta.

Non si comprende tuttavia la posizione dei due grandi leaders del riscatto

nero, e del movimento di liberazione che ad ambedue andò ad ispirarsi, se

non si prendono in considerazione gli effetti negativi che ebbe sui neri il

cosiddetto decennio di progresso, che va dal 1955 al 1965. La preistoria di

quel periodo è da rintracciare nella storica sentenza della Corte Suprema

degli Stati Uniti, con la quale si condannava a fuoco la segregazione nelle

scuole americane. Dalla maggioranza dei neri, tale decisione venne accolta

come una nuova era nascente nei difficili rapporti fra bianchi e neri, al

punto che molte organizzazioni nate a difesa dei diritti civili avevano

pensato seriamente all'inutilità della loro azione e all'eventualità di uno

scioglimento.

L'equivoco fu enorme, e oggi non sembra più un paradosso il fatto

che, nel decennio del progresso, la sproporzione dei redditi fra americani

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neri e bianchi aumentò notevolmente, facendo crescere il numero dei

disoccupati e provocando continue crisi nel fenomeno della segregazione

razziale, così come andava manifestandosi nei grandi centri industriali del

Nord. Il Movimento Boicottaggio Autobus, iniziato a Montgomery da Rosa

Parks nel 1957, non fu che uno dei tanti episodi della preistoria del Black

Power, le cui concause vanno poi ricercate nella condizione stessa di

subordinazione in cui le due razze continuavano a vivere.

La figura di un eroe enigmatico come Malcolm X, autoelettosi capo

dei Muslims appena uscito di prigione, cominciò ad assumere proporzioni

vistose e la sua morte violenta nel 1965 rappresentò per lui l'ingresso nelle

regioni stravolte del mito, come del resto accadrà qualche anno dopo al

fratello nel martirio, Martin Luther King. Al discorso integrazionista,

sostenuto dalla Corte Suprema degli Usa, alla politica della "mano tesa",

Malcolm contrapponeva l'esigenza primaria e inflessibile da parte dei neri

di non lasciarsi gestire dai bianchi, bensì di avere propri capi e autonome

guide politiche, come per le comunità ebraiche e irlandesi.

Di qui l'esigenza di una indispensabile base culturale da parte degli

uomini del Black Power, come assunzione di una coscienza liberatoria

fondata su sicuri elementi di giudizio e di analisi. Il programma socio-

politico dell'Islamismo e il concetto di religione come totale definizione del

mondo, diventarono così le necessarie strutture portanti di un impegno

culturale di ampie proporzioni e di più certa capacità di penetrazione.

L'angolazione dalla quale il movimento dei Black Muslims osserva e

giudica la progressiva azione di autonomia del nero, disincagliato

dall'universo concentrazionario, tipica di Malcolm X, di Cassius Clay e dei

loro seguaci, ritrova un suo più vasto terreno di correzione e di revisione

nel momento in cui il problema della nazione islamica come modello di

sviluppo civile viene affrontato da una generazione più colta di neri, legati

al Black Power, certamente, ma con esigenze interiori ancora più ampie e

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profonde. Si precisa così il passaggio definitivo dalla negritudine alla

negrità, lungo componenti culturali che investono le esigenze di fondo del

popolo nero: nel momento in cui il ghetto si identifica con il Terzo Mondo,

gli uomini del Potere Nero acquisiscono a loro volta il diritto a una

leadership, che sul piano politico continua a risultare problematica, ma al

contempo rappresenta la nozione di un rilevante impegno culturale. Torna

la rappresentazione dell'inferno dantesco in un poeta nero come Leroi

Jones, e assume accenti e tonalità di un mito nuovo, reale questa volta per

l'evidenza di un risvolto umano riconoscibile nella logica di Harlem come

somma dei dolori del mondo, enorme catino nel quale vorticano

traumaticamente i sensi di colpa e la frustrazione, in cui marciscono doni

inestimabili di saggezza, di amore, musica, scienza, poesia, in ibrida

comunità con la più degradante corruzione dei sentimenti.

Se dalle tante testimonianze di sociologi, uomini politici,

intellettuali neri, scrittori come Leroi Jones, Malcolm X, Eldridge Cleaver,

Angela Davis, si passa ad analizzare quelle dei nuovi jazzmen che furono

espressione del New Thing definito free jazz, si avverte come il linguaggio

ancor più si chiarifica, poiché per il musicista di jazz il recupero dell'Africa

nera, ben oltre la pur macabra ideologia, significa anche ritorno ad un

universo di suoni in parte ignorato prima, e in parte mistificato dalla logica

della commercializzazione, che aveva inventato quel paesaggio di

cartapesta fatto di palmeti e di dune, che erano sullo sfondo del Cotton

Club mentre Ellington si esercitava nello stile jungle. Di ritorno dal

Festival delle Arti Nere di Algeri, Archie Shepp, uno dei padri spirituali del

nuovo linguaggio, non nascondeva il senso di rivelazione che ebbero per

lui taluni suoni, certe percussioni particolari, il ritmo "nero", così diverso

da quello della tradizione jazzistica d'America, soprattutto il senso

comunitario del tessuto connettivo e infine la riconquista, la

riappropriazione di quella gioia del creativo che il bianco aveva perduto.

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Tale nuovo rapporto ha posto un problema di fondo che la musica jazz non

aveva mai avuto in passato, e che ora si pone in modo netto per le forti

implicazioni politiche che la New Thing musicale avanzava in modo così

deciso: il confronto fra ideologia e libera ispirazione del creativo all'interno

di un movimento così politicizzato come il free jazz. Alla svolta di una

dura radicalizzazione della lotta, era inevitabile che il nodo del problema

riguardasse appunto tale confronto, anche per le marcate tendenze marxiste

all'interno del Black Power, pur con le dovute sfumature. Mai era accaduto

prima che il rischio della valorizzazione dell'ideologia comprimesse o

isolasse del tutto il senso estetico dell'esecuzione: è chiaro che questo

problema non aveva acceso né prodotto la musica di Ellington o di

Armstrong, ma neppure musicisti come Miles Davis o John Coltrane, del

quale è ben noto il disagio quando per la prima volta si trovò a suonare con

uomini del free come Ornette Coleman o Archie Shepp. Ma per lui il

trauma iniziale, che mai verrà superato dai jazzmen della tradizione, fu

vinto in virtù dell'acquisizione del free jazz come libera rivolta alle regole

rigide del colonialismo bianco.

D'altro canto, anche il risarcimento dell'immenso patrimonio

africano si pone come struttura portante della nuova musica, anche sul

piano del discusso incrocio arte-ideologia. L'esempio più provocatorio e

probante di tale rapporto è di certo offerto dal lungo brano che ha dato il

nome a tutto il movimento del New Thing: fu storica la registrazione,

avvenuta a New York nel 1960, di Free jazz eseguito dal Double Quartet di

Ornette Coleman: non solo per il titolo che ha poi dato nome all'intero

movimento, ma anche perché è stata la prima manifestazione ufficiale e

collettiva dell'avanguardia jazzistica. Era un doppio quartetto, appunto,

costituito da due ottoni, due ance, due contrabbassi, due batterie, e la

musica che ne esplose risultò un impasto sonoro fortemente traumatico, al

limite della provocazione, secondo una consuetudine che Ornette Coleman

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andrà d'altronde ripetendo per anni su tutti i prosceni del mondo: "Quando

il solista suonava qualcosa che mi suggerisse un'idea o direzione musicale,

io la suonavo dietro di lui nel mio stile. Egli continuava naturalmente

l'assolo alla sua maniera", ricorda Coleman a proposito di quella

memorabile incisione. E ancor più risulta indicativo il fatto che sulla

copertina del disco compaia il dipinto White Light di Jackson Pollock, a

conferma della conseguita frantumazione del linguaggio tradizionale

compiuta nella più totale libertà espressiva, ma al contempo nel più rigido

controllo del momento creativo.

Non va trascurato il fatto che Ornette Coleman si sia mosso, nel suo

drammatico solismo, dall'esperienza di Charlie Parker; e l'avvio del lungo

assolo della terza parte del brano fornisce il dato di tale originaria

connotazione, oltre che le compiute matrici di un filo conduttore espressivo

che appunto dal contesto parkeriano muove per giungere alla free music,

tempo indicativo di ricerca che ha infranto i limiti e i margini della

contemplazione dolorosa, per immergersi nella gioia del vivere la bellezza

nera in una sfera anarchica e liberatoria, donde ogni assonanza o

dissonanza, qualsiasi movenza diacronica o sincronica ritrova la propria

ragion d'essere più sensibile.

Si vuol dire che il momento sonoro del free riesce a realizzare uno

stato tensivo di comunicazione collettiva che rovescia del tutto le radici

tradizionali del jazz inteso nel suo significato originario, e tale capacità di

ribaltamento configura una sorta di "empatia musicale", proprio perché

tende a concretare il tempo dell'emozione del singolo musicista entro una

condizione di reciproca eccitabilità collettiva dalla quale non si sfugge, a

meno che non si cerchi l'anfratto della tradizione: "è finita per i figli dei

bianchi", dichiarava in quegli anni Archie Shepp, "non balleranno mai più

con la musica del pagliaccio nero. è finita con i battelli sul Mississippi, con

le ballrooms di Chicago e di Manhattan, con lo sfruttamento, con l'alcool,

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con la fame e la morte... è durato cinquant'anni il viaggio del nero verso il

Nord... I figli del battelliere e dell'emigrante hanno valicato i confini

folcloristici del jazz, la musica del nero americano è entrata nella cultura

nera e americana". Soprattutto quest'ultima affermazione risulta indicativa

per comprendere il tempo del trapasso dal realismo naturalistico delle

origini all'età commercializzata dello swing e infine, dopo la verifica della

stagione intermedia espressa dalla ribellione dei boppers, al sostrato

contestativo e provocatorio del free. Il passaggio cioè dal formalismo, con

cui si è aperta la stagione del jazz, allo stadio informale con cui si sviluppa

il credo della musica contestativa, non può che reperire il suo tema

originario nella musica di Parker, ma soprattuto nell'evoluzione liberatoria

che la cultura nera ha vissuto fino al grido urlato a voce piena e in totale

affrancamento da Cleaver e Leroi Jones, da Maicolm e da Luther King.

Al tempo della svolta, quando nel 1964 sciolse il New York

Contemporary Five, Archie Shepp si trovò a vivere un'avventura che alcuni

anni prima aveva vissuto John Coltrane, di bilancio e di verifica, che si

precisa via via che le implicazioni civili e umane si aggregano allo sviluppo

della tecnica. Nel dilatarsi delle capacità espressive, si localizza al

contempo l'identificazione della personalità nera, nella fermezza di una

responsabilità che non permette più l'equivoco o il ritorno al passato; e

favorisce al contrario, come era già accaduto per Parker e Coltrane, un

recupero ancora più avanzato della primordia tematica del blues, lungo il

crinale di una operazione poliritmica più insistente di quanto non fosse

stato in precedenza. Archie Shepp poté così realizzare concretamente il suo

progetto con Fire Music del 1965, quando fu in grado di operare da solo e

come leader, e perciò fornire la sua musica di quell'ampio supporto di

suoni, alla cui base era ben presente quell'inferno di Harlem cui Leroi Jones

aveva dato una precisa configurazione poetica. La verifica culturale diventa

sempre più tenace e insistente, con il richiamo ad altre comunità impegnate

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in lotte analoghe, come avviene in Los Olvidados, un brano fortemente

impressionistico, ma al contempo scopertamente espressionistico per i

risvolti realistici esasperati fino allo stremo, ispirati chiaramente al noto,

allucinante film di Bunuel.

Raggiunta l'unità orchestrale di cui aveva bisogno, Shepp attua così

il disegno ideologico di risarcimento dell'universo umano e sonoro della

temperie di New Orleans, alle radici del blues, e lo realizza con la

collaborazione di Gracham Moncur III come secondo trombone, che gli

permette di obbedire finalmente a quel tipo di improvvisazione che doveva

significare la sua militanza di artista e di poeta, oltre che di uomo calato

nella logica di una dura lotta contro il bianco.

Il recupero della polifonia africana quale era andato realizzandosi

nelle orchestre del Sud degli anni Venti, si concretizza ora con più netta

evidenza attraverso i nuovi mezzi espressivi di cui può servirsi Shepp con

un simile organico: laddove ogni strumento, nei gruppi di New Orleans,

aveva un ruolo precisamente assegnato, qui invece opera in libertà assoluta,

in una condizione di felice anarchia, anche come contraccolpo di più vaste

avventure in questo campo, dovute a Coltrane, ad Ornette Coleman, ad

Albert Ayler, drammatica figura di jazzman, morto tragicamente nel pieno

della maturità espressiva. Nel momento in cui la libertà polifonica diventa

globale e coinvolgente, il processo di partecipazione e di corresponsabilità

del pubblico è compiuto e il quadro generale viene allora rifinito con

l'innesto di un più ampio incrocio culturale, che comprende la lettura di

brani e di poesie dello stesso Shepp e degli altri uomini del free, secondo

una consuetudine già inaugurata dagli intellettuali della beat generation

californiana: "Una canzone", inizia a dire Shepp in apertura del brano

Malcolm Malcolm Semper Malcolm, "non è solo quello che sembra un

tema musicale, un uccello che può cantare felice anche in America.

Ascoltate, noi suoniamo, ma siamo sempre schiacciati. Siamo assassinati".

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Un ulteriore aspetto del problema provocato dalla nuova musica,

oltre che quello del rapporto fra ideologia e fatto creativo, riguarda e

coinvolge l'incontro con l'avanguardia informale con cui la New Thing va

sovente ad identificarsi. Si è parlato dei casi Pollock-Coleman e Shepp-

Bunuel, altro evidente esempio della tenacia con cui il nuovo

afroamericano stabilisce raccordi e fili con l'avanguardia novecentesca,

entro la quale poter reperire il filo smarrito di una condizione analoga; si

ritrova in una poesia di Leroi Jones, Black Dada Nichilismus, in cui il

senso di libertà prodotto dal rifiuto ormai lucido dell'universo

segregazionista si realizza sul filo teso di un transfert linguistico che

consente al poeta di offrire uno strato culturale fortemente sperimentale

all'intero contesto dell'inferno nero. La parola, accompagnata dal

commento sonoro del New York Jazz Quartet, che ne completa e vitalizza i

segreti traslati, esplode allo stato coscienziale e puro come dolorosa e tacita

esemplificazione del vero e del reale, e allora il processo di simbiosi

immagine-suono trova la più limpida enucleazione al bivio del concetto che

non sfugge alla realtà, ma si realizza invece dentro un più ampio universo:

quello allucinato di un Harlem-grumo-sconvolto di pagani, di lussuriosi

incontinenti, di ingordi, di iracondi, di seduttori, di adulatori, di simoniaci,

di indovini, di barattieri, di ladri, di seminatori di discordie, tutti calati

entro una fossa che è già teatro, perché la pièce che vi si recita possiede in

sé tutti i sintomi della tragedia.

Ecco quindi che, in questa fase della sua storia, il jazz diviene il

comune denominatore di una totalità di culture, crocicchio demoniaco per

mille ramificazioni interiori, che agiscono nel subconscio di una

intelligenza stravolta: "è vero, bimbo. Io parlo. Io ho.

Blues. Steamshovel blues. Blues. Io ho. Blues dell'espressionismo

astratto. Blues dell'esistenzialismo. Io ho. Più blues di quelli per i quali tu

puoi dimenticare le chiappe. Kierkegaard blues, eccoli qui ragazzo, un

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sussulto, una contorsione. Ho persino il blues del giornale. O,

completamente folle, il blues del blues. Niente mi sfugge. Tutti questi blues

sono cose nelle quali ti imbatterai. Io ho soltanto visioni e parole e ombre.

Io ho la tua visione nelle mie dita. Qui è tutto ciò che pensi. E fuori di

questa tenda, il resto della tua vita".

Il linguaggio jazzistico, emerso dal paesaggio della contemplazione

e della liricità, va dunque proiettandosi verso soluzioni del tutto nuove,

deciso a rompere per sempre le barriere della tradizione: se personaggi

come Parker, lo stesso Coleman, Coltrane, Mingus, Cecil Taylor

appartengono per certi aspetti al tema libertario precedente, ben più

rivoluzionari materiali espressivi sono reperibili nei suoni di Alber Ayler,

dello stesso Shepp, di Sun Ra, di Marion Brown: si passa repentinamente, e

con una manovra d'urto marcatamente provocatoria, all'impatto globale, al

grido entro il quale confluiscono strumenti acustici esasperati e persino

apparecchi riceventi. Si fa enorme e intollerabile il fastidio da arrecare al

fruitore di questa musica, e la batteria, decomposta e dissacrata la sua

funzione originaria, diventa il viatico di maggior violenza per chi ascolta,

non più il referente che produceva quel ritmico dondolìo che la tradizione

definiva swing. L'assolo non ha soluzione di continuità, poiché deve

innestarsi al vivo del sound, così da condizionarne pienamente le capacità

ritmiche.

Nell'ossessione urlata all'unisono, si immettono gli strumenti a fiato

che accendono il clima "impossibile" e "illeggibile", che in quanto tale

ferisce direttamente la realtà della fruizione, un'azione aggressiva che ebbe

non pochi protagonisti, oltre a quelli già ricordati: i sassofonisti Sam

Rivers, Robin Kenyatta, Jimmy Lyons, Byron Allen, Frank Wright; i

trombettisti Clifford Thornton e Don Ayler; i contrabbassisti Gary Peacock,

Alan Silva, Reggie Johnson; i pianisti Dave Burrell e Don Pullen; i

batteristi Sunny Murray, Milford Graves e Andrew Cyrille. Fuori di New

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York, per un certo tempo epicentro incontrastato, il fenomeno non aveva

grande espansione, tranne che a Chicago dove un gruppo di musicisti

dell'avanguardia rispondeva con profitto ai segnali newyorkesi: il pianista

Richard Abrams, i pluristrumentisti Joseph Jarman, Roscoe Mitchell,

Anthony Braxton, il trombettista Lester Bowie, il violinista Leroy Jenkins,

il batterista Steve McCall, il bassista Malachi Favors, alcuni dei quali

andranno a far parte di quell'autentica fucina di sperimentazione jazzistica

che è stato il gruppo denominato Art Ensembie of Chicago.

La free music tardò ad affermarsi e non si può dire che abbia mai

avuto grandi accoglienze e raccolto molti adepti tra i fans del jazz: forse in

Europa ha vissuto una stagione di maggior riscontro, anche come

conseguenza di fenomeni rivoluzionari come la Contestazione studentesca,

il Maggio Francese, il fenomeno diffuso del maoismo e del radicalismo di

sinistra. Negli Stati Uniti, chi non riusciva a digerire la New Thing aveva

parecchie scelte alternative: le orchestre di Duke Ellington, di Woody

Herman, di Count Basie stavano vivendo un'epoca di notevole successo, e

per chi esigeva una più raffinata e intellettualistica musica, c'era il pianista

Bill Evans, di certo il più dotato fra i jazzmen bianchi assieme a Lennie

Tristano, altro elegante musicista bianco, mentre cominciava ad imporsi la

bossa nova, un tipo di contaminazione proveniente dall'America Latina che

ai tempi del be-bop prese il nome di Afrocuban Music e ora si sviluppa con

percussioni e scansioni un po' diverse per merito di un grande sassofonista

bianco, Stan Getz, il quale con il chitarrista Charlie Byrd, portatore della

nuova musica da Rio de Janeiro, dette vita ad esemplari versioni jazzistiche

di famosi brani latinoamericani come Desafinado, delizioso tema di

Antonio Carlos Jobim. Il jazz-samba coinvolse anche altri jazzmen di

grande valore, specialmente neri, a cominciare da Coleman Hawkins,

Sonny Rollins, Cannonball Adderley, Quincy Jones, per non parlare di

Dizzy Gillespie, che di questa musica, per molti anni, fece il tema centrale

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del suo repertorio. Frattanto, il jazz andava avviandosi verso nuove

avventure ancora più spericolate, non più in grado di difendersi dal

consumismo dopo la vicenda liberatoria e anarchica della free music: il

mondo del rock, con tutte le tentazioni del facile profitto, va ad invadere un

territorio e un ambiente che, alla svolta degli anni Settanta e poi negli

Ottanta fino ai giorni nostri, stava vivendo una fase di attesa e di

chiarificazione, con tutta la fragilità che una tale condizione può provocare.

10. Il viaggio verso il rock

All'indomani della pubblicazione del disco Bitches Brew di Miles

Davis, il critico americano Leonard Feather disse che da quel giorno la

musica jazz sarebbe stata ormai "un'altra cosa". Si tratta di un'opera di

vasto impegno e se da un canto evidenzia la necessità primaria da parte di

Davis di rintracciare filtrazioni spirituali ancora più penetranti e profonde

con l'Africa nera, d'altro canto una così variegata tavolozza di colorature

musicali ha finito con l'aprire il discorso sul connubio, molto discussso e di

certo discutibile, fra la musica jazz, la fusion-music e il jazz-rock.

L'intera opera si divide in varie parti, Pharaoh's Dance, Bitches

Brew, Miles Runs the Voodoo Down, Sanctuary, Spanish Key, John

McLaughlin, tutte rapportabili ad una unica matrice africana che si esprime

e si realizza nel significato che dà titolo al disco, una sorta di "brodo di

cagne" che sta ad indicare una misteriosa, demoniaca pozione di qualche

stregone, ad iniziazione di un magico rituale in cui tutto l'universo

dell'Africa nera risulta coinvolto e celebrato. Lo stregone-favolista Davis

riesce così a far confluire l'intero contesto delle percezioni africane in

termini di totalità espressiva: servendosi di regole strumentali del tutto

nuove, almeno in rapporto e a confronto con gli schemi tradizionali di

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questa musica, Davis riesce a individuare le strutture più segrete del blues

lungo un crinale di risarcimento afroamericano, ricavandone un universo di

suoni irripetibile, un archetipo che nelle sue mani e nel suo talento avrà in

seguito un senso e un significato difficilmente reperibili nei suoi seguaci e

negli epigoni.

Si corre infatti sul filo di un rischio totalizzante: la musica jazz

finora era stata qualcosa di molto diverso, e diventa "un'altra cosa", poiché

si introduce un linguaggio e un credo estetico finora del tutto ignorato.

Basta osservare l'organico di cui Davis si è servito per la realizzazione della

suite per giungere subito a conclusioni di incontro e di connivenza con la

musica rock, che riflette la nuova moda della musica americana; oltre alla

tromba di Miles Davis ci sono Wayne Shorter al sax soprano, Benny

Maupin al clarino basso, Chick Corea al pianoforte elettronico, Joe

Zawinul e Larry Young come pianoforti elettronici aggiunti in alcuni

frammenti della saga, Dave Holland al contrabbasso elettronico, John

McLaughlin alla chitarra elettronica, Lenny White, Charles Alia, Jack De

Johnette alle batterie e Jim Riley allo strumento a percussione.

All'orologio della storia dei neri d'America, l'età degli anni Sessanta

e Settanta ha significato immissione entro un impegno duro e impietoso,

sul quale anche la musica finisce per agire in modo determinante: se il free

jazz volle dire, come si è notato, estrema e radicale rivolta agli schemi

armonici tradizionali, in virtù di una violenta frantumazione del linguaggio

che voleva anche esibire l'esigenza primaria dell'intolleranza verso lo stato

di soggezione del nero delle origini del jazz, d'altro canto un senso

profondo di risentita aggressività si riscontrava almeno in altre due strutture

portanti dell'espressione nera in quegli anni, il rhythm and blues e il rock in

tutte le sue varianti, compreso quell'hard rock che si riconosceva nello

zoccolo più duro della protesta. Alla quale non si sottrassero quelle

comunità bianche emarginate o per matrice sociale o per scelta ideologica.

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Derivato alquanto spurio del jazz, il rock aveva trovato nei suoni

elettrificati di Miles Davis una sua sublimata individuazione, ma il "caso

Davis" restò un fatto isolato e la delusione prodotta dai documenti esibiti in

quegli anni dagli uomini del pop, del rock e del rhythm and blues furono

tali da vanificare ogni serio tentativo di incontro o di confronto.

Fra il 1968 e il 1969 il processo di saldatura fra jazz e pop era ai

primi passi, e tuttavia l'industria discografica americana già guardava con

un certo interesse ad un possibile incrocio di esperienze.

La rivista Jazz di New York cambiò la propria testata che diventò

Jazz e Pop e ospitò numerosi articoli di rilievò dovuti a personaggi

collaudati della critica jazzistica come Nat Hentoff, che esaltava la

possibile ecumenicità delle varie musiche popolari che avevano costruito la

storia del creativo in America; ad essa andò ad unirsi la più autorevole delle

riviste musicali americane, il Down Beat, che iniziò una vera e propria

crociata per far posto al pop nelle pubblicazioni specialistiche degli Usa.

Inoltre in quegli anni, nei Festivals di jazz più importanti, sia negli Stati

Uniti che in Europa, i jazzmen della tradizione, come dell'avanguardia, si

trovarono a dover condividere podio e pedana con i musicisti dell'hard

rock, del folk rock, del soft rock, anche se in una reciproca condizione di

disagio. Ciò accadde in particolare al Festival di Newport del 1969, quando

sulle stesse pedane si incrociarono i più famosi jazzmen del momento, e i

reduci dalla oceanica adunata di Woodstock. Il tentativo di legame, lo

sforzo di mediazione era rappresentato dagli uomini del nuovo blues, non

più con il diavolo a tracolla o con la scimmia sulle spalle, ma in pieno

assetto elettrificato, con amplificatori che dovevano servire a "stordire" la

platea più che a far godere della musica: c'era B.B. King che poteva vantare

un nobile passato di bluesmen, ma accanto a lui davano la replica Johnny

Winter o John Mayall, in pittoresca tenuta da cacciatore di frontiera.

L'unico comune denominatore, importante perché spiega in larga parte il

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confronto e l'incontro, era il fatto che tutti, bianchi e neri, jazzmen e

rockmen,

appartenevano

all'"altra"

America,

quella

ribellatasi

all'Establishment, contestatrice della guerra sporca in Vietnam, dalla foggia

stravagante, talvolta stramba e balorda.

Immesso ormai nel mercato discografico, con annessione logica ai

festivals e ai grandi concerti oceanici, il jazz-rock, all'indomani di Bitches

Brew di Davis, incontra sempre maggior fortuna, anche in virtù dei buoni

esiti conseguiti, oltre che da Davis, da Gary Burton e da Don Ellis; ma al di

là di questi nomi, il connubio andava avviandosi verso la sua

commercializzazione, purtroppo guidata da musicisti di tutto rispetto come

Joe Zawinul e il sassofonista Wayne Shorter, ex compagno di Davis, unitisi

ora nel gruppo dei Weather Report, Tony Williams, ex batterista ancora di

Davis, convertitosi alla nuova formula con il trio Lifetime, il chitarrista

inglese John McLaughlin, lanciato negli Stati Uniti da Williams e Davis il

quale, con la sua Mahavishnu Orchestra, divenne famoso nel 1973

vincendo i referendum del "Down Beat" con largo margine; quindi l'italo-

americano Armando "Chick" Corea, passato con sospetta disinvoltura da un

solismo molto raffinato ad un free piuttosto ambiguo, fino ad un rock

alquanto facile e scontato con il gruppo Return to Forever; infine Herbie

Hancock, ottimo pianista di jazz, trasformato fin troppo rapidamente in

esecutore di un confuso e volgare rock elettronico. Entro un simile contesto

va sottolineata l'importanza che è andata assumendo l'elettrificazione degli

strumenti, tipico emblema dell'età del rock, anche se in precedenti stagioni

culturali non pochi musicisti avevano adottato tale sistema: Les Paul aveva

iniziato ad elettrificare le prime chitarre, Charlie Christian aveva realizzato

una ricognizione al vivo di certe esperienze di grande significato estetico,

in virtù dello straordinario talento che certamente possedeva e, per quanto

concerne il più ristretto mondo del blues, T-Bone Walker rappresenta il

caso di un bluesman che per la prima volta tenta avanguardistiche e

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rischiose sperimentazioni nel rapporto fra questa musica e l'elettrificazione.

Su tale piano, e all'interno di un simile contesto, oltre che le opere di Miles

Davis sono da ricordare, nel riquadro di queste nuove esperienze che il jazz

sta vivendo, le scorribande nel rock duro di gruppi come la Mahavishnu

Orchestra di John McLaughlin di cui si è detto, dei Weather Report di

Wayne Shorter e Joe Zawinul, dei Return to Forever di Chick Corea; ma

non va tralasciato il chiassoso rock di Billy Cobham, certe registrazioni

discograriche di Gary Burton con Keith Jarrett e Larry Coryell, alcune

esemplificazioni del bassista Stanley Clarke, sorretto dal duro supporto

dell'hard bop dei fratelli Marsalis, di Ron Carter, di Buster Williams, di

Toni Williams, oltre che del fin troppo celebrato Paul Metheny.

Musica "contro", musica di rottura che almeno in parte attinge le

sue radici nella musica nera del rhythm and blues e dell'hard rock, con tutta

la carica di rabbia e di risentimento che tale condizione presuppone: uno

spazio della protesta che si vela anche di bianchità dolorosa e sofferta, nel

momento in cui si verifica l'appropriazione del blues, nella sua spiccata

componente ribelle e angosciosa, attraverso le voci di Woodie Guthrie, di

Bob Dylan, di Joan Baez, oltre che di gruppi che hanno collaborato a

questa rigenerazione come i Beatles e i Rolling Stones. E per concludere, si

ritorna a Miles Davis, protagonista di un disco postumo che riguarda la

registrazione dal vivo di un concerto tenuto la sera dell'8 luglio del 1991 al

25esimo Festival del jazz di Montreux. Qui l'incontro fra il maggior talento

del jazz moderno, Davis appunto, e il maggior arrangiatore nero di questi

anni, Quincy Jones, ha finito per dare risultati di grande rilievo estetico.

Convinto da Jones a evocare vecchi arrangiamenti che hanno fatto scuola

nel jazz moderno, Birth of the Cool, Miles Ahead, Porgy e Bess, Sketches

of Spain, Davis si è sottoposto al revival, ma con punte innovative nel

linguaggio che rappresentano oggi l'ultimo stadio cui può pervenire una

musica elettrificata fino all'esasperazione, che tuttavia lascia intravvedere

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grandiosi squarci di pura liricità nei frangenti in cui Miles Davis

interferisce con la tromba, creando a sua volta situazioni dominate da un

fertile senso della poesia.

Lirico nel significato totalizzante della parola, Miles Davis ha

tentato di ricostruire, fino al grido estremo che precede la morte, il conato

di rivolta e di risentimento nei confronti di un passato da cancellare, in cui

anche la musica è andata a caricarsi di un potenziale in bilico fra la

dimensione romantica della vita e la sua immissione entro il ribollente

catino della protesta.

11. Jazz Duemila

L'aspetto più preoccupante del jazz odierno e delle prospettive che

riguardano il futuro di questa musica, concerne il fatto che tanti

protagonisti che hanno fatto la storia dei neri d'America e del loro spiccato

senso del creativo, sono morti e non c'è stato un ricambio in grado di

operare la sostituzione: Armstrong, Ellington, Count Basie, Billie Holiday,

Lester Young, Charlie Parker, John Coltrane, Charles Mingus, Thelonius

Monk e altri ancora non hanno avuto adepti né epigoni in grado di

riprenderne il segnale e il messaggio, in virtù anche di un'assenza totale di

temperie, di atmosfera adatta per ricreare o far nascere nuovi talenti in

grado di rimpiazzare i vecchi. Il tema dell'improvvisazione, tanto per fare

un esempio, rappresenta un problema di non poco conto, e oggi il jazz ha

perduto quell'autonoma capacità di inventare sul filo di un "work in

progress" di rilevante portata estetica, poiché la sequenza degli assoli nel

jazz di ieri ha rappresentato una sorta di confronto in allegria che non

coinvolge il jazz di domani, dominato essenzialmente da rigidi schemi

consumistici.

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Del resto c'è da chiedersi, se è vero che ogni ramificazione del

lavoro umano è andata soggetta a una profonda e devastante crisi

produttiva, a livello di valori, perché mai la musica jazz non dovrebbe

risentire di tale situazione, e configurare pertanto decisamente quel sentore

di crisi che coinvolge in negativo ogni attivita dell'uomo. Alla domanda se

si improvviserà di più o di meno nel jazz del Duemila, si può rispondere

che forse si continuerà ad avere referenti nel passato, ma i segnali che

pervengono a chi si interessa di questa musica, o la vive e la consuma da

addetto ai lavori, lasciano ritenere che ci si stia incamminando verso un

jazz d'autore - come sostiene Franco Fayenz - "con opere organizzate e

strutturate nelle quali l'improvvisazione sarà circoscritta agli interventi

solistici".

Il fenomeno stesso dell'incontro fra jazz e rock, che ha segnato

un'epoca nella storia più recente di questa musica, in una prospettiva futura

va analizzato in modo diverso, sì da coinvolgere ulteriori esperienze che

riguardano anche quel culto per il revivalismo che ha caratterizzato una

stagione cronologicamente molto più vicina a noi, e che ha le sue radici in

un riflusso di categoria idealistica e romantica, che da qualche anno va

riconducendo alle radici più remote, e importanti, di questa musica. Lungo

tale crinale va a collocarsi la logica dei concerti e dei festivals che si sono

moltiplicati ovunque, e particolarmente in Europa.

La scomparsa di tutti i grandi di questa musica ha posto il problema

del confronto con le nuove generazioni, che non posseggono quel

potenziale creativo, e quella forza ispirativa che offrivano generosamente i

jazzmen del passato: e ciò accade purtroppo in un momento in cui la

richiesta di questa musica, da parte delle giovani generazioni, è molto

consistente e certamente esigerebbe risposte ben più valide e concrete.

Rimane la realtà del disco, nelle sue forme più moderne come il compact

disc, e c'è subito da osservare che la registrazione è sempre stata uno dei

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101

punti di forza di questa musica, che alla sala d'incisione ha praticamente

affidato tutta la sua storia: dal primitivo piatto a settantotto giri al long

playing e infine all'attuale cd, il cammino dell'industria discografica è stato

lungo e anche travagliato, perché ha subìto i contraccolpi di crisi

economiche e di repentine riprese nel corso della sua storia secolare.

Mutato il campo discografico, ma al contempo cambiate anche le tecniche

di ascolto: oggi nelle numerose scuole di jazz che sono nate in gran

quantità in Italia, in Europa, negli Usa e in tutto il resto del mondo, una

delle fondamentali materie di insegnamento consiste proprio nell'educare

l'orecchio alla fruizione di una musica che sicuramente presenta delle

difficoltà di ricezione non soltanto da parte del profano, ma anche del

pubblico colto: c'e da dire che se oggi il pubblico dei concerti e dei festivals

può dirsi molto più emancipato e acculturato di ieri, ciò si deve anche

all'insegnamento offerto da varie organizzazioni: il che riconduce al

discorso precedente, della carenza di validi musicisti, che determina quello

squilibrio fra domanda e offerta di cui si diceva prima. Né va trascurato il

fatto che il consumo del disco di jazz è molto relativo, e pertanto il mercato

ne risente: in ogni epoca, nella storia di questa musica, certi espedienti

delle case discografiche per vendere di più hanno provocato ritardi

pericolosi nell'evolversi di questa musica, e certe stasi dovute a crisi di

carattere economico hanno prodotto dei vuoti rilevanti nelle discografie

jazzistiche, specialmente durante il periodo della Grande Crisi del 1929.

Accanto a tale fenomeno, riguardante l'ascolto, va collocato quello

più vicino a noi nel tempo, del video, che ha veramente aperto nuove

prospettive alla storia di questa musica. Un sapiente sondaggio presso gli

archivi delle televisioni americane ed europee ha fatto emergere dagli

scantinati e dai più dimenticati depositi un prezioso materiale documentario

che via via si va diffondendo fra gli appassionati. Spesso si tratta di

spettacoli, concerti e altre manifestazioni che non hanno avuto una loro

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registrazione discografica dal vivo, e pertanto molti brani risultano inediti o

di difficile reperimento. Per concludere, dopo aver analizzato in questa

prospettiva Duemila - le varie componenti e le varie motivazioni di una

situazione di stallo, se non di crisi del creativo, in questa musica, si dovrà

dire che la musica jazz è oggi alla ricerca di autori in un momento in cui

l'immaginario, il sogno, il fantastico stanno vivendo una fase di profonda

crisi se non di assenza.

Le grandi orchestre incontrano non poche difficoltà finanziarie, i

pochi solisti in circolazione hanno scelto l'Europa perché negli Stati Uniti

domina ormai una musica commerciale che nulla può avere in comune con

il jazz, e neppure con la parte più godibile e valida del rock: il futuro di

questa musica ha un cuore antico - per dirla con un grande narratore del

Novecento, Carlo Levi - e deve contentarsi di una vita di memoria storica e

lirica.

1. La leggenda di New Orleans................................................................................2

2. A Chicago, a Chicago..........................................................................................14

3. L'impareggiabile Duke........................................................................................25

4. New York New York .........................................................................................36

5. L'era dello swing..................................................................................................44

6. Le voci ..................................................................................................................55

7. La ribellione dei boppers....................................................................................63

8. La via californiana ...............................................................................................75

9. La liberazione del free.........................................................................................83

10. Il viaggio verso il rock ......................................................................................94

11. Jazz Duemila......................................................................................................99


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