Abigail Roux La croce del guerriero

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Dreamspinner Press

5032 Capital Circle SW

Ste 2, PMB# 279

Tallahassee, FL 32305-7886, USA

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Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti
sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo
fittizio e ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese
commerciali, eventi o località è puramente casuale.

La croce del guerriero

Titolo originale: Warrior’s Cross

Copyright © 2009 by Madeleine Urban e Abigail Roux

Traduzione di Tamara Tersi

Le immagini di copertina sono usate a soli scopi illustrativi e i soggetti
ritratti in esse sono modelli.

Illustrazione di copertina di Anne Cain annecain.art@gmail.com

Design di copertina di Mara McKennen

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta
o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, elettronico o meccanico,
incluse fotocopie, registrazioni, o da qualsiasi sistema di deposito e
recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto
laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per
qualunque altra domanda, contattare Dreamspinner Press, 5032 Capital
Circle SW, Ste 2, PMB# 279, Tallahassee, FL 32305-7886, USA

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Stampato negli Stati Uniti d’America

Prima Edizione

August, 2009
Edizione eBook italiano: 978-1-61372-942-7

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Capitolo 1

“CAM? È di nuovo qui.”

Il cameriere sollevò lo sguardo dalla bottiglia di vino che stava
stappando. “Chi?”

Miri Taylor alzò gli occhi al cielo con un’espressione esasperata e,
inclinando la testa da un lato, allontanò la lunga coda bionda dalla spalla.
“Lui. Hai capito. Alto, moro, eccezionalmente bello. Viene sempre da solo
il martedì sera ed è sempre impegnato a scrivere su un piccolo
taccuino…”

“Sì, me lo ricordo. Ogni volta ordina il piatto del giorno, senza dessert,”
rispose precipitosamente Cameron Jacobs, tornando alla bottiglia nel
tentativo di nascondere il piccolo sussulto interiore.

“Beh, il signor Nichols lo ha messo ancora una volta nella tua sezione,” lo
informò Miri con un sorrisetto. “Hai chiesto tu che sia assegnato sempre
a te? Sarà la sesta volta di fila!”

“Davvero?” chiese Cameron con noncuranza; sebbene, da un mese e
mezzo a quella parte, non vedesse l’ora di arrivare al martedì sera per
quell’unica ragione. “Non me n’ero nemmeno accorto,” mentì. “Lo sai che
lavoro più di sessanta ore alla settimana,” le ricordò. “Non mi posso
ricordare sempre di tutti.”

“Sì, che lo fai, invece,” affermò Miri.

Cameron le lanciò uno sguardo di traverso, cercando di non sorridere.

“Beh, faresti meglio a uscire da qui,” lo sollecitò lei, guardando dalla
finestrella della porta che separava la zona di servizio della cucina dal
resto del ristorante. “È un uomo così affascinante,” mormorò poi tra sé
con un sospiro.

Cameron soffocò una risata, finì di stappare la bottiglia e inspirò a fondo,
cercando di calmare il battito frenetico del proprio cuore. “Ti dispiace
rimetterla in fresco?” chiese a Miri, mentre le passava il vino e si dirigeva
fuori dalla stanza.

La sala da pranzo era illuminata con discrezione da faretti da incasso,

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candele su ogni tavolo e piccole luci scintillanti che si riflettevano sull’alto
soffitto di vetro. Un’intera parete era occupata da una grande vetrata che
offriva una visuale sul panorama sfavillante di Chicago. I tavoli, disposti
nell’ampio spazio su vari livelli, erano coperti da tovaglie di fine lino,
cristalli e porcellane. Una musica soft faceva da sottofondo all’ambiente:
il volume regolato appena al di sotto del brusio lieve delle voci,
accompagnate dal tintinnio delle posate contro i piatti e dal rumore delle
sedie che venivano spostate. Keri, la direttrice di sala, scortò una coppia
dalla sala d’aspetto a un tavolo isolato, mentre altri avventori
aspettavano pazientemente il loro turno, rifocillati con champagne e
antipasti leggeri.

Il ristorante a quattro stelle Tuesdays era, infatti, rinomato per la qualità
del cibo e per il servizio impeccabile.

Cameron si mosse silenziosamente tra i tavoli come se fosse un
fantasma, il corpo snello fasciato dalla divisa da cameriere
completamente nera. Non era il tipo di uomo che attirava
immediatamente l’attenzione: curato nell’aspetto, con un fisico piuttosto
asciutto, di media altezza e costituzione, portava i capelli castani tagliati
corti e ordinati. La sua personalità tranquilla e la tendenza
all’introversione lo rendevano naturalmente riservato; il suo aspetto
piacevole ma anonimo, era l’ideale per servire ai tavoli: andava e veniva
senza attirare l’attenzione o interrompere il pasto dei clienti.

Era perfetto per quel lavoro e lui lo amava. Ma, quella sera, c’era
qualcosa in più a stimolarlo.

Fermandosi nei pressi di una fontana gorgogliante, lasciò che il suo
sguardo corresse attraverso la stanza fino al suo obiettivo: un tranquillo
séparé per due dove un uomo sedeva da solo.

Quest’ultimo visitava periodicamente il ristorante sin da quando era stato
aperto otto anni prima, ma, nell’ultimo anno o giù di lì, era diventato un
frequentatore abituale e, ogni volta che si presentava, veniva accolto alla
porta dal proprietario e fatto accomodare sempre al solito tavolo.
Arrivava una volta la settimana, sempre e solo di martedì, ma Cameron
non avrebbe saputo dire se si trattasse o no di un caso. Tutte le volte −
senza nemmeno guardare cosa c’era nel menù − ordinava il piatto del
giorno e il vino della casa, ma rifiutava il dessert.

Cameron conosceva tutti quei dettagli, così come altre centinaia
riguardanti i clienti abituali, persone che frequentavano il raffinato locale
apprezzandone il servizio rinomato. Era uno dei molti tratti che lo
rendevano eccellente nel suo lavoro. La sua competenza gli forniva
quella fiducia in se stesso che altrimenti gli sarebbe mancata. Lì al

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ristorante, il giovane cameriere era in grado di gestire i ripetuti incontri
con il misterioso lui.

Cameron si fermò silenziosamente al tavolo e interpellò l’uomo con voce
pacata. “Buona sera, signore. La specialità del giorno e il vino della
casa?” domandò a colpo sicuro. Era la stessa cosa che gli chiedeva ogni
settimana. Aveva smesso di presentarsi ormai da diversi mesi.

L’uomo misterioso sollevò gli occhi e annuì senza parlare. Cameron si
inchinò leggermente e raccolse il menù, che non era stato nemmeno
aperto. Il cliente si era sempre comportato così. Sin dalla prima sera che
il giovane l’aveva servito, aveva indicato con il suo lungo dito il piatto del
giorno sul menù e il vino della casa sulla carta dei vini. Cameron non lo
aveva mai sentito pronunciare una parola, perlomeno non direttamente a
lui; rispondeva solamente annuendo o scuotendo la testa. Il giovane non
aveva mai insistito, anzi si era sforzato di porgli le domande in modo che
lui potesse rispondere con un semplice cenno del capo ed era persino
arrivato a chiedersi, più di una volta, se fosse o no in grado di parlare.

“Porti un bicchiere in più, per favore,” ordinò l’uomo all’improvviso
mentre Cameron si allontanava. La sua voce era appena udibile, molto
più pacata di quello che uno avrebbe supposto osservando la sua
corporatura imponente e l’aria leggermente inquietante che l’avvolgeva:
era come se l’inattività l’avesse consumata.

Cameron si voltò con gli occhi spalancati. “Certo,” disse, sperando di
essere riuscito a mascherare la propria sorpresa. “Desidera altro?”
domandò poi, rimproverandosi mentalmente di sembrare un idiota
mentre fissava il cliente di solito silenzioso.

Il cliente scosse la testa in modo sbrigativo, con uno scatto deciso del
mento verso sinistra.

“Sì, signore,” mormorò Cameron, proseguendo per la sua strada.

La voce dell’uomo, bassa e roca, risuonava nella sua mente. Era sicuro
che non ne avrebbe mai dimenticato il suono. Un altro bicchiere?
L’enigmatico cliente rappresentava un mistero per tutto il personale ed
era, pertanto, una fonte inesauribile di pettegolezzi e curiosità. Ogni
membro dello staff aveva una teoria, una fantasia o una storia su di lui,
e se qualcuno dei suoi colleghi l’avesse visto rivolgergli direttamente la
parola, sarebbero entrati tutti in agitazione. Anche la più piccola notizia
piccante che riuscivano a racimolare serviva ad alimentare il loro
interesse. Il cuore di Cameron batté più veloce al pensiero del bicchiere
in più e non era del tutto sicuro del perché. Prese il vino e i bicchieri dal
bancone e, dopo essersi assicurato che non ci fossero macchie sui

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cristalli, tornò al tavolo, intimandosi per tutto il tempo di restare calmo.
Non c’era motivo di agitarsi, si ripeteva silenziosamente mentre
sistemava con cura i bicchieri e iniziava a stappare la bottiglia.

Gli occhi del cliente lo seguivano attentamente. “Ci penso io, stasera,”
disse a bassa voce, con un tono appena più forte di quello usato in
precedenza. “Grazie,” aggiunse, sollevando la testa e guardandolo con
quei suoi occhi scuri e tenebrosi, che riflettevano la luce delle candele
come pietre di lucida ossidiana.

Le mani di Cameron si immobilizzarono e, catturato dallo sguardo
dell’uomo, il giovane esitò un attimo prima di offrirgli la bottiglia avvolta
nel tovagliolo.

L’altro la prese con un cenno del capo. “Grazie, Cameron,” sussurrò
gentilmente. Nelle sue parole, un accenno di educato congedo.

Cameron lo fissò per un istante prima di reagire. “Prego,” disse infine
posandogli accanto il cavatappi, per poi allontanarsi. Sentire pronunciare
il proprio nome dalle sue labbra gli aveva procurato un fremito. Era
stato… seducente. Anche se era sicuro che l’altro non lo avesse fatto
volontariamente.

L’uomo aspettò che Cameron si ritirasse, prima di stappare abilmente la
bottiglia e riempire spudoratamente il proprio bicchiere fino all’orlo.
Rimase immobile per un lungo momento a fissare quello sul lato opposto
del tavolo, poi si allungò e mescé delicatamente il vino per la persona
assente che gli si sarebbe presto seduta di fronte.

“Cam, cosa sta facendo?” chiese Miri incuriosita, non appena questi
rientrò nell’area di servizio.

Cameron evitò deliberatamente di guardare fuori e continuò il proprio
lavoro, riempiendo un cestino con del pane. “Cosa vuoi dire?” chiese,
fingendo ignoranza nella speranza di non rivelare la propria curiosità.

“Ha voluto due bicchieri stasera. Sta aspettando qualcuno? Ti ha parlato?
Cos’ha detto?” chiese lei tutta eccitata.

“Ma non hai del lavoro da fare?” Non voleva farle capire che appena
aveva sentito la voce dell’uomo misterioso si era innamorato di lui ancora
di più. Era già abbastanza imbarazzante prendersi una cotta per un
cliente, peggio ancora per uno che, fino a quel momento, non ti aveva
mai rivolto la parola.

Miri sbuffò e, incrociando le braccia, esclamò: “Beh, è una serata calma.

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Potresti anche condividere qualcosa con me, sai! Quel tizio è il più
grande mistero che molti di noi conosceranno mai: lasciamelo
assaporare, anche se indirettamente!”

Cameron non poteva ammettere di sentirsi allo stesso modo. Andava
fiero della propria professionalità e spettegolare sui clienti non era
qualcosa che faceva o che aveva intenzione di iniziare a fare. “Non c’è
niente da spartire,” insistette. “Ha chiesto solo un bicchiere in più; ecco
tutto.”

Miri mise il broncio, stizzita, e si voltò a guardare fuori verso la sala da
pranzo. Al tavolo per due, nascosto nel séparé più lontano, l’uomo
misterioso sollevò il bicchiere per brindare con quello che gli stava di
fronte, quindi assaporò con eleganza un sorso del costoso vino.

“Guarda che strano,” mormorò ancora la ragazza mentre lo osservava.

“Io ho da fare,” disse Cameron in fretta, prima di rischiare di cadere in
tentazione e sbirciare dalla porta. Con una mano prese una brocca di
cristallo piena d’acqua, con l’altra il cestino del pane e abbandonò la zona
di servizio. Attraversò la sala lentamente riempiendo i bicchieri e
chiedendo ai clienti se avessero qualche necessità, diretto verso l’uomo
che sedeva da solo con i suoi due calici di vino.

Quando lo raggiunse, posò il cestino e versò anche a lui l’acqua.

Per quanto lo desiderasse, Cameron non aveva intenzione di inventarsi
una domanda nella speranza di sentirlo parlare ancora. Aveva visto altri
camerieri cercare di intavolare una conversazione, ma l’uomo era sempre
apparso irritato e seccato da quei tentativi. Forse era per quello che il
proprietario lo metteva sempre nella sua sezione: perché lui non era mai
stato fastidioso.

Cameron si voltò per allontanarsi, lasciandolo ancora una volta alla sua
privacy.

“Da quanto tempo lavora qui?” gli chiese l’uomo improvvisamente.

Cameron si bloccò e si girò verso di lui, cercando di non mostrare la
propria sorpresa. “Da quando il ristorante ha aperto otto anni fa,” replicò
con diffidenza, chiedendosi il perché di quella domanda.

L’uomo tenebroso lo guardò fisso, il viso inespressivo nell’ombra creata
dalle luci basse. “Le piace quello che fa?” ribatté.

Cameron si sentì incapace di sfuggirgli, inchiodato com’era da quegli

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occhi neri. Provò a distogliere lo sguardo, abbassandolo sul volto che gli
stava di fronte; qualcosa che non si era mai permesso di fare da quella
distanza. Ogni linea in lui era marcata: fronte alta, mascella triangolare,
zigomi affilati. Così da vicino, era ancora più attraente di quanto avesse
creduto: i capelli scuri erano tagliati molto corti e appena brizzolati sulle
tempie, la barba e i baffi erano curati e impeccabili. Sotto il pesante
cappotto invernale indossava sempre abiti scuri, neri e grigio antracite,
che poco potevano dissimulare il suo fisico alto e muscoloso. Quei colori,
o meglio la loro mancanza, gli si adattavano in un modo che Cameron
non riusciva a comprendere.

Nella sua mente, se lo figurava come un angelo oscuro.

Dopo un attimo, si rese conto che doveva ancora rispondere alla
domanda. “Sì,” affermò. “Mi piace veramente. Altrimenti perché sarei
rimasto così a lungo?”

Gli occhi dell’uomo scivolarono via, posandosi sul bicchiere di vino ancora
intatto. “Già, infatti,” convenne. Quelle parole segnarono chiaramente la
fine della conversazione.

Cameron gettò un’occhiata al secondo bicchiere di vino e poi
nuovamente all’uomo. Da quando cenava lì, era sempre stato silenzioso
e gentile, ma sorprendentemente accessibile − anche se alla sua
maniera − una volta che ci si abituava ai suoi modi. Quella sera invece
sembrava… strano. Già solo che parlasse rendeva quella serata un
evento insolito. Ma Cameron pensava che quel cambiamento fosse, in un
certo senso, anche preoccupante.

“Lei è… va tutto bene?” azzardò a bassa voce.

L’uomo ricambiò lo sguardo come se fosse sorpreso di vederlo ancora lì.
Rispose con un cenno del capo e distolse gli occhi ancora una volta. A
quel punto, il congedo fu chiaro.

Deluso, ma non offeso, Cameron si allontanò, gettando solo un’occhiata
da sopra la spalla, mentre si fermava ai tavoli più avanti per riempire i
bicchieri d’acqua. L’uomo nel séparé non sembrava essersi mosso, stava
ancora fissando il secondo calice di vino. L’unico movimento che faceva
era quello di portare il suo alle labbra e posarlo nuovamente. I suoi occhi
raramente si allontanarono dal bicchiere di fronte a lui, mentre aspettava
la cena.

Cameron non poteva fare a meno di preoccuparsi. Cosa stava facendo?
E, ancora più importante, perché lo stava facendo? Cosa c’era di diverso
quella sera? Era ovvio che nessuno l’avrebbe raggiunto, quindi per chi

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era il bicchiere? Con un sospiro silenzioso, si scrollò di dosso tutte le
domande e si diresse in cucina a controllare a che punto fosse l’ordine.

Erano passati circa dieci minuti da quando l’aveva lasciato; Cameron
ritornò al tavolo con il vassoio. Lo appoggiò su un supporto e iniziò a
servire il cliente, cercando di non fissarlo, nonostante avesse di nuovo
una gran voglia di studiarlo da vicino.

Nel momento in cui gli appoggiò il piatto di fronte, un suono discreto e
metallico giunse dalla giacca dell’uomo, che infilò una mano nella tasca
interna e ne estrasse un telefono cellulare. Guardò brevemente il display
e poi Cameron.

“Mi può portare il conto, per favore?” chiese, con un sospiro per quella
che doveva essere una bella seccatura. Era, forse, il primo accenno
d’emozione che gli avesse mai visto manifestare.

Cameron inarcò un sopracciglio e annuì. “Posso incartarle la cena, se
vuole,” offrì.

“No, grazie,” rispose l’altro, riponendo il telefono. “Solo il conto. In fretta,
per favore.”

“Sì, signore,” rispose Cameron, raccogliendo il vassoio vuoto e
allontanandosi dalla sala da pranzo per andare a prendere quanto
richiesto. Ritornò dopo pochi minuti, offrendogli, in silenzio, il portaconto
di pelle nera.

Il bicchiere dalla parte opposta all’uomo misterioso era appoggiato
indisturbato sul tavolo, pieno per un terzo. Il suo, invece, era vuoto; il
cibo nel piatto appena toccato. Era ovvio che aveva mangiato quello che
aveva potuto mentre aspettava. Prese il conto con un cenno del capo.

Cameron fece un passo indietro per agevolarlo, cercando di completare
la transazione nel più breve tempo possibile. Senza parlare, lo osservò
far scivolare la mano nella giacca per prenderne il portafoglio. Ne tirò
fuori tre banconote, le mise nella cartelletta e gliela restituì.

“Niente resto,” aggiunse. Cameron riuscì a stento a sentirne la voce,
sebbene il brusio in sottofondo fosse basso. “Grazie per il consiglio,”
sussurrò ancora, alzandosi per prendere il cappotto.

Cameron non gli era mai stato così vicino quando l’uomo era in piedi.
Calcolò che doveva essere più alto di lui di almeno dieci centimetri, forse
anche di più. Mentre si infilava il pesante soprabito, la stoffa nera aveva
l’effetto di farlo apparire ancora più imponente di quanto già non fosse e

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l’impressione generale era che egli semplicemente torreggiasse su di lui.

Confuso e leggermente distratto dalla sua presenza fisica, Cameron si
limitò ad annuire. Non aveva idea di quale consiglio gli avesse dato, ma
non aveva intenzione di chiedergli spiegazioni. Dovette inclinare la testa
un po’ all’indietro per guardarlo. “Buona serata,” gli augurò con voce
turbata.

L’uomo raccolse le sue cose e annuì a Cameron, abbottonandosi il
cappotto. “Il martedì è sempre una buona serata,” mormorò.

Cameron restò ancora più confuso, ma sapeva che era meglio non
aggiungere altro. In ogni caso, non era sicuro che la sua lingua fosse
realmente in grado di pronunciare parole di senso compiuto.

Con un ultimo cenno, l’uomo si allontanò dal tavolo e da Cameron, che
continuò a fissarlo fino a quando non fu fuori dalla porta.

Giù di corda, il giovane uomo scosse la testa e sparecchiò la tavola, con
la cartelletta contenente le banconote al sicuro nella tasca. Una volta
finito con i piatti, andò a depositare la ricevuta e trovò trecento dollari:
un centinaio sarebbe stato più che sufficienti a coprire la cena, il vino e
una buona mancia. Rimase lì a guardare i soldi, domandandosi ancora
cosa fosse successo quella sera.

PRIMA di uscire dalla sala da pranzo, Cameron si fermò a parlare
piacevolmente con una coppia di anziani che cenavano al Tuesdays un
paio di volte al mese. Verso le nove, l’afflusso dei clienti si era ridotto a
pochissimi avventori, di conseguenza anche l’attività del personale era
diminuita. Sebbene il ristorante rimanesse aperto fino a mezzanotte,
ormai era chiaro che l’uomo non si sarebbe più fatto vivo.

Giunti a quel punto della serata, a Cameron rimaneva abbastanza tempo
da registrare le ricevute, ma gliene restava anche per fermarsi a
pensare, purtroppo.

Era martedì sera e lui continuava a pensare al martedì di due settimane
prima che aveva sconvolto il suo mondo. Nella sua mente, c’era ritornato
sopra tante volte; anche in quel momento, chiudendo gli occhi, poteva
sentire il suono sordo della voce cupa dell’uomo. Quando non si era
presentato a cena la settimana precedente, interrompendo un’abitudine
lunga mesi, Cameron ne era rimasto terribilmente deluso.

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Tuttora si chiedeva cosa fosse successo al misterioso cliente e se
l’avrebbe visto di nuovo. Tutto quello che sapeva per certo era che gli
sarebbe piaciuto ascoltare ancora la sua voce.

Apparentemente, sembrava che un altro martedì sarebbe passato senza
di lui.

Lui. Lui che apparteneva a quella categoria di uomini belli, alti e
misteriosi che popolavano la sua mente come una specie di oscura
fantasia. Sospirò. Fantasia. Un uomo così non poteva essere altro che
una fantasia per lui: era decisamente fuori dalla sua portata.

Stava riflettendo su quello, quando sentì Keri salutare un nuovo cliente,
immediatamente seguita dalla voce di Blake Nichols, il proprietario del
ristorante, che faceva calorosamente lo stesso. Quando si mosse per
sbirciare attraverso le fronde della grande pianta che aveva accanto,
Cameron vide Blake stringere la mano del cliente e ordinare a Keri di
condurlo al tavolo di un séparé.

Gli ci volle un lungo momento, prima di rendersi conto di chi aveva
effettivamente davanti. Era lui.

Cameron lo fissò, incapace di muoversi mentre il cuore gli batteva a
pieno ritmo nel petto. Dopo pochi istanti di immobilità, si riprese, entrò
nella zona di servizio e prese una bottiglia di vino della casa e un
bicchiere pulito, per poi dirigersi verso il suo tavolo.

Avvicinandosi, si rese conto che l’aspetto dell’uomo non era quello solito.
Aveva una serie di punti di sutura sotto l’occhio sinistro e il braccio
destro era fasciato e contenuto in un tutore, da cui stava cercando di
districarsi.

Cameron si affrettò, posò la bottiglia e il bicchiere. “Lasci che l’aiuti,”
disse, senza nemmeno pensarci. Sollevò la cinghia del tutore che era
rimasta impigliata nella giacca dell’uomo e fece un respiro profondo per
calmarsi; era nervoso per le libertà che si stava prendendo. Con quel
movimento, inspirò però una breve zaffata della sua delicata colonia.
Tremò, cercando di non reagire a quel profumo inebriante.

L’uomo si bloccò quando lui lo toccò, ma si rilassò subito e, abbassando
la testa, gli permise di aiutarlo a togliersi il tutore prima di sedersi. Con
molta attenzione, Cameron lo liberò dalla cinghia e fece un passo
indietro, allo stesso tempo euforico per il contatto e sollevato per essersi
allontanato. Piegò la fascia del tutore e l’appoggiò sulla sedia opposta a
dove il cliente si era seduto.

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L’imponente uomo ruotò lentamente le spalle e lo guardò con i suoi occhi
scuri e indecifrabili. “Grazie,” disse, con quella voce ancora una volta
bassa, le parole a malapena udibili.

Ma la risposta gentile che Cameron era sul punto di pronunciare fu
completamente dimenticata non appena osservò con sguardo critico il
viso dell’altro, prendendo nota dei punti e delle contusioni in via di
guarigione, prima di incrociarne gli occhi. “Va tutto bene?” domandò
invece.

L’uomo rispose con il solito cenno del capo, senza spostare gli occhi da
lui. Poi sorrise lentamente, piegando un lato della bocca verso l’alto con
una lieve smorfia. Il gesto rendeva il suo viso meno severo e inquietante
e, se possibile, ancora più attraente. “Sto bene,” rispose con un tono
sconcertato. “Grazie.”

Cameron annuì lentamente, incantato dalla leggera curva delle sue
labbra. “Prego.” Sbatté le palpebre più volte, prima di riprendersi. “Il
piatto speciale del giorno e il vino della casa?” chiese goffamente,
indicando la bottiglia che aveva posto sul tavolo.

“Cosa mi consiglia come dessert?” domandò invece l’altro.

Cameron aggrottò le sopracciglia e dovette sforzarsi prima di trovare
qualcosa da dire. Non era abituato a essere preso in contropiede quando
riceveva gli ordini di un cliente. In genere il procedimento era piuttosto
arido e noioso. “Ah. Il semifreddo alle nocciole va per la maggiore
stasera,” si destreggiò all’ultimo momento.

Lo sguardo dell’uomo non vacillò. “Cosa mi raccomanda lei?” ripeté
lentamente.

Cameron deglutì nervosamente, sentendosi un po’ accaldato sotto quello
sguardo attento centrato esclusivamente su di lui. “La créme brulé al
pistacchio.” Perché si fosse innervosito, non lo sapeva. Era tutta la sera
che dava consigli. Ma la richiesta dell’uomo di conoscere il suo dolce
preferito lo aveva eccitato.

“Prenderò quello allora,” affermò lo sconosciuto con una lieve contrazione
delle labbra, che avrebbe potuto essere un altro sorriso.

Cameron si chiese se l’uomo avesse notato come il suo cameriere lo
fissasse. Probabilmente sì. Sembrava il tipo di persona che notava tutto.
Le guance gli avvamparono per l’imbarazzo e si leccò le labbra
nervosamente. “A fine pasto?” domandò.

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“Per cena, se non le dispiace,” rispose l’altro, con quell’ombra di un
sorriso sulle labbra e una luce divertita negli occhi. Evidentemente si
godeva lo spettacolo del suo sconcerto.

“Ah. Va bene,” disse lui, sospirando quando si rese conto che l’uomo
sapeva che era imbarazzato. “Vuole del vino?” chiese goffamente.

Gli occhi neri dell’uomo si spostarono lentamente sulla bottiglia e poi
nuovamente su Cameron. “Sì, grazie,” rispose gentilmente.

Il suo tono tranquillo, così come il rifugiarsi nei movimenti familiari, aiutò
Cameron a ritrovare la compostezza; tirò fuori il cavatappi dalla tasca
posteriore e prese la bottiglia per aprirla. L’uomo lo guardò per tutto il
tempo, con occhi intenti e tenebrosi. Cameron liberò il tappo e glielo
offrì, mentre con l’altra mano stringeva la bottiglia. Sentendosi più
rilassato, fu in grado di raddrizzare le spalle e recuperare il suo abituale
contegno, anche se avvertiva quegli occhi neri seguire ogni suo
movimento.

L’uomo assentì rivolto al tappo e cercò gli occhi del giovane. “Ti piace
ancora quello che fai?” domandò di punto in bianco, con quella sua voce
roca e quasi intima nel modo in cui sussurrava.

Cameron deglutì: il suono di quella voce lo sconvolgeva. Proprio come la
prima volta. “Sì.” Ma questa volta chiese: “Perché?”

“Perché sembri appagato,” rispose immediatamente l’uomo.

Cameron sbatté le palpebre e gli rivolse un sorriso aperto e onesto. “Sì.
Suppongo di esserlo.” Appoggiò il turacciolo sul tavolo e gli versò un po’
di vino nel bicchiere, perché lo approvasse. “Sono bravo nel mio lavoro,”
aggiunse con una scrollata di spalle.

“Sì,” mormorò l’uomo, mentre prendeva il bicchiere. Assaggiò il vino e
annuì il suo consenso. “Aiuta, essere bravi in quello che si fa. Grazie,
Cameron,” replicò a voce bassa.

“Prego,” rispose lui. “Il suo dessert sarà pronto tra poco.” Mise giù la
bottiglia e lasciò il tavolo, portandosi via il cavatappi e combattendo
contro la vibrante esaltazione che sentiva nel petto.

“Sai, penso che tu gli piaccia,” asserì Miri con un lieve sorriso non appena
Cameron fu entrato nella zona di servizio.

“Per l’amore di Dio, Miri,” mormorò lui, arrossendo intensamente.

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“Gli piaci e non te ne rendi nemmeno conto. Vuoi sapere cosa devi fare al
riguardo?” lo sfidò lei con malizia.

Con un verso esasperato, Cameron ignorò deliberatamente la domanda.
“Che diavolo, come se fosse rilevante o appropriato! Stai parlando di un
cliente affezionato, uno che Blake saluta sempre personalmente,” le
ricordò tempestivamente.

Non importava che lui lo pensasse piuttosto frequentemente. Che
desiderasse conoscerlo meglio. Che fantasticasse su di lui e su quella sua
voce bassa e pacata.

La cameriera scosse la testa. “Caspita, Cam,” disse. “Scommetto che se
ci provi, lui ci sta,” alluse.

“Non voglio provarci,” insistette lui con ostinazione.

“Accidenti, perché no?” chiese la giovane scioccata. “Io lo farei se
pensassi di avere una qualche possibilità!” dichiarò con una risata. “Ma
nessun uomo che si veste così bene può essere eterosessuale,” borbottò,
sbirciando attraverso la finestrella con un sospiro esagerato.

“Se sei così annoiata, sono sicuro che possiamo trovarti qualcosa da
fare,” la minacciò Cameron con sguardo truce.

Lei si girò e gli fece l’occhiolino, battendogli una mano sulla schiena.
“Bene, sì, signor capo cameriere. Allora ci penso io al suo dessert,” lo
schernì, avventandosi a prendere il piatto con la pirofila che era appena
uscito dalla cucina e appoggiandolo su un piccolo vassoio ricoperto da
una tovaglietta di lino, per poi precipitarsi nella sala da pranzo.

Cameron trattenne le sue obiezioni all’ultimo secondo e la osservò
allontanarsi, prima di girarsi e rivolgere uno sguardo duro a una coppia
di cameriere addossate al bancone, che si precipitarono a tornare al
proprio lavoro, ridacchiando. Cameron gemette. Questa proprio non ci
voleva. Miri e le altre ragazze lo avrebbero tormentato per sempre, non
importava che tecnicamente lui fosse il loro supervisore. Non sapeva
cosa lei sperasse di ottenere con quell’uscita, ma si auspicava che ne
rimanesse soddisfatta, qualunque cosa fosse.

Per quanto si odiasse, non poté fare a meno di sbirciare curiosamente
dalla finestrella della porta.

Miri si ricompose e si avvicinò al tavolo dell’uomo. “Il suo dolce, signore,”
gli offrì, presentando il piatto.

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L’uomo guardò il piatto posto di fronte a lui. Lentamente sollevò lo
sguardo verso la cameriera con un’espressione interdetta dipinta sul viso
e la fissò per un lungo istante, prima di limitarsi ad annuire il suo
ringraziamento.

Miri gli rispose con un sorriso affascinante e gentile. “Posso portarle
qualcos’altro?”

L’uomo declinò con il solito cenno della testa, aprendosi in grembo il
tovagliolo di lino con la mano sana.

“Sono a sua disposizione per qualsiasi cosa, basta che mi faccia un
segno,” gli disse allegramente lei, fermandosi per qualche secondo prima
di rientrare nella zona di servizio.

Una volta attraversata la porta, marciò diretta verso Cameron. “Visto?”
esclamò trionfante.

“No,” rispose Cameron, alzando lo sguardo dal vassoio con le tazzine da
caffè che stava preparando. Sì, aveva ceduto alla tentazione di guardarla
parlare con lui, ma non c’era bisogno che lei lo sapesse.

“Era infastidito da me,” lo informò con un sorriso. “Vuole solo te, Romeo,”
lo canzonò, uscendo nuovamente.

Cameron la fissò prima di girarsi a controllare la sala da pranzo. Guardò
l’uomo per un minuto abbondante, esaminandone la postura delle spalle
in cerca di segni di irritazione, prima di corrugare la fronte e scuotere la
testa. Perché un uomo del genere avrebbe dovuto interessarsi a
qualcuno come lui? Prima di tutto, gli sarebbero dovuti piacere gli
uomini. E anche se così fosse stato − e sarebbe stato già un bel colpo,
secondo la sua opinione − perché accontentarsi di un semplice
cameriere? L’uomo sembrava essere ricco, di successo e potente.
Cameron non era niente di tutto ciò.

Mentre il ragazzo ancora lo osservava, Blake Nichols si avvicinò al tavolo
e rimase per un po’ in piedi a parlare con l’uomo, poi gli sedette di fronte
sul bordo della sedia, esprimendo chiaramente preoccupazione.
L’espressione del cliente non cambiò, ma Cameron vide che si rivolgeva a
Blake animatamente, se i movimenti che faceva con la mano illesa erano
una qualche indicazione.

I due uomini erano uno l’opposto dell’altro. Lo sconosciuto era molto
alto, con un’ossatura forte e muscoli ben definiti sotto all’abito cucito su
misura; i capelli nero corvino avevano piccoli accenni di grigio sulle

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tempie e gli immancabili baffi e barba erano ben curati. Blake Nichols,
d’altra parte, era accuratamente rasato e i sottili capelli biondi, che
sembravano sempre elettrizzati come se avesse infilato le dita in una
presa della corrente, erano perennemente scompigliati, o per meglio dire
elegantemente disordinati. Non era altrettanto alto o muscoloso, ma
snello e in ottima forma.

C’era, però, un’altra differenza tra i due uomini: Blake non era timido
nell’esprimersi verbalmente, quando la sua elegante e raffinata persona
non era richiesta in sala da pranzo. Cameron lo conosceva bene. E
sapeva che era un tipo cordiale e affettuoso che tendeva facilmente a
distrarsi. Secondo la sua esperienza il cliente era, invece, agli antipodi:
freddo come il ghiaccio e imperturbabile. Ma in quel momento Cameron
vedeva un’emozione vera in lui, vedeva la sua animazione, benché tinta
di frustrazione. E gli sembrava magnifico.

Cameron imprecò sottovoce. A quel punto non sarebbe stato più in grado
di liberarsi di quella dannata cotta.

Ben presto, Blake si alzò e, posando la mano sulla spalla illesa dell’uomo
in segno di saluto, lo lasciò al suo dessert. Cameron lo guardò mentre
per un attimo rimaneva in silenzio e con lo sguardo perso nel vuoto. Lo
vide estrarre, da una delle infinite tasche, un’agendina malconcia e
appoggiarla con cura accanto al piatto, per poi aprirla dopo aver preso
anche una penna dall’aria costosa.

Mangiò la crème brulé con la mano destra ferita, facendo attenzione,
mentre usava la sinistra per scrivere sul taccuino. Era qualcosa che
faceva sovente, scrivere nel libricino mentre cenava. Cameron aveva
notato che era in grado di usare entrambe le mani per scrivere e spesso
si chiedeva che lavoro facesse.

Non che quelli fossero affari suoi, oltre al fatto che stava ignorando le
proprie responsabilità. Non poteva proprio farne a meno, però. Si passò
le mani sul viso, stringendo le labbra rassegnato prima di sollevare il
vassoio e tornare al lavoro. Servì il caffè a due tavoli che erano alla fine
della cena, portando una tazzina in più, per ogni eventualità. Gettò uno
sguardo verso il séparé e, inspirando a fondo per raccogliere coraggio,
decise di buttarsi.

“Gradisce del caffè, signore?” chiese, fermandosi al tavolo. Sperava di
apparire calmo e padrone di sé.

L’uomo non alzò lo sguardo e continuò a scrivere. Rispose con un
semplice cenno di assenso della testa.

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Messo a proprio agio dalla sua usuale maniera di rispondere, Cameron
proseguì come al solito.

Si era lasciato fuorviare dalla possibilità di tentare un approccio
personale, quando invece era meglio dimenticare quella sciocca fantasia
e fare il proprio lavoro: ecco tutto. Soddisfatto e nuovamente padrone di
sé, finì di preparare i conti per i restanti tavoli.

Quando Blake passò al suo tavolo durante l’abituale giro tra i clienti,
l’uomo allungò una mano, senza nemmeno alzare lo sguardo e lo
intercettò per un braccio, fermandolo senza dire una parola. Non smise
neppure di scrivere mentre gli teneva il polso. Blake rimase lì per un
attimo, intanto che l’uomo scriveva. Poi, liberò gentilmente il braccio e
scivolò sulla sedia di fronte a lui.

Cameron si chiedeva come mai Blake lo conoscesse. Oltre a salutarlo
personalmente alla porta, privilegio riservato a pochi, Blake in realtà si
sedeva al suo tavolo e gli parlava, cosa che non gli aveva mai visto fare
con nessun altro.

Blake aggiunse qualcosa e l’uomo sollevò la testa leggermente,
passandosi due dita sul labbro inferiore, perso nei suoi pensieri, quindi
guardò in basso verso il suo taccuino con espressione accigliata. Blake
annuì e, alzandosi ancora una volta, andò via dal tavolo con un sorrisetto
soddisfatto, una mano casualmente infilata in tasca; evidentemente era
compiaciuto per la reazione che l’uomo del mistero aveva avuto davanti
alle sue parole.

Corrucciato, Cameron si domandò cosa diavolo stesse succedendo.
Scosse la testa, dicendosi ancora una volta che non erano affari suoi e
che non doveva interessarsene, per quanto quel tipo fosse stupendo. Per
evitare di spiarlo, si diresse volutamente verso un tavolo vuoto da
sparecchiare

Quando gli capitò di gettare uno sguardo oltre la spalla, l’uomo lo catturò
con i suoi occhi scuri e inclinò leggermente la testa. Ecco una cosa a cui
Cameron si era abituato.

“Sei di questa città?” gli chiese quando lo raggiunse al tavolo.

La domanda lo colse nuovamente di sorpresa. Si aspettava che chiedesse
il conto o forse ancora del vino. “Sì,” rispose timidamente.

“La conosci bene?” gli domandò ancora lui, senza accorgersi, o senza
curarsi, del suo disagio.

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“Sì, credo di sì,” affermò Cameron, leggermente più sicuro di sé.

“Conosci un posto chiamato Lo Zenith?” indagò l’uomo; la sua voce
conteneva una traccia di frustrazione, a malapena nascosta. “Qualsiasi
posto che potrebbe essere chiamato così? Un locale, una località, un
punto di riferimento. Qualsiasi cosa?”

Le guance di Cameron immediatamente presero fuoco e i suoi occhi si
spalancarono mentre l’uomo parlava. Proprio quando pensava che egli
non potesse sorprenderlo più di quanto avesse già fatto, ecco che se ne
usciva chiedendo di qualcosa come Lo Zenith. Perfetto. Era di quello che
lui e Blake stavano discutendo? Blake non avrebbe dovuto conoscere un
club come Lo Zenith, oppure sì? Cameron arrossì ancora di più e si
schiarì la gola.

L’uomo lo osservò con attenzione, prima di inclinare la testa con fare
interrogativo.

Cameron si schiarì nuovamente la gola, turbato da quanto una semplice
domanda potesse metterlo a disagio. “È un club esclusivo,” rispose con
un sorriso nervoso. “Riservato soprattutto a una clientela gay maschile,
credo,” disse esitante.

L’uomo inclinò la testa, distogliendo lo sguardo pensieroso. Strinse le
labbra, guardando in basso, verso il suo taccuino. “Interessante,”
mormorò a se stesso. “Adesso puoi farmi portare il conto dalla donna,”
ordinò, senza nemmeno guardarlo.

Cameron deglutì a fatica. “Sì, signore,” rispose, quasi sussurrando.

Una volta tornato al bancone, posò rigidamente il vassoio, producendo
un rumore attutito, e appoggiò la testa contro il muro. L’uomo aveva
fatto una domanda e lui gli aveva risposto. E per questo non solo era
stato congedato, ma anche rimpiazzato con un’altra cameriera?

Cameron si strofinò gli occhi. Cosa c’era in quell’uomo che lo spiazzava
così facilmente? Con un sospiro, si diresse verso la cucina per cercare
Miri.

Quando si affacciò di nuovo in sala da pranzo, vide la ragazza fare un
passo indietro dal tavolo del cliente, dire qualcosa e poi, girando
elegantemente sui tacchi, allontanarsi.

L’uomo sollevò rapidamente lo sguardo e, socchiudendo gli occhi, si
guardò intorno lentamente, come se cercasse qualcuno. Poi i suoi occhi
ritornarono alla porta della cucina dentro cui Cameron era sparito,

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stringendosi ulteriormente.

Cameron, che lo osservava dalla zona di servizio, lottò per non
indietreggiare davanti a quegli occhi penetranti. Se non fosse stato
convinto del contrario, avrebbe giurato che l’uomo sapeva che era lì,
dietro le ante della porta.

Lo sconosciuto tolse una banconota dal portafoglio e l’appoggiò sul bordo
del tavolo senza distogliere lo sguardo dalla porta. Poi si allontanò con il
cappotto sul braccio, senza infilarselo, nonostante l’aria fredda;
evidentemente non voleva combattere di nuovo con il tutore. Poco prima
che raggiungesse la porta d’ingresso, Blake emerse dal corridoio che
portava al suo ufficio privato e si fermò a scambiare qualche parola con
lui.

L’uomo lo sovrastava ma, nonostante ciò, Blake Nichols poteva, con la
sola forza della sua personalità, dominare una stanza. Era stato un
medico nelle Forze Speciali, sebbene Cameron non avesse mai avuto
abbastanza coraggio da chiedergli in quale unità o per quanto tempo, e
le stesse qualità che lo avevano reso un ottimo soldato lo avevano anche
fatto diventare un imprenditore di successo. Era un uomo difficile da
mettere in ombra.

Cameron li guardò nervosamente, sapendo che il capo stava chiedendo
all’uomo misterioso come era stato il servizio e cosa era accaduto.
L’uomo indicò la porta della cucina con la mano buona, parlando
animatamente. Cameron inorridì quando Blake rispose ridendo; fece un
passo indietro così in fretta che quasi travolse un altro cameriere. Cristo,
cosa gli stava raccontando per farlo ridere in quel modo?

Scivolò furtivamente dietro le ante della porta per cercare di vedere cosa
stava succedendo. L’uomo disse qualcos’altro e Blake rise più forte, poi
prese il massiccio uomo per il braccio e, conducendolo alla porta, lo aiutò
a infilarsi il cappotto. Sicuramente, se era così divertito, non doveva
essere niente di brutto. Giusto? Cameron deglutì a fatica, rivisitando gli
eventi della serata nella sua mente.

Da quello che ricordava, non c’era una singola cosa che avesse fatto di
sbagliato, a parte conoscere la risposta a quella domanda. E Blake
sapeva che lui era gay, perciò non sarebbe stata una sorpresa, né per lui
né per chiunque altro lo conoscesse anche minimamente bene.

Blake uscì dal ristorante con l’uomo misterioso dirigendosi agli ascensori
nell’atrio dell’ultimo piano del palazzo. Cameron trattenne il fiato per un
momento, lasciandolo poi uscire lentamente, per calmarsi. Non era male,
si disse. Tutto era a posto. E aveva del lavoro da svolgere prima di poter

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tornare a casa e cercare di non sognarlo di nuovo.

Alcuni minuti più tardi, gli capitò di sollevare lo sguardo mentre
sparecchiava un tavolo e si bloccò. Rimase immobile, come un coniglio
catturato dai fari di una macchina, mentre Blake si muoveva verso di lui.
Non aveva senso scappare, dopotutto.

Blake si avvicinò al tavolo nel séparé, sfiorando con la mano la tovaglia
di lino. “Posso parlarti un attimo?” chiese educatamente al suo
passaggio, indicando con un dito che doveva seguirlo.

Cameron ricordò a se stesso che si trattava solo di Blake. Sì, lui era il
proprietario del ristorante e il suo capo, ma era anche diventato un buon
amico nel corso degli anni. Posò nuovamente i bicchieri sporchi sul tavolo
e lo seguì. Camminarono verso la parte anteriore del ristorante, nel
corridoio dell’atrio, dove Blake lo introdusse nel suo ufficio privato.

“Non era arrabbiato con te, ragazzo,” gli disse, non appena Cameron
ebbe chiuso la porta.

“Come?” chiese lui a occhi sbarrati.

“Non era arrabbiato con te,” ripeté Blake lentamente, raggiungendo con
una mano il taschino della camicia. Gli porse una banconota da cento
dollari, con un cenno. “La tua mancia.”

“Cosa?” Cameron guardò la banconota arrotolata nella sua mano. “Non
capisco. Mi ha detto…”

Blake fece un sorrisetto, ovviamente cercava di non mostrare il suo
divertimento. “Stava cercando di farti capire che non gradisce essere
servito da Miri,” gli disse non senza difficoltà, poiché stava chiaramente
tentando di non ridere.

Senza parole, il giovane rimase lì a guardare Blake. “Non capisco,” disse
infine. “Non la gradisce?”

Blake si permise di ridere piano. “Non gli piace Miri, ragazzo,” continuò
benevolmente. “Dice che è una ficcanaso. Non permettere più che gli
serva la cena.”

Cameron si strinse nelle spalle, impotente. “Okay?” Poi guardò i soldi.
“Avrebbe potuto anche dirlo prima. Ma non siamo in molti a lavorare qui
dentro, qualche volta gli capiterà di finire nella sua sezione.”

“No,” Blake rise, aprendo la porta per farlo uscire. “No, non succederà

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più.”

Cameron tornò indietro più confuso che mai. Teneva ancora i soldi fra le
dita e dopo un attimo li fece scivolare in tasca. Scuotendo la testa per
schiarirsi le idee, tornò al lavoro. Avrebbe avuto un sacco di tempo per
riflettere sul mistero di quell’uomo tenebroso che veniva ogni martedì,
quando avesse finito.

“FELICE anniversario,” Cameron fece un ampio sorriso, appoggiando il
dolce speciale sul tavolo, di fronte agli occhi spalancati della moglie. Il
marito sorrise e lui li lasciò da soli a godersi il resto della loro romantica
cena.

Erano ormai le undici di un sabato sera che si era rivelato piuttosto
impegnativo. Ogni cosa aveva girato alla perfezione e Cameron si era
sentito nel suo elemento, soprattutto nella sua qualità di supervisore del
personale e della sala. Generalmente, il sabato sera c’era più personale,
quindi non era richiesta la sua presenza ai tavoli, ma gli venivano affidati
altri compiti; apprezzava quel cambiamento della routine.

Entrò di buon passo nell’area di servizio in tempo per cogliere alcuni
aiuto cameriere occhieggiare la televisione nell’angolo.

“Cosa state facendo?” chiese loro, seccato. Quella televisione non doveva
essere accesa durante le ore di servizio, a meno che non ci fosse brutto
tempo in arrivo oppure un importante evento sportivo su cui i clienti
avessero necessità di informarsi.

Quelli si dispersero immediatamente mentre il cronista sportivo si
dilungava sui pronostici relativi alle future partite delle squadre di
football. Cameron scosse la testa, guardandosi intorno alla ricerca del
telecomando per spegnere la tv.

“E per la cronaca locale” parlottava la televisione in tono monotono,
mentre lui era sempre alla ricerca del telecomando. “Il corpo dell’uomo
trovato nel Lago Michigan questa mattina è stato identificato come quello
di Steven Bosley. Bosley era scomparso tre settimane fa dopo una notte
brava al club Zenith, un locale del centro di Chicago. Le autorità
inizialmente pensavano che Bosley avesse lasciato il paese per evitare
l’incriminazione per i suoi rapporti con le locali organizzazioni criminali,
adesso si indaga invece su un caso di omicidio. L’ipotesi, proveniente da
una fonte interna, afferma che l’omicidio sarebbe il risultato dell’opera di

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un professionista.”

Cameron spense la televisione scuotendo la testa. Il riferimento al club
Zenith gli riportò immediatamente alla mente la sua ossessione. L’uomo
misterioso non si era più presentato al ristorante per quasi un mese e lui
era sicuro che non si sarebbe più fatto vedere. Era quasi riuscito a
togliersi dalla mente l’affascinante sconosciuto, fino a quel momento.
Cameron sospirò e scelse due bottiglie di vino da portare alla festa di
compleanno nella saletta privata.

Alcuni minuti più tardi, Keri si affacciò nella stanza della festa, attirando
la sua attenzione e indicandogli un tavolo per quattro vicino alla vetrata.
Dall’ultimo piano del ristorante si poteva godere della vista incantevole
della città innevata e un uomo era seduto lì da solo.

Era lui. Lui.

Cameron rimase lì a studiarlo per più di un minuto. Non era al suo solito
tavolo. Non era nemmeno vicino alla sua solita sezione. Ma sapeva,
senza nemmeno chiederlo, che Blake voleva che fosse lui a servirlo,
anche se non ne conosceva il motivo. Attraversò lentamente la sala da
pranzo, tentando di reprimere l’agitazione che sentiva dentro.

“Buona sera,” disse, quando si fermò di fronte al tavolo.

L’uomo staccò lo sguardo dal paesaggio urbano e lo guardò, prendendo
nota del brevissimo lampo di sorpresa che attraversò gli occhi di
Cameron. Quando si voltò, la luce che proveniva dai faretti evidenziò le
ecchimosi in via di guarigione sul collo e la guancia. Erano diverse da
quelle che aveva sfoggiato tempo addietro e Cameron avrebbe giurato
che quelli sulla sua gola fossero segni di dita. Il taglio sopra l’occhio, che
era stato appena cucito l’ultima volta che era venuto al ristorante, era
ormai una cicatrice sbiadita, appena visibile. Chiunque lo avesse ricucito
aveva fatto un ottimo lavoro.

Lo esaminò per un attimo. Forse era un pugile professionista o qualcosa
del genere? Aveva la stazza adatta per combattere.

“Il menù speciale e il vino della casa?” domandò, invece di lasciarsi
andare a riflessioni. Il tempo passato dall’ultima visita dell’uomo al
ristorante – e il modo spiacevole in cui era finita – avevano contribuito
ad alleviare la fissazione che Cameron aveva sviluppato e fu
relativamente facile mantenere il giusto contegno. Per il momento,
almeno.

L’uomo annuì e inclinò la testa di lato con discrezione, come se fosse a

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conoscenza del fatto che la luce lo illuminava, mettendo in risalto le
contusioni. Conoscendolo, Cameron abbassò gli occhi in silenzio: non
voleva farlo sentire a disagio. Erano, evidentemente, tornati alla loro
danza silenziosa.

Ritornò cinque minuti più tardi con la bottiglia di vino e un bicchiere di
cristallo e li dispose sul tavolo, insieme con un cestino di pane, che aveva
preso dal vassoio di un altro cameriere. Iniziò a stappare la bottiglia,
fermandosi a guardare con un sorriso compiaciuto la neve che cadeva,
prima di riportare la sua attenzione su quello che stava facendo.

L’uomo lo osservava pensieroso, l’espressione neutra mentre aspettava
che finisse. Canticchiando sottovoce, Cameron lo guardò e mise da parte
il tappo. L’uomo non lo aveva mai esaminato prima, quindi il giovane non
si aspettava che lo facesse adesso e proseguì nel suo lavoro versandogli
un po’ di vino nel bicchiere.

“C’è bisogno di un altro bicchiere,” gli disse l’uomo mentre Cameron
glielo riempiva, la voce poco più di un sussurro, come sempre. Le mani
di Cameron tremarono leggermente sulla bottiglia di vino. “Certo,
signore,” rispose. Si chiese se lo strano rito della notte di molte
settimane prima si sarebbe ripetuto. Non era sicuro di volerlo vedere di
nuovo: da quella notte l’attrazione che lo sconosciuto esercitava su di lui
era schizzata alle stelle. Ma se l’uomo non aveva intenzione di ripetersi,
voleva dire che stava effettivamente per incontrare qualcuno.

Il cliente misterioso allungò la grossa mano e prese la coppa di cristallo
con delicatezza, portandola alle labbra senza agitare il liquido contenuto
all’interno. Lo assaporò lentamente e annuì in approvazione,
appoggiando poi il bicchiere sulla tavola.

Cameron sollevò un angolo della bocca. Sapeva per certo che non si
sarebbe mai stancato di guardare quell’uomo gustare il vino. Lo lasciò da
solo per qualche istante e poi riapparve con l’altro bicchiere, che
appoggiò con attenzione nel posto davanti a quello di lui; il tutto senza
ulteriori commenti.

Mentre il giovane si stava voltando per allontanarsi, il cliente si alzò
all’improvviso. Con lo sguardo fisso verso l’ingresso, si abbottonò
abilmente la giacca e contemporaneamente si eresse mettendosi ben
dritto. Il movimento sorprese Cameron, che fu sul punto di voltarsi di
nuovo a guardarlo, ma riuscì a trattenersi e proseguì verso le cucine
senza però perdere di vista l’entrata.

Keri stava accompagnando al tavolo una donna. Era alta, bionda e snella,
talmente bella da sembrare finta, con lunghe gambe messe in rilievo dai

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tacchi a spillo e dallo spacco alto dell’abito nero. L’uomo la salutò con un
mormorio sommesso e la baciò sulla guancia, prima di spostarle
galantemente la sedia.

Appena raggiunta la zona di servizio, Cameron dovette trattenersi dallo
spiare attraverso la finestrella della porta, per cercare di vedere cosa
stava succedendo. Rammentò a se stesso che doveva agire
correttamente e che doveva essere rispettoso del cliente e della sua
privacy, ma poi sospirò, sapendo che era una battaglia persa.

“Questa è la prima volta che lo vedo con qualcuno,” disse Miri,
fermandoglisi accanto a guardare attraverso la finestrella.

“Basta spiare,” la rimproverò Cameron, anche se era esattamente quello
che avrebbe voluto fare lui. Miri lo guardò inarcando il sopracciglio e lui
si morse un labbro, restituendole l’occhiata. “Che cosa stanno facendo?”
le chiese, quasi contro la sua volontà.

“Sta sicuramente parlando con lei,” rispose la ragazza con un sorriso
ironico, voltandosi a sbirciare ancora un po’.

Contrariato, Cameron, prese una brocca d’acqua. Se l’uomo non era da
solo al tavolo, allora doveva andare a vedere se c’era bisogno di lui. Non
era mai successo prima e gli venne in mente che probabilmente era un
po’ geloso. In un certo senso pensava che il tempo che l’uomo
trascorreva al ristorante fosse suo, non importava quanto ciò fosse poco
realistico. Se fosse stato un appuntamento galante, sarebbe stato un
duro colpo per la teoria di Miri.

Si avvicinò al tavolo con discrezione e, silenziosamente, riempì per primo
il bicchiere di lei, poi quello di lui.

“Ho ricevuto la tua offerta stamattina,” stava dicendo la donna con una
voce roca, bassa e piacevole, mentre Cameron riempiva i bicchieri. “Non
è il prezzo che abbiamo concordato, Julian.”

“Tuttavia, il prezzo è quello,” mormorò l’uomo, appoggiandosi allo
schienale. Guardò verso Cameron e annuì in segno di ringraziamento.

Cameron deglutì a fatica, tutto un nodo di eccitazione nervosa. Julian.

Era quello il nome dell’uomo. Finalmente, dopo tutti quei mesi,
conosceva il suo nome. Era stata un’emozione venirlo a sapere e anche
un sollievo. Perché non aveva mai pensato di chiederlo a Blake?

“Cosa si mangia di buono qui?” domandò la donna, prendendo il menù.

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“Suppongo che il conto lo paghi tu?”

Julian si limitò ad annuire.

“Il piatto del giorno prevede: cinghiale brasato al marsala con purè di
patate e piselli novelli,” elencò Cameron, dopo essersi schiarito la gola. “I
piatti più richiesti sono: penne alle verdure in salsa di limone e gamberi
marinati allo champagne in salsa beurre blanc.” Da qualche parte dentro
di sé, stava rimuginando su quel nome. Julian. Julian. Il nome Julian gli
calzava a pennello.

“I gamberi mi sembrano meravigliosi,” rispose lei con un sorriso che
mostrava un accenno dei suoi denti perfetti. Chiuse il menù e glielo
porse. “Inoltre, prendo anche un cosmo,” aggiunse. Guardò Julian,
sorridendo maliziosamente. “Non ti dispiace se bevo sul lavoro, vero?” lo
provocò.

Julian socchiuse gli occhi, piegando leggermente la testa. “No, se
migliora le tue prestazioni,” rispose in tutta serietà.

Cameron strinse le labbra per evitare di aggrottare le ciglia. Prese i
menù e, mormorando, si incamminò in direzione del bar. Un
cosmopolitan, in arrivo. Sicuro come Dio che la donna non era quello che
sembrava. Era troppo di classe e l’uomo – Julian – certamente non aveva
bisogno di pagare per avere compagnia.

Cameron trasmise l’ordine della donna, senza riuscire a impedire ai suoi
occhi di vagare verso lo specchio per guardarli. Ovviamente stavano
parlando. L’uomo era fermo, imperturbabile, mentre la donna agitava
una mano oziosamente. Cameron sgranò gli occhi, quando la vide alzare
un piede e strofinargli deliberatamente il polpaccio. Julian piegò la testa
e disse qualcosa in risposta.

Tossendo leggermente, Cameron prese il cocktail. Si diresse di nuovo
verso il tavolo e lo servì in silenzio, fallendo miseramente nel tentativo di
non ascoltare la fine della loro conversazione.

“Le sembro una puttana?” gli chiese la donna prima che lui avesse il
tempo di allontanarsi dal tavolo. Cameron sgranò gli occhi e rimase a
fissarla senza battere ciglio.

Julian rise, scuotendo la testa. Il suono di quella risata gli trasmise una
scarica di adrenalina in tutto il corpo e si trovò nuovamente turbato a
dispetto del fatto che non voleva che accadesse di nuovo. Rivolse una
rapida occhiata a Julian, che probabilmente stava guardando fuori dalla
finestra per nascondere il suo sorriso. Quell’espressione sul volto lo

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rendeva incredibilmente bello. I suoi occhi scuri osservavano la reazione
di Cameron attraverso il riflesso del vetro.

Nonostante la sorpresa e l’improvvisa vampata di calore sotto la giacca,
distolse la sua attenzione da quel viso e inclinò la testa, rispondendo con
la prima cosa che gli venne in mente. “Se lo fosse, signora, non potrei
mai, in alcun modo, permettermi i suoi servizi.” Cameron si inchinò
leggermente e si voltò, sperando che la sua fretta di scappare dal tavolo
non fosse troppo palese. Il suo cuore batteva così forte che si sentiva
stordito. Si fermò a un tavolo vicino, dove c’erano diverse persone, per
rispondere ad alcune domande.

“Almeno sei una puttana costosa, invece di una cacciatrice di dote
sposata,” disse Julian alla donna, con un sorrisetto mentre Cameron era
ancora a portata d’orecchio.

La donna era molto contrariata. “Mi sembrava che mi avessero detto che
sei un professionista su queste cose,” si lamentò. Lui rimase in silenzio,
inarcando un sopracciglio. Lei fece un gran sospiro, picchiettando
nervosamente con la fede nuziale contro il bicchiere. “Allora, cosa
facciamo riguardo a questa faccenda?” domandò.

“Lascia fare a me,” rispose lui, con voce bassa e calma. “Tu hai già fatto
la tua parte semplicemente venendo qui. Appena ricevuto il pagamento,
andremo avanti.”

“E se cambiassi idea all’ultimo momento?” proseguì lei con una nota di
incertezza nella voce.

“Lo farai?” le chiese Julian con quella sua voce inspiegabilmente calma e
vellutata.

Lei lo fissò e poi rivolse lo sguardo al suo drink, con la fronte aggrottata.
Inspirò profondamente e scosse la testa. “No,” rispose. “Lo voglio fare.”

Julian annuì senza dire una parola. “Allora, goditi la cena,” le suggerì. “E
smettila di preoccuparti per quello che succederà.”

Tornando indietro verso la zona di servizio, Cameron non sapeva cosa
pensare di quanto aveva udito di sfuggita. La donna stava chiaramente
scherzando riguardo al fatto di essere una prostituta. Non si sarebbe di
sicuro reclamizzata così palesemente se lo fosse stata veramente.
Attraversò la porta e si avvicinò al bancone, sperando che fosse solo uno
scherzo. Julian era un uomo troppo stupendo per aver bisogno di pagare
per fare sesso. Poi si bloccò, fissando il muro. E se non fosse stato lui
quello che pagava? L’ultimo stralcio di conversazione che aveva udito

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suonava certamente incriminante.

“È tutto okay?” esclamò Miri mentre gli sbatteva contro.

Cameron si riscosse. “Ehm. Stavo solo pensando,” disse con voce flebile.
“Tutto, okay.”

Miri si fermò e lo guardò dubbiosa. Lui la congedò con un cenno. “Solo
troppe cose da fare,” disse. “Torna al lavoro.”

“Va bene,” rispose accigliata la ragazza, mentre prendeva un vassoio con
il cibo pronto da servire e usciva nella sala da pranzo.

Un quarto d’ora più tardi, Cameron emerse dalla cucina con i piatti di
entrambi i clienti, appoggiò abilmente il vassoio e servì le pietanze con
perizia; quindi lasciò che il suo sguardo si spostasse dall’uno all’altra,
nell’attesa di attirare la loro attenzione.

Julian lo osservava lavorare, senza mai distogliere l’attenzione da lui,
mentre la sua compagna di tavolo guardava fuori dalla finestra,
blaterando su quanto odiasse gli inverni di Chicago. Sistemando i piatti,
Cameron notò che l’uomo lo osservava da vicino e inarcò un sopracciglio,
con fare interrogativo.

“Grazie,” gli disse Julian. Quelle parole gentili e lo sguardo intenso fecero
sentire Cameron come se, in quel momento, fosse l’unica persona che lui
vedeva.

Cameron si raddrizzò, sorridendo nervosamente e cercando di
convincersi che stava correndo con l’immaginazione e che doveva
calmarsi. “Prego,” mormorò.

“Sei sempre così affabile?” chiese la donna in tono asciutto a Julian.

“Non spesso,” rispose lui, senza staccare gli occhi da Cameron.

Lui fece un passo indietro con il vassoio, guardando prima la donna e poi
Julian. “Buon appetito,” disse esclusivamente all’uomo misterioso,
sentendo uno sfarfallio nello stomaco per la sua audacia. Quindi si
allontanò di un passo dal bordo del tavolo.

Gli occhi neri e indecifrabili di Julian seguirono i suoi movimenti e
Cameron si fermò un attimo, avvertendo la sensazione di quello strano
frullio rafforzarsi; poi il chiacchiericcio della donna interruppe il momento
e lui si voltò per andarsene.

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“Vorrei il conto, quando torna indietro,” chiese Julian gentilmente.

Cameron si girò, annuì docilmente e se ne andò; non si accorse che
stava sorridendo, finché non arrivò nel retro e uno dei suoi colleghi lo
fissò con uno sguardo strano. “Che vuoi?” esclamò lui sospettoso.

Charles scosse la testa, sorridendo a sua volta maliziosamente. “Sei
completamente fottuto,” disse con una risata, prima di passare oltre con
un vassoio carico di cibo.

Cameron era seccato: Miri evidentemente aveva parlato. Prese il conto
come richiesto, mentre diversi colleghi chiacchieravano intorno a lui,
approfittando di una pausa, sebbene fosse un sabato sera pieno di
lavoro. Non era turbato, solo… affascinato, giusto? Sì.

Sospirò, sforzandosi di essere onesto almeno con se stesso. Era
infatuato. Forse era per la voce, così bassa e roca, a volte praticamente
impercettibile. E quella risata che aveva sentito…

La sua mente vagò nuovamente al pensiero che fosse un gigolò: un
pensiero folle, di sicuro, ma con un aspetto del genere, Cameron se lo
immaginava chiedere qualsiasi cifra volesse. Questo avrebbe spiegato la
sua agiatezza, ma anche la necessità di scattare e correre via quando il
cellulare squillava.

Storcendo il naso, Cameron si intimò di smetterla di fare lo sciocco. Mise
il conto nella cartelletta di cuoio e si diresse nuovamente fuori,
fermandosi ad alcuni tavoli lungo la strada, prima di dirigersi verso
quello vicino alla vetrata.

Sia Julian che la donna erano in piedi; lui la stava aiutando con il
cappotto. Lei si avvolse la sciarpa intorno al collo, dandogli un bacio
d’addio, indecentemente lungo, poi gli sussurrò qualcosa all’orecchio,
facendogli scivolare la mano nella tasca della giacca e infilandoci dentro
qualcosa. Ignorando Cameron, si voltò e si avviò verso la porta. Le teste
di molti uomini si girarono per guardarla uscire dal ristorante.

L’esibizione della donna non era servita un granché a dissipare la sua
teoria, anche se supponeva che se lei lo pagava per fare sesso,
probabilmente sarebbero andati via insieme.

Julian aspettò che lei lasciasse il ristorante, poi tornò al suo posto,
cancellando discretamente le tracce di rossetto dalle labbra e dalla
guancia con il tovagliolo. Si frugò in tasca e ne estrasse un pezzo di
carta. Lo lesse, infastidito, e poi lo gettò con noncuranza sul tavolo.

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Cameron aspettò che Julian fosse pronto, prima di avvicinarlo con il
conto. Posò la cartelletta vicino al suo gomito, per poi spostarsi a
raccogliere silenziosamente il piatto della donna. Riuscì a resistere a
malapena alla tentazione di stabilire nuovamente un contatto visivo,
oppure di dare un’occhiata al pezzo di carta.

“Mi faresti un favore, se te lo chiedessi?” chiese Julian a bassa voce.

Cameron non seppe resistere: qualsiasi infondato pensiero sulla
professione dell’uomo scivolò in secondo piano, sopraffatto dall’uomo
stesso. Girò il mento per guardarlo, raddrizzandosi lentamente. La sua
non fu la solita risposta alla pronto-per-servirla che dava abitualmente,
ma fu comunque semplice ribattere, dopo averlo scrutato per alcuni
istanti: “Forse.”

Julian tirò fuori, apparentemente dal nulla, un piccolo dispositivo
elettronico, lo fece scivolare sul tavolo e, nascondendolo con il palmo
della mano, fissò Cameron. “Puoi darlo al signor Nichols, dopo che me ne
sono andato?” chiese. “Senza farti vedere da nessuno?” aggiunse con un
tono pieno di sottintesi.

Non era affatto quello che il giovane si era aspettato di sentire. I suoi
occhi guizzavano da Julian alla sua mano, aperta sopra l’oggetto. Senza
parlare, prese il suo piatto, lo mise sopra a quello della donna che aveva
già in mano, poi prese un tovagliolo di lino e lo trascinò sulla mano di
Julian. “Mi permetta di prendere questo impaccio.”

Quando le loro mani si toccarono, Julian lo guardò e annuì; i suoi occhi
erano indecifrabili come sempre. “Grazie,” mormorò con sincerità.

Cameron raccolse l’oggetto dal tovagliolo, tenendolo con attenzione.
“Prego,” replicò, guardandolo direttamente, godendosi la sensazione che
anche solo l’incrociare i suoi occhi gli provocava.

Julian prese il portafoglio dalla giacca e ne estrasse alcune banconote,
senza mai distogliere lo sguardo. Le fece scivolare nel portaconto e glielo
porse, prima che Cameron si allontanasse.

Cameron spinse nella tasca il tovagliolo piegato sul dispositivo e raccolse
la cartelletta. Ma poi, notando la forte nevicata fuori dalla vetrata, si
distrasse. “Faccia attenzione là fuori,” disse, vedendo l’altro andare via,
ben consapevole che intendeva in più di un senso.

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PRIMA che Cameron trovasse il tempo di cercare Blake nel suo ufficio, si
era fatto tardi. Il piccolo registratore gli aveva bruciato in tasca come un
tizzone ardente per tutta la sera; nonostante il bisogno impellente di
aprirlo e accenderlo per cercare di capirci qualcosa, non aveva trovato il
coraggio di farlo. Girò l’angolo, si fermò davanti alla porta dell’ufficio e
bussò pacatamente.

“Avanti,” ordinò Blake dall’interno.

Cameron aprì la porta ed entrò. “’Sera, Blake” lo salutò. Blake lo aveva
costretto con le minacce ad abbandonare il “signor Nichols” quasi sei
anni prima.

L’uomo sollevò gli occhi dalle scartoffie sulla scrivania e sorrise
apertamente. “Buona sera, Cameron,” lo salutò nel modo amichevole che
usava sempre. “Cosa posso fare per te? Come va la serata?”

“Davvero bene,” rispose l’altro sorridendo. “Credo che tutte e tre le feste
vadano alla grande, la gente sembra contenta… e stanno bevendo un
sacco di vino,” aggiunse, con un sorriso complice.

“Splendido,” commentò Blake con sarcasmo. “Meglio anche per le mance,
no?” scherzò, prendendo una penna e battendola contro i fogli appoggiati
sul ripiano. “È tutto?” chiese, ancora in tono cordiale e aperto, ma
ovviamente distratto.

Esitante, Cameron mise la mano in tasca e si avvicinò di tre passi alla
scrivania. “Lui mi ha chiesto di consegnarti questo.” Tirò fuori il
registratore e glielo posò davanti.

Blake guardò il registratore con il corpo improvvisamente e visibilmente
teso, poi lanciò un’occhiata a Cameron. “Lui?” lo interrogò sottovoce,
senza toccare l’apparecchio.

Cameron si mosse a disagio. “Lui. Julian.”

Con un sopracciglio sollevato, Blake guardò lui e poi di nuovo il
registratore. “L’hai ascoltato?” lo interrogò ancora, pacatamente.

Cameron scosse la testa, guardandolo fisso.

Blake, pensieroso, prese il registratore, rigirandolo per esaminarlo, prima
di premere brevemente il pulsante di riavvolgimento, seguito poi dal
tasto “play”. La voce ingannevolmente dolce e profonda di Julian si
diffuse, filtrata quasi subito da un piccolo altoparlante:

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“Confido che tu sappia che non dovrai mai più tornare qui.”

“Certo. Tra ventiquattr’ore sarò alle Cayman, in lutto per il mio defunto
marito. Non ho motivi per ritornare.”

“Bene. Finisci la tua cena.”

Blake spense il registratore con un click e lo guardò con un sorriso.
“Grazie, Cameron,” disse compiaciuto. “Tu non hai sentito niente di tutto
ciò,” lo istruì con un ghigno.

“Io non ho sentito un sacco di cose, nel mio mestiere,” disse Cameron
sorridendo, sebbene pensasse che quello scambio di battute fosse
estremamente strano. Molte persone parlavano di argomenti delicati nei
ristoranti, dimenticandosi del personale che si muoveva silenziosamente
intorno a loro. Lui non sapeva cosa stesse succedendo e non pensava
nemmeno di volerlo sapere.

“Bene, hai fatto la tua buona azione della settimana, a ogni modo,” lo
informò Blake, sollevando il telefono al suo fianco e componendo un
numero. “Cosa ne pensi della donna?” chiese astutamente, mentre
aspettava che gli rispondessero.

Le labbra di Cameron si contrassero. “Mi ha chiesto se sembrava una
puttana,” rispose in modo significativo.

“Potrebbe anche esserlo,” brontolò Blake bonariamente. “Vedremo
quanto le piacerà una bella cella di tre metri per tre,” aggiunse con
gusto. “Non mi mettere in attesa!” gridò nel telefono, poi imprecò
sottovoce, guardandolo nuovamente. “Julian, uh?” domandò con un
ghigno ammiccante.

“È così che l’ha chiamato lei,” replicò Cameron debolmente. “Tu mi hai
chiesto…”

“È il suo nome,” lo rassicurò Blake. “Che cosa ne pensi di lui?” gli chiese,
con un sorriso che si trasformò in uno dei suoi soliti ghigni maliziosi.

“Cosa penso di lui?” ripeté Cameron, con un leggero cedimento della
voce, la mente che correva alla ricerca di qualcosa di appropriato da dire.
“Ehm. Dà delle ottime mance e non chiede pietanze strane. È un buon
cliente,” disse infine, in dubbio su quello che poteva dire senza rivelare
quello che provava veramente.

“Sicuramente lo è,” concordò Blake, senza che il suo sorriso malizioso si

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affievolisse. “Ti ha detto niente riguardo a questo?” chiese ancora,
indicando il registratore sulla scrivania. “O lo ha semplicemente messo
nelle tue mani con un grugnito, come fa di solito?”

Cameron ci pensò sopra. “Mi ha chiesto se gli avrei fatto un favore nel
caso me l’avesse chiesto. Io gli ho risposto ‘forse’.” Alzò di nuovo le
spalle.

“Un po’ temerario da parte tua, considerando che tipo d’uomo ti ha
chiesto un favore,” lo rimproverò Blake, battendo la penna spazientito, il
telefono ancora all’orecchio.

Cameron scattò, rispondendo senza pensarci sopra. “Che vuoi dire? Non
è come se lo conoscessi. Cioè, se una donna stupenda ti chiedesse un
favore, tu non diresti di sì?”

“Probabilmente.” Blake rise piano. “Ah!” esclamò improvvisamente. “No,
no, no; non mettetemi in attesa,” ringhiò nel telefono. Sollevò lo sguardo
verso Cameron, sorridendo diabolicamente. “Vai e prenditi il resto della
serata libera, Cam” gli consigliò, con un cenno della testa. “Lascia che
siano gli altri a pulire per stasera.”

“Okay,” rispose lui, perplesso e divertito al tempo stesso. Blake
indubbiamente stava facendo qualcosa di cui godeva immensamente, e
quando Blake si divertiva, era difficile non unirsi a lui.

Gli rivolse un’ultima occhiata prima che l’uomo si girasse e iniziasse a
parlare. Almeno Blake non l’aveva preso in giro riguardo a quella parola:
‘stupendo’. Mentre camminava lungo il corridoio, diretto verso la cucina
per prendere il cappotto, Cameron si ripeté di smettere di pensare
all’uomo misterioso chiamato Julian. Poi sollevò gli occhi al cielo, come
se quella cosa fosse anche minimamente possibile.

L’UOMO conosciuto come Julian Cross camminava inquieto, aspettando la
mezzanotte. Aveva tenuto il telefono in mano abbastanza a lungo da
scaldarlo, guardando l’orario sul display ogni pochi secondi e aspettando
con impazienza che arrivasse l’ora. Alla fine si permise di comporre il
numero di Blake Nichols.

“Mi domandavo quanto avresti aspettato,” rispose l’altro in segno di
saluto.

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“Chiudi il becco,” brontolò lui, obbligandosi a interrompere la passeggiata
nervosa. “Ce l’hai?” chiese preoccupato. Aveva avuto dei dubbi
sull’utilizzo del cameriere come corriere, ma Blake gli aveva assicurato
più di una volta che l’uomo era affidabile e discreto. La leggera
infatuazione che Julian nutriva nei suoi confronti l’aveva spinto a essere
incauto. Era stato agitato al riguardo per tutto il tempo, qualcosa che in
genere non era incline a fare.

“È proprio qui al sicuro nelle mie piccole e calde mani,” rispose Blake.
Fece una pausa. “Hai veramente pensato che Cameron non me lo
avrebbe portato?”

“Ehi,” grugnì Julian con fastidio. “Quando qualcosa lascia le mie mani, mi
preoccupo, okay? Sono fatto così. Non mi fido per niente di te e delle tue
idee strampalate.”

Blake ridacchiò. “Beh, puoi smetterla di preoccuparti. Cameron me l’ha
consegnato, proprio come promesso. Non l’ha nemmeno ascoltato prima
di darmelo.” Fece nuovamente una pausa. “Perché l’hai chiesto a lui?
Perché non portarlo direttamente a me? Lo sapevi che ero nel mio
ufficio.”

Julian strinse le labbra con aria pensierosa. Pensò di sottolineare che
c’era sempre la possibilità che fosse seguito; farsi trovare a girovagare
per i corridoi privati non era una buona idea, probabilmente. Ma quello
lui lo sapeva già. Lo stava semplicemente colpendo in uno dei suoi
pochissimi punti vulnerabili. Blake sapeva del suo debole per Cameron e,
semplicemente, non riusciva a trattenersi dal prenderlo spietatamente in
giro al riguardo.

“Lui è molto più piacevole di te da guardare,” disse infine, invece di dargli
una risposta più seria.

La risata di Blake risuonò nella cornetta. “Tu invece sei un idiota,” rispose
divertito. “Oh, a proposito, lo sai che sei stupendo?”

“Sì, ne ero consapevole,” rispose Julian senza nemmeno battere ciglio.
Attese un attimo prima di aggiungere, sospettoso: “Perché?”

Gli giunse una risatina attraverso la linea telefonica. “Lascia perdere. Ho
fatto quella telefonata, porteranno quella cosa dalle persone giuste.
Ottimo lavoro, tra parentesi. Non era così intelligente come le avevamo
dato credito, eh?”

“Neanche lontanamente,” brontolò lui. “Sono quasi imbarazzato per
l’impegno che ho profuso per lei. Lo sai che mi ha perfino fatto un fottuto

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assegno? Tanto per parlare di una traccia cartacea.”

“Cosa ne hai fatto?” chiese Blake divertito.

“L’ho bruciato quando sono arrivato a casa.”

“Beh, c’è sempre da imparare,” replicò semplicemente Blake. “Sarai qui
la prossima settimana? È festa, lo sai. Io sarò fuori città.”

“Se sarai fuori città, cosa ti importa dove sarò io?”

“Non voglio pensare a te seduto in quel mausoleo di casa che ti ritrovi,
da solo, la vigilia di Natale,” rispose Blake con sincerità.

“Che dolce,” replicò Julian seccamente. Sospirando lentamente, guardò
fuori, verso la neve che cadeva. “Ma poiché non sarai qui a prescindere,
te lo chiedo di nuovo: cosa te ne importa?”

“Stupido,” ribatté l’altro con affetto.

“Già. E poi c’è sempre la messa di Natale,” mormorò Julian.

“Quella non conta come compagnia,” sottolineò Blake.

“Sì, beh, sarà sufficiente,” lo rassicurò lui, pensando fra sé che, se ne
avesse avuto il coraggio, probabilmente avrebbe potuto trovare un po’
della compagnia che intendeva lui. La sua mente andò di nuovo a un
cameriere dagli occhi blu e dai capelli scuri.

“Abbi cura di te, Julian,” gli consigliò Blake. “Sei libero fino a Natale, a
meno che non succeda qualcosa di grave. Buonanotte.”

“Sogni d’oro, stronzo,” replicò lui con un sorriso pieno d’affetto.

“Sicuro, stanne certo. Emily è tornata da Parigi,” rispose Blake con una
risata, prima di riattaccare.

Julian sorrise e scosse la testa. Chiuse il telefono, lanciandolo sul mobile
più vicino e si chiese cosa diavolo avrebbe fatto di se stesso nei giorni
seguenti, senza nessun lavoro o ricerca a tenerlo occupato. Guardò la
neve fuori dalla finestra, meditando sul modo in cui le labbra del
cameriere si erano curvate in un sorriso quando l’aveva vista cadere
attraverso le vetrate del ristorante.

Grugnì leggermente, scuotendo la testa, sconfitto. Stava pensando anche
troppo a quell’uomo perché fosse una cosa normale. Non poteva fare a

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meno di chiedersi, però, se Cameron avrebbe risposto favorevolmente a
una sua proposta.

Julian inclinò la testa e, guardando fuori dalla finestra, si lasciò andare
alle tante domande e ai molti pensieri su un uomo che non conosceva
veramente.

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Capitolo 2

CAMERON si trovava all’ingresso del ristorante e stava cancellando il
menù speciale della serata, scritto artisticamente con i gessi colorati.
Keri l’aveva pregato di concederle di uscire presto, così da poter
trascorrere la vigilia di Natale con i suoi bambini, quindi era l’unico
rimasto a fare tutto quello di cui c’era bisogno. Quando le due feste in
occasione della vigilia erano terminate presto e nel ristorante non erano
più rimasti clienti, lui aveva mandato tutti a casa, escluso lo chef in
seconda e altri due ragazzi del personale di cucina. La maggior parte
della gente ormai era a casa con la propria famiglia e persino le
condizioni meteo non avevano favorito gli affari: aveva nevicato
pesantemente per tutto il giorno.

Cominciò a canticchiare le note del concerto di Natale proveniente
dall’ingresso, non ancora stanco della musica natalizia che riempiva l’aria
ovunque in quel periodo dell’anno. Siccome aveva del tempo, tirò fuori il
prospetto con l’orario del personale e iniziò a programmare i turni.

Un lieve fruscio d’aria lo avvertì dell’arrivo di qualcuno. Sorpreso, scese
dallo sgabello e girò dietro alla scrivania per vedere in quanti fossero. Si
immobilizzò e rimase per qualche istante con gli occhi sgranati prima di
riuscire a ricomporsi.

Era Julian.

L’uomo entrò nel ristorante, togliendosi la sciarpa che gli avvolgeva il
collo mentre si guardava intorno. Quando i suoi occhi si posarono su
Cameron, si fermò e inclinò leggermente la testa da un lato. “Buon
Natale,” lo salutò.

Cameron rispose sbattendo scioccamente le palpebre. “Buone feste,”
replicò infine. Era martedì? Sì. Sì, era proprio martedì.

Julian lanciò uno sguardo alla sala e si avvicinò, sembrava planasse con
quel suo lungo soprabito che gli vorticava attorno. “Grazie per quello che
hai fatto,” disse, accostandosi.

Cameron sapeva esattamente di cosa stava parlando, ci aveva riflettuto
per diversi giorni, chiedendosi a cosa avesse preso parte e cosa fosse
successo. “Prego. È…” Fece una pausa, consapevole del fatto che stava
per correre il rischio di essere a un passo dalla scortesia. “È qui per

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cenare?” improvvisò.

“È andato tutto bene,” rispose Julian, senza distogliere lo sguardo.

Cameron soppresse un brivido, sentendo quegli occhi neri concentrati
totalmente su di lui. Strinse le mani dietro la schiena. “Bene,” disse a
bassa voce. “Mi chiedevo…” aggiunse, spostando gli occhi lateralmente,
prima di sollevarli a guardarlo.

Julian annuì, abbassando la testa come se cercasse di trattenere il suo
sguardo su di sé. “Quanto tempo devo aspettare?” chiese.

Gli occhi di Julian erano così intenti; Cameron cercò di non muoversi
sotto il suo sguardo. Scrutò l’elegante orologio in ferro battuto appeso al
muro. “Un’ora circa,” rispose con voce tremante. Cosa avrebbe fatto con
nessuno nel ristorante eccetto lui?

“Allora, tra un’ora sarai libero,” azzardò Julian, inclinando la testa di lato.
Sembrava che non avesse mai abbastanza forza nella voce per parlare a
tutto volume. Era un tratto intrigante in un uomo così imponente.

Cameron fece scivolare una mano in tasca per nascondere il lieve
tremore delle dita. Gli bastava guardarlo perché le pulsazioni corressero
a mille all’ora. “Sì,” rispose senza nemmeno chiedersi lo scopo della
domanda. Perché, se si fosse permesso di pensarci, probabilmente non
sarebbe più stato in grado di formulare frasi coerenti. Continuò: “In
realtà eravamo già pronti per chiudere. Lei è il primo cliente da quasi due
ore.”

Julian piegò la testa dall’altro lato e poi annuì seccamente, lasciando che
i suoi occhi lo percorressero, pensierosi. “Quindi se dovessi andare via,
potresti, in teoria, incontrarmi nella hall fra quindici minuti,” ipotizzò.

Una sottile incredulità filtrò dagli occhi di Cameron. “In teoria,” convenne
con cautela. L’uomo ci stava provando con lui? Che follia era mai quella?

Julian continuò a guardarlo direttamente negli occhi, serio. “Aspetterò
per venti minuti,” annunciò con un sussurro appena udibile.

Cosa stava succedendo? Julian voleva incontrarlo per… cosa? Cameron fu
attraversato da un brivido di eccitazione. Il suo primo impulso fu di
cogliere al volo quell’opportunità, sebbene non sapesse niente di lui o di
quello che voleva proporgli. Aveva davvero intenzione di accettare?

Non c’erano dubbi. Sì. Sì, lo stava per fare, anche se si trattava di
un’idea folle e avventata. “Allora sarà meglio che mi muova,” disse,

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incapace di staccargli gli occhi di dosso.

Gli angoli della bocca di Julian si contrassero in quello che avrebbe
potuto essere un sorriso. Si girò senza dire una parola e si congedò,
avviandosi lentamente e cautamente verso l’uscita del ristorante.
Sembrava che si muovesse sempre con passi misurati, come se si
sforzasse di imbrigliare la sua andatura.

Cameron sprecò trenta secondi a fissare il corridoio, meditando sul modo
in cui Julian si muoveva, prima di spostarsi con passo incerto per
chiudere le porte e abbassare le luci. Attraversò in fretta il ristorante
verso le cucine e disse al cuoco di chiudere bottega. Per quando si fu
assicurato di aver chiuso tutto nella maniera corretta, erano già passati
dodici minuti. Imprecò e, dopo aver afferrato il pesante cappotto e la
sciarpa, si diresse a lunghe falcate verso gli ascensori.

Julian si trovava nella hall, le grandi spalle quadrate avvolte nel pesante
cappotto di lana, e fissava la facciata in vetro dell’edificio, in attesa. Il
lieve tono che segnalava l’arrivo dell’ascensore nella hall increspò la
quiete dei pavimenti di marmo e degli alti soffitti. Da sopra la spalla,
Julian osservò Cameron uscire dall’ascensore. Si girò e abbassò il mento,
visibilmente sorpreso dal fatto che fosse venuto.

Cameron si strinse nel lungo cappotto antracite e si passò attorno al collo
la sciarpa che teneva appesa al braccio, leccandosi nervosamente le
labbra. L’uomo non si era aspettato che si presentasse? Allora perché
glielo aveva chiesto?

Julian iniziò a camminare lentamente verso di lui. “Non hai nessuno a
casa da cui tornare la vigilia di Natale?” gli chiese avvicinandosi, la voce
bassa che attraversava i pavimenti di marmo.

Le mani di Cameron si fermarono sui bottoni del cappotto mentre
guardava l’uomo avvicinarsi; parlò prima di pensare fino in fondo. “No,
ecco perché mi offro sempre come volontario per lavorare durante le
feste.”

Gli era già venuto in mente che Julian potesse essere pericoloso, ma
andare via con lui da solo, a tarda notte, e ammettere che nessuno lo
stava aspettando? Non era per niente una buona idea.

“Non vorrei trattenerti,” mormorò Julian, fermandosi a diversi metri di
distanza, come se percepisse il suo improvviso disagio e cercasse di non
spaventarlo standogli troppo vicino o parlando troppo forte.

Cameron era diviso tra una silenziosa ondata di desiderio e un brivido di

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apprensione. Aspettò fino a quando non fu sicuro di quello che voleva
dire e inconsapevolmente si leccò il labbro inferiore. “Non mi sta
aspettando nessuno.”

Julian annuì leggermente. “Stavo per suggerirti di parlare un po’ mentre
passeggiavamo, ma ha iniziato a nevicare di nuovo,” disse, guardando la
finestra. “Cosa ne pensi?”

Cameron non poté impedirsi di sorridere. “Mi piace la neve.”

Julian abbozzò un sorriso e, indicando la porta con la mano, lo invitò a
fare strada. Andando avanti, Cameron uscì nella neve, ma si fermò
subito e sorrise, sollevando il viso verso quei grandi, soffici fiocchi per un
istante, prima di muoversi lungo la strada. La neve era già alta quasi
cinque centimetri e, attraversandola, Cameron vi lasciò impresse le
proprie orme.

Julian lo raggiunse ben presto, camminando a testa bassa. “Stava
cercando di far uccidere il marito.”

Cameron lo guardò sorpreso mentre procedevano lungo il marciapiede.
Non aveva idea di cosa replicare. Avrebbe dovuto chiedere chiarimenti?
Era opportuno? “E tu…” osò dire dopo diversi metri.

“Sono stato ingaggiato dal marito,” rispose lui, il respiro congelato in una
nuvoletta davanti a sé. “Per uno scopo leggermente diverso.”

“Per tenerlo in vita, immagino,” disse Cameron.

Julian si strinse nelle spalle senza sbilanciarsi e si voltò a guardare dietro
di loro. “Questo e altro,” rispose infine. “Mi dispiace di averti coinvolto.”

L’immaginazione di Cameron ingranò la quarta. Era stato assunto per
fare questo e altro… magari qualcosa che aveva fatto infuriare la moglie
al punto tale da voler uccidere il marito? Ricordando la conversazione tra
la donna e Julian, si chiese se non fosse stato il marito della donna a
richiederlo come gigolò. Le guance gli si arrossarono leggermente a quel
pensiero e lo accantonò.

“Perché mi hai coinvolto?” chiese, curioso.

“Perché mi fido di te,” rispose Julian senza mezzi termini. “E io non
potevo farlo.”

“Come puoi fidarti di me?” domandò Cameron sorpreso. “Non mi conosci
nemmeno.”

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“Credo di essere bravo a leggere le persone,” dichiarò Julian, abbassando
la testa per guardare dove camminava.

Quell’uomo avrebbe mai smesso di stupirlo? rimuginò Cameron prima di
rispondere. “Grazie.”

“È una cosa strana per cui ringraziare,” osservò Julian.

Cameron si ficcò le mani in tasca, stringendosi nelle spalle. “Mi hai fatto
un complimento, o no?”

Julian finalmente voltò la testa nella sua direzione. “Suppongo di sì.”

Cameron scrollò un’altra volta le spalle. “Allora, non è per niente strano.”

“Che cosa pensi di me?” chiese Julian, cambiando senza preavviso la
direzione della conversazione.

Blake gli aveva chiesto la stessa cosa. Era una domanda a cui ancora
Cameron non sapeva cosa rispondere. Sembrava che Julian lo facesse
spesso con lui: chiedergli qualcosa, dirgli qualcosa, qualunque cosa che
gli facesse perdere l’equilibrio. Ripensò ai mesi in cui lo aveva visto al
ristorante, domandandosi se fosse mai veramente arrivato a una
conclusione.

“Penso che tu sia misterioso,” ammise esitante.

Julian sobbalzò, sorpreso. “Davvero?” chiese, la prima parola che avesse
detto che non sembrasse misurata.

“Sì,” disse Cameron con un’alzata di spalle, fermandosi all’angolo della
strada. “Dieci minuti di frasi smozzicate alla settimana non offrono molte
informazioni,” sottolineò. “Quindi: misterioso.”

Julian si voltò verso di lui, intanto che la neve cominciava a cadere più
fitta. “È solo questo allora, ciò che pensi di me?”

Il tono della sua voce indusse Cameron a girarsi per guardarlo. L’uomo
era diversi centimetri più alto e lui si ricordava la forma e la consistenza
dei suoi muscoli sotto le giacche e le camicie costose, l’oscurità dei suoi
occhi quando si concentravano solamente su di lui. “No,” mormorò
distrattamente. “Penso…”

Julian inarcò un sopracciglio quando la voce di Cameron si affievolì. “Te
lo chiedo perché io ti penso,” gli disse in tono intimo. “Parecchio.”

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Cameron non riuscì a nascondere lo shock che gli si dipinse sul viso e
sbatté le palpebre stupidamente, mentre si fronteggiavano all’angolo
della strada. Non si sarebbe mai aspettato di sentire una cosa del
genere. Non se lo sarebbe mai nemmeno sognato. “Tu pensi a me?”
chiese quasi con uno squittio. “Perché?”

Julian piegò semplicemente la testa e, guardandolo, sorrise.

Cameron balbettò qualche parola incoerente. “Anch’io ti ho pensato,”
ammise dopo aver recuperato parte della sua compostezza.
“Specialmente dopo la prima volta che non sei venuto a cena. Voglio
dire, la prima volta che mi hai rivolto la parola e poi non sei tornato la
settimana dopo.”

“Stai parlando della notte in cui sono stato ferito,” spiegò Julian mentre
attraversavano la strada e iniziavano a camminare.

“Oh. Beh, spero che non fosse niente di brutto,” disse goffamente
Cameron, ricordandosi il tutore che Julian aveva indossato tempo
addietro.

“È sempre brutto,” sussurrò Julian, distogliendo lo sguardo e fissandolo
sulla neve che cadeva.

“Mi dispiace. Non volevo curiosare. Solo che mi domandavo dove fossi
quella settimana che non sei venuto al ristorante.” Cameron fece una
pausa. “Anche se non sono affari miei.”

Julian abbassò la testa, fissando il marciapiede un attimo, prima di
girarsi verso di lui. “Lo vuoi veramente sapere?” domandò dubbioso,
fermandosi sul sentiero ricoperto di neve.

Anche Cameron si fermò. Sapeva che dicendo di sì avrebbe ammesso più
di quello che voleva. Ma era lì, quindi? Aveva già rinunciato all’orgoglio
riguardo a tutta quella faccenda. “Sì?” azzardò, aspettandosi di essere
respinto.

Julian lo fissò a lungo; i suoi occhi frugavano nei lineamenti di Cameron,
chiaramente intento a studiarlo. “Mi credi se ti dico che mi hanno
sparato?” chiese infine, con un lampo malizioso negli occhi neri.

Cameron lo fissò. “Sparato? Tipo, colpito? Con una pistola?”

Julian inclinò la testa e annuì. “È difficile che ti sparino con un coltello.”

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“Quindi la settimana prima ti avevano sparato, ma tu sei venuto
comunque a cena al ristorante?” Cameron sembrava dubbioso.

“Due settimane prima, in realtà,” lo corresse l’altro. “Ho saltato una
settimana.”

“Non ti faceva male?” chiese incredulo il giovane. “Parecchio?”

“Sì,” ammise Julian. “Così tanto da essere intrattabile,” aggiunse con un
leggero rossore sulle guance, che non era dovuto alla temperatura
fredda.

“È successo la notte in cui chiedesti di mandarti Miri,” si ricordò
Cameron. “‘Di’ alla donna di portarmi il conto’,” ripeté con voce piatta.

Julian abbassò il capo in silenzio. “Ti devo delle scuse per quello,”
dichiarò infine.

Cameron scosse la testa, sebbene lui non lo potesse vedere. “Va tutto
bene. Blake me l’ha spiegato. Più o meno.”

Tutto a un tratto si rese conto che Blake conosceva quell’uomo. Non
poteva essere così male se Blake lo conosceva, o no? Sicuramente era al
sicuro con lui. Cameron rimase lì, a rimuginare, trascinando un piede
avanti e indietro e facendo un solco nella neve, che cadeva tra gli
imponenti edifici di cemento armato e vetri e sulle strade illuminate che
li circondavano.

Julian lo ricambiò con un piccolo sorriso imbarazzato. “Il mio tempo
libero è molto limitato,” spiegò. “Sono geloso del tempo trascorso al
ristorante,” ammise candidamente.

“Geloso?” Cameron era perplesso. “Non capisco. Il cibo non è così
buono,” disse.

“Ma il servizio è straordinario,” sussurrò piano Julian.

Cameron rimase senza fiato per quella spiegazione: non sapeva cosa
rispondere. Poteva solamente starsene lì, con i fiocchi scintillanti che
silenziosamente cadevano loro intorno, a fissare l’uomo su cui aveva
fantasticato per mesi. Alla fine si strinse nelle spalle, impotente e
incapace di pensare a qualcosa da dire.

Julian scosse di nuovo la testa e gli sorrise. “Non vedo l’ora di guardarti,”
spiegò. “Sia che tu mi porti la cena o che tu serva il tavolo accanto al
mio. Non voglio che nessun altro lo faccia.”

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“Non faccio altro che servire del cibo.”

“E tutto quello che faccio io, è stare lì seduto a osservarti,” controbatté
Julian.

Cameron sentì accendersi un desiderio viscerale che lo lasciò senza fiato.
Dopo diversi battiti del cuore, si lasciò sfuggire: “Anch’io ti osservo.”

La faccia di Julian si aprì in un largo sorriso, che fece cambiare
completamente non solo il suo aspetto, ma anche l’atmosfera che lo
circondava. Il timore che aveva stretto al petto Cameron si allentò di una
qualche misura e il ragazzo si ritrovò a fissarlo rapito. Cupo e
meditabondo, Julian era peccaminosamente bello. Ma quando sorrideva,
diventava assolutamente devastante e Cameron non pensava che
sarebbe stato in grado di muoversi da quel posto molto presto.
Perlomeno non fino a quando l’altro gli sorrideva in quel modo.

“Lo so,” replicò Julian semplicemente.

“Tu… come?” chiese lui. L’aveva spiato quasi esclusivamente dalla zona di
servizio della cucina, al sicuro.

Julian lo guardò in silenzio per un attimo, poi sorrise ancora, guardandosi
alle spalle. La neve aveva già cancellato le loro orme. “La messa di
mezzanotte inizierà presto. Ti lascio andare,” mormorò infine, senza
rispondere all’ultima domanda. “Avevo solo bisogno di dirtelo.”

Cameron non poteva togliergli gli occhi di dosso. “Julian?” la parola gli
uscì dal profondo, lasciandolo con il fiato corto. Era la prima volta che lo
chiamava ad alta voce.

“Sì?” rispose a sua volta quello, con calma, quando si voltò a guardarlo.

Per un folle, insano secondo, Cameron desiderò di essere il tipo che
osava. Quando lavorava, sapeva esattamente cosa fare in ogni
situazione, o quasi. Fuori dal lavoro, era decisamente l’opposto. Ma, in
quel momento, avrebbe voluto avere il coraggio di chiedere a
quell’uomo, praticamente uno sconosciuto, di accompagnarlo a casa. Era
sicuro che non avrebbe avuto un’altra possibilità. Solo che,
semplicemente, non aveva la forza per far uscire quelle parole dalle
labbra.

“Come sta il tuo braccio, adesso?” chiese debolmente.

“Bene,” rispose Julian, con un altro sorriso stupito. “Grazie, per avermelo

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chiesto.”

Annuendo, Cameron fece un passo indietro, imponendosi di smettere di
blaterare se voleva uscirne con un pizzico di dignità intatta. “Abito da
quella parte,” disse indicando a destra.

Julian lanciò un’occhiata in quella direzione, inclinando la testa come se
volesse dire o fare qualcosa, ma fosse incerto. Il silenzioso, gelido
circondario e l’indecisione di Julian suscitarono qualcosa di inusuale
dentro Cameron, che sentì la sua stessa voce, lontana, chiedere: “Hai
qualcuno da cui tornare la vigilia di Natale?”

Julian lo scrutò attentamente, mentre la neve iniziava a cadere più fitta.
Era così abbondante che rendeva difficile vedersi, anche se erano in piedi
a pochi centimetri di distanza. Poi spaziò in direzione della cattedrale del
Santo Nome di Gesù prima di riportare il suo sguardo penetrante sul
giovane, facendo qualche passo in avanti. Scosse la testa, osservando il
viso di Cameron che era piegato in alto verso il suo. “Nessuno.”

La neve cadeva tanto fitta da rimanere intrappolata tra le ciglia di
Cameron, che doveva sbatterle continuamente. Quando sentì la risposta
di Julian, il giovane si fece forza per quella che doveva essere la cosa più
pazza che avesse mai fatto in vita sua.

Gli porse la mano.

Julian abbassò lo sguardo, come se non fosse sicuro di cosa vedesse, e
poi lo rialzò, pieno di stupore, su Cameron. Allungò lentamente la propria
mano, facendo scivolare le dita nel palmo tremante del giovane. La pelle
morbida del suo guanto era fredda, ma in ogni caso più calda della mano
intirizzita di Cameron, che chiuse le dita intorno a quelle di Julian e, dopo
un attimo, lo tirò leggermente. L’uomo si lasciò guidare dall’altra parte
della strada deserta.

Se Cameron si fosse fermato a rifletterci, sapeva che avrebbe cominciato
ad agitarsi. Quindi fece attenzione a non pensare a niente che non fosse
il passo successivo: tornare a casa. Continuava semplicemente a
camminare, conducendo Julian lungo il marciapiede, in mezzo alla neve
ammucchiata che stava diventando sempre più alta di minuto in minuto.
Tre caseggiati dopo, giungendo davanti a un vecchio magazzino che era
stato trasformato in un condominio, ebbe l’occasione di lanciare uno
sguardo all’uomo.

Julian studiava l’edificio con le sopracciglia aggrottate. “Mi trovo nella
condizione di metterti in guardia dal fidarti di persone come me,”
mormorò, abbassando lo sguardo su di lui. “Ordinerei ancora il piatto del

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giorno, anche se tu mi mandassi a casa in questo momento.”

“Persone come te?” lo interrogò Cameron.

“Persone che, quando lavorano, si ritrovano colpite dai proiettili,”
specificò Julian mentre gli si avvicinava e avvolgeva la sua mano fredda
con la propria.

“Forse hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te,” replicò incerto
Cameron.

Gli occhi di Julian incrociarono i suoi, con una nuova intensità. “Che cosa
proponi?” chiese con voce roca.

Cameron sapeva senza ombra di dubbio che quella sarebbe stata la sua
unica possibilità; la paura di non averne un’altra lo spronò più del
semplice desiderio. Il cuore gli batteva forte, quando spostò il peso sulle
punte, sollevò il mento e passò lievemente le sue labbra fredde su quelle
di Julian.

Gli occhi di Cameron erano chiusi quando si tirò indietro e, quando se ne
rese conto, li riaprì. Stava guardando dritto negli occhi neri dell’altro
uomo, a non più di trenta centimetri di distanza, e Julian lo fissava con
quello che si poteva descrivere solo come puro desiderio. Cameron
rimase senza fiato. Non pensava che qualcuno gli avrebbe mai rivolto
uno sguardo simile. Julian sospirò pesantemente e il suo alito freddo
turbinò attorno a Cameron, accarezzandogli il viso prima di dissolversi.

“Vieni,” bisbigliò Cameron, tirandolo leggermente ancora una volta. La
stretta di Julian sulla sua mano si rafforzò, mentre lo seguiva docilmente.

Cameron lo condusse rapidamente all’interno dell’edificio, prima di
perdere coraggio. Ignorò l’ascensore in favore delle scale; c’era una sola
rampa e la salita non gli avrebbe concesso il tempo di pensare a quello
che stava facendo. Quando raggiunsero il pianerottolo, era ancora
determinato a portare quello sconosciuto nel suo appartamento e
probabilmente nel suo letto, senza ulteriori dibattiti interiori. Si fermò
davanti alla porta e tirò fuori le chiavi, maneggiandole maldestramente
per via delle dita quasi congelate.

Julian lo osservò un attimo, poi si avvicinò e gli prese delicatamente le
mani. Le coprì a coppa con le proprie, se le portò alle labbra e vi soffiò
sopra, cercando di riscaldarne la pelle, con gli occhi fissi nei suoi.

Se il suo cuore avesse battuto appena più forte, Cameron era certo che
Julian sarebbe stato in grado di sentirlo. Era stato sufficiente il tocco

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leggero di quelle labbra sulle sue dita per mandargli in tilt il cervello; era
come ipnotizzato. Gli occorsero diversi minuti – durante i quali rimase lì
fermo, a fissarlo – prima di ritrarre le dita gelate, in modo da poter
aprire la porta.

Julian abbozzò un sorriso, indubbiamente godendosi l’effetto che aveva
su Cameron, che sbatté le palpebre con forza e iniziò ad aprire la porta,
ricordandosi quasi all’ultimo minuto di chiedergli: “Spero che tu non sia
allergico ai cani.”

“Solo ai loro denti,” rispose Julian in tono neutro.

“Non ti preoccupare. Non mordono troppo forte.” Spalancò la porta e,
quando entrò, si udì un’improvvisa cacofonia di suoni e l’abbaiare e il
raschiare di zampette che arrivavano di corsa attraverso il pavimento in
legno.

Julian rimase dietro, tenendo la punta delle dita sui suoi fianchi e
usandolo come uno scudo, mentre guardava arrivare la tenera sfilata.
Quattro piccoli cuccioli bianchi scivolarono fino ai loro piedi, iniziando a
saltare e guaire felicemente. Julian li fissò un attimo, prima di rivolgere
nuovamente la sua attenzione a Cameron. Non sembrava essere così
calmo come al solito, anzi era piuttosto teso. La sua domanda successiva
spiegò molte cose.

“Avranno da obiettare se vedono che ti tocco?” chiese, lasciando
scivolare via le mani dai fianchi di Cameron.

Il giovane sentì una stretta allo stomaco quando Julian tolse le mani, e,
tutto a un tratto, desiderò che l’altro gli rimanesse vicino. Abbassò lo
sguardo: il gruppetto di morbidi e lanuginosi cuccioli gli arrivava a
malapena alle caviglie. “Azzarderei un’ipotesi dicendo che sei al sicuro,”
disse con un sorriso, chiudendo la porta dietro di loro. “Solo non
pestarne qualcuno, per favore.”

Julian annuì obbediente, guardando i quattro cuccioli con estrema
serietà. Non appena la porta fu chiusa però, prese Cameron per un
gomito e, molto delicatamente, ce lo spinse contro, avvicinandosi.
Cameron inalò bruscamente sentendosi attraversare da un calore
intenso. Era tutto folle, assolutamente folle, ma non gli importava.
Voleva solo sentire l’uomo contro di sé.

Julian aspettava per dargli la possibilità di cambiare idea o di protestare,
ma quando lui non fece niente del genere, si chinò e lo baciò lentamente.

Cameron si sentì attraversare da un brivido e quando le labbra di Julian

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toccarono le sue, chiuse gli occhi. Non riusciva a prendere fiato e il suo
cuore galoppava intanto che cercava di non ansimare. Osò allungare con
delicatezza una mano verso le ampie spalle dell’uomo e quando le sfiorò,
questi lo cinse immediatamente con le braccia, tirandoselo addosso.

Il bacio divenne più acceso e insieme a esso arrivò anche una scia di
desiderio che scacciò immediatamente il freddo. Dio… Julian lo baciava e
lui stava perdendo la testa. Il suo corpo era solido come aveva
immaginato e gli piaceva sentirlo contro il proprio. Cameron gli strinse la
mano intorno alla spalla per assicurarsi che fosse reale.

Alla fine, Julian si ritrasse e gli appoggiò le mani ai lati della testa,
intrappolandolo contro la porta. “Non so dirti da quanto tempo volevo
farlo,” sussurrò con sollievo.

Cameron aprì gli occhi, sentendo ancora la pressione delle sue labbra
contro le proprie. “Perché no?” chiese senza pensare.

“Perché temo che mi prenderesti per un molestatore e mi manderesti
via,” ammise ironicamente Julian, con un lieve sorriso sulle labbra.

Cameron appoggiò la testa all’indietro contro la porta, incrociando i suoi
occhi. “Un po’ tardi per questo, non credi?” Lentamente gli lasciò
scivolare la mano dalla spalla, giù per il risvolto del cappotto.

“Non è mai troppo tardi per molestarti.” Julian praticamente faceva le
fusa mentre premeva il proprio corpo contro il suo.

Cameron lasciò uscire un respiro tremante e ansimò per riprendere fiato.
“Pensavo che non mi avresti mai parlato,” ammise, abituandosi sempre
più al contatto.

“Non volevo disturbarti mentre lavoravi,” mormorò l’altro, abbassando la
testa e passandogli lentamente la punta del naso lungo la guancia.

Cameron abbassò le palpebre, sentendo il suo respiro sul mento e sulla
gola. “Allora disturbami adesso,” sussurrò con voce tremante.

Julian lo baciò di nuovo, con più intensità questa volta. Strinse le dita
attorno ai bicipiti di Cameron e gli si premette contro, famelico. Cameron
si arrese al suo assalto con un mugolio – che svanì nella bocca di Julian –
quindi annaspò, cercando di aggrapparsi alle sue spalle, mentre il bacio
gli accendeva un fuoco dentro. Fu sommerso dalle sensazioni: riusciva
solo a pensare che, se avesse potuto parlare, avrebbe implorato per
averne di più.

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Julian si tirò indietro bruscamente, come se avesse appena realizzato
quello che stava facendo. “Mi dispiace,” disse senza fiato, appoggiando la
fronte contro quella di Cameron.

Cameron gli rivolse uno sguardo attonito. “Ti dispiace?” chiese con voce
stridula.

Julian guardò in basso, dove le sue dita ancora lo stringevano, e annuì,
sfiorando di nuovo le sue labbra con le proprie; poi lentamente allentò la
presa. “Di solito, sono più controllato.”

Cameron sorrise lentamente, benché si sentisse ancora un po’
scombussolato. “Lo prenderò come un altro complimento.”

Julian assentì con enfasi e lo baciò ancora, il gesto impulsivo fu
abbastanza energico da sollevarlo e bloccarlo contro la porta. Gemendo
contro la bocca dell’uomo, Cameron gli cinse il collo con una mano.
Sentiva di essere sul punto di infiammarsi, sotto tutti quegli strati di
vestiti e il corpo di Julian, e accolse con entusiasmo quella sensazione
bruciante.

“Non è questo il motivo per cui sono venuto a trovarti stasera,” insistette
Julian contro le sue labbra, anche se continuava a baciarlo avidamente.

Cameron mugolò un debole suono interrogativo, pur continuando a
godere delle attenzioni decise dell’uomo, le cui labbra erano calde, umide
e sorprendentemente morbide, uno strano contrasto con la barba
pungente. Alla fine Julian interruppe il bacio e, scuotendo la testa, lo
aiutò a riappoggiare i piedi a terra. “Volevo solo vederti,” sussurrò.

Cameron lo osservò, vagamente consapevole di quanto gli apparisse
improvvisamente vulnerabile. Non capiva. Lui sapeva perché ne era
attratto, perché ne era infatuato. Quello che non capiva era come
qualcuno come Julian, un uomo chiaramente di bell’aspetto, ricco e con
una vita avventurosa, potesse essere interessato a lui, che era solo un
tipo ordinario, niente di spettacolare.

“Un altro complimento. Ma perché?” chiese Cameron, con voce fievole.

Julian socchiuse gli occhi, inclinando un po’ la testa di lato. “Sei felice,”
disse. “Aspetto con impazienza di vederlo ogni settimana.”

Delle piccole rughe apparvero di nuovo tra le sopracciglia di Cameron.
Era per quello? Perché lui era felice? Frugò il suo viso, senza trovare
tracce che gli facessero pensare che fosse tutta una scusa. “Mi dispiace.
Solo che non…?”

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Julian fece un piccolo passo indietro e, stringendogli il viso tra le mani
ancora coperte dai guanti, lo guardò intensamente, aspettando con
pazienza che continuasse.

Cameron deglutì con difficoltà. “Mi guardi come se non ci fosse
nient’altro al mondo,” sussurrò nervosamente.

“Infatti, è proprio così, in questo momento,” rispose immediatamente
Julian. “È martedì.”

Cameron non riuscì a parlare per un bel po’, pensando alle possibili
implicazioni di quelle parole. “Mi sei mancato, in quelle settimane che eri
via,” ammise. “Mi sono chiesto dove fossi.”

Julian sbatté le palpebre come se fosse sorpreso e si leccò le labbra.
“Stavo lavorando.”

“Perché quello sguardo?” chiese Cameron, quando vide la reazione
dell’uomo. “Non mi hai creduto quando ho detto che ti pensavo?”

“Non lo so,” replicò Julian, manifestando la sua incertezza al riguardo.

Cameron si tirò un po’ indietro, sentendosi inspiegabilmente deluso. “Di
solito non faccio questo genere di cose… per capriccio,” lo informò,
scuotendo la testa.

Julian sorrise improvvisamente; le sue dita ricoperte dai guanti in pelle
scivolarono sulle guance di Cameron, fermandosi sulla mascella.
“Nemmeno io,” mormorò in risposta.

Sembrava sincero, ma Cameron cercò lo stesso di memorizzarne il volto,
nel caso in cui tutto ciò non dovesse più accadere. Non si aspettava che
sarebbe successo di nuovo, nonostante le parole di Julian dessero a
intendere altro. Ma giunti a quel punto, si chiese se fosse davvero
importante. Quella notte stava per trasformarsi in una delle sue fantasie.
Poteva veramente lasciarsi sfuggire quell’opportunità solo perché sapeva
che l’uomo non l’avrebbe più cercato? Un desiderio feroce gli fece
stringere le mani con più forza attorno alle braccia di lui.

Julian abbassò lo guardò sulle dita che lo stringevano e poi lo rialzò su
Cameron con espressione interrogativa. “Non sarei mai venuto qui, se
non avessi avuto intenzione di tornare,” lo rassicurò con un piccolo
sorriso, appoggiandosi contro di lui e facendogli scorrere le mani lungo il
corpo per fermarsi sui suoi fianchi.

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“Allora adesso cosa…?” domandò Cameron, rilassandosi lievemente.

“Adesso mi baci di nuovo,” rispose Julian, con voce tenera e sicura.

Considerato l’ordine ricevuto, Cameron non aspettò oltre. Sollevò il
mento e premette le sue labbra su quelle dell’uomo che lo attirò contro
di sé, con un ringhio sommesso che proveniva dal profondo della sua
gola. Le sue mani cominciarono a spogliarlo della sciarpa con cautela,
cercando di non interrompere il bacio o di non strangolarlo.

Cameron sentì la lana ruvida scivolargli sulla pelle e sollevò la testa dalla
porta per permetterle a Julian di togliergliela con più facilità. Questi la
strappò via e la lasciò cadere. Si tirò indietro, si spogliò della propria
sciarpa senza fatica e la gettò via, infilando le mani sotto il pesante
cappotto di Cameron.

“È molto più facile in estate,” mormorò.

“Non sono sicuro che allora ne avrei avuto il coraggio,” gli disse Cameron
senza fiato, riferendosi ai mesi precedenti, quando lui aveva iniziato a
sedersi nella sua sezione ogni martedì, puntuale come un orologio.

“Perché?” chiese Julian, continuando a tentare di strappargli gli abiti.

A corto di risposte, Cameron emise un verso avvilito e scrollò
leggermente le spalle.

“Avevi paura di me?” chiese l’altro con un’increspatura nella voce, anche
se le sue mani non si fermarono, né le sue labbra smisero di
accarezzargli la pelle.

Cameron scosse la testa. “No,” disse, con voce sicura.

“Allora perché?” chiese Julian, facendogli scivolare il cappotto dalle
spalle, lungo le braccia.

Cameron fece spallucce e si liberò del pesante cappotto che cadde a
terra con un rumore attutito di tessuto. “Perché mai dovresti essere
interessato a me?” chiese a rigor di logica, mentre Julian lo mordicchiava
sul collo. “Sono solo un cameriere.”

“Quello è ciò che fai,” gli sussurrò l’uomo all’orecchio, prima di
raddrizzarsi. “Non quello che sei.”

Scuotendo lievemente la testa, Cameron si strinse nuovamente nelle
spalle. Era un bel ragazzo e di solito non aveva problemi a trovare

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qualcuno con cui divertirsi un po’, quando voleva più che un semplice
amico. Ma sapere che Julian evidentemente apprezzava ciò che vedeva,
lo aveva elettrizzato. Allungò le mani verso il cappotto di lui,
facendoglielo scivolare oltre le spalle per spogliarlo. Le sue dita gli si
mossero anche sotto la giacca, ma trovarono qualcosa di duro, all’altezza
dei fianchi. Tirò indietro la mano, incerto su cosa fare.

“Scusa,” borbottò Julian. Si scrollò di dosso il cappotto, che cadde a
terra. Raggiunse la cintura sotto la giacca e la slacciò, poi tirò fuori la
fondina con la pistola e la liberò dal supporto, lasciando che Cameron la
vedesse. La appoggiò con prudenza sul pavimento accanto a loro e poi
incrociò cautamente i suoi occhi.

“A cosa ti serve?” proruppe Cameron, scioccato, spostando lo sguardo da
quegli occhi cupi e profondi alla pistola e viceversa. Per la prima volta,
sentì un lampo di paura.

Julian strinse le labbra e guardò la pistola. “È grazie a questa se non mi
sparano così spesso come vorrebbero,” replicò.

“Che tipo di lavoro fai se ti sparano così spesso da aver bisogno di
portare una pistola tua?” chiese Cameron con la testa confusa, mentre
cercava di tenere l’ansia sotto controllo. “Sei un detective o qualcosa del
genere?”

Julian era in imbarazzo. “Qualcosa del genere,” rispose vago.

Cameron si sentì molto a disagio. Avere uno sconosciuto in casa era in
cima alla lista delle cose pericolose. Ma uno sconosciuto con una pistola?
In realtà, rammentò a stesso, era davvero uno sconosciuto? Blake lo
conosceva. Cameron cercò di concentrarsi su quello. “È… sicura?”
aggiunse esitante, cercando di convincersi che andava tutto bene. Che
Julian era okay, anche se lo stesso non si poteva dire per la pistola.

Julian spostò lo sguardo da Cameron alla pistola e viceversa. “È carica,”
rispose, indubbiamente preoccupato che Cameron potesse mandarlo via.
“Ma ha la sicura.”

“Ti rendi conto di quanto quella cosa renda spaventosa questa
situazione?” chiese Cameron, a voce un po’ più alta. “Ho appena fatto
entrare nel mio appartamento uno sconosciuto con una pistola.”

Julian abbassò leggermente la testa e fece un piccolo passo indietro, i
palmi delle mani sulla porta dietro alla testa di Cameron.

Il giovane lasciò cadere le proprie mani e incrociò le braccia sul petto.

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“Che cosa credi dovrei pensare?” aggiunse con voce tremante.

“Che se io fossi un killer psicopatico userei un coltello?” rispose Julian
speranzoso, incrociando i suoi occhi.

“Non è molto divertente,” sottolineò Cameron.

“Pensi che ti farei del male?” chiese con calma Julian.

Cameron sbatté le palpebre, confuso. Non si sentiva minacciato, a
prescindere dalla stazza di Julian e dal suo atteggiamento misterioso e
tenebroso. Se non altro, si sentiva al sicuro tra le braccia dell’uomo,
quelle braccia che erano una fonte di turbamento di per sé. Scosse
lentamente la testa e prese una decisione. “Tu non mi spaventi,”
mormorò. La pistola, sì. Julian? No.

“Bene,” mormorò Julian. Guardò le mani di Cameron, piegando le proprie
contro la porta, indizio evidente che voleva toccarlo ma che si stava
controllando. Cameron lo vide contrarre le dita e lentamente allungò le
mani per intrecciarle con le sue.

“Mi dispiace,” disse Cameron, avvicinandosi di un piccolo passo.

L’uomo scosse la testa e l’attirò a sé. “È giusto fare attenzione.”

“Okay,” disse Cameron, guardando la pistola. “Vuoi metterla sul tavolo,
in modo che i cuccioli non provino a giocarci?” Chinò la testa a guardare i
quattro cuccioli bianchi che, in silenzio, si accalcavano intorno al costoso
cappotto di Julian, annusandolo e allungandovi sopra le zampette. Julian
annuì e, obbediente, raccolse l’arma; poi, con cautela, la depose sul
tavolino accanto alla porta, aggirando i cani con estrema cura.

Cameron lo guardò con approvazione quando Julian si voltò verso di lui.
Si sentiva incapace di parlare, aspettando di vedere cosa avrebbe fatto
l’uomo a quel punto. Lui voleva toccarlo ancora. Baciarlo di nuovo.
Voleva di più, senza curarsi della pistola che era appena apparsa. Era un
atteggiamento irresponsabile, probabilmente. Temerario, quasi
certamente. Ma, onestamente, Julian non avrebbe avuto bisogno di una
pistola per fargli del male, se ne avesse avuta l’intenzione. Non avrebbe
avuto neanche bisogno di un coltello, come aveva scherzato poco prima.

Julian si tolse lentamente i guanti e li mise sul tavolino, rivelando le
nocche delle dita, ricoperte di tagli e abrasioni. Si tolse anche la giacca e
si allentò la cravatta, muovendosi di nuovo verso di lui.

Cameron guardò mentre uno dei suoi sogni preferiti riguardanti l’uomo

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prendeva vita davanti ai suoi occhi. Si sentiva eccitato e ogni cupo
timore riguardante la pistola cominciò a svanire. Con le dita sfiorò
delicatamente quelle nocche sciupate. Julian lo prese per mano,
baciandogli dolcemente l’interno del polso mentre lo attirava più vicino.

Il suo cuore prese il volo a quel gesto di tenerezza e Cameron si mosse
lentamente in avanti fino a essere praticamente incollato al petto
dell’altro. Julian si chinò a baciargli il collo e cominciò a sbottonargli la
camicia con una mano mentre con l’altra lo teneva vicino. Era
incredibilmente bravo nei movimenti.

Gli tirò fuori la camicia dai pantaloni, sbottonandone il resto prima di
fargli scivolare entrambe le mani gelate lungo il petto caldo. Cameron
trattenne il respiro mentre Julian lo toccava. Rabbrividì e gli si avvicinò
quasi a occhi chiusi, mentre le labbra gli si aprivano in un sospiro. Julian
gli sfiorò la bocca con la propria, stuzzicandolo. Delicatamente gli fece
scivolare la camicia dalle spalle, baciando la scia che le sue dita avevano
tracciato sulla pelle calda fino alla mascella.

Era la seduzione più semplice ed eccitante a cui Cameron fosse mai stato
esposto.

Si sentiva come stordito tra le braccia dell’uomo, che lo stringevano e lo
facevano sprofondare nel piacere del semplice tocco dei loro corpi.
Quando Cameron ricambiò la sua stretta, Julian grugnì con un suono
basso di gola, lo sollevò con facilità e, facendo alcuni passi, lo spinse non
troppo gentilmente contro la porta. Con il corpo di Julian che lo
sosteneva, Cameron arrivava a malapena a toccare il pavimento con le
scarpe.

Ricacciando indietro la sorpresa, Cameron si tenne stretto, anche se con
la schiena colpiva il legno della porta. Sapeva di essere più piccolo e
leggero di lui, ma… accidenti.

Le sue mani cominciarono finalmente a muoversi lentamente e con
attenzione sulle spalle di Julian, sentendo contrarsi i muscoli scolpiti
sotto la camicia. Julian lo baciò con bramosia e Cameron gli si arrese
docile, compiaciuto del modo in cui si sentiva bramato e desiderato. Tirò
laddove la camicia di Julian era ancora intrappolata dentro i pantaloni,
appena sotto la curva della schiena, e l’uomo allungò una mano tra di
loro appena quanto bastava per aprirsi il primo bottone dei pantaloni,
per poi tornare ad appoggiarla dietro la coscia di Cameron per
sostenerne il peso, sollevandolo più in alto verso la porta.

Ansimando, Cameron cercò le sue labbra ancora una volta, mentre
liberava completamente la camicia di lui e ci faceva scivolare sotto le

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mani per toccare la pelle calda e liscia che gli riempiva i palmi.

Julian mugolò piano durante il bacio, stringendolo più forte. “Possiamo
andare da qualche parte che non preveda il dover combattere contro la
gravità?” ansimò infine.

Cameron annuì prontamente. “Letto,” disse con voce stridula.

Julian si allontanò da lui il minimo indispensabile per farlo scivolare a
terra. Cameron non riusciva a respirare mentre il suo corpo eccitato
strusciava contro quello dell’uomo; i suoi occhi scintillanti erano rivolti
verso di lui per controllarne la reazione. Gli occhi di Julian, fissi sul suo
volto, erano molto lontani dall’usuale maschera di freddezza:
sembravano scintillare di un desiderio assoluto.

Cameron strinse le sue dita attorno a quelle di Julian. “Andiamo,” lo
esortò senza fiato.

Schivò il cappotto di Julian, sopra a cui i cuccioli si erano accomodati in
mucchio, profondamente addormentati. A pochi passi dall’ingresso,
l’appartamento si apriva su una grande stanza con un soffitto alto quasi
quattro metri. Era arredata in modo confortevole con il grande spazio
suddiviso in una zona soggiorno, una zona pranzo vicina alla cucina e
una camera da letto separata dal resto da alti schermi decorati. Cameron
era già a metà del soggiorno quando si fermò e si girò a guardare prima
Julian e poi la serie di pannelli che nascondevano la sua camera da letto.
Si sentiva come se avesse bisogno di dargli la possibilità di cambiare
idea.

L’uomo lo seguiva ma, quando Cameron si fermò, si girò indietro verso il
cappotto. “Avrò bisogno di un po’ di nastro adesivo per sistemare quel
disastro,” mormorò, tornando a guardarlo negli occhi.

Cameron trovò divertente quello strano commento. Sbuffò, cercando di
non ridere. “Non ti preoccupare. Ho un centinaio di spazzole adesive. Mi
vesto di nero al lavoro, ricordi?” disse, indicando i propri vestiti in
disordine.

“Stai bene vestito così,” lo rassicurò Julian a bassa voce, percorrendo con
lo sguardo il suo corpo. Curvò le labbra in un insolito ghigno giocoso e
aggiunse: “Stai bene anche senza.”

Cameron diventò paonazzo e abbassò lo sguardo mentre con una mano
cercava di risistemarsi la camicia sbottonata sopra una spalla. Il sincero
sguardo di ammirazione di Julian era incandescente e lui non c’era
abituato. Gli era, sì, già successo di rotolarsi tra le lenzuola con qualcuno

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che lo eccitava, ma non era mai stato in quel modo.

Julian lo aggirò furtivamente, muovendosi fluidamente con una sorta di
grazia felina di cui, fino ad allora, Cameron aveva solo intravisto degli
scorci. Il movimento attirò la sua attenzione e lo affascinò. Non voleva –
non poteva – distogliere lo sguardo. Julian lo prese tra le braccia,
strattonandogli la camicia mentre le sue mani lo percorrevano tutto,
scendendogli dentro i pantaloni ed eccitandolo, mentre nel frattempo si
toglieva le scarpe e le calciava via.

A quel punto, Cameron non si preoccupava certo della camicia, voleva
soltanto che Julian lo toccasse ancora e iniziò a strappargli di dosso
quello che rimaneva dei suoi vestiti, aiutandolo a liberarsene. I pantaloni
di Julian erano appoggiati precariamente sui suoi fianchi e, appena si
mosse, iniziarono a scendere, sempre più vicini a cadere. Infine l’uomo li
spinse giù e ne uscì, rimanendo vestito solo della camicia grigio-acciaio,
delle mutande e dei calzini neri; senza imbarazzo, mentre con le mani
armeggiava attorno alla cintura di Cameron.

Cameron era fin troppo distratto dalla bocca di Julian e gli ci volle molta
forza di volontà per continuare a lavorare sulla sua camicia senza
strapparne semplicemente i bottoni. Alla fine gliela tirò via dalle spalle,
sfiorando con le dita la sottile catena che l’altro teneva al collo. Si prese
un attimo per guardare curiosamente il ciondolo, prima di venire
distratto dallo scatto della sua cintura, che Julian stava aprendo
procurandogli un piccolo pizzicotto. Chiuse gli occhi e mugolò,
incoraggiandolo.

Julian non si prese nemmeno la briga di aprire la cintura ma, una volta
riuscito ad allentarla, gli sbottonò i pantaloni e li spinse giù, baciandolo
possessivamente sul collo.

I boxer aderenti che Cameron portava sotto non facevano niente per
nascondere quanto fosse eccitato, le guance nuovamente accaldate,
mentre scalciava via le scarpe e si toglieva i pantaloni. Deglutì a fatica
cercando di concentrarsi; le dita di Julian erano veramente fonte di
distrazione.

“Il letto è là,” annunciò con voce roca, inclinando la testa verso i pannelli.

Julian annuì senza guardare. Gli fece scivolare ancora più giù le mani
sotto il tessuto caldo dei boxer e gli seppellì il viso nel collo. “Bel posto,”
mormorò contro la sua pelle.

“Grazie,” replicò Cameron, mettendogli le mani sulle spalle, incapace di
resistere al desiderio di toccare quei muscoli in movimento. Non era mai

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stato un fissato sulla taglia prima, ma stava iniziando a vederne il
fascino.

Julian gli spinse i boxer sui fianchi, prima di fargli scivolare le mani dietro
e appoggiargliele piatte contro la schiena. Cameron aveva l’impressione
che l’uomo potesse sentire la sua incertezza e che ciò lo rendesse più
esitante di quanto forse sarebbe stato normalmente. Ma Cameron non
voleva altro che lui prendesse l’iniziativa e facesse quello che voleva. Gli
prese il viso fra le mani e lo baciò sfacciatamente, sperando di spingerlo
ad affrettarsi.

Julian reagì di conseguenza, gemendo dolcemente nel bacio e
trascinando Cameron verso l’apertura tra i pannelli.

Quest’ultimo si sentì incredibilmente sollevato e grato quando Julian
spinse entrambi dentro. Barcollarono tra i pannelli divisori e Cameron si
girò tra le sue braccia per sfregarsi completamente contro il suo corpo
caldo.

Julian gemette ancora una volta e lasciò che le sue mani si muovessero
liberamente sul corpo di Cameron. Lo sollevò di nuovo senza preavviso,
trasportandolo per la breve distanza che li divideva dal letto e
gettandovelo sopra. Cameron rimase senza fiato, per l’essere passato
dalla posizione verticale, vicino ai divisori, a quella orizzontale, sul letto,
senza alcuno sforzo o avvertimento. Accidenti, che muscoli! Sollevò lo
sguardo verso Julian, per il momento più bramoso che nervoso mentre
con gli occhi ne esplorava il corpo.

“Mi dispiace,” disse Julian senza pensarlo veramente e, piegandosi su di
lui, iniziò a tracciare una scia di baci lungo il suo corpo.

Cameron mugolò, inarcandosi contro la sua bocca. “Sì, così.”

Julian gli fece scivolare le mani lungo i fianchi, tenendolo fermo così
come avrebbe fatto un grosso gatto con il proprio pasto, e prese a
mordicchiargli la pelle tenera del fianco, prima di sfiorargli l’addome con
il naso. Cameron chiuse gli occhi, lasciando che il suo corpo rispondesse
liberamente. Sollevò un ginocchio e affondò le lunghe dita di una mano
nei capelli di Julian, mentre con l’altra si aggrappava alla coperta.

Julian gli fece scivolare una mano sotto il corpo e lo sollevò leggermente.
Si appoggiò su un gomito e lo guardò con ammirazione prima di
abbassare la testa e iniziare a leccargli lentamente il membro. Roteò la
lingua intorno alla punta e, usando il braccio, gli spinse l’inguine verso
l’alto, per prenderlo tutto in bocca.

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Cameron si irrigidì e si morse le labbra per trattenere un grido; le dita si
piegarono a cercare lo scalpo di Julian, quando il suo membro sprofondò
nel calore umido della bocca di lui. Aprì gli occhi per guardare,
praticamente piagnucolando di piacere a quella vista. Quello non era
certamente ciò che si aspettava. Un uomo come Julian aveva scritto
‘maschio alfa’ praticamente ovunque.

Ma intanto Julian aveva rivolto tutta la sua considerevole attenzione a
succhiarlo per qualche glorioso momento, e Cameron perse la facoltà di
formulare pensieri coerenti. La mano dell’uomo lo esortava a spingersi
verso l’alto e la sua lingua lo leccava con tocchi seducenti ed esperti.
Infine alzò gli occhi, lasciandolo uscire dalla sua bocca e sorridendo.

Cameron lo guardò con occhi sgranati e brucianti di passione, senza
fiato. “Cristo, Julian,” sibilò. Tremava tutto.

L’uomo non perse tempo a chinare il capo ancora una volta per prenderlo
di nuovo in bocca. Sollevò i fianchi di Cameron fino a fargli inarcare la
schiena e iniziò a succhiarlo con l’unico scopo apparente di sentirlo
urlare. Non gli ci volle molto. In poco tempo raggiunse lo scopo.

Tutta l’eccitazione per l’inaspettato appuntamento della serata aveva già
preparato Cameron per l’esplosione finale. Respirava con difficoltà
quando, con voce rauca, gracchiò il nome dell’altro uomo, spingendo
senza risultati sulle sue forti spalle ormai quasi senza controllo. Ma la
presa di Julian si rafforzò e l’uomo raddoppiò i suoi sforzi.

Cameron inspirò profondamente e strinse i denti contro l’urlo selvaggio
che sentiva crescere nel profondo, mentre veniva violentemente proprio
contro la sua esperta lingua in movimento, ancora e ancora fino a che
non riuscì a formare un liberatorio urlo di piacere.

Julian ingoiò tutto con un gemito soffocato, mentre le sue dita scavavano
solchi nella pelle di Cameron. Continuò a succhiare fino a quando il
giovane non si ritrasse, contorcendosi sotto di lui. Quindi lo guardò con
occhi cupi e famelici.

Un brivido intenso lo attraversò per tutto il corpo e Cameron sentì quegli
occhi predatori focalizzati su di sé. Nonostante l’orgasmo intenso, il
desiderio gli attanagliava il ventre. Sussurrò il suo nome in un invito,
godendosi il fatto di poterlo fare liberamente.

“Hai dei preservativi?” chiese Julian con un ringhio basso e caldo.

Cameron annuì, stendendo il braccio a indicare il cassetto del comò lì
vicino. Julian seguì il punto e, quando si mosse, ricordò a Cameron,

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ancora una volta, un grosso felino predatore, con i suoi muscoli guizzanti
e le armoniose linee del corpo. Non c’era più alcun freno alla sua forza o
alla velocità dei suoi movimenti. Rotolò giù dal letto e andò al cassetto,
rovistandoci dentro in fretta, per cercare gli articoli che gli servivano.

Cameron tenne gli occhi su di lui per tutto il tempo. Era ben oltre
l’infatuazione a quel punto, e sapeva che si era trattato sia di una
splendida idea sia di un terribile errore. Quella relazione aveva tutte le
caratteristiche per finire male, ma non aveva nessuna dannata possibilità
di tirarsi indietro adesso. E, a ogni modo, il pensiero di quello che stava
per succedere rendeva tutto il resto insignificante.

Julian si tolse le mutande scalciandole via e gettò un tubo di lubrificante
sul letto. Alla fine trovò l’involucro e lo strappò per aprirlo, mentre
ammirava apertamente Cameron disteso sul letto. I suoi occhi non lo
lasciarono un attimo mentre indossava lentamente il preservativo. Anche
a Cameron, nel guardarlo toccarsi, tornò quasi duro.

Julian raggiunse il letto e afferrò Cameron dietro alle ginocchia, tirandolo
attraverso la coperta, fino a quando giacque sulla schiena di fronte a lui,
in piedi a fianco del letto. Si mise le gambe di Cameron attorno alla vita
e gli fece scorrere le mani lungo le cosce, verso il basso, senza mai
interrompere il contatto visivo.

Cameron riuscì a malapena a respirare quando Julian lo spostò così
rudemente. Poi l’uomo si piegò per prendere il tubo del lubrificante,
lasciando che, nel movimento, il suo membro strusciasse lungo le cosce
di Cameron. “Dimmi se ti faccio male,” ordinò aspramente, con la voce
bassa arrochita dal desiderio.

Cameron mugolò e annuì di nuovo, arrivando a toccare tutto ciò che
poteva del corpo dell’altro uomo.

Julian appoggiò un ginocchio sul materasso e si chinò a baciare
Cameron. Senza mai smettere di leccargli le labbra, gli alzò una gamba e
se la portò sopra la spalla, facilitandosi l’accesso. Quindi prese a
stuzzicarlo con un dito cosparso di lubrificante, mimando il movimento
anche con la lingua.

Mentre si baciavano, Cameron gli fece scivolare le braccia intorno al
collo; l’ormai familiare sapore che si mescolava con il suo lo aiutò a
rilassarsi. Lo voleva più di quanto avesse mai potuto immaginare. Dopo
poco, Julian mise due dita dentro di lui, che si fecero spazio,
massaggiandolo internamente. L’uomo tremava, cercando di controllarsi,
ma i suoi movimenti stavano diventando sempre più frettolosi e meno
gentili.

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Cameron adorava quello che gli stava facendo. Prese a mugolare sempre
più forte e avvolse l’altra gamba intorno ai polpacci di Julian per tirarlo
contro di sé. “Di più,” chiese con voce stridula, cercando gli occhi
dell’uomo nella luce fioca. “Dai.”

E quello fu, apparentemente, tutto ciò di cui Julian aveva bisogno. Girò la
testa di lato e, con un ringhio sommesso, rimosse le dita, ricoprendosi
velocemente l’erezione con una generosa quantità di lubrificante. Con
una mano afferrò Cameron per un fianco, mentre con l’altra bilanciava il
suo peso, chinandosi di nuovo sopra di lui.

Lo baciò avidamente e prese a spingersi dentro di lui.

Cameron ansimò di dolore sulla bocca di Julian – non poté evitare che il
suo corpo si irrigidisse involontariamente, specialmente considerando le
dimensioni dell’altro – ma d’altra parte, era quello che voleva con tutto
se stesso. Spinse indietro più forte che poté e fu ricompensato
dall’incredibile sensazione di sentirlo penetrare profondamente dentro di
sé, realizzando quella connessione che desiderava. Anche Julian ansimò,
gemendo contro la bocca di Cameron, quando i suoi fianchi iniziarono a
roteare e ad affondare sempre di più. Mormorò qualcosa di incoerente,
stringendo la presa sulla coscia di Cameron e muovendo il bacino avanti
e indietro contro di lui.

Cameron mormorava parole di incoraggiamento, con il corpo inarcato
contro quello di Julian, e lo sfregamento della loro pelle lo faceva
lentamente impazzire. Era incredibile come, grazie a lui, un uomo di
norma così freddo e riservato potesse trasformarsi in un amante
appassionato e focoso. Da quel momento in poi sarebbe stato
certamente rovinato. Dopo quella piccola avventura, niente sarebbe più
stato lo stesso.

Julian sospirò contro un orecchio di Cameron. “Okay?” riuscì a chiedere.

Cameron gemette ad alta voce. “Sì. Oh, sì,” esclamò, stringendosi il più
possibile contro di lui. “Non fermarti.”

“Tieniti,” ansimò Julian, con i fianchi che si muovevano in un ritmo lento
e languido.

Cameron mugolò di nuovo e si tirò su, più vicino, per sfregare il membro
contro la pelle calda dell’altro. Sensazioni roventi lo attraversavano a
ogni sua spinta. Julian si abbassò di più, procurandogli maggior attrito e
ansimando quando cambiò l’angolo delle spinte. Poi imprecò sottovoce e,
stringendo fra le dita i capelli di Cameron, lo baciò appassionatamente,

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senza pietà.

Cameron sollevò i fianchi senza pensare, più e più volte, lasciandosi
andare profondamente al piacere e al dolore, e facendo vibrare quella
corda tesa che gli si snodava dentro. Le spinte di Julian, forti e regolari,
erano iniziate lente, per godere della frizione dei loro corpi, ma presto
diventarono meno controllate.

Cameron si tenne proprio come gli era stato ordinato, avvolgendo le
proprie gambe ben strette attorno alla vita dell’altro. Julian gli strinse le
mani, fermando il più possibile le sue contorsioni. Improvvisamente,
Julian gemette lamentosamente il suo nome, concentrato, abbassò la
testa e iniziò a martellarlo brutalmente con i fianchi, cavalcando l’onda
dell’orgasmo. Cameron alzò gli occhi al cielo, quando l’altro lo prese con
forza e velocità, e si abbandonò al suo stesso piacere, crogiolandosi nella
sensazione di essere in grado di fargli perdere il controllo, anche se per
poco tempo.

Julian tremava e ansimava, aggrappato ai suoi fianchi. Lo baciò un’ultima
volta, uscendo da lui con attenzione. Cameron crollò confuso tra le
lenzuola, le braccia e le gambe tremanti, cercando di tornare a respirare
regolarmente.

“Stai bene?” chiese senza fiato Julian, scivolando lentamente in ginocchio
su un lato del letto.

Alzandosi sui gomiti, Cameron riuscì ad aprire gli occhi per guardare il
suo viso accaldato. “Sì,” disse con il respiro corto.

Julian annuì soddisfatto, poi si tirò su e si trascinò sul letto, crollando di
peso accanto a Cameron, che gli rotolò di fianco, con la testa appoggiata
sul suo braccio teso. Mentre il respiro gli tornava normale, Cameron lo
osservò mettersi comodo, ammirandone il corpo e chiedendosi cosa
accidenti avesse in testa quell’uomo per pensare di stare insieme a uno
come lui.

Julian lo guardò a sua volta con approvazione. “È stato bello,” mormorò
infine.

Cameron sorrise. “Sì?”

Julian ricambiò il sorriso e annuì, quindi allungò una mano e gli fece
scorrere dolcemente le dita sul viso. Giacquero tranquilli per un bel po’,
godendosi il confortevole silenzio. Alla fine, Julian si guardò intorno e si
alzò. “Il bagno?” chiese a bassa voce.

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Cameron indicò una porta nascosta nell’ombra in fondo alla stanza,
troppo stanco per alzarsi e mostrargli la via. La camera era quasi buia,
illuminata dalle luci tenui che aveva lasciato accese per i cuccioli
nell’altra stanza, ma i suoi occhi si erano adattati e riusciva a vedere
l’uomo abbastanza chiaramente. Era seduto sul letto, impegnato a
roteare le spalle avanti e indietro e ad allungare i muscoli duri e tonici
per sciogliere la tensione.

“Torno subito,” mormorò, allungandosi a prendergli la mano. Lo baciò
teneramente nella parte interna del polso e poi si sollevò dal letto, per
scomparire in bagno.

Una volta sparito, Cameron si coprì il volto con entrambe le mani
sospirando debolmente. Lasciò cadere le mani di lato, fissando con uno
sguardo vuoto il soffitto e notò come la debole luce attraversava i
pannelli divisori, creando forme bizzarre sul letto. Non riusciva a
ricordare l’ultima volta che aveva acceso la luce in quella stanza, dal
momento che, quando di notte arrivava a casa, crollava semplicemente
sul letto. Sospirando, si girò ad abbracciare un cuscino e avvertì un po’ di
dolore nello spostare i fianchi. Si sentiva languido, sazio e il sonno lo
chiamava. Ma odiava l’idea di dormire quando aveva Julian lì, nel suo
appartamento, forse per la prima e unica volta.

Dopo un paio di minuti, la porta del bagno si aprì e Cameron udì i passi
di lui sul pavimento di legno, che si fermavano a poca distanza dal letto.
Sollevò lo sguardo per vederlo immobile a guardarsi intorno, incerto.
Cameron lo osservò con ammirazione. Poi l’imbarazzo prese il
sopravvento e si rese conto che, passata la passione del momento,
avrebbero dovuto parlarsi.

“Vuoi…?” Cameron si fermò e si morse un labbro.

Julian si mosse verso il letto, strisciandovi lentamente dentro, con gli
occhi sempre incollati a quelli di Cameron. “Voglio che cosa?” lo spronò a
continuare.

Vederlo muoversi così sinuosamente, fece scintillare gli occhi del
giovane. “Vuoi rimanere?”

“Sì,” rispose Julian. “Sei a disagio?” chiese quindi, senza mezzi termini.

Cameron si prese un lungo momento per capire cosa stava provando.
Caldo e soddisfatto. Decisamente più che sorpreso che Julian fosse lì.
Ancora un po’ in apprensione per l’arma che era nella stanza accanto.
“Sì,” ammise. “Ma voglio che tu rimanga comunque.”

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Julian corrugò la fronte brevemente prima che la solita maschera
d’indifferenza gli calasse sul volto e annuì. Increspò le labbra e annuì di
nuovo. “Bene, allora. Avrò bisogno di un rasoio,” sussurrò avvicinandosi
per baciarlo delicatamente.

Dopo il leggero bacio, Cameron gli disse: “Ho anche uno spazzolino in
più.”

“Potrebbe essermi utile,” borbottò Julian disinvoltamente, trascinandolo
insieme con sé verso la testata del letto. “Mi approfitterò di te almeno
altre due volte stanotte,” dichiarò, abbracciandolo.

Cameron scoppiò in una risata sorpresa, mentre Julian lo teneva stretto
e lo tirava con sé sopra ai cuscini. Una volta che la passione si era
raffreddata, si era aspettato che l’uomo tornasse a essere serio e cupo,
come l’aveva conosciuto al ristorante, e non scherzoso e sincero.

“Non ti ho mai sentito ridere,” osservò Julian con un sorriso, mentre
strofinava il naso contro il collo di Cameron.

“Ci credo, prima di stasera non siamo mai stati insieme più di cinque
minuti alla volta, forse anche meno,” sottolineò Cameron.

Julian coprì entrambi e attirò Cameron ancora più vicino. “Però, ti ho
osservato,” ammise.

Cameron si girò dalla sua parte, all’interno del cerchio delle sue braccia,
in modo da poter appoggiare la testa sul guanciale per guardarlo. “Sì? Al
ristorante?”

Un piccolo sorriso aleggiò sulle labbra di Julian. “Se dicessi di no, ti
preoccuperesti,” disse ironicamente.

Cameron era sorpreso. “Davvero? Siamo tornati alla cosa del
molestatore?”

“Io non lo chiamerei molestare,” rispose Julian leggermente sulla
difensiva. “È successo solo una sera,” ammise. “La prima volta che sono
stato assegnato a un tuo tavolo. Era tardi. Non volevo seguirti,”
insistette. “Stavamo solo facendo la stessa strada. Sei stato quasi
aggredito quella notte ma non te ne sei nemmeno accorto. Fu quello ad
attirare la mia attenzione. Tu eri… ignaro del tuo destino imminente,”
disse con un sorriso provocatorio.

Cameron sobbalzò leggermente e lo spinse a spiegarsi. “Davvero?”
Socchiuse gli occhi. “Li hai fermati tu?”

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Julian scrollò leggermente le spalle, arrossendo visibilmente nonostante
la scarsa luce.

Cameron allungò le mani per accarezzarne il rossore. Nello stesso
tempo, sentì il pizzicore lasciatogli dalla barba di lui sulle labbra, le
guance e il collo.

“Non sono il tipo di persona che gode nel praticare la violenza per puro
divertimento,” mormorò Julian seriamente.

Cameron annuì e cercò di riconciliare tale affermazione con il fatto che
l’uomo andasse in giro armato e sfoggiasse una serie impressionante di
ferite. Se quello che diceva era vero, allora voleva dire che qualsiasi tipo
di violenza a cui avesse assistito non era stata una sua scelta. Dopo
averci riflettuto per alcuni istanti, si sporse in avanti e lo baciò
castamente. “Grazie.”

Julian sbatté le palpebre rapidamente e lo fissò come se non fosse sicuro
di cosa fare. “Figurati, non parlarne nemmeno,” sussurrò infine.

“Non sei molto bravo ad accettare i complimenti o i ringraziamenti,
vero?” azzardò Cameron.

“Non proprio,” rispose l’altro con un sorriso sulle labbra, mentre chiudeva
gli occhi.

Cameron sorrise e sbadigliò lasciandosi vincere dalla sonnolenza. Gli si
accostò ancora di più, incapace di dire altro, e affondò nell’inaspettato
conforto dell’abbraccio di uno sconosciuto.

IL SUONO dell’acqua che scorreva era abbastanza insolito da svegliare
Cameron, che sollevò la testa per guardarsi intorno, assonnato. La luce
del primo mattino filtrava dalle finestre e la stanza era fredda. Era
sdraiato sulla pancia e dovette piegarsi per raggiungere le coperte; il
ricordo della notte appena trascorsa lo aggredì quando avvertì un dolore
in alcune parti del corpo. Julian era stato di parola e nel corso della notte
e della mattina presto lo aveva preso altre due volte. Ogni volta lo aveva
fatto più lentamente e più a lungo, ed era stato più strabiliante di quella
precedente.

Sarebbe stato dolorante per giorni, ma ne era valsa la pena. Ancora

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insonnolito, si sedette, guardando la porta chiusa del bagno.

Julian era ancora lì.

Cameron rabbrividì. Doveva dargli il bacio d’addio e, nonostante le
affermazioni dell’uomo, lui non riusciva a credere che sarebbe successo
di nuovo. Sentì un dolore al petto quando si chiese se Julian sarebbe mai
più ritornato da Tuesdays dopo quella notte. Chiuse gli occhi e si strofinò
il torace, cercando di alleviarne l’imbarazzante stretta.

Julian aprì la porta del bagno e si appoggiò allo stipite, tamponandosi i
capelli con un asciugamano. Si fermò, piegò la testa e lo guardò per un
lungo istante. “Buon Natale,” disse infine con voce dolce e roca.

Cameron rimase per un attimo spiazzato. “Sì, lo è,” rispose continuando
a strofinarsi il petto.

“Ti senti bene?” chiese l’uomo, preoccupato.

Cameron abbassò gli occhi, valutando la propria situazione e ben presto
rispose. “Sì. E tu?”

Julian annuì e, senza dire una parola, si diresse verso il letto, mentre i
suoi occhi scuri erano intenti a osservare il giovane. Deglutendo,
Cameron cercò di saziarsi della sua vista, sebbene sospettasse che non
se ne sarebbe mai stancato.

“Mi rendo conto che dovrei ringraziarti,” ammise Julian.

Cameron lo guardò di sottecchi. “Ringraziarmi?” ripeté con cautela. Non
era sicuro che ciò che aveva udito gli piacesse.

“Per aver avuto fiducia in me,” spiegò l’altro.

Cameron si rilassò, studiandolo in viso. “Mi hai chiesto di fidarmi di te,”
replicò. Probabilmente appariva veramente un ingenuo, ma non poteva
fare a meno di essere se stesso.

Julian socchiuse gli occhi pensieroso, sedendosi sul bordo del letto, con
la schiena rivolta a Cameron. Nella luce del giorno, era facile vedere il
caos di lividi e ammaccature che aveva sul dorso e sulle costole.
Evidentemente, negli ultimi tempi, doveva aver avuto una qualche sorta
di incidente oppure si era azzuffato. C’erano, inoltre, una serie di
cicatrici, inclusa una sul braccio che sembrava recente.

Esaminando i danni su quel corpo, si risvegliarono in Cameron la

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preoccupazione e l’istinto di protezione nei suoi confronti, cose che
sapeva non gli appartenevano. Eppure, si piegò in avanti e lo sfiorò
lievemente lungo la spina dorsale. Poteva approfittare di quei minuti
rubati e toccarlo ancora per conservarne il ricordo.

Julian tremò violentemente sotto la sua carezza e si guardò alle spalle
con un sorriso. “Sono solo superficiali,” lo rassicurò. “Rischi del
mestiere.”

Cameron lo ascoltò, ma il suo istinto gli gridò comunque di allungarsi e
passare le labbra sopra ad alcune delle escoriazioni. Il solo vederle lo
faceva stare male e avrebbe desiderato tanto farle sparire. Non riusciva
a immaginare come Julian potesse muoversi tanto fluidamente,
nonostante fosse così malridotto. Non era sicuro di credere a quello che
l’uomo gli aveva raccontato, ma qualsiasi cosa facesse doveva essere
brutale.

Julian si allungò indietro e gli fece scorrere le dita fra i capelli. Era
confortante. “Cosa pensi di fare oggi?” gli domandò.

Cameron scosse la testa, scrollandosi di dosso quei pensieri cupi. “Mi
concederò un giorno di pigrizia totale. Il ristorante è chiuso.” Appoggiò la
mano in basso, alla base della spina dorsale di Julian, accarezzandolo
gentilmente.

“Sembra meraviglioso,” mormorò Julian.

Era un po’ più facile, in quel momento, essere spregiudicato, mentre era
ancora nudo su un letto che odorava di Julian e di sesso. “Ti vuoi unire a
me?” gli chiese.

“Mi piacerebbe molto,” rispose Julian, con voce morbida e un accenno di
rimpianto. “Ma non posso.”

Era la risposta che Cameron si aspettava, ma ciò non rese la fitta al
torace meno dolorosa. “Capisco.” Ed era vero che lo capiva. Si era
portato a casa una persona che conosceva a stento, per fare sesso; non
poteva aspettarsi che l’uomo rimanesse per fare conversazione.

Julian si girò e lo osservò da vicino. “Dovrei essere libero per le quattro,”
gli disse pacatamente. “Ho un cliente dell’ultimo minuto di cui
occuparmi.”

Cliente. Julian aveva un cliente. Nella sua mente balenarono tutte le
implicazioni possibili. E se lui stesso fosse stato solo un cliente, a cui
aveva fatto credito perché gli piaceva il suo aspetto? Avrebbe lo stesso

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voluto di più in quel caso? Come lo avrebbe pagato più avanti? Con un
cuore infranto? Cameron allontanò quei pensieri incoerenti e deglutì,
mentre una fitta dolorosa gli artigliava il ventre.

“Potresti passare più tardi. Se vuoi,” si sbrigò a rispondere, determinato
a non preoccuparsi di ciò che poteva succedere, ma sfruttando al
massimo tutte le opportunità.

“Senz’altro, ci proverò,” promise Julian girandosi a baciarlo sul collo.

Cameron chiuse gli occhi e ruotò il mento così da facilitargli l’accesso alla
sua pelle. Provare. Avrebbe accettato cortesemente quelle parole,
aspettando che lui andasse via prima di concedersi il lusso di mostrarsi
deluso. Arrivò quasi a desiderare che fosse un giorno normale, così da
potersi rifugiare nella confortante routine del lavoro. Invece, davanti a sé
aveva solo delle ore lunghe e solitarie. E Julian avrebbe lavorato,
qualsiasi cosa ciò significasse.

“Farai attenzione?” si lasciò sfuggire senza pensare, arrossendo
vistosamente per l’imbarazzo.

“Sono sempre attento,” lo rassicurò lui.

Con un sorriso, Cameron si distese lentamente, dandogli spazio per fare
quello che voleva.

Julian lo guardò, socchiudendo gli occhi. “È meglio che vada,” sussurrò
infine. “Grazie,” ripeté. “Per la scorsa notte. Per aver dato il nastro a
Blake. E per tutti i martedì,” aggiunse con un sorriso.

“I martedì,” mormorò Cameron. “Le ottime serate.” Era quello che aveva
detto lui.

“Sì,” affermò Julian, con un sorriso malinconico.

“Vieni il martedì a causa del nome del ristorante?” si ritrovò a chiedere.

Le labbra di Julian si piegarono lentamente in una smorfia. “No,” rispose.
“Però so perché è stato chiamato così,” aggiunse divertito.

“Davvero?” chiese Cameron curioso. Gli era sempre sembrata una cosa
strana chiamare un ristorante a quattro stelle in quel modo. Spesso si
era chiesto perché Blake lo avesse fatto.

Julian esitò. “Chiedi a Blake del dio della guerra,” gli consigliò malizioso.
“Ti racconterà la storia.”

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Cameron annuì, confuso e non troppo sicuro di volerlo sapere. “Mi dai un
altro bacio?” chiese timidamente.

Julian inarcò un sopracciglio, abbozzando un sorriso. Si girò e gli si
avvicinò, baciandolo rudemente.

Cameron rimase senza fiato per quell’assalto inaspettato; si aggrappò
alle sue braccia e si tenne stretto, cedendo al calore bruciante della sua
bocca. Il suo corpo rispose subito, inarcandosi istintivamente contro
quello dell’uomo.

Julian sorrise contro le sue labbra, il bacio era andato ben oltre la
decenza. Alla fine, ringhiò sommessamente spingendosi verso l’alto con
le mani e le ginocchia. “Tu sai come far licenziare un uomo, vero?”
borbottò frustrato, guardandolo negli occhi.

Un sorrisetto incurvò le labbra di Cameron. “Un altro complimento?”

“Credo di sì,” mormorò Julian. “Considerato che sono un libero
professionista.” Esitò, guardandolo. “Mi dispiace,” disse con una smorfia
dolorosa. “Ma devo veramente andare.”

Sentendosi meglio perché anche lui non sembrava felice di lasciarlo,
Cameron scese velocemente dal letto, facendosi scivolare il lenzuolo dal
corpo. Anche Julian si mise seduto sul bordo, strofinandosi il collo e
cercando in giro i suoi vestiti. Cameron si diresse a passi felpati verso il
bagno, dove si lavò velocemente e indossò dei pantaloncini e una T-shirt.

Fece scorrere l’acqua per lavarsi i denti e rinfrescarsi la bocca, poi si
guardò a lungo allo specchio, notando la rassegnazione nei propri occhi.
Non voleva pensare a nulla che riguardasse Julian, ancora; voleva solo
vivere quel momento finché durava. Bevve un bel sorso d’acqua e tornò
verso la camera da letto.

“Sarai qui stasera?” gli domandò Julian quando riapparve. Era già mezzo
vestito. Il resto dei vestiti era dietro di lui, sul letto, così come la pistola
che si era tolto la sera prima.

Cameron si fermò sulla soglia e, appoggiandosi allo stipite, incrociò le
braccia. “Sì,” rispose, sollevando un piede quanto bastava per strusciarlo
avanti e indietro sulla soglia.

Julian lo guardò a lungo. Poi si alzò e si tirò su i pantaloni; chiuse la
lampo e li abbottonò, prima di dirigersi verso di lui, con la camicia
parzialmente slacciata anche se infilata nei pantaloni. Gli si fermò proprio

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di fronte e Cameron si raddrizzò, aspettando nervosamente, le dita
aggrappate al legno del telaio della porta.

Julian piegò la testa, allungandosi lentamente per prendergli una mano,
gli occhi incollati sui suoi anche mentre la sollevava e baciava
gentilmente l’interno del polso. Era ovvio, a quel punto, che il gesto era
un’abitudine. Cameron spalancò gli occhi e, rabbrividendo, guardò le
labbra dell’uomo scorrere sulla sua pelle. Quel tocco gli aveva fatto
sciogliere il cuore. L’intero incontro era stato tenero in una maniera
sconvolgente, lasciandogli il desiderio di molto di più.

Julian gli liberò la mano e, allontanandosi, finì di allacciarsi la camicia.
“Non hai uno di quei rulli adesivi che mi hai detto, vero?” chiese.

Cameron deglutì con molta fatica e annuì. Quello poteva farlo. “Certo.
Nel salone,” mormorò. “Te ne prendo uno. Devo dare da mangiare ai
cuccioli, in ogni caso.” Gli girò intorno lentamente, prima di staccargli gli
occhi di dosso, spostandosi oltre ai pannelli divisori. Presto, un leggero
scalpiccio lo seguì, insieme ad alcuni guaiti eccitati.

Quando Julian uscì dalla camera da letto, aveva il cappotto e la sciarpa
drappeggiati sul braccio e stava armeggiando con la cravatta. Cameron
era in piedi al bancone della cucina, dall’altra parte della stanza. I
cagnolini saltavano attorno ai suoi piedi, ma lui li ignorava, tutto preso a
controllare una pila di posta. C’era un rullo adesivo al suo fianco e,
quando sentì i passi lievi dell’uomo, sollevò gli occhi. Così fecero anche i
quattro cuccioli, che immediatamente corsero attraverso la stanza per
saltargli alle caviglie.

Julian raccolse uno dei cuccioli che si era attaccato ai suoi pantaloni,
iniziando a tirare e ringhiare verso il box nell’angolo. “Siamo ambiziosi,
eh?” gli disse con voce carezzevole.

Ridacchiando, Cameron si avvicinò con il rullo. “Ottimista, direi,” lo
corresse. Spinse via dalla cravatta le mani poco collaborative di Julian, gli
porse il rullo, sfece il nodo malfatto e iniziò nuovamente a rifarlo.

Julian teneva le mani lontane, tutto concentrato su di lui. I cuccioli
continuavano a saltargli addosso ma Cameron assorbiva interamente la
sua attenzione. Il giovane pasticciò con la cravatta per un attimo prima
di rendersi che non riusciva a legarla dal davanti, così gli scivolò dietro,
allungando le braccia sopra le sue ampie spalle. Mentre gli faceva il
nodo, non poté fare a meno di premergli il naso contro la spalla e inalare
il suo profumo con un lieve sorriso. Julian rimase immobile,
permettendogli di fare ciò che voleva.

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Cameron gli ritornò di fronte, si accertò che la cravatta fosse dritta e
sistemò bene il colletto della camicia, quindi sollevò gli occhi e incrociò lo
sguardo penetrante dell’uomo. Arrossì leggermente, fece un passo
indietro e si schiarì la gola.

“Dove hai bisogno d’aiuto?” borbottò, prendendo nuovamente il rullo in
mano.

“Solo per il cappotto,” mormorò Julian senza distogliere lo sguardo da lui
e tendendo le braccia per l’ispezione.

Contento di avere un motivo per sfuggire a quello sguardo intenso,
Cameron gli girò di nuovo intorno, lentamente, assicurandosi di togliere il
maggior numero possibile di quei fini peli bianchi. Finì davanti a Julian
ancora una volta. “Finito.” Sussurrò, guardando i cuccioli che ancora
stavano cercando di arrampicarsi sulle loro gambe. “Le gambe dei
pantaloni?” chiese non volendo ancora sollevare lo sguardo.

Julian abbassò la testa, cercando di catturare i suoi occhi. “Se non ti
dispiace,” rispose pacatamente.

“Solo un secondo,” replicò Cameron. Si chinò a raccogliere i quattro
cuccioli scalmanati e li trasportò nel box nascosto discretamente in un
angolo. Li collocò dentro e i loro uggiolii lamentosi lo seguirono fino da
Julian, davanti al quale si inginocchiò, facendogli scorrere il rullo sulle
gambe dei pantaloni. Sebbene avesse fatto in modo di evitarne gli occhi
per tutto il tempo, poteva sentire il suo sguardo penetrante su di sé.
Julian lo guardava sempre così attentamente che Cameron non sapeva
spiegarsi come avesse fatto a non accorgersene al ristorante. Una
sensazione di calore lo inondò in tutto il suo essere.

Dopo diverse passate, Cameron finì. Si rialzò in piedi e infine offrì
all’altro un mezzo sorriso nervoso. “Adesso sei presentabile.”

“Grazie,” gli rispose quello a voce bassa. Aprì la bocca per aggiungere
qualcosa, ma la richiuse di nuovo, senza dire niente. Piegò la testa da
una parte, sorridendo imbarazzato mentre si avvolgeva la sciarpa attorno
al collo. Cameron si rese conto che Julian spesso piegava la testa da un
lato o dall’altro, oppure abbassava il mento quando parlava, e che ciò era
chiaramente dovuto alla sua altezza. Era l’unico modo che aveva per
mantenere il contatto visivo con chi era molto più basso di lui.

Cameron mise le mani dietro la schiena, le dita che strusciavano
nervosamente sul rullo, mentre lo guardava prepararsi ad andare via.
Non aveva idea di cosa dire. Niente suonava giusto. Allora lo sfiorò per
l’ultima volta, cercando di memorizzarne la sensazione. Mentre Cameron

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continuava a fissarlo, Julian abbassò la testa e iniziò a camminare
lentamente verso la porta.

Poi si fermò all’improvviso, si voltò e si mosse velocemente verso di lui,
attirandolo bruscamente a sé e baciandolo.

Cameron quasi soffocò, quando Julian lo afferrò per baciarlo, come se da
quello dipendesse la sua vita. Si aggrappò a lui fino alla fine,
assaporandolo, immergendovisi completamente. Julian lo teneva così
stretto che Cameron era sicuro gli avrebbe lasciato dei lividi.

Poi l’uomo si staccò improvvisamente come si era mosso in precedenza.
“Spero di vederti stasera,” mormorò indietreggiando. “Buon Natale,”
aggiunse prima di girarsi per dirigersi verso la porta, con quelle sue
movenze feline.

“Buon Natale,” rispose Cameron mentre l’altro usciva dall’appartamento
senza guardarsi indietro.

Dopo che Julian se ne fu andato, Cameron rimase lì per un bel po’ a
fissare la porta, le braccia strette al petto, perso e sopraffatto dagli ultimi
avvenimenti. Alla fine, andò al box a liberare i cuccioli, si sedette a terra
e lasciò che gli saltellassero intorno, mentre rifletteva su quella che era
stata una strana, incredibile nottata.

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Capitolo 3

LA NEVE cadeva abbondante, quasi oscurando la visuale che Cameron
aveva della strada e della città, al di là della finestra. Alcune candele
accese diffondevano nell’appartamento un tipico aroma invernale e il
giovane aveva anche acceso le lucine colorate che incorniciavano le
finestre. La sua stazione radio preferita trasmetteva musica jazz e lui
sentiva che quello era tutto ciò di cui aveva bisogno per assaporare il
clima natalizio.

Il pomeriggio e la prima parte della serata erano passati senza nemmeno
un accenno del ritorno di Julian e, ormai convinto che fosse successo
quello che si aspettava, Cameron cercò di ignorare la delusione.

Aveva abbandonato il libro sul divano in favore della preparazione della
cena, usando una ricetta di Jean-Michel, lo chef del ristorante. Non si
trattava di qualcosa di prettamente natalizio: lasagne al forno, con
diversi strati di ragù di carne e salsa besciamella. Il tutto aveva anche
richiesto che Cameron, la settimana precedente, andasse alla ricerca di
un negozio di casalinghi per comprare delle teglie più capienti. La
preparazione degli ingredienti lo aveva tenuto occupato per quasi un’ora,
ma una teglia era già pronta ed era in forno a cuocere, mentre ne stava
preparando un’altra da congelare per un’altra occasione.

Lavandosi le mani per l’ennesima volta, si fermò per finire il bicchiere di
vino e riempirlo di nuovo, borbottando sorpreso per essere riuscito, in
qualche modo, a finire l’intera bottiglia. Stringendosi nelle spalle, la mise
da parte e ne tirò fuori una nuova dal portabottiglie. Non c’era ragione
per trattenersi dal bere quella sera: poteva permettersi di diventare un
po’ brillo, pensò ironicamente. Niente lavoro il giorno dopo, nessuno per
cui rendersi presentabile, nessun posto dove andare. Guardò l’enorme
teglia di lasagne e sorrise. Avrebbe avuto cibo per giorni. Per settimane,
forse.

Senza nessun avvertimento, i cuccioli iniziarono a uggiolare
istericamente e a correre verso la porta d’ingresso. Cameron li seguì con
lo sguardo, sorpreso. Non aveva udito il campanello suonare o il cicalino
vibrare. Accigliato, guardò l’orologio. Sette e mezzo. Con un mormorio di
disapprovazione, uscì dal bancone della cucina per andare alla porta,
scansando con attenzione i cuccioli, prima di sbirciare dallo spioncino.

Fece un balzo indietro, sorpreso, e si concesse un attimo per riprendersi

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dallo shock, poi tolse la catena e aprì la porta.

“Ciao, Cameron,” lo salutò Julian a bassa voce. “Posso entrare?” chiese.

Sbattendo le palpebre più volte, Cameron lo fissò per alcuni istanti quindi
si riscosse e fece un passo indietro. Pensò vagamente che avrebbe
dovuto chiedergli come avesse fatto a entrare nell’edificio, ma quando
l’uomo parlò, il pensiero scomparve del tutto dalla sua testa.

“Grazie,” mormorò Julian. Quando entrò in casa i suoi abiti scuri
brillavano leggermente: era bagnato fradicio e ricoperto da cristalli di
neve.

Cameron chiuse la porta dietro di lui, contando i cuccioli che si erano
spaparanzati intorno ai piedi di Julian, e passò rapidamente gli occhi sui
vestiti che gli aderivano addosso. “Sei tutto bagnato,” osservò
stupidamente. “Ti prendo un asciugamano,” aggiunse, arrossendo un po’
mentre si dirigeva verso il bagno.

“Un asciugamano non servirà a molto,” replicò l’altro con un sorriso
beffardo. I suoi capelli gocciolavano e rivoli di neve sciolta gli scendevano
lungo il viso e venivano catturati dalla barba.

Fermandosi, Cameron lo guardò più da vicino, soffocando una risata.
“Cos’hai fatto? Ti sei rotolato nella neve?”

Julian gli sorrise ironicamente, passandosi la mano tra i capelli umidi.
“Beh, ci avevo pensato, ma in quel momento avevo ancora un calzino
asciutto,” scherzò. “Ho camminato lungo la strada. Ho dovuto lasciare
l’auto a causa della tormenta di neve. Eri più vicino tu di casa mia,”
ammise in imbarazzo. “Scusa,” proseguì.

Cameron aggrottò la fronte. “Hai lasciato l’auto?” ripeté dubbioso. “Nelle
strade ingombre di neve di Chicago?”

Julian strinse le labbra. “Lo vuoi davvero sapere?” chiese, ripetendo le
stesse parole della notte precedente.

“Penso di sì,” rispose lui, riflettendoci sopra.

“Ho preso una lastra di ghiaccio,” disse subito Julian. “L’auto è
praticamente fuori uso per stanotte.”

Cameron lo esaminò per bene, senza vedere danni evidenti. “Come
stai?” chiese. La preoccupazione divampò in un attimo.

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“Non sono ferito,” lo rassicurò rapidamente Julian. “Forse domani sarò
dolorante,” aggiunse, indicandosi il petto e massaggiandolo. “La cintura
di sicurezza,” spiegò.

Ancora preoccupato, Cameron gli indicò il bagno. “Ci sono degli
asciugamani nel mobile, se vuoi fare una doccia. Devi essere congelato.
Fuori ci saranno dieci gradi sotto zero, anche senza il vento.”

Julian lo guardò con una strana espressione. “Ti dispiace?” chiese serio.
“Posso chiedere un passaggio e andare via.”

“Certo che non mi dispiace!” disse lui, sorpreso. “Non ti manderei mai via
di qui bagnato fradicio come sei.” Indicò il bagno e disse con fermezza:
“Vai.”

Le labbra di Julian si contrassero divertite e l’uomo annuì obbediente,
iniziando ad allentare la cravatta. “Sì, signore,” rispose, strascicando le
parole con voce bassa e gradevole.

Cameron incrociò le braccia e lo guardò con interesse. Ogni volta che
parlavano, la sua personalità lo coglieva di sorpresa. Non era per niente
freddo e minaccioso. In realtà c’era dell’umorismo sepolto da qualche
parte.

Julian si tolse il cappotto intanto che lui lo fissava, appendendolo con
cura all’attaccapanni vicino alla porta. Si voltò, analizzando il suo
sguardo. “Volevi aiutarmi?” domandò divertito.

Toccandogli la mano, Cameron capì che era quasi congelato. “Se questo
bastasse a scaldarti,” replicò con franchezza. “Sono sorpreso che tu non
sia cianotico. Muoviti. Ti cercherò dei vestiti asciutti da indossare.”

“Grazie,” mormorò lui, spogliandosi mentre si dirigeva verso la camera.

Cameron lo seguì, prendendo i vestiti bagnati a mano a mano che Julian
se li toglieva. Una volta in camera da letto, li appese a una sedia e andò
a rovistare nel comò. Non sarebbe stato uno scherzo trovare qualcosa
che gli andasse bene, ma forse aveva un paio di pantaloni della tuta e
delle T-shirt che erano abbastanza grandi. In fondo Julian era alto e con
le spalle larghe, ma la vita era stretta.

Cameron non poteva mettergli i vestiti nell’asciugatrice: erano capi di
alta classe, roba da lavare solo a secco. Rabbrividì, guardando le costose
etichette. Lui non poteva neppure permettersi di respirare l’aria in quel
tipo di negozi. Non era cosa da tutti.

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Julian impiegò poco tempo a fare la doccia, apparentemente solo quanto
bastava per scaldarsi un po’. Rientrò in camera da letto con un
asciugamano intorno alla vita e l’acqua che gli scorreva ancora in sottili
rivoli lungo il petto e le spalle.

Cameron, inginocchiato davanti al camino che era di fianco al letto per
accenderlo, sollevò lo sguardo. Si alzò e, indicando i vestiti sparsi ai piedi
del letto, camminò imbronciato verso di lui. “Se non ti asciughi,
torneremo al punto di partenza,” lo rimproverò.

Julian sorrise. “Almeno sarò già fuori dai vestiti bagnati.” Si passò la
lingua sulle labbra, guardandolo con tenerezza. “Hai bevuto, non è
vero?”

Cameron socchiuse gli occhi. “Cosa te lo fa pensare?”

“Perché sei un po’ meno… nervoso,” sottolineò l’altro, sollevando la testa.

Cameron rispose con un sospiro offeso, ma non fece nulla per confutare
la sua dichiarazione. Neppure quando tirò via l’asciugamano dai fianchi
dell’altro uomo, gettandoglielo rudemente sulla testa per asciugargli i
capelli gocciolanti. Julian grugnì sorpreso e abbassò la testa con
arrendevolezza. Cameron continuò a strofinare fino a quando non pensò
che fossero sufficientemente asciutti, poi abbassò l’asciugamano e gli
fece scivolare le mani tra i capelli umidi per controllare. Julian lo
guardava di sottecchi, con occhi scuri incandescenti.

Placato, Cameron prese l’asciugamano, gli asciugò il collo, le spalle e il
petto prima di fare un passo indietro, indicando i vestiti in attesa.

Julian gli rivolse un sorriso divertito.

“Magari ho bevuto un po’ di vino,” disse alla fine, riluttante.

“Solo un po’,” si mise a ridere Julian.

Cameron arricciò il naso. “Bene, dunque,” disse, lasciando cadere
l’asciugamano intorno al collo di Julian e spostandosi un passo indietro.

Julian lo attirò vicino, baciandolo con una risatina. “Mi piaci quando sei
così.”

Sorridendo di nuovo, Cameron gli buttò le braccia al collo. “Non lo faccio
spesso,” ammise. “Di solito lavoro.” Fece scorrere le labbra sulla mascella
di Julian e scese lungo il collo, mugolando qualcosa e inalando il suo
odore eccitante.

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“Quanto ne hai bevuto?” chiese interessato Julian.

Cameron arrossì e gli nascose il volto nell’incavo del collo. La sua
risposta si perse su quella pelle calda.

Julian rise più forte, avvolgendolo tra le braccia ancora umide. “Così
tanto, eh?” lo spronò.

Cameron si tirò indietro, ostinato. “Un po’. Una bottiglia. Forse.”

“Uh, uh,” rispose Julian. “Beh, dai, dammene un po’,” lo invitò sereno,
girandosi e spingendolo verso la cucina, incurante del fatto che fosse
ancora nudo.

Chiaramente, era abituato a girare nudo oppure era molto a suo agio con
il proprio corpo. Probabilmente entrambe le cose, ipotizzò Cameron. Rise
quando Julian lo spinse in cucina. “Quando hai bussato, ero sul punto di
aprire un’altra bottiglia,” gli spiegò. “Stavo facendo le lasagne!” disse
ancora, come se questo lo giustificasse.

“Mi sembra un buon motivo per bere,” affermò Julian, con un cenno
solenne.

“Lo dici per compiacermi,” lo accusò Cameron, quando l’uomo lo spinse
dentro la cucina.

“Sì,” rispose Julian con una risata.

Cameron si fermò al bancone. “Stai anche ridendo di me.”

“Solo un pochino,” ribatté l’altro con sincerità.

Cameron allungò la mano per afferrare il cavatappi, scivolando attorno al
mobile che divideva il salotto dalla cucina. “Niente vino per te,” mormorò
fra sé.

Julian sbuffò e girò appena la testa quando sentì il suono di zampette in
corsa verso di loro. “Oh, che divertenti,” commentò, quando i cuccioli si
lanciarono addosso alle sue caviglie nude.

Cameron ridacchiò all’espressione sulla sua faccia. Posò il cavatappi sul
banco e si diresse verso la teglia di lasagne da finire. “Come è andato il
lavoro?” domandò.

Julian lo guardò con un accenno della solita maschera di circospezione e

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sollevò delicatamente il piede, cercando di scrollarsi di dosso un cucciolo
senza calciarlo sul pavimento. “Era… prevedibile,” rispose vagamente.

“Prevedibile,” commentò Cameron. “Sembra… emozionante. Sebbene,
immagino che tu penserai che anche il mio lavoro è prevedibile.”

“Ho servito ai tavoli, una volta” replicò Julian. “Una volta nel senso di
una sera,” si affrettò a chiarire. “Niente di prevedibile a tal proposito.
Sono molto più bravo a fare quello che faccio, grazie.”

Cameron lo guardò da sopra le spalle, sorridendo. “Non ti ci vedo come
cameriere,” convenne con lui. “Diciamo che ti tocca parlare con la gente,
sai?” Si girò verso la teglia finendo di riempirla con i vari strati di
lasagne.

“Ma io parlo,” rispose l’altro, con tono irritato per la tacita implicazione
che non lo facesse.

Cameron si asciugò le mani su un canovaccio e coprì il tegame con un
foglio di alluminio. “Uh, uh. E quante cene da Tuesdays ti ci sono volute,
prima di rivolgermi la parola?” disse, mentre metteva la teglia nel
freezer.

“Ero nervoso,” confessò debolmente Julian.

Cameron scosse la testa incredulo, chiuse la porta del congelatore e si
voltò. “Allora perché ti sei seduto nella mia sezione ogni martedì per
chissà quanti mesi?”

Julian sorrise e infine si avvolse di nuovo l’asciugamano intorno alla vita,
dopo averlo strappato dalle bocche di due cuccioli ringhiosi. “Dieci.
Perché mi piaceva osservarti.”

Cameron sbatté le palpebre. Dieci mesi. Accidenti. Così a lungo? “Mi
guardavi, ma non mi rivolgevi la parola.”

Julian sospirò, il suo sorriso scemò e abbassò la testa un attimo. “Avevo
paura di dirti qualcosa di non appropriato,” proseguì serio.

Cameron aggrottò la fronte. “Non appropriato?” tornò indietro al
bancone, iniziando ad aprire la bottiglia di vino.

“Blake Nichols è un mio caro amico e un socio in affari,” spiegò Julian in
tono sommesso. “Non mi avrebbe permesso di mettermi in ginocchio nel
mezzo del suo ristorante per pregarti di venire a casa con me.”

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Cameron armeggiò con il cavatappi, sbattendo le palpebre per la
sorpresa, accentuata anche dalla quantità di vino bevuta. Aprì la bocca,
alla ricerca di qualcosa da dire, ma non ne uscì niente e non poté far
altro che fissarlo con i suoi grandi occhi blu.

Julian ricambiò lo sguardo, serio, in attesa.

“L’avresti fatto davvero?” riuscì infine a chiedere Cameron.

“Probabilmente,” rispose l’altro con un cenno del capo. “Blake mi disse
che non potevo,” aggiunse, quasi imbronciato.

Cameron sgranò nuovamente gli occhi. “Probabilmente?” ripeté
debolmente.

“Sarei stato più discreto,” insistette l’uomo, con aria impassibile.

Cameron era completamente sbalordito. “Discreto? Come puoi definire
mettersi in ginocchio e implorare, discreto?”

“L’avrei fatto con discrezione,” dichiarò Julian con il fiato corto mentre,
avanzando a fatica fra i cagnolini, girava intorno al bancone per unirsi a
lui. Prese il cavatappi con una mano e la mano di Cameron con l’altra,
prima di gettarsi garbatamente in ginocchio ai suoi piedi, guardandolo
con maliziosi occhi scuri.

Cameron non aveva la più pallida idea di cosa fare. Poteva solo fissare
quello spettacolo meraviglioso di fronte a sé. Quello sguardo scintillante
lo ipnotizzò e strinse le dita attorno a quelle di Julian.

“Vedi?” esclamò quest’ultimo innocentemente. “È meno discreto se sei
nudo quando lo fai, ma ne puoi capire il motivo,” disse a bassa voce,
ovviamente cercando di non sorridere mentre, lasciando le dita di
Cameron, faceva scivolare la mano dietro alle sue caviglie. Era evidente
che si stesse divertendo, ma il giovane non era del tutto certo di aver
capito la battuta.

Cameron farfugliò qualcosa, poi alzò la mano libera per sfiorargli i capelli
corti. Ci pensò sopra a lungo e infine concluse, mormorando: “Hai
ragione.”

Julian gli sorrise, facendo risalire le mani dietro alle sue cosce. “Stavi
cucinando?” domandò.

“Cucinando?” ripeté Cameron intontito, con la mano che ancora sfiorava
leggermente il capo dell’altro, seguendo la curva dell’orecchio e della

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guancia.

Julian rise sommessamente, nel vedere l’effetto che aveva provocato con
il suo gesto.

Cameron scosse la testa per schiarirsi le idee e, ritornando al motivo per
cui Julian si era inginocchiato, sussurrò: “Avrei detto di sì.”

Julian fece un sorriso genuino, che scaldò i suoi occhi fino a farli
diventare del colore del cioccolato fondente. “Buono a sapersi.”

Cameron si fece prendere per un attimo dal panico. “Non hai intenzione
di farlo veramente, giusto?”

Con una mano sul cuore, l’uomo gli si rivolse con lo sguardo più angelico
che Cameron avesse mai visto. “Fare cosa?” chiese.

Visibilmente preoccupato, Cameron lo aiutò ad alzarsi. “Non che non
abbia apprezzato lo sforzo,” chiarì. Julian grugnì e si alzò lentamente in
piedi. Cameron lo guardò. “Dai, vieni a mangiare,” disse
sbrigativamente, cercando di scacciare l’improvviso struggimento al
petto. “Ma sarà meglio che tu ti rivesta o mi distrarrò di nuovo.”

Julian sorrise compiaciuto, guardando l’asciugamano sui suoi fianchi.
Osservò un attimo Cameron che stava andando verso il forno, poi si girò
silenziosamente e con passo felpato attraversò la sala per scomparire
dietro ai pannelli divisori. Gli occhi di Cameron lo seguirono per tutta la
strada e, inconsciamente, si passò la lingua sul labbro inferiore. Una
volta che l’uomo fu svanito dalla sua vista, emise un sospiro tremante,
crollando praticamente contro il bancone.

Julian avrebbe voluto pregarlo. Pregare lui. Il concetto letteralmente gli
mozzò il fiato. Per ragioni che solo lui capiva, Julian lo voleva.
Disperatamente. E in nessun modo Cameron l’avrebbe fermato.

Fece un profondo respiro tremante. Si sarebbe potuto facilmente
innamorare di quell’uomo. E quello era di gran lunga più spaventoso di
qualsiasi lavoro equivoco o di qualsiasi pistola.

Julian era corrucciato e si massaggiava il petto quando riapparve nella
stanza, indossando una delle magliette di Cameron e un paio di pantaloni
della tuta che gli arrivavano a malapena alle caviglie.

“Come stai?” chiese all’improvviso a Cameron.

Il ragazzo alzò lo sguardo dalla teglia bollente di lasagne che stava

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tirando fuori dal forno. Non aveva davvero idea di come rispondere a
quella domanda, visto cos’era successo nell’ultima mezz’ora. Scelse
quella più facile. “Affamato.” E accennò con la testa al tegame caldo. “Ne
metto un po’ in due piatti insieme a una baguette e dell’insalata,”

Julian si avvicinò con cautela. “Ha un odore meraviglioso.”

Annuendo, Cameron scartò il pane dalla confezione con mani tremanti,
poi si girò a guardare Julian cercando qualcosa da dire. “Del vino?”
chiese, con un’occhiata alla bottiglia appena aperta.

Julian seguì il suo sguardo e sorrise. “No, grazie,” rispose. “Ti sto
mettendo a disagio?” domandò, sempre con la sua voce bassa e calma.
“Posso andare via,” aggiunse.

Cameron lo guardò e, altrettanto rapidamente, distolse lo sguardo. “No,
solo che non so cosa dire,” replicò. “Nessuno mi aveva mai detto
qualcosa di simile prima. Non voglio che tu te ne vada,” riuscì a dire,
fissando la bottiglia. “Perché sei ritornato?” chiese bruscamente.

“L’avevo promesso,” esclamò l’altro sorpreso. “Volevo arrivare prima, ma
tendo a essere più veloce al volante che a piedi.”

“Non mi aspettavo di vederti di nuovo,” gli disse Cameron. “Come ti ho
detto prima, non hai mai parlato molto con me.”

“Non pensavi che sarei ritornato?” chiese Julian, addolorato.

“Non ti conosco,” si difese Cameron. “Non esattamente. E la maggior
parte della gente con cui sono stato non era interessata a rimanermi
vicino,” aggiunse.

Julian lo fissò totalmente incredulo. “Allora hai scopato con le persone
sbagliate,” concluse con assoluta certezza.

Cameron sollevò la testa di scatto, allibito. “Davvero?” disse con voce
leggermente spezzata.

“Sicuro,” rispose l’altro con un cenno della testa. “Una persona dovrebbe
essere fuori di testa per non tornare da te. Io ho camminato nella bufera
di neve per arrivare qui.”

Cameron incrociò i suoi occhi. “Non ho mai incontrato nessuno come te
prima,” confessò con quieto stupore. “Tu mi fai sentire…”

Julian sollevò un sopracciglio e si massaggiò il petto distrattamente,

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aspettando che lui finisse.

“Speciale,” continuò Cameron, con voce a malapena udibile.
“Desiderato.”

Julian sorrise apertamente. “Ottimo,” disse con sicurezza.

“E confuso,” aggiunse Cameron, con un sospiro rassegnato. “E perché
sarebbe ottimo? Lusinga il tuo ego?”

Julian premette la mano sul cuore come se fosse stato ferito. “Ahi!”
rispose leggermente risentito. “No,” proseguì appoggiando i gomiti sul
bancone. “Perché questo è esattamente come voglio che tu ti senta.”

“Oh.” Cameron lo guardò con stupore. “Adesso dovrei baciarti,” lo avvisò.

“Bene, allora mi avvicino,” disse Julian, strascicando le parole
sfacciatamente, mentre scivolava dietro al bancone e si fermava accanto
a Cameron. Gli cinse la vita e si chinò per dargli un casto bacio all’angolo
della bocca.

Appena l’uomo gli si avvicinò, Cameron dimenticò tutte le ansie e le
preoccupazioni, che svanirono sullo sfondo. Si immerse nel calore del
corpo di Julian, sbattendo leggermente contro la sua bocca. Trasse un
profondo respiro e inclinò la testa all’indietro per baciarlo delicatamente.

“Forse ho bisogno di un altro po’ di vino,” sussurrò.

“No, non ne hai bisogno,” lo rassicurò l’altro mentre lo tirava più vicino e
lo baciava avidamente, tenendogli delicatamente ferma la nuca con la
sua grande mano.

Era facile rilassarsi contro quel petto, farsi baciare, e Cameron esultò,
sentendo la passione sprigionarsi tra loro, proprio come era successo la
notte prima. Proprio come era avvenuto la mattina. Proprio come
sperava succedesse in quel momento e in quelli futuri.

Julian grugnì soddisfatto e gli sorrise quando si staccò dall’abbraccio.
“Grazie per avermi fatto rimanere,” sussurrò sulle sue labbra.

“Nessun problema, quando vuoi,” mormorò Cameron, alzando gli occhi a
incrociare i suoi. In qualche modo, essere tra le sue braccia aveva
placato le sue ansie e la preoccupazione dell’ignoto.

“Mi ci potrei abituare,” disse Julian.

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Gli occhi di Cameron vagarono sul suo volto. “Okay,” disse con voce
sommessa.

“Okay?” ripeté Julian.

Cameron annuì solennemente. “Mi piacerebbe,” chiarì poi, “se tu ti ci
abituassi.” Trattenne il respiro aspettando la sua risposta.

Julian sorrise lentamente: un vero e proprio sorriso sincero, che
ammorbidì il suo aspetto da duro. “Ottimo,” rispose, infilandogli
possessivamente le mani nelle tasche posteriori dei jeans.

Cameron respirò sollevato. Lo cinse con le mani dietro la nuca. “Potresti
cambiare idea una volta che mi conoscerai meglio: sono mortalmente
noioso.”

“Anch’io,” replicò Julian, con una scintilla maliziosa nello sguardo.

“Non capisco davvero come potrebbe essere possibile,” disse Cameron in
tono asciutto. “L’uomo che si sarebbe gettato in ginocchio nel bel mezzo
di un ristorante a quattro stelle per pregare un cameriere di andare a
casa con lui?”

“Quello non vuol dire essere interessanti, ma solo pazzi d’amore,” lo
corresse Julian.

“Pazzo d’amore? Per me?” chiese Cameron con un sorriso incredulo.

“Cosa pensi, che mi metta in ginocchio per chiunque?” lo rimproverò
l’altro, con una scintilla di allegria negli occhi, come se si stesse
raccontando una battuta che capiva solo lui.

“Se non l’avessi visto con i miei stessi occhi, non avrei mai scommesso
che ti saresti messo in ginocchio per qualcuno,” disse Cameron con
assoluta certezza.

Julian inarcò un sopracciglio. “Beh. Ti sei sbagliato,” lo corresse
gentilmente. I suoi occhi guizzarono intorno alla cucina. “Cosa potremmo
fare, in questi pochi minuti che ci vogliono per finire di preparare la
cena?” chiese con cautela.

Cameron sollevò entrambe le sopracciglia mentre considerava la
domanda, cercando una risposta adeguata. “Arrostiamo le castagne?”
sbottò.

“È così che li chiami?” chiese Julian innocentemente, girandosi a

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guardare il branco di cuccioli che si azzuffavano.

Cameron rimase a bocca spalancata e lo picchiò con un pugno leggero
sul petto. Lui mugugnò, premendosi la mano sulla parte dolorante e
indietreggiò. “Ahi,” protestò, sebbene stesse ancora ridendo.

Cameron alzò il naso sdegnoso. “Chi ama me, ama i miei cani,” disse,
cercando di farla passare per una battuta.

Julian cercò di trattenere un sorriso, guardando di nuovo i cuccioli. “Beh,”
sospirò con rammarico. “Suppongo che dovrò imparare.”

Cameron rifletté su quella risposta. Imparare ad amare i suoi cani?
Oppure imparare ad amare lui? Gli si avvicinò nuovamente. Era una sua
debolezza, una cosa che alla maggioranza degli uomini che aveva
incontrato non piaceva: lui adorava il contatto fisico. Amava il semplice
toccarsi. Lo desiderava anche più del brivido del sesso. Colse
quell’opportunità per appoggiare la tempia contro la spalla dell’uomo,
anche se solo per un attimo e per premere il naso sulla pelle calda della
sua gola.

Julian lo avvolse nelle proprie braccia e lo baciò impulsivamente, con un
lungo sospiro. Cameron si irrigidì e si tirò indietro, pensando a
malincuore che Julian non apprezzasse quel momento rubato per le
coccole.

“Cosa?”

“Avrei voluto sapere che sarei stato qui per Natale,” rispose l’uomo,
stringendogli le braccia attorno alla vita, per impedirgli di allontanarsi.
“Avrei… portato qualcosa,” concluse incerto.

“Portato qualcosa? Tipo un regalo?” chiese Cameron.

“Sì,” rispose lui con un cenno del capo e le guance arrossate.

Cameron lo fissò a lungo. “Tu sei più che sufficiente come regalo,” disse
alla fine.

Julian sollevò un sopracciglio ironicamente. “Da bambino trovavi il
carbone nella calza, non è vero?” domandò con voce piatta.

Cameron lo colpì nuovamente sul petto. “Mi hai appena raccontato di
come ti saresti messo in imbarazzo di fronte a un intero ristorante pur di
portarmi a casa con te, pensi che saresti potuto venire con un regalo più
bello di questo?”

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“Che ci posso fare io, se i tuoi standard sono incredibilmente bassi,”
scherzò Julian, attirandolo più vicino e intrappolandolo tra le braccia, per
proteggere il suo già dolorante petto.

“Vedrai se ottieni qualcosa stanotte!” esclamò Cameron stizzito.

“È una sfida?” chiese l’altro con una scintilla di interesse negli occhi
scuri.

Cameron socchiuse i propri. “Sfida? Hai intenzione di metterti in
ginocchio di nuovo?”

“Se lo devo fare,” sibilò Julian, come se stesse facendo le fusa; poi lo
baciò gentilmente dietro all’orecchio, tenendolo per la vita come se
stessero ballando un lento.

“E la sfida sarebbe resisterti?” chiese Cameron, sospirando lievemente
quando l’altro gli strofinò il naso sulla pelle morbida.

Julian mugolò in assenso, mordicchiandogli il collo.

Cameron gemette, piegando la testa all’indietro. “Per quanto tempo?”
chiese con voce roca. I suoi jeans stavano già tirando davanti,
dannazione.

“Sei tu che hai detto stanotte,” gli ricordò l’uomo, borbottando, mentre
gli infilava le mani sotto la camicia.

Cameron gemette sommessamente: “Davvero?”

Julian alzò la testa e annusò l’aria di proposito. “C’è odore di cena
pronta,” annunciò con un sorriso malizioso, sciogliendosi dall’abbraccio.

Cameron grugnì e lo tirò a sé. “Un altro bacio,” chiese con prepotenza. Il
sorriso di Julian fu soffocato dall’unione delle loro labbra. “Va bene,”
disse poi a malincuore, lasciandolo andare. “Cena.” Poi con uno sguardo
astuto aggiunse: “Non ti voglio debole e affamato quando andiamo a
letto.”

“Mi sembra giusto.” Julian sorrise allegramente, sfregandosi le mani,
impaziente.

Cameron scosse lentamente la testa. “Tu mi stupisci, lo sai, vero? A volte
non so cosa dire.”

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Julian lo guardò con un’espressione indecifrabile prima di abbassare
leggermente la testa.

Usando le presine, Cameron sollevò con attenzione la teglia delle lasagne
dal piano del forno e l’appoggio su un sottopentola.

Julian si morse il labbro inferiore, evitando per una volta il contatto
visivo e aggrottò le sopracciglia pensieroso. “Suppongo che sia difficile
trovare un terreno comune con un uomo che non si conosce,” offrì in
spiegazione.

Cameron annuì lentamente. “C’è… c’è qualcos’altro oltre il fatto che ti
piaceva guardarmi?

Julian alzò la testa per incontrare i suoi occhi. “In un primo momento?”
chiese. “No. Eri divertente da guardare,” ammise con un sorriso che
diceva quanto lo fosse ancora.

Cameron si rabbuiò, anche se lui aveva detto qualcosa del genere prima.
“E poi?” lo spronò.

“Non avevi paura di me,” disse lui prontamente.

Il volto di Cameron fu attraversato da un’espressione confusa. “Paura di
te? Perché dovrei avere paura di te?”

Julian si strinse nelle spalle. “Alcune persone ne hanno,” ammise.

Cameron ponderò la questione e inclinò la testa pensando a Julian
vestito tutto di nero, che torreggiava su di lui. E alla pistola. “Credo di
capire quello che vuoi dire,” replicò. “Hai un aspetto che in una qualche
maniera intimidisce. Se ti avessi incontrato da qualche altra parte, forse
avrei avuto la stessa reazione. Sebbene non ci avessi mai pensato
prima; non quando ti ho incontrato al ristorante. Voglio dire, in generale
fa paura uscire con uno sconosciuto e ammettere che non c’è nessuno
che ti aspetta; e poi la pistola, sì, quella è spaventosa. Ma non tu non lo
sei in modo particolare.”

Julian sorrise debolmente e annuì.

Preoccupato, Cameron posò la paletta e appoggiò un gomito sul
bancone, scrutandolo. “Ti ferisce,” si rese conto.

“Cosa?” chiese Julian, passandosi inconsciamente di nuovo la mano sul
petto.

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“La gente che ha paura di te. Forse anche… i tuoi partner hanno avuto
paura di te?” azzardò con cautela Cameron.

Julian incrociò il suo sguardo, con quello che avrebbe potuto essere un
accenno di sorpresa e di tristezza, che però sparì altrettanto
velocemente di come era apparso. “Forse,” ammise in un sussurro.

“C’è stato qualcuno che non avesse paura di te?” domandò Cameron,
intendendo tra gli amanti. Il suo cuore sanguinava per lui.

Julian lo studiò per un lungo istante con uno sguardo indagatore. “Posso
includerti nella risposta?”

Cameron deglutì con forza. “Io sono una persona,” disse.

“Senza dubbio,” affermò Julian, continuando a guardarlo negli occhi.
“Allora, uno,” aggiunse, rispondendo alla domanda.

“Persona?”

“Amante,” lo corresse Julian.

Cameron sbatté le palpebre sorpreso. Aveva pressato Julian per avere
una risposta, ma quello che le sue parole insinuavano lo lasciava
sconcertato. “Sono l’unico a non aver paura di te?”

Julian annuì in silenzio e si strinse nelle spalle. Cameron aggrottò la
fronte in segno di solidarietà. Come si poteva aver paura di un uomo che
si era rivelato così dolce? Poteva darsi che si stesse perdendo qualcosa?
C’era un’altra parte di lui che non aveva ancora visto? Era per via della
pistola che la gente non sapeva andare oltre? Non riusciva crederci.

“Come fai a sopportarlo?” mormorò. “Non hai nessuno?”

Julian scosse il capo in risposta e sorrise. “Qualcuno.”

Cameron si rilassò un po’. “Bene,” disse, avvicinandosi al frigorifero per
tirare fuori una ciotola di insalata e il condimento necessario. “Tutti
dovrebbero avere qualcuno.”

Julian abbozzò un sorriso e sollevò le spalle imbarazzato.

Cameron aggrottò la fronte. “E cosa mi dici del ristorante?”

“Ci andavo per vedere Blake, non per il cibo,” ammise lui. “E poi la
ragione principale per andarci sei diventato tu. Perché non è che mi

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piaccia molto, quel bastardo irritante. Non più di tanto, perlomeno,”
aggiunse con una risata.

Cameron rimase a bocca aperta. “Non ti piace il cibo? Ma allora perché ci
mangi? Perché semplicemente non ti vedi con Blake e poi vai via?

“Non ho detto che non mi piace,” sottolineò lui. “Solo che…” La voce si
affievolì, si strinse nelle spalle. “Mi piace di più il paesaggio.” Cameron
arrossì leggermente e gli sorrise timidamente. “Cosa ne pensi di cenare
adesso?” gli chiese, mettendo sul bancone la ciotola e il condimento.

“Mi sembra una buona idea,” affermò l’altro.

Cameron si voltò per mettere delle belle fette di lasagne spesse e
gocciolanti di salsa nei piatti di porcellana blu. “Allora, adesso cosa
facciamo?” domandò. Non aveva idea di cosa sarebbe successo tra loro,
da quel momento in poi, oltre al fatto che sarebbero andati a letto.

“Beh. La logica ci dice che forse dovremmo imparare a conoscerci l’un
l’altro,” sottolineò Julian mentre lo guardava lavorare.

Cameron arricciò le labbra. “Sì, quello che dici ha un senso,” commentò.
Gli passò un piatto pieno di lasagne. “Abbiamo già saltato diverse tappe,
siamo finiti dritti al sesso.”

“Almeno ci siamo assicurati di non perdere tempo,” disse impassibile
Julian, spostandosi dietro a Cameron. Lo tirò per un fianco, facendolo
girare, poi, con un passo indietro, aumentò la distanza tra loro e tese la
mano. “Julian Cross,” si presentò con un fremito delle labbra.

Cameron gli strinse la mano con un gesto automatico, soffocando una
risatina. “Cameron Jacobs,” rispose. Le sue labbra erano incurvate in un
sorriso sincero. “Piacere di conoscerla.”

“Oh, no, no,” mormorò Julian a bassa voce, con una mano che stringeva
quella di Cameron e l’altra che gli scivolava lungo il braccio. “Il piacere è
tutto mio glielo assicuro,” disse, strascicando le parole con un sorrisetto.

Cameron rise piano. “Questo è discutibile,” replicò. Guardò le lasagne e
poi di nuovo lui. “Uhm. Le piacerebbe cenare con me? Stasera?” riuscì a
dire; la stranezza di quello che stava chiedendo, e tanto più in quelle
circostanze, lo rendeva ancora più nervoso.

Julian guardò le lasagne e poi Cameron con un sorriso splendente.
“Dipende da cosa c’è per dessert.”

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Cameron inarcò un sopracciglio, stupito. “Pensavo che non ti piacessero i
dolci. Da quanto mi ricordo, l’hai ordinato solo una volta.

“Ah, ma era uno veramente speciale,” affermò Julian con un ghigno.

CAMERON aprì quella che doveva essere la ventesima bottiglia di
champagne della notte. Erano passate da poco le dieci e la festa nel
ristorante pieno zeppo era in pieno svolgimento. La notte di Capodanno
era sempre incredibilmente impegnativa e lui non si era fermato un
attimo sin da prima di mezzogiorno. Cameron si liberò dal tavolo numero
dodici, che stava servendo, per dirigersi verso la zona di servizio, visto
che i clienti degli altri suoi tavoli erano tranquillamente presi dai
festeggiamenti.

Miri sbatté il vassoio accanto a lui. “Cavoli, sono stanca. Per Capodanno
sembra di essere in un manicomio qui dentro,” mormorò.

“Un manicomio che offre ottime mance,” gli ricordò Cameron con aria
assente mentre registrava gli incassi.

“Beh, sì,” ammise lei divertita. “Ne ho raccolte più stasera che in un
mese intero. E tu che hai lavorato tutto il giorno, pur non avendone
bisogno? Presto potrai andare in pensione.”

Cameron si strinse nelle spalle. “Cos’altro potevo fare? Starmene a casa
da solo a guardare cadere la sfera in Times Square? Preferisco essere qui
con te, bellissima.” Si chinò e la baciò sulla guancia.

Miri gli tirò uno scappellotto, scherzosamente. “Torna al lavoro, Romeo.”

Cameron annuì quando lei si allontanò e premette il pulsante per
controllare l’ordine successivo, facendo un bel respiro e lanciando
un’occhiata al piccolo orologio. Le dieci e ventiquattro. Di un martedì
sera.

Da quando Julian aveva lasciato il suo appartamento, la mattina del
giorno dopo Natale, non aveva sentito più nulla da parte dell’uomo. Non
aveva un numero di telefono da chiamare. E quella avrebbe dovuto
essere la notte in cui lui veniva al ristorante, ma non si era ancora visto.
Era molto più tardi della sua ora solita e Cameron si stava inventando un
sacco di scuse per evitare di deprimersi. Era l’ultimo dell’anno, dopo
tutto. Il ristorante era stato tutto prenotato con settimane d’anticipo e

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anche un cliente abituale come lui non poteva entrare come se niente
fosse. O forse aveva dei piani precedenti per la serata e non aveva
potuto cambiarli.

Forse doveva lavorare.

Cameron chiuse un attimo gli occhi e sospirò. Julian non gli aveva
chiesto il suo numero di telefono per rimanere in contatto, e tanto meno
gli aveva offerto il proprio. Se ne era semplicemente andato via la
mattina successiva con un bacio d’addio. Una cosa del genere non
prevedeva niente di buono per un futuro insieme.

Cameron fu sollevato quando sentì il suono morbido della campanella
che segnalava che un ordine era pronto, almeno sarebbe potuto tornare
al lavoro e avrebbe smesso di pensarci. Stava servendo degli antipasti
nel salone delle feste da almeno quindici minuti, quando alzando lo
sguardo si ritrovò a fissare dritto Julian. Gli occhi dell’uomo erano su di
lui e, quando Cameron lo guardò, sorrise leggermente.

Cameron sbatté le palpebre diverse volte, poi gli restituì il sorriso tutto
felice. Si avviò verso la zona di servizio, tentato per tutto il tempo di
girarsi a guardare sopra la spalla. Quando arrivò lì, Miri lo stava
aspettando a braccia conserte e con un sorriso dipinto sul viso.

“Scambio di tavoli,” esclamò. Cameron arrossì, lei rise con leggerezza e
gli diede una pacca sulla spalla, consegnandogli il memo dei suoi tavoli.
“Buon Anno.” Poi uscì dalla porta, per andare nel salone delle feste.

Cameron guardò il promemoria, scuotendo la testa e sorridendo. Prese
una bottiglia di vino, un bicchiere e si diresse a salutare Julian.

Julian stava esaminando il suo taccuino ma, quando Cameron si avvicinò,
sollevò gli occhi e gli sorrise con discrezione. Il giovane si era aspettato
di essere nervoso rivedendolo, invece non lo era; non proprio almeno.
Posò il calice da vino cercando di non sorridere. “Buona sera,” lo salutò,
con gli occhi scintillanti e un dolce sorriso che gli incurvava le labbra.

“Buon Anno,” gli sussurrò Julian.

“Non ancora,” rispose Cameron, tirando fuori il cavatappi dalla tasca dei
pantaloni. “Manca ancora quasi un’ora.” Fece entrare la punta nel tappo.
“Ma se ordini tutte le portate, sarai ancora qui a mezzanotte.”

“Contavo su questo,” disse a bassa voce Julian, fissandolo.

Fu solo dopo diversi lunghi secondi che Cameron si accorse che se ne

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stava lì in piedi, con le mani sulla bottiglia di vino, a guardare Julian. Si
riscosse con le guance in fiamme e stappò la bottiglia. “Meno male che
sei seduto con le spalle al muro,” mormorò. Nessuno poteva vedere la
sua espressione imbambolata ad eccezione di Julian.

L’uomo si guardò intorno. “Ti piace vedermi con le spalle al muro?”
domandò in maniera suggestiva.

Cameron diventò paonazzo, rispondendo con un mormorio confuso,
mentre flash della sera di Natale gli ritornarono alla mente. Tutto quel
vino lo aveva certamente reso più avventuroso del solito e Julian se ne
era largamente approfittato.

“Lo prenderò come un ‘sì, grazie, ne vorrei ancora’,” replicò Julian con
voce strascicata e un sorriso a stento trattenuto.

Prendendo in mano il bicchiere di vino, Cameron si morse il labbro,
sorridendo mestamente mentre lo riempiva. “Tu sei un po’ come questo
vino,” gli disse infine, mettendogli davanti il bicchiere mezzo pieno.

“Come, non ancora ubriaco?” gli chiese lui, giocherellando con il
taccuino.

Cameron scosse la testa mettendosi in tasca il cavatappi e incrociò
deliberatamente i suoi occhi. “Inebriante,” spiegò senza fiato. Aspettò
qualche secondo e poi scappò dentro la zona di servizio per prendere la
brocca d’acqua e un cestino del pane.

Quando vi giunse, le sue guance erano ancora in fiamme. Dopo aver
piazzato il cestino e la brocca su un piccolo vassoio, respirò a pieni
polmoni per calmarsi e poi tornò indietro. Solo il Signore poteva sapere
cosa avrebbe detto lui a quel punto o come avrebbe reagito. Julian aveva
ragione: la sua presenza al lavoro lo poteva facilmente disturbare, anche
solo per il fatto di essere lì. Si fermò di fronte al tavolo, aspettando una
sua mossa.

Julian finì di scrivere e mise giù la penna, guardandolo intenzionalmente
negli occhi.

“Sei pronto per ordinare?” domandò Cameron, mettendo il cestino sul
tavolo.

“Tra quanto stacchi?” gli bisbigliò lui.

Cameron si strinse nelle spalle. “Il ristorante sta aperto fino a quando
non c’è più nessuno. Io sono arrivato stamattina intorno alle dieci per

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preparare i tavoli e di solito mi trattengo per dare una mano a pulire. Ma
adesso sei tu il mio unico tavolo da servire.”

“Così,” buttò lì Julian, pensieroso, “se io chiedessi di incartare la mia
cena e pagassi il conto, tu saresti libero di andare?”

Cameron lo guardò sorpreso cercando di mantenere la calma. “Ah, sì,
credo di sì,” disse, iniziando a sorridere. “Ma non hai ancora ordinato, ad
eccezione del vino.”

Le labbra di Julian si piegarono lentamente in un sorriso sghembo e
contribuirono a dare al suo viso, normalmente serio, un’espressione
maliziosa.“Il conto, per favore,” chiese.

“Sì, signore,” replicò Cameron, allontanandosi dal tavolo per fare quello
che Julian aveva proposto.

Tornò indietro dopo quindici minuti, con il cappotto su un braccio e un
grande e pesante sacchetto di carta con i manici nella mano. Non aveva
nessun conto. “Pronto per andare?” domandò.

Julian si alzò con eleganza, abbottonandosi la giacca. Prese il cappotto e
la sciarpa, drappeggiandoli sul braccio. “Pronto,” mormorò con un
sorriso.

Cameron gli fece strada verso l’ingresso, dove posò il grosso sacchetto di
carta quanto bastava per infilarsi il cappotto e la sciarpa, prima di
prendere l’ascensore e uscire nella strada ghiacciata. C’erano state solo
delle spruzzate durante la serata, ma la neve ricopriva ancora i
marciapiedi e il respiro di Cameron usciva gelato in nuvolette bianche.
Girò il mento per guardare Julian, domandandosi cosa sarebbe successo
a quel punto.

“Un fine settimana indaffarato,” disse Julian vagamente. Cameron era
incerto se fosse una domanda o un’affermazione.

Annuendo lentamente, Cameron lo guardò mentre camminavano. Dopo
un minuto di silenzio, disse: “Ti ho pensato.”

“Davvero?” strascicò Julian con un sorriso compiaciuto, le mani affondate
nelle tasche del pesante cappotto e la testa abbassata, apparentemente
intento a guardare i suoi stessi passi.

Cameron succhiò il labbro inferiore tra i denti, rispondendo solo con un
borbottio.

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“Ti ho pensato anch’io,” ammise apertamente Julian.

Cameron lo guardò con un sorriso felice sul volto. “Davvero?”

“Sicuro,” affermò l’uomo, guardandolo e sorridendo. “Ho qualcosa per
te,” aggiunse, cercando qualcosa nella tasca del suo cappotto.

Fermandosi di fronte a una vetrina natalizia addobbata con luci
multicolori che si riflettevano sul marciapiede ricoperto di neve bianca,
Cameron si accigliò leggermente. “Cos’è? Natale era la scorsa
settimana.”

“Sì. E mi sono sentito in colpa per non averti regalato niente,” gli ricordò
l’altro, infilando una mano in tasca per tirarne fuori una scatolina avvolta
in una carta dorata. La consegnò a Cameron, sorridendo. “Non sentirti
obbligato ad accettarlo, per favore.”

Cameron guardò con stupore il pacchettino. “Vuoi… vuoi che lo apra
adesso?”

“Se ti va,” rispose Julian con un’alzata di spalle.

Cameron guardò di sottecchi la carta dorata per un istante, poi passò il
pesante sacchetto di carta a Julian, così da avere tutte e due le mani
libere. L’uomo lo prese senza una parola, guardandolo attentamente in
viso.

Girando la scatola tra le mani, Cameron azzardò un altro sguardo a
Julian e infilò un dito sotto il bordo inferiore della scatola per scartarla. Si
aprì subito. Julian sorrise, ma sembrava incerto della reazione di
Cameron. Incuriosito dalla sua espressione, il giovane aprì il coperchio e
guardò dentro.

All’interno c’era una medaglia d’oro incisa, con un solo granato al centro,
infilata in una catena così da poterla indossare al collo.

Cameron fissò l’oro luccicante, messo in evidenza da un lampo profondo
e scuro di rosso, e guardò Julian a occhi spalancati. “È come il tuo,”
disse, con le labbra incurvate in un sorriso, quando infilò un dito nella
scatola per toccare il ciondolo. Si ricordò di quando vi aveva passato
sopra le dita, la sensazione del metallo, reso tiepido dal corpo di Julian,
che scivolava sul suo petto quando l’uomo si muoveva contro di lui.

“Era il mio,” gli disse Julian con un sorriso. “È un pezzo unico. Adesso è
tuo, se lo accetti.”

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Sollevando gli occhi per la sorpresa, Cameron cercò sul suo viso indizi sul
significato del dono. Ovviamente Julian non era il tipo che aveva bisogno
di riciclare i doni per risparmiare soldi, quindi la collana doveva avere un
qualche significato particolare. L’accarezzò di nuovo. “È importante per
te?” chiese.

“Ha un significato,” rispose Julian. “Ed è importante perché voglio che
l’abbia tu.”

“Grazie,” disse Cameron solennemente. “Mi piacerebbe metterla, ma
penso che le mie dita siano già congelate,” disse con un brivido. “Credo
che dovrei comprarmi dei guanti.”

“Non essere sciocco; è soltanto il tipico inverno di Chicago,” lo schernì
con sarcasmo Julian, appoggiando a terra il sacchetto. “Perché dovresti
aver bisogno di un paio di guanti quando puoi farti venire dei bei geloni?”
gli chiese di conseguenza, prima di abbozzare un sorriso e tirare fuori la
collana. Sganciò il fermaglio e gli si avvicinò, facendogli scivolare le
braccia intorno al collo, poi lentamente la chiuse, lasciando che il
ciondolo gli cadesse pochi centimetri al di sotto dell’incavo alla base della
gola. Piegò la testa per guardarlo negli occhi. “È chiamata la croce del
guerriero. Il granato e l’oro simboleggiano una divinità romana, Marte,”
spiegò con calma. “Il dio della guerra.”

“Il dio della guerra,” ripeté lentamente Cameron. “Cioè quello di cui avrei
dovuto chiedere a Blake?”

“Proprio lo stesso,” lo rassicurò Julian. “In teoria, dona forza e
protezione.”

Cameron rimase fermo e quando il metallo freddo gli si fermò contro la
pelle, dentro il colletto della camicia, alzò la mano libera per toccarlo.
“Ho bisogno di protezione?” chiese con cautela, senza distogliere lo
sguardo.

Gli occhi di Julian scintillarono brevemente. “Direi di sì, visto che vivi con
quattro bestie selvagge,” concluse, poco prima di baciarlo castamente a
un angolo della bocca.

Incapace di trattenere un sorriso, Cameron sollevò il mento per accettare
il bacio, anche se avrebbe desiderato che fosse durato più a lungo.
“Grazie per il regalo,” mormorò mentre le labbra di Julian erano ancora
vicine.

“Prego, non c’è di che,” rispose Julian in un sussurro, facendo un passo
indietro.

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Dopo alcuni istanti, Cameron si rese conto che erano lì in silenzio, a
fissarsi l’un l’altro nel freddo intenso della strada. “Dai,” disse, facendosi
scivolare la scatola e la carta nella tasca del cappotto. “Non vogliamo che
la cena si raffreddi.”

“No, sarebbe tragico,” mormorò Julian serio.

“Sì, sì. Adesso andiamo.” Cameron lo afferrò per mano e cominciò a
tirarlo lungo il marciapiede, a un’andatura più veloce.

Julian ebbe appena il tempo di afferrare il sacchetto con il cibo che aveva
appoggiato a terra quando Cameron lo strattonò. “C’è una ragione per
cui stiamo spendendo energie inutilmente?” domandò.

“Le riavrai indietro in abbondanza, con tutta la roba che c’è da
mangiare,” promise Cameron quando girarono l’ultimo angolo vicino al
suo appartamento. “E c’è anche il dolce.”

“Ah, sì?” disse Julian con voce strascicata. “Cos’hai preso?”

Cameron si fermò di fronte alla porta del palazzo. “Non è nel sacchetto,”
disse, con una scintilla di eccitazione negli occhi.

Julian lasciò che i suoi occhi scrutassero Cameron dalla testa ai piedi e
viceversa, inarcando un sopracciglio con interesse. “Dimmi,” gli assicurò
concentrato.

Cameron si morse nuovamente il labbro inferiore, mentre le guance gli si
arrossavano, ma non per il freddo. “Vedrai,” disse, usando la chiave
magnetica per aprire il portone ed entrare nell’edificio.

“Sono affascinato,” ammise l’altro con voce divertita. “E mi chiedo se
sarò così eccitato come lo sono adesso.”

Afferrandolo per un braccio e tirandolo dentro, Cameron replicò: “Oh,
penso proprio di sì.”

Julian ringhiò a bassa voce, con uno sguardo leggermente predatorio,
mentre veniva strattonato. Si affrettarono rumorosamente su per le
scale, fermandosi davanti alla porta di Cameron fino a che quest’ultimo
non l’aprì e li fece entrare entrambi. Chiuse la porta in fretta, prima che
la parata di palle di neve potesse sgattaiolare fuori.

“Angioletti,” mormorò Julian, quando i cuccioli arrivarono come fulmini
alla porta. Tirò fuori dalla tasca quattro dolcetti e glieli gettò con un

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semplice movimento del polso. La corsa precipitosa dei cagnolini fu
immediatamente deviata dalla vista dei dolcetti e Cameron si appoggiò
alla porta ridendo.

“Mai incontrato un cane che non potessi distrarre,” mormorò Julian con
un sorriso compiaciuto.

Cameron sorrise e si tolse il cappotto, appendendolo all’attaccapanni
accanto all’entrata. Julian aveva previsto di essere lì, quella sera o a
breve, visto che aveva in tasca quei dolcetti. Quel semplice fatto lo
rassicurò incredibilmente. “Dammi il tuo cappotto così non avremo
bisogno di passarci sopra il rullo adesivo questa volta.

“Mi sono goduto l’ultima esperienza di pulizia con il rullo,” sostenne
Julian, togliendosi il cappotto.

Cameron arricciò il naso, prendendo il cappotto di Julian per appenderlo.
“Ti è piaciuto?”

Julian allungò la mano, lo afferrò per il davanti della camicia e lo avvicinò
sorridendo lentamente. Senza cappotto, Cameron indossava solo dei
pantaloni neri e una camicia nera buttondown, aperta al collo. La parte
superiore della medaglia ne sbucava fuori e brillò leggermente sotto la
luce quando Julian afferrò il tessuto.

“Qualsiasi cosa ti metta in ginocchio davanti a me è un’esperienza
piacevole,” mormorò.

Cameron spalancò gli occhi azzurri, lasciandosi tirare. “Io in ginocchio?”
ripeté, leccandosi il labbro inferiore quando la voce di Julian si incupì.
“Davanti a te?” aggiunse, guardandolo.

“Sì, proprio così,” confermò quello, con un cenno del capo e un suono
basso simile alle fusa. Attirò Cameron più vicino e lo baciò gentilmente.

Alla fine del dolce bacio, Cameron si tirò leggermente indietro per
studiare la sua faccia. “Ti è piaciuto, eh? Di sicuro è piaciuto a me vedere
te in ginocchio.”

“Mentirei se per fare il gentiluomo dicessi che non mi sono piaciute
immensamente entrambe le esperienze,” replicò Julian a bassa voce.

Cameron sospirò dolcemente e, quando l’uomo premette insieme i loro
corpi, appoggiò la fronte contro la sua guancia. “Non voglio un
gentiluomo, preferisco te,” mormorò.

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Julian scoppiò in una risata e girò la testa per baciarlo sulla guancia,
lasciandovi una traccia umida. “Beh, è un sollievo.”

Cameron ridacchiò e si asciugò la guancia con il dorso della mano. “Cosa
ne dici di cenare? Ho lavorato come uno schiavo tutto il giorno,” scherzò
e, facendo un passo indietro, raccolse il sacchetto.

“Mi sembra favoloso,” rispose Julian spudoratamente.

Roteando gli occhi, Cameron fece strada verso la cucina. Iniziò dal
sacchetto, tirando fuori ogni sorta di piccoli contenitori, più uno alto che
conteneva una bottiglia di vino. Julian gli arrivò dietro e lentamente lo
cinse tra le braccia, guardando sopra le sue spalle. Cameron sospirò e si
rilassò, appoggiandosi con la schiena contro il suo petto e assaporandone
la sensazione. “Non mi sento come se ci conoscessimo solo da una
settimana,”confessò.

“È vero,” convenne Julian, con il mento appoggiato sulla sua spalla.

Cameron mugolò soddisfatto, poi incrociò le braccia e, posando le sue
mani sopra a quelle di Julian, chiuse gli occhi per godersi la sensazione di
lui così vicino. “Speravo che venissi al ristorante stanotte.”

“Non me lo sarei mai perso,” gli assicurò l’altro in un sussurro.

Cameron gli accarezzò inconsciamente il dorso della mano. “Ma avresti
potuto,” mormorò. “Hai scelto di tornare.”

Julian chiuse gli occhi, lasciando che le sue labbra scivolassero
lentamente sulla pelle tiepida del collo di Cameron. “Sì,” affermò
sommessamente.

Cameron sospirò a occhi chiusi. “Per… me?”

“Pensavo che avessimo già stabilito che il cibo non è così buono.”

Cameron sorrise e si spostò da un lato, in modo da poter girare la testa e
inclinarsi all’indietro per baciarlo con passione. Julian gli appoggiò una
mano sul viso, mentre lo avvolgeva con l’altro braccio, impedendogli di
girarsi completamente. Il bacio divenne più intenso, febbrile, e Cameron
si ritrovò intrappolato nella stretta dell’uomo.

“Che ne dici di passare direttamente al dolce,” ringhiò Julian alla fine.

Cameron si passò la lingua sul labbro inferiore ancora umido per il bacio.
“Il cliente ha sempre ragione,” convenne, con voce roca.

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“Dannatamente giusto,” mugugnò l’altro e, con il braccio stretto intorno a
Cameron, lo spinse leggermente fino a schiacciarlo contro il bancone.

Con le mani aggrappate al bordo arrotondato, Cameron inarcò la schiena
verso il corpo duro e caldo dietro di sé, mentre con il ventre premeva
contro il piano. “Julian,” sospirò.

L’uomo mugolò qualcosa in risposta e, baciandolo dietro l’orecchio, iniziò
a farsi strada lentamente verso il collo. Con l’altra mano gli allentò il
colletto della camicia, fino a scoprire la catena d’oro e una bella porzione
di pelle da mordicchiare. Le dita di Cameron artigliarono la camicia per
sbottonarla, cosicché Julian potesse aprirgli ancora di più il colletto, e il
giovane gemette di piacere quando sentì il bordo dei denti dell’altro
affondare nella carne tenera. Julian rispose con un ringhio sommesso e
gli si premette contro, facendolo mugolare con respiri spezzati.

Poi l’uomo sorrise e si allontanò lentamente, sollecitandolo gentilmente a
girarsi nelle sue braccia. Cameron lo accontentò e, posandogli le mani sul
petto, le fece scorrere dall’alto verso il basso, mugolando di piacere,
quando le sue dita scivolarono sopra muscoli duri e pelle soffice. Alzò gli
occhi, stordito, mordendosi il labbro inferiore ormai tumido. “Mi piace…
accarezzarti,” mormorò senza riflettere, paonazzo.

“Beh, buon per me,” rispose Julian con un sorriso.

Cameron lo guardò di sottecchi. “Voglio dire… non solo durante il sesso.
A volte mi piace più del sesso. Oppure anche senza sesso,” disse in modo
sconclusionato. Nonostante l’imbarazzo per quello che stava dicendo, era
determinato a finire la spiegazione. Voleva sapere, in quel preciso
momento, se doveva reprimere le sue naturali tendenze, per fare in
modo che Julian continuasse a tornare.

“Lo dici come se fosse un problema per me,” rispose l’uomo, confuso.

“Io… ad alcuni uomini non piace… essere accarezzati. Non è virile,
credo.” Cameron si strinse leggermente nelle spalle.

Julian inarcò un sopracciglio e cominciò a fargli risalire le mani lungo le
braccia. “Pensi che io non sia virile?” lo stuzzicò.

Cameron sgranò gli occhi in preda al panico, mentre la sua mente
cercava una risposta. Julian rise piano e gli posò le mani su entrambi i
lati del viso, sorridendo ampiamente.

Cameron mise il broncio. “Mi stai prendendo in giro.”

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“No, lo giuro,” lo placò l’altro, attirandolo più vicino. Cameron tornò ad
appoggiargli la fronte contro la guancia. “Adesso,” sospirò soddisfatto
Julian, “parlami del dessert.”

Cameron ridacchiò. “Stavo parlando di me,” ammise.

“Lo so,” mormorò Julian. Poi lo allontanò da sé e, tenendolo per le spalle,
inclinò la testa di lato per studiarlo dall’alto in basso. “Andiamo,”
annunciò infine, appoggiandogli un braccio sulle spalle e stringendoselo
addosso. Lo trascinò fuori dalla cucina e nel soggiorno, evitando per poco
il mucchio bianco ai loro piedi.

Cameron scoppiò a ridere e gli si aggrappò. “Ma io ho fame!” protestò. “È
dalle tre che non mangio!”

“Dovresti imparare a organizzarti meglio,” lo rimproverò Julian, che però
smise di tirarlo e lo lasciò andare con una smorfia.

“Ehm ehm. Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato? Hai lavorato
oggi, vero?”

“Forse,” rispose Julian con cautela, stringendo le labbra e inclinando la
testa pensieroso. “Ho mangiato qualcosa a pranzo.”

Cameron incrociò le braccia. “Te l’avevo detto che avevi bisogno di
qualcuno che si prendesse cura di te.”

“Avevi ragione,” ammise l’altro di buon grado, a capo chino.

“Ricordatelo. Non succede spesso,” lo riprese Cameron. Si mise in punta
di piedi per baciarlo sulla fronte, domandandosi ancora una volta che
lavoro facesse esattamente. Sospettava che avesse a che fare con la
polizia oppure con il lavoro dell’investigatore privato, ma Julian non
poteva dirglielo o non voleva spaventarlo. Cameron apprezzava
entrambe le motivazioni, ma non placavano la sua curiosità, o la sua
preoccupazione. A quel punto, almeno, era piuttosto sicuro che Julian
non fosse un gigolò o qualcosa di più sinistro.

Cameron indicò la camera da letto. “Accendi il fuoco e metti le coperte
sul pavimento. Faremo un picnic raffinato, che ne pensi?”

“Non vuoi vedere cadere la sfera?” chiese Julian, con uno sguardo
interrogativo.

Sorpreso, Cameron guardò l’orologio sulla scrivania. Mancava un minuto

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a mezzanotte. “L’avevo dimenticato,” disse. “Ma preferirei guardare te,”
ammise con franchezza. A Julian non sembrava dispiacere che lui fosse
così schietto e sfrontato. Anzi sembrava apprezzarlo.

“Preferiresti guardare cadere me?” lo stuzzicò, allungando la mano per
afferrargli di nuovo la camicia.

“È uno splendido spettacolo, vederti in ginocchio,” disse Cameron, con
voce roca.

“Mi affascini,” ammise Julian a bassa voce, rimanendogli di fronte.

“Io affascino te?” chiese incredulo Cameron. “Pensavo fosse il contrario.”
Aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma l’orologio che teneva sulla
mensola del camino accanto al letto iniziò a battere l’ora. “È
mezzanotte,” dichiarò inutilmente.

Julian guardò verso la stanza da letto e poi nuovamente Cameron senza
dire una parola, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro. Passarono alcuni
secondi scanditi dai rintocchi dell’orologio, poi l’uomo gli si avvicinò
sinuosamente, intanto che l’orologio batteva la mezzanotte, facendogli
scivolare le braccia attorno alla vita. “Buon Anno,” gli offrì quietamente.

“Felice Anno Nuovo,” rispose Cameron, cingendogli il collo con le braccia
e premendo di nuovo la bocca sulla sua.

Julian gli restituì il bacio, mantenendolo leggero. “Mi hanno sempre detto
che quello che fai il primo dell’anno, lo fai per tutto l’anno,” sussurrò,
quando si separarono.

Cameron lo guardò. Domandandosi, di nuovo, se tutto quello fosse o no
solo un sogno, perché fino a quel momento sembrava un sogno
diventato realtà. “Quindi, come hai intenzione di passare il tempo oggi?”
gli chiese esitante.”

Il viso di Julian fu illuminato da un sorriso. Lo faceva sembrare di cinque
anni più giovane e molto meno compassato. “A letto,” rispose
maliziosamente.

Cameron non poté fare a meno di sorridere. “Hai ventitré ore e
cinquantanove minuti.”

“Hai davvero un così disperato bisogno di mangiare?” grugnì Julian.

“Mangerò domattina,” affermò Cameron. “Forse mi puoi preparare la
colazione.”

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“Oh, amore, non credo che ti convenga farmi cucinare!” si mise a ridere
Julian. “Metti da parte la cena,” aggiunse, con un tono più serio. “La
mangeremo dopo il dessert.”

Cameron arrossì nell’udire quel termine affettuoso; il suo corpo reagì
nella stessa maniera al pensiero di quello che stava per succedere.
“Okay. Arrivo subito.” Si mosse verso il bancone, iniziando a rimettere
nuovamente i contenitori nella borsa, ben consapevole che Julian si era
fermato a osservarlo per un lungo istante, prima di voltarsi e tornare
verso la camera da letto.

Dopo aver riempito il sacchetto e averlo sistemato nel frigorifero,
Cameron raccolse i cuccioli, li coccolò un po’ e poi li mise nel box con
alcuni giocattoli. Quando alla fine si voltò verso la camera da letto, il
cuore gli martellava nel petto. Sapeva che non avrebbe dovuto essere
nervoso dopo le due notti che avevano trascorso insieme la settimana
precedente, ma non poteva fare a meno di sentirsi emozionato per quello
che l’uomo gli provocava. Anche se, a dire il vero, non avrebbe voluto
essere così agitato.

Per tutto l’anno, aveva detto Julian. Cameron camminò fino ai pannelli
divisori, fermandosi a guardarlo combattere con le coperte del letto e
chiedendosi come sarebbe andata a finire. Non era sicuro di credere in
un lieto fine, non importava quanto Julian fosse simile a un principe. Si
immaginava che, alla fine, qualsiasi cosa fosse accaduta, si sarebbe
ritrovato con il cuore spezzato. Ma guardando l’uomo di fronte a sé, il
suo uomo, sapeva anche che ne sarebbe valsa la pena.

Mentre Cameron continuava a osservarlo, Julian sembrò percepire la sua
presenza e si voltò a guardarlo. Per la prima volta, il giovane non arrossì
sotto quello sguardo intenso. “Potrei abituarmi a tutto questo,” mormorò,
mentre si squadravano l’un l’altro.

“Ottimo,” replicò Julian senza mezzi termini, lasciando che i suoi occhi
scorressero sul corpo dell’altro in aperto apprezzamento.

Cameron si raddrizzò la camicia e sentì muovere la catena contro la
pelle. Sollevò una mano a toccare la medaglia d’oro, accarezzandone il
bordo con le dita. Julian osservò la mossa, i suoi occhi scintillarono di un
interesse improvviso e intenso. Con un movimento fulmineo piombò su
di lui e se lo tirò contro il petto.

Cameron rispose con un lieve sospiro e appoggiò una mano su ciascuna
delle sue spalle. Voltò il mento e lo baciò sulla tempia. “Ti piace
vedermela indosso?”

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“Sì,” sussurrò l’altro permettendogli di scivolare giù fino a fargli
appoggiare i piedi sul pavimento. Cameron prese una delle sue mani, la
sollevò e premette le sue lunghe dita sul ciondolo. Gli occhi di Julian
incrociarono i suoi e, mentre la punta delle sue dita indugiava contro il
granato della medaglia, erano cupi e insondabili.

Cameron teneva gli occhi fissi in quelli di Julian, anche se con difficoltà.
Non era un tipo sfrontato, anzi aveva sempre evitato situazioni del
genere: quell’attenzione intensa che Julian aveva nei suoi riguardi. Si era
sempre immaginato di trovare qualcuno tranquillo e alla mano, molto più
simile a sé. Julian invece era un tipo di amante completamente diverso:
intenso, drammatico e altamente imprevedibile.

Gli spostò leggermente la mano, trascinandola dallo sterno alla gola, con
un piccolo sospiro. La stretta di Julian si rafforzò intorno al suo collo, poi
l’uomo si spinse in avanti e lo baciò avidamente.

Ansimando, Cameron si afferrò alle sue spalle per evitare di cadere
all’indietro. Gemette quando le loro labbra si unirono; poteva quasi
sentire il desiderio dell’altro, come fosse una cosa tangibile, una cosa che
lui era in grado di evocare. Fu percorso da un brivido. Tremava in tutto il
corpo. Julian lo spinse indietro con forza, inchiodandolo al muro accanto
alla porta del bagno con il peso del suo corpo e tenendolo per la gola.

Quando Cameron colpì con la schiena contro il muro, lasciò uscire un
grido soffocato. Con gli occhi spalancati, alzò una mano per coprire
quella di Julian sulla sua gola e con l’altra si aggrappò al suo fianco. Ma
poi si rese conto che poteva ancora respirare senza problemi.
Mugolando, spostò i fianchi contro quelli di Julian, cercando di ottenere
un po’ di frizione sebbene fosse malfermo sulle punte dei piedi, preso
nella stretta delle sue braccia. Gli era già venuto duro in previsione
dell’incontro; adesso era eccitato quasi in maniera dolorosa. L’attacco di
Julian aveva acceso in lui un bottone del desiderio che Cameron non
sapeva neanche di possedere.

Julian si allontanò da lui con un ultimo gemito, allentando lentamente le
dita intorno alla sua gola. Respirava affannosamente e lo guardava con
attenzione. “Mi dispiace,” ansimò.

Respirando con voce rotta, Cameron non pensò. Allungò la mano per
fermarlo, bloccandogli il braccio. “Non… non smettere,” gracchiò.

Julian si leccò le labbra, guardandolo incerto. Cameron oscillò tra il
cedere, permettendogli di allontanarsi, oppure chiedergli di continuare
ancora. “Julian. Ti voglio. E se questo fa parte di te,” disse, indicandosi la

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gola. “Allora voglio anche questo. Non mi hai fatto male e di sicuro non
sono così fragile da rompermi!”

Julian abbassò la testa, con una smorfia sofferente. “Non avresti ancora
dovuto vedere questa parte di me,” disse, inspirando a fondo per
calmarsi.

Una cosa era essere protetti e sentirsi accuditi, un’altra vedersi negare
qualcosa senza una spiegazione e dopo che si era espressa la propria
disponibilità ad accettare qualsiasi cosa l’altro volesse fare. Era frustante
essere respinto in quel modo. Cameron grugnì e lo spinse sul petto più
forte che poteva. Julian incespicò all’indietro, guardandolo con
un’espressione leggermente ferita.

“Non guardarmi così,” si lamentò Cameron. “Che cosa vuoi dire con
ancora? Mi rendo conto che tu sei un uomo molto riservato. Non dici
molto agli altri di te stesso. Ma come fai a sapere che non sei
esattamente quello che io voglio?”

Julian lo fissò, ammutolito.

Cameron inclinò la testa, sempre più arrabbiato dato che l’altro non
rispondeva. “Julian?” chiese con un tono sofferente.

“Non voglio farti del male,” rispose quello.

“Non lo faresti mai,” disse Cameron con fermezza. “Non di proposito.
Oppure siamo tornati al fatto che tu pensi che non dovrei fidarmi di te?”
Si accarezzò inconsciamente la gola. Sentiva ancora la sua mano lì.
Voleva rivivere quell’esperienza: voleva sentirsi dominato, sapere che
Julian lo desiderava disperatamente.

Uno sguardo ferito balenò nuovamente negli occhi di Julian. Cameron
trasalì, abbassando i propri, incapace di mantenere più a lungo il
contatto visivo. Ci aveva provato. Sospirò, allontanandosi dal muro.

La mano di Julian scattò, afferrandolo prima che potesse muoversi. “No,”
sussurrò. Cameron deglutì, smettendo di muoversi, ma non sollevò lo
sguardo. “Non voglio spaventarti,” gli disse l’uomo con calma.

Costringendosi a guardare in alto, Cameron annuì lentamente. “Ho
capito,” disse. “Ma io non ero spaventato.”

“Non ancora,” disse Julian pacato, senza distogliere lo sguardo. “Mi
dispiace,” gli offrì in riparazione.

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Cameron sospirò. Lo aveva preso in contropiede ancora una volta. Si
strinse le braccia al petto. “Anche a me,” disse. “Non avrei dovuto
spingere.”

“Va bene, spingere,” disse Julian a bassa voce. Poi le sue labbra si
curvarono in un sorriso, dandogli una spinta sulla spalla.

Cameron si dimenò e, quando sbatté di nuovo con la schiena contro il
muro, sollevò lo sguardo, sorpreso di vedere una luce maliziosa negli
occhi scuri dell’uomo. “Tu faresti perdere la pazienza anche a un santo,
lo sai, vero?” sbottò infastidito.

“Ma ne vale la pena,” disse Julian con voce roca, avvicinandosi e
premendosi contro di lui, gentilmente questa volta. “Grazie per avermi
permesso di tornare da te,” gli sussurrò nell’orecchio.

Cameron aprì bocca per contraccambiare nello stesso modo, ma si rese
conto di averlo già fatto diverse volte. Così, invece di parlare annuì,
incrociando il suo sguardo, fino a che l’altro non si allontanò
leggermente.

“Gradisce il dessert, signore?” gli chiese Julian, tendendo la mano per
accompagnarlo verso il letto.

Quando Cameron fece scivolare la propria mano in quella di lui, sapeva
che era solo l’inizio di quella che sarebbe stata sicuramente una dannata,
folle corsa sulle montagne russe.

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Capitolo 4

JULIAN CROSS aprì la pesante porta ed entrò nel bagno degli uomini del
piano semi-interrato del Field Museum of Natural History di Chicago.
Rimase immobile, guardandosi intorno nello spazio apparentemente
deserto, mentre la porta si richiudeva dietro di lui con un leggero
scricchiolio e un grosso sbuffo d’aria.

L’ambiente era rischiarato dalle luci di emergenza che entravano in
funzione durante la notte, quando il museo era chiuso. Una di esse
tremolava di tanto in tanto. Un rubinetto gocciolava da qualche parte alla
sua destra. Un WC perdeva in uno dei gabinetti a sinistra, all’estremità
della stanza. La grata del sistema di aereazione del soffitto tintinnava
come se fosse stata mossa di recente. E una pattumiera di grandi
dimensioni giaceva su un fianco, con la spazzatura sparsa per tutto il
pavimento.

Era quello il suono che Julian aveva sentito: lo schianto del cestino in
metallo per terra.

Sollevò gli occhi scuri, socchiudendoli alla vista della grata nel soffitto.
Negli edifici nuovi, le condutture dell’aria condizionata erano larghe solo
quarantasei centimetri, troppo piccole per permettere a un uomo adulto
di infilarsi dentro. Ma nel seminterrato del Field, un museo di quasi
novanta anni, era possibile che la sua preda si fosse arrampicata fin
lassù, strisciando come un idiota lungo i condotti in cerca di una via
d’uscita.

Abbassò lo guardo ancora una volta sugli stalli dall’altro lato della stanza.
C’erano veramente poche possibilità di fuga in un posto come quello e lui
sapeva che l’uomo che inseguiva non era esattamente il tipo in grado di
far fronte a qualsiasi situazione. Il semplice fatto che si fosse infilato nel
bagno, piuttosto che tentare la fuga attraverso le scale d’emergenza
oppure per le finestre del McDonald’s sul lato opposto del museo, ne era
la prova. Probabilmente aveva cercato di usare il cestino per salire fino
alla grata del condotto di aereazione, ma non ci era riuscito ed era
caduto sulle proprie chiappe…

Aveva avuto solo trenta secondi per scappare dal bagno, dopo che Julian
era stato avvisato della sua posizione. Sapeva che lo avrebbe visto o
quantomeno sentito, se avesse tentato la fuga mentre gli si avvicinava.

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Il che significava che era ancora lì. Nascosto.

Julian si mosse lentamente; le costose scarpe producevano un suono
cupo e inquietante quando camminava, riecheggiando sulle mattonelle
del pavimento. Scostò il pesante cappotto da una parte, estrasse la
pistola dalla fondina e avvitò lentamente un silenziatore sulla canna; poi
si mosse lungo la stanza.

Passò davanti al primo stallo, aprì la porta con delicatezza e, tenendo la
pistola vicino al viso con una mano, guardò all’interno. L’angolo della
bocca gli si contrasse, quando lo trovò vuoto. Passò oltre.

Saltò il secondo e terzo stallo, godendosi la consapevolezza che, a ogni
secondo che passava, il suo obiettivo soffriva per la tensione.

Era dolorosamente difficile, sapere che stavi per morire.

Talvolta, bastava la tensione dell’attesa a spingere le persone ad
arrendersi quando alla fine venivano trovate. Quello era sempre il modo
più facile. Quelli che invece non rinunciavano a difendersi finivano con il
lasciarlo ammaccato e ferito.

Si mosse lentamente, raggiungendo il quinto stallo con passo pesante.
Piegò la testa, in attesa, poi sorrise lentamente. Si voltò, spinse la porta
abbastanza forte da romperne la fragile serratura e puntò la pistola col
silenziatore contro l’uomo rannicchiato sopra alla toilette.

“Ciao, Ted,” mormorò con disinvoltura.

“Per favore, non uccidermi!” supplicò l’uomo, con le mani davanti al
volto, girandosi come se Julian fosse una luce troppo forte per i suoi
occhi. “Ho le copie della ricerca! Te le darò tutte, lo giuro! Non puoi
farlo!”

“Hai avuto la tua occasione,” gli disse lui con calma. Premette il grilletto
tre volte, sbattendo gli occhi a malapena, quando la pistola sussultò nella
sua mano per i colpi.

Poi si girò e se ne andò, allontanandosi dai bagni attraverso l’ampio
corridoio vuoto. Di fronte a lui c’era una grande area adibita a caffetteria
per le gite scolastiche e Julian sapeva che dall’altra parte c’erano le scale
che portavano all’ingresso principale. Perché l’uomo non avesse provato
a raggiungerle, era un mistero. La gente faceva cose strane quando
scappava per salvarsi la vita. Facevano anche cose stupide, quando
erano persone stupide, ma quella era solo una sua opinione personale.

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Sapeva anche che, dietro alle vetrate del McDonald’s, sul fondo del
museo, c’era un cortile interno circondato da un muro di mattoni che
sarebbe stato facile da scalare. Si diresse lì, senza fretta. Saltò oltre le
barriere, afferrò un cestino di metallo pesante e ruppe la serratura che
avrebbe dovuto tenere lontana la gente quando il locale era chiuso. Non
era preoccupato delle telecamere: se ne era già occupato prima.

Aprì le porte con un calcio e si diresse verso le vetrate, portandosi
appresso il cestino di metallo. La neve cadeva nell’oscurità, sciogliendosi
non appena toccava il suolo e creando uno scenario pacifico nel cortile di
mattoni al di là delle finestre colorate, ma non tale da ostacolare i suoi
piani. Non poteva permettere che gli investigatori trovassero le sue
tracce nella neve, o la loro assenza, quindi inclinò la testa, arretrò e tirò
il cestino contro la finestra più vicina.

La sirena dell’allarme iniziò a suonare quando il vetro andò in frantumi;
lui girò sui tacchi e tornò di corsa nelle viscere del museo, dirigendosi
verso la vicina tromba delle scale e perdendosi nel labirinto del piano di
sopra che comprendeva le mostre sull’Africa e sui suoi animali esotici.

Girò un angolo, poi un altro e un altro ancora, prima di sentire il
trambusto alle sue spalle. Il rumore proveniva dal piano inferiore, dove
era appena stato, così rallentò, camminando tra le teche di vetro che
custodivano gli animali imbalsamati. Aveva tutto il tempo del mondo, dal
momento che aveva manomesso il sistema di sicurezza del museo in
modo tale che non avrebbe funzionato per un bel po’.

Il corpo sarebbe stato trovato abbastanza presto e sarebbe stata
chiamata la polizia. Il museo sarebbe stato affollato di investigatori e del
personale dell’obitorio quasi come durante le ore di apertura per i turisti.
A quel punto gli sarebbe stato facile usare una delle sue false credenziali
per mescolarsi al trambusto e fuggire. Indugiare nel salone e aspettare il
momento propizio era molto più semplice che scappare come un
criminale attraverso i vicoli oscuri della città.

Si fermò vicino a una teca nella parete in fondo alla mostra. Il respiro e
le pulsazioni erano regolari, mentre svitava il silenziatore dalla pistola e
riponeva entrambi sotto il pesante cappotto. Si tolse anche i guanti neri
e si avvicinò alla teca di vetro, per studiarne i leoni all’interno.

Aveva visto i leoni di Tsavo molte volte durante gli anni vissuti a Chicago,
ma si era sempre sentito costretto a ritornare a visitarli. Erano molto più
piccoli adesso di quando erano vivi: le loro pellicce avevano subito diversi
maltrattamenti durante gli anni precedenti il loro arrivo al museo Field. I
leoni non erano poi così impressionanti se non se ne conosceva la storia.
Erano stati imbalsamati come se fossero dei semplici gatti addomesticati

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che guardavano i passanti con semplice curiosità. Il mangiatore di
uomini di Mfuwe esposto al piano di sotto era molto più impressionante
dal punto di vista fisico.

Ma alcune persone affermavano che gli occhi dei leoni di Tsavo ti
seguivano quando passavi loro davanti. A Julian non era mai successo. A
lui sembravano timidi e sconfitti: imprigionati dentro a una teca di vetro
per l’eternità come punizione per i loro peccati. Ma, al di là di quello,
c’era qualcosa che circondava i leoni di Tsavo: una sensazione che Julian
conosceva fin troppo bene.

Erano semplicemente il male.

Avevano ucciso più di centoquaranta uomini in Africa durante l’ultima
parte del diciannovesimo secolo, e quelli erano solo le vittime che la
British Railway aveva contato. Nessuno sapeva con esattezza quanti
lavoratori indiani e africani privi di documenti avevano perso la vita a
causa di quegli animali. Era troppo grande il numero delle persone uccise
in un lasso di tempo tanto breve, perché fosse solo fame o
rivendicazione del territorio. Julian tendeva a non ascoltare le varie e
diverse teorie scientifiche sul perché quei due leoni maschi fossero
diventati malvagi e, insieme, avessero ucciso tutti quegli uomini. Aveva
la propria teoria.

Semplicemente, godevano nel farlo.

Julian sospirò piano, inclinando la testa, quando anche negli angoli più
remoti del museo la confusione si placò. Secondo i suoi calcoli, in quel
momento, il totale dei suoi omicidi corrispondeva all’incirca a quello dei
due leoni.

CAMERON si chinò, ridendo così forte da riuscire a malapena a reggersi
in piedi. Ogni volta che provava a fermarsi, sbuffava e ricominciava
daccapo. “Dio. Quanto vorrei avere una macchina fotografica!”

“Sta’ zitto,” borbottò Julian, mentre lottava contro i quattro rissosi
cuccioli. Tutte le volte che riusciva a toglierne uno dalla sua lunga sciarpa
morbida, un altro prendeva il suo posto, iniziando a tirarla di nuovo. La
sciarpa era irrimediabilmente avvolta intorno alle zampe di uno dei
cuccioli, che era a testa in giù e lottava per girarsi. Julian era così
evidentemente a disagio con i piccoli animali, che riusciva a stento a
toccarli mentre cercava di districarsi dalla sciarpa che lo stava

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soffocando.

Ridacchiando, alla fine Cameron si trascinò alla porta per aiutarlo. “Non
hai idea di quanto tu sia adorabile con quello sguardo sulla faccia.”

“Sono così piccoli!” insistette Julian in tono frustrato. Ne prese uno come
dimostrazione, tenendolo nel palmo della sua grande mano, con la
codina del cucciolo che gli si dimenava fra le dita. “Come possono essere
così piccoli e così malvagi nello stesso tempo?”

La domanda, espressa così seriamente, fece scoppiare Cameron di nuovo
a ridere. “Sono piccoli, sì, ma sopperiscono alle loro modeste dimensioni
con il carattere, e i Westie non sono malvagi. Sono tenaci.” Si chinò a
liberare Scarlet dalla sciarpa.

“Perché ne hai quattro, a ogni modo?” chiese Julian di malumore,
chinandosi ad appoggiare nuovamente il cucciolo sul pavimento, con
attenzione. “E perché diavolo li attraggo così tanto?”

Cameron gli sfilò la sciarpa dal collo, avvolgendosela intorno alla mano,
prima che un altro cucciolo potesse aggrapparcisi. “Beh, inizialmente ne
volevo due, così che si facessero compagnia,” rispose. “Quando contattai
il venditore, aveva una cucciolata di tre. Non volevo lasciarne uno da
solo. Così ho preso Cobalt, Scarlet e Saffron. Poche settimane più tardi,
un mio amico ha visto Snowflake al canile. Ho pensato che uno in più
non avrebbe fatto molta differenza.” Ridacchiando raccolse Saffron e
Snowflake. “E gli piaci perché sei molto simpatico,” disse con un sorriso,
sporgendosi per rubargli un bacio.

“Affascinante,” borbottò lui, abbassando uno sguardo disgustato sui
cuccioli, salvo poi allungare una mano e accarezzarli a turno sulla testa.

Cameron sorrise con calore. “Grazie,” disse. “Adesso prendiamo Cobalt e
Scarlet e li mettiamo nel box con qualche snack in modo da avere un po’
di pace,” lo stuzzicò.

Julian guardò gli altri due cuccioli. Aggrottò la fronte, si chinò, li prese
con cautela e li portò al box, inginocchiandosi per metterli dentro.
Cameron sapeva che l’uomo temeva di farli cadere se avesse proceduto
in un’altra maniera.

Mordendosi un labbro, il giovane osservò con quanta attenzione l’altro si
muovesse e lo trovò tenero e divertente allo stesso tempo.
“Cresceranno. Adesso sono come dei bambini.”

“Sono malvagi,” proclamò lui in tono definitivo, guardando verso di loro.

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Cameron ridacchiò di nuovo e mise gli altri due cuccioli nel box. “Sì,
stiamo progettando di conquistare il mondo.”

Julian borbottò sottovoce, scrollandosi di dosso il cappotto.

Cameron inarcò un sopracciglio. “Che cosa c’è?”

“Niente,” rispose l’altro gettando il cappotto sulla spalliera del divano e
voltandosi verso di lui con una piccola smorfia.

“Certo. Sicuro che non me ne vuoi parlare? Posso sempre liberarli di
nuovo,” lo canzonò Cameron.

“No, è tutto okay,” disse in fretta Julian.

Cameron si mise a ridere, avvicinandosi con le mani sui fianchi. “Senti,
se trovi i miei cani così insopportabili, potremmo andare da qualche altra
parte.”

Julian inclinò leggermente la testa, mostrando un pizzico di disagio negli
occhi. “Non c’è alcun problema con i cani,” infine rispose.

“Se cambi idea, possiamo sempre uscire,” replicò Cameron, stringendosi
nelle spalle. “Non voglio confinarti qui dentro,” disse, con voce e modi
evidentemente riluttanti.

“Vuoi uscire?” domandò Julian, in tono incerto.

Cameron incrociò i suoi occhi, scuotendo la testa. “Ti voglio tutto per
me,” ammise.

Julian sorrise apertamente, annuendo. “Ottimo,” rispose a bassa voce.

Cameron fece un ultimo passo, cingendogli il collo con le braccia.
“Ottimo,” sussurrò, un attimo prima di tirarlo a sé per un bacio.

Julian fece le fusa, felice, avvolgendo le braccia attorno alla vita del
ragazzo. “Adoro il martedì,” gli sussurrò contro le labbra.

Cameron sorrise. “Anch’io.”

Julian sorrise e gli dette un pizzicotto sul sedere.

“Ahi!” squittì Cameron. “E questo per cos’era?”

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“Perché è divertente,” rispose Julian con entusiasmo.

“Per te, magari!” obiettò Cameron. “Ahi!”

Julian lo sollevò facilmente, in modo che solo la punta dei piedi toccasse
terra, e gli diede un bacio leggero. Cameron rise e gli appoggiò le mani
sulle spalle. “Okay, non so dirti quanto mi piaccia quando mi prendi così.”

“Oh, davvero?” chiese Julian con un sorriso.

Cameron scalciò leggermente e cercò di arrivare al pavimento di legno.
Julian rafforzò la stretta, baciandolo lentamente. Cameron sospirò contro
le sue labbra, aprendo la bocca per invitarlo a un bacio più profondo.

“Devi fare qualcosa, prima che ti porti a letto?” chiese Julian con un tono
sommesso.

“Uhm. Non che non sia veramente interessato, ma prima ho qualcosa per
te,” rispose Cameron teso.

Julian sbatté le palpebre per la sorpresa, ma poi abbozzò un sorriso. “È
meglio che sia una cosa dannatamente importante,” sussurrò
scherzosamente.

Cameron non ricambiò il sorriso; era diventato improvvisamente
nervoso. “Credo che questo me lo dovrai dire tu,” replicò.

Anche il sorriso di Julian si spense, quando vide che la sua battuta non
aveva avuto successo e, annuendo docilmente, lasciò che Cameron
scivolasse giù lentamente.

Mordendosi appena il labbro, una volta che fu saldamente in piedi,
Cameron indietreggiò. “Perché non ti avvii in camera? Ti raggiungo
subito.”

Julian lo guardò con curiosità e annuì di nuovo, muovendosi adagio.

Cameron lo guardò finché non scomparve nel buio dietro i pannelli.
Quindi si avvicinò alla scrivania, aprì un cassetto e ne tirò fuori una
busta. L’aveva preparata durante il fine settimana, chiedendosi se fosse
la cosa giusta da fare. La tenne in mano un attimo, come se lui stesso
dubitasse dell’opportunità di consegnargliela. E se fosse stato avventato,
eccessivo, troppo presto? E se lo avesse spaventato? In fondo era solo
un mese o poco più…

Ma gli aveva già detto che aveva qualcosa da dargli. Ormai non poteva

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più tirarsi indietro.

Dopo qualche attimo di dibattimento interno, Cameron si stancò della
propria indecisione. Girò sui tacchi e attraversò i pannelli divisori della
camera da letto per unirsi a Julian. Si avvicinò al letto, dove questi era
seduto e gli porse la busta. Sebbene non tremasse, aveva paura che la
sua voce si incrinasse, se avesse provato a parlare.

Julian guardò la busta e poi risalì a incrociare i suoi occhi con
espressione interrogativa.

Cameron serrò le labbra per un momento. “È per te,” disse con voce
tremante. “Non…” fece una breve risatina nervosa. “Non sentirti
obbligato ad accettare.”

Julian prese la busta, senza distogliere lo sguardo da lui. Gli sorrise con
affetto e infilò con attenzione un dito sotto il lembo per aprirla. Lanciò
un’altra occhiata a Cameron e poi guardò dentro. Conteneva una chiave
elettronica e la chiave della porta, entrambe infilate su una semplice
catena nera. Julian sbatté le palpebre prima di alzare uno sguardo
sorpreso su Cameron.

“Ti avevo detto ‘quando vuoi’,” gli spiegò Cameron, tralasciando il fatto
che l’uomo pareva già in grado di entrare nel palazzo anche senza la
chiave elettronica. “Dicevo sul serio. Volevo farti sapere che sei il
benvenuto ogni volta che vuoi.”

“Non so cosa dire,” disse candidamente Julian. “Grazie, Cameron.”

“Prego,” rispose questi, guardandolo attentamente.

Julian si alzò e lo prese di nuovo tra le braccia con un sorriso. “Sono
entusiasta,” gli sussurrò.

Cameron sospirò in sollievo e gli appoggiò una mano sulla spalla. “Sono
contento di averti fatto felice.”

“Beh, è martedì,” mormorò Julian con un sorriso, mentre lentamente
danzavano in tondo. “Mi rendi sempre felice il martedì.”

“Tecnicamente, è mercoledì,” lo corresse Cameron.

Julian farfugliò qualcosa. “Guastafeste,” lo accusò a bassa voce.

Il sorriso di Cameron era senza pari. “Sei stato con me tutti i martedì
notte e i mercoledì mattina ultimamente,” sottolineò.

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“È vero,” ammise Julian con un sorriso, mettendolo nuovamente giù.
“Forse potremmo trovare anche un altro giorno per vederci.”

“Sì?” esclamò Cameron speranzoso. Gli avrebbe fatto piacere vederlo più
di una notte la settimana. A volte si era chiesto perché l’uomo non
potesse essere presente più spesso, oltre all’ovvia spiegazione del suo
lavoro. Julian doveva dormire a un certo punto, giusto? Perché non
poteva farlo da lui? Ma Cameron si tenne quelle domande per sé.
Avevano già quasi litigato, una volta, quando aveva cercato di ottenere
spiegazioni e informazioni. Non voleva rischiare che succedesse di nuovo.

“Ti ho visto ogni martedì al ristorante, per mesi,” stava dicendo Julian
mentre rifletteva sulla loro situazione. Guardò Cameron curioso. “La
vigila di Natale, l’ultimo dell’anno… c’è mai un momento in cui non
lavori?”

Cameron gli rispose con un sorriso divertito. “Credo che questa sia una
cosa che abbiamo in comune, o sbaglio?”

Julian si strinse nelle spalle. “Lavori così tanto perché ti piace o per via
dei soldi?”

“Mi piace un sacco il mio lavoro,” ammise lui, infilando le mani in tasca.
“E qualche soldo in più fa sempre comodo; ma ho ereditato
l’appartamento e ho abbastanza soldi da parte per mantenere me e i
miei cani, tanto che potrei stare senza lavorare per un po’ se volessi.
Principalmente lavoro tanto perché non ho altro da fare.”

“Mi piacerebbe vederti di più,” dichiarò Julian, senza mezzi termini.
“Forse potremmo prenderci un altro giorno libero?” chiese. “Così avresti
qualcos’altro da fare.”

Il petto di Cameron si strinse dalla felicità. La gioia per quell’idea gli si
leggeva chiaramente in viso. “Mi piacerebbe molto.”

Julian sorrise ampiamente. “Bene. Ti sarebbe possibile avere un’altra
sera libera?”

“È uno dei miei compiti, preparare i turni,” rispose il giovane.

“Va bene qualsiasi sera, escluso domenica e lunedì,” aggiunse Julian con
un sorrisetto.

“Accidenti,” sbuffò Cameron. “Il ristorante è chiuso il lunedì; questo ci
sarebbe tornato utile,” disse, con un cipiglio.

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“Il ristorante è chiuso il lunedì, perché Blake è occupato in altre faccende
importanti,” rispose Julian vagamente.

“Oh, bene, avremo sempre e comunque le notti del martedì?” domandò
Cameron in tono casuale, sapendo quanto fosse meglio non indagare
oltre in quella stilla di informazione.

“Non me le perderei mai,” rispose lui.

“Che ne dici del venerdì come giorno libero? Per quanto ne so, potresti
anche avere un altro aspetto sotto i raggi del sole,” lo pungolò Cameron.

“In realtà sono biondo,” rispose impassibile l’altro. Poi gli sorrise di
traverso. “Ok, va bene.”

Cameron ridacchiò dello scherzo, piacevolmente rilassato, e lo abbracciò,
attirandolo vicino. “Avevi detto qualcosa sul portarmi a letto?”

“Sì, certo.” Julian lo sollevò e, girandosi, lo scaraventò sul letto senza il
minimo sforzo.

Cameron emise un gridolino sorpreso, mettendosi a ridere mentre
rimbalzava sul materasso, poi sollevò lo sguardo. “Ti piace farlo, vero?”

“Immensamente,” grugnì Julian con un ghigno diabolico, arrampicandosi
a sua volta sul letto.

BLAKE NICHOLS era seduto nel suo ufficio e guardava un piccolo
televisore nell’angolo, mentre tamburellava con la penna contro la
scrivania. Cameron, seduto di fronte a lui, aspettava pazientemente che
il telegiornale finisse prima di parlare.

“Le autorità sono ancora sconcertate per l’uccisione di Theodore Young,”
stava dicendo il conduttore. “Young, un ricercatore presso il museo Field
di Chicago, è stato trovato giovedì notte nel bagno degli uomini nel
seminterrato del museo, dopo che un allarme aveva segnalato
un’intrusione al servizio di sicurezza. L’assassino gli ha sparato tre colpi a
bruciapelo nel petto. Mentre il dipartimento di polizia di Chicago rimane
in silenzio sulle circostanze dell’omicidio, fonti interne parlano
dell’uccisione come dell’opera di un professionista. Il trentottenne pare
che abbia assistito a…”

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Blake si allungò e spense la televisione prima che il conduttore si
dilungasse nelle spiegazioni. “Alcune persone semplicemente non hanno
fortuna, eh?” disse a Cameron, con un sorriso ironico. “Non possono
neanche andare a fare una pisciata senza rimanerci secchi,” mormorò,
giocherellando con delle carte sulla sua scrivania, poi lo guardò ancora.
“Allora, di cosa avevi bisogno?”

Adesso che aveva la sua attenzione, Cameron si spostò in avanti. “Volevi
vedere il confronto sui prezzi del vino? Il fornitore del vino della casa ha
aumentato il prezzo di venti dollari a bottiglia.”

“Già, giusto,” rispose Blake, annuendo. Si appoggiò allo schienale e
intrecciò le dita dietro la testa. “Passa a qualcuno meno caro, vediamo se
bluffa.”

Cameron fece una smorfia. “È meglio non farlo incazzare. Abbiamo un
sacco di clienti abituali che bevono il vino della casa ogni volta che
vengono a cena.”

Blake sorrise lentamente. “Ti riferisci a qualcuno in particolare?” chiese.

Cameron sbatté le palpebre diverse volte. “In particolare?” ripeté. “Uhm.
Beh, credo di sì,” ammise paonazzo. “Ma anche molti altri avventori lo
bevono volentieri.

Blake continuò a sorridere, guardando Cameron e aspettando che si
decidesse a chiedere quello che voleva sapere veramente.

“Blake, io… ho una domanda, ma non… non voglio insistere nel curiosare,
sai, troppo,” farfugliò Cameron.

“Allora ti dirò quando supererai il limite,” lo invitò Blake con un gesto
della mano.

Cameron tirò fuori il coraggio. Arrivato ormai fino a quel punto, poteva
andare oltre e fare la domanda che gli premeva. “Julian mi ha detto che
avrebbe fatto una cosa qui al ristorante – per me – ma che tu non glielo
hai permesso,” disse tutto d’un fiato.

Blake lo fissò assente per un attimo, prima di accigliarsi leggermente.
“Spiegati meglio,” chiese alla fine.

“Ha detto… ha detto che avrebbe voluto mettersi in ginocchio e pregarmi
di andare a casa con lui.” Cameron fece una smorfia quando quelle
parole gli uscirono dalla bocca. Sembravano sciocche in quel preciso

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momento, ma lui faceva fatica ad assorbirle e sperava che l’altro potesse
confermare la sincerità di Julian.

Blake si mise a ridere, coprendosi rapidamente la bocca con la mano.
“Volevi che glielo lasciassi fare?” chiese divertito.

Cameron sgranò gli occhi. “È vero? Lo avrebbe fatto?”

“Beh, l’ha detto,” affermò Blake con un cenno, sogghignando ancora. “Se
poi l’avrebbe fatto veramente, non lo so,” aggiunse. “Ma ho imparato che
è meglio anticipare le sue mosse.”

“L’anticipazione denota aspettative in base ad azioni precedenti,” disse
Cameron debolmente, appoggiandosi allo schienale della sedia, agitato.

Blake continuò a sorridere, senza smettere di guardarlo. “Come siamo
arrivati a questa cosa, Cam?” domandò con una punta di
preoccupazione.

“È solo che sono sorpreso,” ammise Cameron. “Voglio dire, mi ha
veramente sorpreso. Nessuno ha mai…”

“Cameron, fai un passo indietro,” disse Blake con un tono tranquillo. “Fai
finta che io non abbia idea di cosa tu stia parlando, okay? Quand’è che
Julian te lo avrebbe detto? C’è qualcosa di serio tra voi?” chiese
sorpreso.

“Me lo ha detto qualche settimana fa, forse un mese o giù di lì. Ed è una
cosa seria? Non ne sono proprio sicuro,” disse Cameron con la fronte
aggrottata.

Blake strinse le labbra pensieroso. “Lo vedi da più di un mese?” chiese
infine.

Cameron annuì lentamente. “Più o meno,” mormorò.

“Allora dev’essere piuttosto preso da te,” bisbigliò, continuando a
guardare Cameron inquieto.

“Cosa?” chiese Cameron. “È una sorpresa?” Ora si chiedeva quanto i due
fossero realmente amici.

“Onestamente?” esclamò Blake sporgendosi in avanti. “Sì,” lo guardò
come se si fosse reso conto solo in quel momento di ciò che aveva detto
e fece un gesto con la mano, come per scusarsi. “Intendevo dire… non
perché sei tu,” aggiunse in fretta. “Jules semplicemente non è il tipo da

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relazioni a lungo termine, di solito.”

Cameron se ne uscì con un sorriso incerto, mentre le parole di Blake gli
echeggiavano nella testa. Jules? Non riusciva a immaginare che qualcuno
potesse chiamare Julian in quel modo. “Un mese non è esattamente un
periodo lungo,” sostenne debolmente.

“Allora hai ancora molto da imparare su Julian Cross,” lo avvisò Blake con
un sorriso gentile.

“Credimi, lo so,” mormorò lui.

“Vuoi parlarne?” chiese cauto Blake.

“Sì, ma non lo farò,” rispose Cameron, in procinto di alzarsi. “Se vuole
che sappia qualcosa di più, me lo dirà lui.” Almeno lo sperava.

Blake appoggiò il mento sulla mano e inarcò un sopracciglio. Cameron
incrociò le braccia, cercando di non mostrarsi impaziente, ma non gli ci
volle molto per cedere. “Okay, non lo farà. Ma non apprezzerebbe
nemmeno che lo chiedessi a te, invece che a lui.

“Chiedermi cosa?” domandò Blake con disinvoltura.

“Qualsiasi cosa vagamente personale,” replicò Cameron.

“Non ti direi niente che lui non volesse,” gli disse Blake, corrugando la
fronte preoccupato. “Hai paura di lui?” gli chiese.

Cameron immediatamente raddrizzò le spalle. “No, davvero. Me lo ha
chiesto anche lui,” proseguì. “Ma perché me lo hai domandato anche tu?”

“Un sacco di gente ne ha paura,” rispose Blake incautamente.

Cameron lo scrutò con uno sguardo ostinato. Blake lo ricambiò, sorpreso.
“E?” chiese Cameron.

Blake si strinse nelle spalle, gli occhi si mossero oziosamente verso la
televisione silenziosa. “La maggior parte delle persone ne ha,” si
corresse, scrutandolo con attenzione.

Cameron raddrizzò ulteriormente le spalle. “Beh, io no,” affermò.

Blake gli rivolse un ampio sorriso. “Bene. Quindi perché ti disturba il
fatto che volesse rendersi ridicolo in pubblico per te?” chiese con un tono
completamente diverso: divertito.

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“Ma questo è… è pazzesco!” esclamò Cameron. “Non solo è pazzesco, ma
avrebbe messo sia se stesso sia me al centro dell’attenzione. Non voglio
div…” Si fermò da solo, strizzando gli occhi sorpreso.

“Mi dispiace, non ho capito. Non vuoi cosa?” domandò Blake.

Cameron arrossì e ricadde sulla sedia. “Cazzo, mi ha preso di brutto,”
mormorò.

“Già, lo vedo,” rise Blake, d’accordo con lui. Il sorriso svanì e si appoggiò
di nuovo allo schienale della sedia. Portandosi le mani davanti allo
stomaco lo guardò serio. “Prova a prenderla con più calma,” lo avvisò
con un tono diventato grave.

Cameron si immobilizzò. “Hai intenzione di spiegarmi il motivo di
un’affermazione del genere?” gli chiese, incrociando il suo sguardo.

Blake batté il dito contro il dorso della mano. “Mi hai detto che non lo
vuoi sapere,” sottolineò.

Dopo un lungo momento di silenzio, Cameron annuì e si alzò. “Già. È
così.” Si mosse verso la porta.

“Cameron?” lo chiamò Blake con tono sommesso.

Cameron girò il mento a osservarlo da sopra la spalla, fermandosi con la
mano sulla maniglia.

“Ho sentito che ci sono stati dei problemi con la vendemmia di
quest’anno,” gli disse Blake. “Proviamo a tenerci ancora per un po’ il
fornitore del vino della casa.”

L’angolo della bocca di Cameron si alzò in un sorriso. “Buona notte,
Blake.”

“Dormi bene, Cam,” rispose quest’ultimo con un sospiro.

Cameron annuì e uscì nel corridoio chiudendosi la porta alle spalle.
Rimase lì un attimo, poi aprì nuovamente la porta e infilò la testa dentro.
Blake non si era mosso. Era ancora seduto lì, in attesa che Cameron
parlasse.

“Cos’ha a che fare il nome del ristorante con il dio della guerra?” gli
chiese con curiosità.

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Blake sbuffò. “Cercalo su google, Cam,” gli consigliò con un sorrisetto.
“Buona notte.”

Cameron grugnì irritato e chiuse di nuovo la porta. Si lasciò andare con
la testa contro l’uscio e decise che era ora di tornare a casa.

LE SETTIMANE passavano e Julian trascorreva da Cameron tutte le notti
del martedì, dopo la chiusura del ristorante; inoltre si presentava a casa
sua, puntuale come un orologio, ogni venerdì mattina, rimanendovi il più
a lungo possibile. A volte si tratteneva fino al sabato mattina presto.

Adesso, era di nuovo martedì e mancavano due giorni a San Valentino.

Le decorazioni del ristorante erano eleganti come sempre, ma, quella
sera, rose fresche in una miriade di sfumature di rosso, rosa e bianco
riempivano i vasi disposti tutt’intorno sul pavimento e tutte le signore
tornavano a casa con qualche bocciolo profumato. Il menù dei dolci era
stato arricchito perlomeno del triplo delle portate; alcuni violinisti
passeggiavano per le sale, contribuendo con la loro musica a creare
un’atmosfera romantica e il personale riusciva a fatica a mantenere al
fresco le bottiglie di champagne, vista la velocità con cui venivano
stappate. Quella settimana il locale era prenotato ogni giorno fino al
massimo della capacità e c’era anche una lista d’attesa.

Quando Julian entrò, perse per un attimo il suo usuale alone misterioso e
si guardò intorno a occhi spalancati. Non si era aspettato che il ristorante
fosse adornato a quella maniera. Si riprese in fretta, però, e indossò di
nuovo la solita maschera di educata impassibilità.

Keri, abituata a vederlo, lo salutò con un sorriso e lo condusse a uno dei
séparé più tranquilli. L’uomo la seguì in silenzio, allungando con
discrezione una mano per raccogliere una rosa mentre passava vicino a
un vaso da fiori. Quando Keri gli mostrò il suo tavolo, la tirò fuori come
per magia da sotto le falde del cappotto, porgendogliela con un sorriso.

Lei ricambiò e lo ringraziò prima di comunicargli che Miri sarebbe arrivata
da lui al più presto; quindi tolse l’apparecchiatura in più dal tavolo e si
allontanò. Julian la guardò andare via, si alzò per rubare un’altra rosa e
poi si rimise seduto. Non poté fare a meno di essere deluso dal fatto di
non trovarsi nella sezione di Cameron, ma a volte era divertente
osservarlo da lontano. Pensò che, per una sera, poteva anche sopportare
la cameriera ficcanaso. Forse sarebbe stata troppo indaffarata per

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curiosare. Julian si sentiva piuttosto condiscendente in quell’occasione.

Non passò molto prima che Miri apparisse. “Buona sera, signore. Il
solito?” chiese.

“Sì. Grazie,” rispose lui con un cenno del capo. Tirò fuori la rosa e gliela
porse, con un gesto plateale e un piccolo sorriso.

“Oh, grazie,” disse lei, sorridendo più del solito. “Sarò di ritorno al più
presto con il suo vino.” Mentre camminava verso la zona di servizio, fu
trattenuta da Blake, che le impartì degli ordini. Lei rispose annuendo e se
ne andò per la sua strada. Blake, invece, si diresse al tavolo di Julian,
scostò la sedia davanti a lui e ci si lasciò cadere pesantemente.

“Accidenti alle stronzate di San Valentino,” borbottò non appena si fu
seduto.

Julian inarcò un sopracciglio, perplesso. “Asociale,” lo accusò a bassa
voce.

Blake tirò su il naso, indignato. “Il Natale è il genere di festa che
preferisco, ma San Valentino? Sto esaurendo l’immaginazione riguardo a
quali gioielli comprare,” disse a sua discolpa. “E i maledetti violinisti mi
stanno dando l’emicrania,” proseguì di malumore. “Purtroppo, faccio più
soldi in un singolo giorno festivo che nel resto del mese, se non di più.”

“Sì,” mormorò Julian. “Anch’io,” sospirò, distogliendo lo sguardo. Non
riusciva a ricordare l’ultima volta che non aveva lavorato in un giorno
festivo. Le feste rendevano le persone distratte; pensavano che tutti
quanti si prendessero una pausa. E lui provava un pizzico di piacere
perverso nel dimostrare loro che si sbagliavano.

Blake storse il naso e si stravaccò sulla sedia. “Tuttavia, adesso hai un
motivo per farti piacere le feste, non è vero?” mormorò, con gli occhi
scintillanti che smentivano l’espressione contrariata del volto. “Qualcuno
con cui trascorrerle?”

Julian tornò a guardarlo con attenzione e borbottò: “Ho intenzione di
rubartelo,” lo minacciò. Una promessa inattuabile, lo sapeva, anche se ci
aveva scherzato sopra.

Blake ridacchiò. “Probabilmente verrebbe via con te,” ammise.

Un sorriso tremolò sulle labbra di Julian, ma non replicò. “Devo dare
anche a te una rosa?” lo prese in giro.

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“È meglio passare ad altro,” disse Blake, sporgendosi in avanti. “Tipo te,
in ginocchio dentro il mio ristorante, intento a dichiarare la tua
imperitura devozione al mio miglior cameriere.”

Julian fissò il suo amico, allarmato. “Ha parlato, vero?” domandò in tono
sommesso.

“Solo a me,” ammise Blake. “L’hai davvero scosso con questa cosa, sai?
Non sono sicuro che l’abbia presa bene.”

Julian socchiuse gli occhi e distolse lo sguardo. Se l’era chiesto anche lui
in quel momento. Cameron ne era rimasto veramente sorpreso: non
l’aveva presa come la scanzonata battuta che voleva essere.

Blake inclinò la testa da un lato; il leggero tono canzonatorio presente
nei suoi occhi e nella voce si affievolì. Quando parlò di nuovo, la sua voce
era bassa e seria. “Perché gliel’hai detto, Julian? Per portartelo a letto?”

“Mi dovresti conoscere abbastanza da sapere che non lo farei,” lo
rimproverò bruscamente quello, tornando a rivolgergli la sua completa
attenzione.

Blake sollevò un sopracciglio con fare interrogativo. “Non cazzeggiare
con lui se non sei serio, Julian. È troppo un bravo ragazzo per meritarsi
quello che gli succederebbe se tu lo scaricassi e andassi via. Lo sai
quanto potrebbe essere realistica questa possibilità.”

Julian lo guardò con un momentaneo accesso di rabbia, un’emozione che
scomparve quasi immediatamente dai suoi occhi neri. Abbassò con
tristezza lo sguardo sul tavolo. Non poteva essere arrabbiato con Blake
per avergli ricordato quella che era la verità. Sapeva che non poteva
permettersi di avere Cameron nella sua vita senza che questo causasse
problemi, ma…

Julian si adombrò. Aveva perso l’appetito, così come il buon umore.

“Dai, Julian. Non fare quello sguardo da cucciolo bastonato. Sto solo
cercando di aiutare entrambi. Tu puoi fare in modo che funzioni. E il
Signore sa che se qualcuno si merita un po’ di felicità, quello sei tu.
Solo… fai attenzione. Per favore,” lo implorò Blake con voce sommessa.

Julian strinse le labbra con forza e guardò Blake. “Non credo che cenerò
stasera,” mormorò. “Potresti mandarmi Cameron? Vorrei salutarlo prima
di andare via.”

Blake aggrottò la fronte. “Cameron non è qui.”

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Julian non si scompose; si limitò a guardare Blake per un secondo, senza
battere ciglio. “Dov’è?” domandò in tono tranquillo, cercando nella sua
memoria se Cameron avesse accennato a qualcosa di strano, l’ultima
volta che erano stati insieme.

“A casa, suppongo. Ha chiamato per dire che era in malattia,” disse
Blake. “Quando è stata l’ultima volta che l’hai visto? Non lo sapevi che
era malato?”

“Venerdì pomeriggio,” rispose l’altro con voce roca. “Stava bene.” Lo fissò
intensamente e chiese: “Sei sicuro che sia malato?” Le sue pulsazioni
accelerarono, mentre un terrore indicibile gli attanagliava le viscere.

“Ho pensato che forse fosse insieme a te e non volesse farmelo sapere,”
ammise Blake. Vide Miri che si stava avvicinando con la bottiglia di vino.
“Miri, hai sentito Cameron?”

“Non da domenica mattina,” rispose lei, tirando fuori il cavatappi. “Mi ha
chiamata e mi ha lasciato un messaggio in cui mi chiedeva di tenergli i
cani.” Guardò Blake e poi Julian. “Perché?”

“L’hai visto?” insistette Julian. Adesso la sua mente stava iniziando a
evocare possibilità in cui non avrebbe veramente voluto vederlo
coinvolto.

Miri guardò preoccupata Blake, ma rispose a Julian. “No, non era lì
quando sono passata. Ho preso i cani e sono andata via.”

“Era troppo malato per occuparsi dei cani, ma era uscito?” domandò lui a
voce bassa.

“Non sembrava che stesse bene al telefono,” disse Miri con un’alzata di
spalle. “Mi sembrava esausto, con la voce rauca. Mi sono immaginata che
fosse andato dal dottore, oppure in farmacia, insomma qualcosa del
genere. Mi ha lasciato la porta aperta.”

Julian distolse lo sguardo da lei, per fissare la tovaglia di lino. Pensava
freneticamente, cercando di ricordare come stava Cameron il venerdì
precedente e combattendo contro il panico che il tipo di vita che
conduceva gli faceva nascere dentro. Qualcuno era venuto a conoscenza
della loro relazione? Era ferito?

Blake lo guardò intensamente per un momento. “Grazie, Miri. Lo verso
io, il vino,” disse in tono gentile.

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Lei lasciò la bottiglia e se ne andò a un altro tavolo, dopo aver lanciato
un altro sguardo curioso a Julian.

“Pensi che non sia malato?” domandò Blake.

“Penso di dover andare,” rispose l’uomo alzandosi bruscamente, incapace
di stare seduto lì più a lungo.

Blake rimase al suo posto, noncurante, ma lo guardava con una sincera
preoccupazione negli occhi. “Chiamami,” lo sollecitò semplicemente.

Ma Julian si stava già allontanando con calma verso la porta. Teneva la
testa bassa, ma mentre camminava era consapevole di tutto ciò che lo
circondava. Se qualcuno l’avesse seguito, l’avrebbe scoperto subito.
Aspettò di essere fuori dal palazzo prima di lanciarsi in una corsa
sfrenata.

PER quanto fosse in ottima forma, si ritrovò senza fiato quando
raggiunse il palazzo di Cameron. Approfittò di una donna che usciva dal
portone per sfrecciare al suo interno, ma anche correre veloce su per le
scale non lo aiutò a calmarsi e quando si trovò davanti alla porta, stava
combattendo contro un vero attacco di panico. Bussò con tutta la calma
di cui era capace.

Non ci fu risposta.

Julian aspettò l’arco di tre respiri e poi bussò di nuovo, guardando
attentamente su e giù per il corridoio.

Ancora nessuna risposta.

Cercò, nella tasca, una piccola custodia di pelle che portava sempre con
sé. L’aprì in fretta e ne estrasse due piccoli utensili che servivano per
scassinare le serrature, ricordandosi solo dopo che in realtà lui aveva la
chiave. Rimise in tasca i grimaldelli e si mise a cercarla con
un’imprecazione soffocata. Dopo aver armeggiato per un breve attimo,
aprì la porta, spingendola con attenzione; praticamente tremava per la
voglia di gettare la prudenza dalla finestra ed entrare come una furia
all’interno dell’appartamento.

Ma sapeva di dover essere cauto. Tirò fuori la pistola.

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Esaminò con cura l’interno prima di entrare. La sala principale era
illuminata da una sola luce e la cucina era buia. Il salone era ovviamente
vuoto. Era strano camminare in quella casa senza essere assalito da
piccoli, soffici, batuffoli bianchi. E faceva freddo. Molto freddo.

L’ispezione della stanza rivelò che tutte le finestre erano chiuse. Ma non
quella vicino alla scala antincendio della camera da letto. Era aperta di
pochi centimetri e lasciava entrare la gelida aria invernale. Anche il
sangue di Julian gelò nelle vene; si mosse nell’appartamento con ancora
maggiore attenzione, cercando, tra le ombre, inaspettati pericoli prima di
chiudere e bloccare la finestra.

La camera da letto era buia, eccetto un piccolo spicchio di luce
proveniente dalla porta del bagno, nell’angolo. La stanza dietro agli
schermi era fortemente oscurata, con le tendine tirate e il caminetto
spento. I vestiti erano sparsi disordinatamente sul pavimento invece che
in ordine come al solito, il letto era vuoto e con i guanciali e le coperte
sgualciti e buttati in fondo. Tutto quello non faceva parte delle abitudini
dell’ordinato Cameron. Julian si avviò verso la luce, guardandosi
velocemente intorno, mentre si muoveva attraverso la stanza.

“Cameron!” chiamò alla fine, spingendo la porta.

Il suo amante era seduto sul pavimento, accasciato contro il muro, una
guancia bruciante di febbre che premeva contro le piastrelle decorate.
Ogni respiro era un rantolo: inspirava con un fischio ed espirava con un
suono stridulo e aspro. C’erano diversi flaconi di medicinali sulla
mensola, mentre un paio erano rovesciati nel lavandino, insieme a una
bottiglia aperta di sciroppo alla codeina per la tosse e a un cucchiaio
appiccicoso.

“Cristo!” esclamò Julian, lanciandosi verso il giovane e prendendogli il
viso fra le mani. Uno strano miscuglio di emozioni, tra il sollievo per
averlo trovato vivo e l’angoscia per le sue condizioni, lo colpì duramente.
“Cameron?” sussurrò. “Mi senti?” chiese, le sue mani gelate bruciarono
quando gli sfiorò la pelle.

Cameron emise un debole lamento, appoggiandosi d’istinto contro quella
pelle fresca che gli toccava le guance.

“Hai preso tutte queste medicine?” chiese Julian, posando la pistola sul
pavimento e tirando fuori il telefono dalla giacca.

Cameron si sforzò di aprire gli occhi iniettati di sangue, guardandosi
intorno stordito, tratto fuori dal sonno febbricitante dalla voce dell’altro.
“Julian?” La sua voce era straziata e rauca, le parole venivano fuori

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spezzettate. “Sei qui?”

“Ero preoccupato,” rispose quest’ultimo, mentre digitava i numeri sul
telefono. “Ti porto in ospedale,” gli disse poi con fermezza.

“Il dottore ha detto che sono malato,” gracchiò debolmente Cameron,
crollando contro il muro. “Mi ha dato le medicine.”

“Bisognerebbe sparargli, al tuo dottore,” imprecò Julian con rabbia.
Tenendo il telefono all’orecchio, comunicò con tono secco l’indirizzo di
Cameron, prima di chiudere la comunicazione. “Andiamo,” lo esortò,
aiutandolo a mettersi in piedi.

“Dove stiamo andando? Sono stanco,” protestò Cameron inerme. “Non ce
la faccio a respirare.”

“All’ospedale,” mormorò l’altro.

Cameron ondeggiò per un attimo prima di alzarsi. Era parzialmente in
piedi quando fu colto da un terribile attacco di tosse e le gambe gli
cedettero mentre cercava di liberarsi la gola e i polmoni. Julian lo prese
al volo prima che cadesse e lo resse mentre il suo corpo era squassato
dai colpi di tosse. Una volta finito l’attacco, lo sollevò fra le braccia e lo
portò fuori dal bagno.

Sebbene Cameron fosse più esile di lui, non fu comunque facile per
Julian trasportarlo fuori dall’appartamento e giù per le scale. Era sicuro
che solo l’adrenalina lo rendesse possibile. La sentiva scorrere dentro di
sé mentre si muoveva. Benché sarebbe stato più agevole trasportarlo
alla maniera dei pompieri, questo di sicuro avrebbe peggiorato le sue
condizioni e Julian non poteva sopportare di buttarselo sulle spalle in
quel modo.

Quando il forte freddo all’esterno li colpì, Cameron trasalì nelle sue
braccia e cercò di inspirare, gemendo ad alta voce. Il gelo contro la sua
pelle bollente doveva essere doloroso, perché iniziò a tremare
violentemente, e Julian non desiderò altro che tenerlo contro di sé, al
caldo.

Un’elegante Lexus nera si fermò davanti al palazzo proprio nel momento
in cui loro uscivano e Julian vi trasportò Cameron. Un uomo magro, con i
capelli chiari, saltò fuori dalla portiera del conducente e accorse ad
aiutarlo.

“Al più vicino ospedale, Preston,” ordinò Julian pacato, lottando per
sistemare in fretta Cameron sul sedile posteriore. L’autista annuì e si

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affrettò a tornare al volante. Julian chiuse la porta posteriore e attirò a
sé il giovane, appoggiandosi la sua testa in grembo e combattendo per
togliersi il pesante cappotto, così da poterlo usare per coprirlo.

Cameron aprì di nuovo gli occhi vitrei. “Julian?” chiese, come se non si
ricordasse che avevano appena parlato pochi minuti prima. Si
immobilizzò per un paio di secondi. “È martedì?”

“Sì,” rispose gentilmente lui.

“Non ho potuto chiamarti,” gracchiò Cameron, con la testa ciondolante
sul suo grembo. “Non ho il tuo numero.”

Julian mormorò le sue scuse con un sussurro angosciato.

Cameron gli fece scivolare una mano contro il petto, premendo
leggermente poi ripiombò in un dormiveglia agitato.

Julian lo coprì con il suo cappotto, massaggiandogli le spalle, mentre la
macchina sfrecciava attraverso la città a una velocità preoccupante. Ma
lui non vi prestava alcuna attenzione. Preston era un professionista.
L’unica cosa che lo preoccupava era Cameron.

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Capitolo 5

C’ERA silenzio nella stanza d’ospedale, ora che i dottori e le infermiere
avevano smesso di entrare e uscire. Affondato nel letto, Cameron era
pallido: sembrava ancora più piccolo del solito, con gli occhialini
dell’ossigeno nel naso e la flebo nel braccio. Era sedato, imbottito di
medicine fino agli occhi, sia per contrastare l’effetto dei farmaci che gli
aveva prescritto il medico, sia per curare quello da cui era veramente
affetto.

Polmonite, avevano detto i medici e per di più un caso veramente brutto.

Le lastre avevano confermato che i suoi polmoni erano pieni di liquido; le
sue condizioni avevano talmente preoccupato i medici da spingerli a
ricoverarlo d’urgenza e si era persino arrivati a pensare di intubarlo.
Adesso che però Cameron si era stabilizzato, Julian passeggiava inquieto
nella stanza d’ospedale. Il soprabito e la sciarpa gli ondeggiavano alle
spalle come fossero il mantello di un super-eroe, mentre lui faceva
avanti e indietro.

Passarono lunghi minuti prima che un’infermiera entrasse di nuovo a
controllare i segni vitali di Cameron. Si fermò appena oltre la soglia,
sorpresa di vedere lì quell’uomo vestito di nero. “Salve?”

“Come sta?” chiese lui, con una voce appena più alta di un bisbiglio.

L’infermiera gli gettò appena un’occhiata e andò a controllare i parametri
delle macchine collegate a Cameron. “Sta bene,” gli rispose. “Sta
reagendo bene alle terapie e ora riposa tranquillo.” Tornò a guardarlo
leggermente irritata, ma poi vide la sua evidente tensione. “Non c’è
bisogno che rimanga. Le prometto che ci prenderemo cura di lui,” lo
tranquillizzò.

“Non ho niente di più importante da fare,” rispose Julian, senza staccare
gli occhi dal giovane.

L’espressione di lei si addolcì. “Starà più comodo nella poltrona,” lo
invitò. “C’è un bar al piano terra, è aperto giorno e notte. Non si ammali
anche lei,” lo rimproverò dolcemente, uscendo dalla stanza.

Julian avrebbe voluto mormorarle un ringraziamento prima che andasse
via, ma tutta la sua attenzione era rivolta a Cameron. Gli si avvicinò, con

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la bocca asciutta e il petto stretto in una morsa. Il viso del giovane era
ancora pallido e tirato. Anche da addormentato sembrava esausto. Julian
si allungò per toccarlo, ma si fermò prima che le sue dita potessero
sfiorarlo. Non voleva svegliarlo.

Lo esaminò con attenzione, sentendosi male al pensiero di quello che
sarebbe potuto succedere. Si mosse impulsivamente e questa volta
passò delicatamente le dita tra i suoi capelli. Un forte calore si irradiava
ancora da lui, nonostante l’aspetto pallido. Immerso in un sonno
profondo indotto dai farmaci, era totalmente rilassato contro i cuscini.

“Non ti azzardare a farmi ancora un tiro del genere,” gli sussurrò Julian.
Nella sua vita aveva fronteggiato molte cose che la maggior parte delle
persone non avrebbe saputo come gestire, ma neppure lui era immune
al terrore. Aveva scoperto che essere spaventato per qualcuno a cui si
tiene molto era completamente diverso da temere semplicemente per la
propria vita.

Si girò leggermente quando sentì qualcuno entrare nella stanza. “Devo
rimanere nel parcheggio durante la notte, signore?” gli domandò Preston
con lo stesso tono sommesso che di solito usava Julian.

“No,” rispose quest’ultimo scuotendo la testa. “Puoi andare per stanotte,
Preston. Grazie della celerità alla guida.”

“Sì, signore,” mormorò l’uomo, con un cenno del capo. “Si riprenderà?”

Julian si limitò ad annuire e tornò a voltarsi.

Passi smorzati si fermarono davanti alla porta e l’infermiera entrò
nuovamente nella stanza, appena un attimo dopo che Preston ne era
uscito. Guardò Julian con simpatia e si avvicinò per cambiare la flebo.

“Lei è il signor…?”

“Bailey,” rispose Julian pacato, guardandola con attenzione mentre
lavorava. Aveva superato abbastanza volte il sistema di sicurezza
dell’ospedale e infilato un numero sufficiente di sacche di soluzione salina
avvelenate da sapere come si faceva, e scoprì che non riusciva a fidarsi
completamente di nessuno; sicuramente non quando c’erano in gioco la
salute e la sicurezza di Cameron.

“Mr. Bailey, l’orario di visita per i non familiari è terminato alle otto,”
disse lei. “Quindi, d’ora in poi, lei è suo fratello,” lo avvisò.

“Grazie,” le disse Julian con sincerità, guardando Cameron e mordendosi

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preoccupato il labbro inferiore.

“Tornerò a controllarlo ogni due ore. Dovrebbe dormire tranquillo, fino a
domattina.” La donna gli rivolse un altro sorriso e uscì in silenzio così
com’era entrata.

Julian rimase in piedi qualche altro minuto, prima di prendere
delicatamente la mano di Cameron e sprofondare nella poltrona accanto
al suo letto ad aspettare.

La notte passò per la maggior parte indisturbata e, benché i rumori
intorno a loro indicassero che la mattina stava arrivando, la porta chiusa
li tenne fuori fino a quando il sole raggiunse la loro finestra e illuminò la
stanza, cadendo con un raggio proprio sopra la coperta che avvolgeva
Cameron.

Julian era accasciato sulla poltrona accanto al letto; alla fine aveva
ceduto al sonno, addormentandosi appena poco prima dell’alba. Quando
il sole lo colpì, si svegliò e si tirò su, sbattendo le palpebre per
riprendersi dal torpore, mentre si guardava intorno. Quando si rilassò e
guardò in basso, si accorse che Cameron lo stava osservando.

“Ciao,” lo salutò sorpreso Julian.

Cameron aprì la bocca, quel tanto che bastava a inumidirsi il labbro
inferiore con la lingua. La sua replica fu a malapena udibile. “Ciao.”

“Mi hai spaventato,” sussurrò Julian immediatamente, incapace di
pensare a qualcos’altro da dire.

Cameron sgranò leggermente gli occhi. “Mi dispiace,” bisbigliò,
stringendo la coperta con le dita.

Julian si allungò e gli passò le dita tra i capelli. “Torna a dormire,” lo
esortò a bassa voce.

Sbattendo le ciglia, Cameron girò la testa leggermente contro le dita di
Julian. Inspirò molto lentamente: i polmoni erano ancora intasati dal
liquido. “Okay,” riuscì a dire con un filo di voce, prima di cadere
nuovamente in un sonno pesante.

Julian lo guardò silenzioso, concentrato sul ticchettio dei minuti che
passavano: sapeva che presto sarebbe dovuto andare via. Alla fine, si
alzò e si girò, per trovare Preston in piedi sulla soglia, silenzioso.

“L’appuntamento, signore,” gli ricordò l’uomo. Julian annuì.

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Cameron dormiva tranquillamente, per metà sotto un raggio di sole. Era
ancora pallido e molto sofferente, ma qualcosa in lui faceva capire che
era migliorato. Lo guardò un attimo con vivo desiderio, poi scappò via
dalla stanza con Preston alle calcagna.

JULIAN appoggiò la testa contro l’umido muro di mattoni dietro di sé e
chiuse gli occhi. Preston gli era accanto e approfittava dell’attesa per
riempire con calma un caricatore di riserva.

“Sono sicuro che potrebbe rimandare l’appuntamento a domani,
signore,” disse Preston piano, mentre il tintinnio delle cartucce che
entravano nel caricatore riecheggiava nelle prime ore del mattino.

“Sappiamo dove si trova in questo preciso istante,” affermò Julian, senza
aprire gli occhi. “Domani, chissà.”

“Lo sapremo di nuovo nel giro di poco,” sottolineò Preston fiducioso.

Julian aprì gli occhi e girò un po’ la testa per guardare il suo
collaboratore. Gli occhi azzurri come ghiaccio dell’uomo come sempre
non esprimevano emozioni, ma lui lo conosceva abbastanza bene da
vedere un accenno di preoccupazione nella sua espressione.

“Lei è stanco,” osservò Preston, spingendo l’ultima cartuccia nel
caricatore prima di farselo scivolare in tasca. “Potrebbe fare degli errori.”

Julian annuì distrattamente. Stava pensando a Cameron, che giaceva
incosciente in ospedale, invece che al proprio lavoro. E quella era una
cosa a dir poco deleteria.

L’uomo che avevano preso di mira non era diverso da tutti gli altri
bersagli di Julian. Un poco di buono che aveva probabilmente fregato dei
soldi alle persone sbagliate. Li aveva fatti incazzare di brutto. Era
nervoso e paranoico. Aveva così tante guardie del corpo che gli uscivano
anche dal culo. Ogni mattina faceva una strada diversa per andare al
lavoro e la notte la passava alternandosi fra quattro diversi appartamenti
sparsi per la città.

Julian non sapeva di preciso cosa avesse fatto o perché lui dovesse
affrontarlo. Tuttavia, il suo lavoro, quel giorno, non era quello di
ucciderlo. Erano lì per spaventarlo e costringerlo a rinchiudersi ancora di

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più nel suo guscio. Da quel poco che aveva visto di lui, probabilmente
quella strategia gli avrebbe causato un esaurimento nervoso. Ma i
problemi mentali derivanti dal suo operato non erano affar suo. Se
l’uomo finiva tre metri sotto terra oppure in terapia con uno psichiatra,
non lo riguardava, salvo che i suoi ordini non gli indicassero con
precisione che doveva finire lì.

“Signore?” lo spronò gentilmente Preston.

Julian si stropicciò gli occhi stanchi, cercando di cancellare l’immagine
dalla sua mente, così da potersi concentrare sul lavoro. “Conosci il
piano?” chiese con voce roca.

“Sì, signore. Non è molto buono,” osservò con tono neutro Preston.

“Gli spariamo contro qualche colpo per spaventarlo. Ci vuole più abilità
per mancare intenzionalmente un bersaglio, di quanta ce ne voglia per
colpirlo,” gli ricordò lui.

“Se stiamo tentando di apparire dei pivelli, perché semplicemente non gli
lanciamo una bottiglia incendiaria sulla macchina e scappiamo via?”
chiese Preston con voce piatta.

“Perché con la fortuna che mi ritrovo probabilmente lo ucciderei, il
bastardo,” rispose Julian torvo. Controllò la sua arma, un’automatica di
contrabbando, comprata diversi giorni prima da un tipo piuttosto agitato,
nel retro di un furgone rubato. Avevano preso tutte le precauzioni del
caso per farlo apparire come il lavoro di un dilettante. “Pronto?” chiese al
suo compagno.

“Sì, signore, certamente,” rispose Preston, tirandosi sul viso una
maschera nera da sci. “Andiamo a farci sparare.”

CAMERON piegò un angolo della pagina del libro e lo chiuse. Allungò una
mano per prendere il bicchiere di acqua ghiacciata e ne bevve
lentamente un piccolo sorso. Poi lo rimise giù con una smorfia e si lasciò
andare con la testa contro i cuscini sollevati dietro di sé, sorpreso da
quanto anche solo quella semplice azione lo avesse stancato.

Si sentiva meglio, anche se era ancora debole e il torace gli faceva male.
Miri era venuta ad aggiornarlo su cosa succedeva al ristorante e ai suoi
cani. L’aveva colta a squadrarlo divertita un paio di volte, ma senza che

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gli dicesse niente, e lui era troppo stanco per cercare di capirne il motivo.
Gli aveva portato qualche libro e, di nascosto dalle infermiere, una
ciotola di crème brûlé fatta dallo chef pasticciere e aveva promesso
anche di tornare a trovarlo molto presto.

Così aveva dormito e poi dormito ancora un po’. Aveva letto qualche
pagina ed era riuscito anche a mandare giù qualcosa, visto che le
infermiere volevano togliergli le flebo al più presto. Fece una smorfia:
anche solo deglutire gli faceva male. Sospirò e guardò il paesaggio
urbano fuori dalla finestra, con la mente che vagava.

Quando rivolse la propria attenzione alla stanza, la grande ombra di
Julian oscurava la porta. Cameron trattenne il respiro e deglutì cercando
di frenare un colpo di tosse. “Ehi,” riuscì a dire con voce stridula.

“Ciao,” gli rispose l’altro, mentre inclinava la testa in un gesto ormai
familiare e si guardava intorno con circospezione. Aveva un livido su uno
zigomo e gli occhi apparivano stanchi e cupi. Sembrava sfinito. “Come
stai?” chiese.

“Un po’ meglio,” rispose Cameron con quella voce rovinata. Lo scrutò,
osservando i segni sul viso e le ampie spalle afflosciate. “Stai bene?” gli
chiese indicandosi un occhio per evocare quello di Julian.

“Adesso sto meglio,” rispose quest’ultimo pacato, muovendosi
lentamente attraverso la stanza con andatura zoppicante. Per il resto non
diede segno di aver capito il senso della domanda.

Cameron non si mosse, ma si limitò a seguire i suoi movimenti con gli
occhi, corrugando lievemente la fronte. Julian era ferito; era piuttosto
ovvio. “Meglio?” sembrava proprio che non riuscisse a credergli.

“Per il solo fatto di vederti,” chiarì Julian. “Ero preoccupato.”

Cameron piegò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. “Mi dispiace,”
bisbigliò. “Non avevo esattamente intenzione di ammalarmi.”

Julian scosse la testa e, prendendogli la mano, si sedette sul bordo del
letto. “Quando pensi che ti dimetteranno?”

Cameron intrecciò le sue dita con quelle dell’uomo. “Forse tra un paio di
giorni,” disse. “Le infermiere dicono che sto migliorando in fretta.”
Deglutì a fatica e dovette tossire. Era ancora una dolorosa tosse secca.

Julian annuì, scrutando la stanza. “Vedo che hai avuto visitatori,”
osservò.

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Cameron sfiorò con le dita libere il libro. “È venuto Blake stamattina. E
anche Miri.”

“Lei ti ha salvato,” lo informò Julian.

“È stata lei che mi ha portato qui?” domandò il giovane, non ricordandosi
molto dei giorni precedenti

Julian non sapeva cosa dire. “In un certo senso.”

Cameron scosse leggermente la testa. “In un certo senso? L’ha fatto
oppure no. Non mi ricordo bene, mi sembra che qualcuno mi abbia
trasportato in braccio.” Lo guardò meditabondo. “Miri non avrebbe potuto
farlo.”

“No,” Julian gli dette prontamente ragione.

Cameron girò la testa contro il cuscino, in modo da poterlo guardare
meglio. “Tu sì,” sussurrò.

Julian si piegò in avanti, accarezzandogli con il pollice la parte interna del
polso. “Io sì,” confermò.

“L’hai fatto tu. Mi hai portato giù,” disse Cameron, con parole spezzettate
per risparmiarsi la voce. “Oh Dio, Julian. E se cadevi?”

“Avrei chiamato un’ambulanza,” rispose quello con calma. “E avrei pianto
un po’ per il dolore.”

Cameron sospirò cercando di non ridere. I suoi occhi non si
allontanarono dal viso di Julian. “Mio eroe,” gracchiò.

“Al suo servizio,” mormorò quello, abbozzando un sorriso, anche se
mitigato dalla preoccupazione nei suoi occhi mentre fissava le loro dita
intrecciate. Alzò lo sguardo per incrociare quello di Cameron. “Non ero
così terrorizzato da un bel po’ di tempo,” sussurrò, senza vergogna.

A Cameron doleva il petto più per l’emozione che per la malattia, ma non
poteva dirlo. Alzò la mano libera per premerne il palmo contro la sua
guancia. “Sto bene,” disse a bassa voce.

Julian lo guardò e annuì ripetutamente.

Cameron lo osservò, accarezzandogli la guancia. Era contento solo per il
fatto di averlo lì con sé. “Mi sento già meglio.”

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“Dobbiamo parlare,” gli disse Julian all’improvviso.

Cameron si ghiacciò per la tensione, si leccò le labbra riarse e annuì.
“Okay.”

“Avevo paura… avevo paura che fossi stato ferito a causa mia,” gli disse
Julian, con parole misurate.

Cameron si corrucciò, senza tentare di nascondere la confusione. “Cosa
intendi con a causa mia?”

Julian, con un sospiro, interruppe il contatto visivo.

Cameron corrugò la fronte. “Julian?” lo spronò.

“Cosa pensi che faccia per vivere, Cameron?” chiese l’uomo, senza alzare
lo sguardo.

Cameron ci pensò sopra. “Credo il detective o qualcosa di simile. Non lo
so. Un lavoro di ricerca di tipo investigativo.” Si strinse nelle spalle. “A un
certo punto, ho pensato che potessi essere perfino un gigolò,” aggiunse
con una risatina.

Julian lo guardò, sorpreso. “Un cosa?” la sua voce si alzò quasi vicino a
uno squittio.

“Una sera, quando quella donna al ristorante scherzò chiedendomi se
sembrava una prostituta,” ammise Cameron, cercando di non sorridere
della reazione dell’altro. “Non sapevo niente di te e alcune delle cose che
avevi detto…” arrossì e scosse la testa. “Non l’ho pensato seriamente,”
disse, tornando sui propri passi.

Julian lo guardò di sottecchi, rimuginandoci sopra. “Potrebbe essere
un’ottima copertura,” mormorò alla fine tra sé.

Cameron soffocò una risata. “Di sicuro potresti ricavarne qualcosa.”

“Stai zitto,” disse Julian con una risatina.

Sorridendo, Cameron allungò la mano, facendogli scivolare le dita lungo
la guancia. “Chi potrebbe resisterti?”

Julian strinse le labbra e abbassò la testa, in modo che Cameron non
dovesse spostarsi per toccarlo. “Ho a che fare con persone pericolose,”
disse, scoccando un’occhiata alla porta della stanza d’ospedale. “Ho

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avuto paura che qualcuno avesse scoperto della tua esistenza.”

Cameron lo guardò in viso, una cosa che aveva preso a fare per cercare
d’imparare a leggerlo, dato che lui non era esattamente disponibile a
fornire spiegazioni, ancor meno per quanto riguardava le emozioni.
Sentirgli dire qualcosa di così specifico era sconcertante. “E ciò mi
avrebbe messo in pericolo?” domandò goffamente. Non era sicuro di
voler conoscere la risposta.

“Sì,” sussurrò Julian, senza alzare lo sguardo.

Cameron poteva sentire quanto l’altro fosse serio al riguardo. Veramente
molto serio. Si costrinse a deglutire e trasalì per il dolore. “Che genere di
pericolo?”

“Ne esistono di diversi tipi?” domandò Julian.

Cameron si irrigidì. “Suppongo che ci siano quelli in cui puoi rimanere
ferito e quelli in cui finisci morto,” disse con voce tremante.

Julian rimase in silenzio, con la testa abbassata, come se avesse paura di
alzare lo sguardo.

Cameron tirò indietro la mano, osservandolo tremare. “È questo… è
questo tipo di paura ciò con cui hai a che fare ogni giorno?” Si sentiva
male fino alla nausea al pensiero che Julian potesse vivere nel terrore,
giorno dopo giorno.

“Ogni giorno escluso il venerdì,” rispose lui di slancio.

Cameron strinse le labbra; a quel punto era ferito e spaventato più per il
suo uomo che per se stesso. “Julian, per favore guardami.”

Julian fece una smorfia e sollevò lentamente su di lui uno sguardo colmo
di dolore.

Era arduo per Cameron capire il conflitto in quegli occhi neri. Non vi
aveva mai scorto, prima, l’ombra di emozioni. Ma d’altra parte non lo
aveva nemmeno mai visto impaurito, prima di allora. “Ne vale la pena?
Stare con me?”

Julian sussultò di nuovo, scuotendo la testa, incredulo. “Mi stai
chiedendo se ne vale la pena stare con te mettendo a repentaglio la tua
vita?” chiese.

“Hai già preso questa decisione. Non è così?” sottolineò Cameron,

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pacatamente, nonostante il cuore gli battesse furioso nel petto.
“Chiedendomi di fare una passeggiata nella neve la vigilia di Natale.”

Julian si tirò indietro come se fosse stato schiaffeggiato e, stordito, si
appoggiò allo schienale della sedia.

Cameron lo osservò seriamente. “Io non rimpiango quella decisione,”
disse. “Per niente al mondo. Speravo… fosse lo stesso per te.”

“Non posso dire di essermi pentito,” sussurrò Julian, con voce offesa. “Ma
non vorrei mai che ti facessero del male.”

Una situazione senza vincitori, di sicuro. Cameron respirò dolorosamente
e dovette distogliere lo sguardo, sbattendo le palpebre sconvolto e
cercando di inspirare senza tossire. Quando pensò di avere nuovamente
il controllo di sé tornò a parlare: “E adesso?” disse con voce gracchiante.
Non era logico che scegliesse di stare con Julian invece che pensare alla
propria sicurezza, lo sapeva per certo. Però, accidenti alla logica.

“Avrei dovuto dirtelo sin dall’inizio,” gli disse Julian a bassa voce. “Avrei
dovuto farti sapere del pericolo che correvi, mi dispiace di non averlo
fatto. Però, non posso prendere decisioni al posto tuo.”

Cameron avrebbe riso, se avesse avuto abbastanza aria nei polmoni per
farlo. La mente di Julian doveva essere rimasta intrappolata in una
specie di circolo vizioso tentando di ragionare sulla faccenda. “No, non
puoi,” disse infine debolmente, cedendo ai forti colpi di tosse, mentre
l’altro lo guardava impotente. Senza fiato, chiuse gli occhi per lo sforzo.
“Io non lo rimpiango,” sussurrò, aprendo gli occhi lacrimosi per
guardarlo. “Per favore, non voglio rinunciare a te.”

Julian abbassò la testa, per cercare di nascondere il sollievo che
traspariva dal suo sguardo. “No, non lo farai,” gli promise non senza
difficoltà.

Lottando per respirare, Cameron strinse le lenzuola tra le mani. Si
sentiva prossimo a piangere e quella era l’ultima cosa che voleva o di cui
avesse bisogno, così inalò aria, con piccoli singulti per contrastare la
minaccia delle lacrime.

“Ma se ti succede qualcosa?” chiese Julian improvvisamente,
chiaramente ancora incapace di lasciar perdere l’argomento.

Lasciandosi andare a un sospiro tremolante, mentre la paura dell’ignoto
gli stringeva la gola, Cameron si rese conto di non avere risposte. “Non
lo so,” rispose schiettamente. “E se succede qualcosa a te?”

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Julian sbatté le palpebre per la sorpresa. “A me?” replicò.

Cameron sospirò incredulo. “Sì, Julian. E se succedesse qualcosa a te?”

“Non mi succederà mai niente,” lo rassicurò questi con voce sommessa,
sembrava fosse tornato alla sua naturale fiducia in se stesso.

Cameron inarcò un sopracciglio e guardò di proposito, incredulo, le
escoriazioni sulla sua guancia. “Sei stato il primo a chiedere ‘se ti
succedesse qualcosa’.” Sbuffò pesantemente. “Quindi dovrai solo
proteggermi, okay?” concluse, sollevando la mano alla gola nuda dove di
solito pendeva la catena con il ciondolo. Se l’era tolta nei giorni
precedenti, quando aveva applicato sul torace abbondanti quantità di
Vicks e non aveva potuto ancora rimetterla.

Il movimento attirò gli occhi di Julian, che fissò silenziosamente il punto
in cui la croce del guerriero sarebbe dovuta stare. Infine le sue labbra si
contrassero leggermente. “Questo vuol dire che devo proteggere anche i
tuoi cani?” domandò, incrociando i suoi occhi.

Mordendosi il labbro per non ridere, Cameron cercò di guardarlo
convenientemente serio. “Non lo so. Sono terribilmente feroci per conto
proprio.” Non poté impedire che il vivo desiderio che aveva di lui gli si
leggesse negli occhi. Voleva stare con Julian e non gli importava se
correva il rischio di un qualche pericolo indefinito, che avrebbe anche
potuto non avverarsi mai. Aveva trovato qualcuno che voleva. E quel
qualcuno voleva lui. Non vi avrebbe rinunciato, non senza lottare.

Julian si piegò di nuovo in avanti, facendogli scorrere le dita sulla
guancia. Lo fissò per un po’, poi si alzò per baciarlo sulla tempia con
delicatezza. “Devo andare,” disse con rammarico.

Cameron coprì la sua mano con la propria e chiuse gli occhi quando sentì
le sue labbra. “Sarò qui.”

“Abbi cura di te,” gli sussurrò Julian in un orecchio.

Aprendo gli occhi appena in tempo per vederlo uscire dalla porta,
Cameron sospirò tremante. “Tu fai la stessa cosa,” disse alla stanza
ormai vuota.

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“ALLORA cosa abbiamo imparato da questa piccola avventura?” chiese
Julian, mentre apriva il sigillo del pacco del ghiaccio istantaneo e lo
scuoteva con rabbia.

“Che a terra non sempre significa morto, signore,” rispose Preston
ubbidiente.

“E se l’obiettivo indossa un giubbetto antiproiettile?” chiese Julian
irritato, premendo il ghiaccio sulla tempia e chiudendo gli occhi.

“Sparare sempre un colpo alla testa, signore,” sciorinò Preston, cercando
chiaramente di nascondere il fatto che stava sorridendo mentre guidava.

“Sicuramente lo trovi divertente,” scattò Julian. “Non sei tu quello che è
stato attaccato da quel fottuto Lazzaro!”

“Due volte, signore.”

“Due volte!”

“Sicuramente aveva un’impressionate capacità di rialzarsi, signore,”
sottolineò Preston.

“Non pensi che potresti semplicemente averlo mancato le prime due
volte che gli hai sparato?” chiese Julian, premendosi con più forza il
ghiaccio sulla testa.

“Non l’ho mancato, signore,” lo rassicurò Preston, sicuro di sé, mentre
girava nel viale di Blake. “Comunque devo sinceramente scusarmi per
l’insuccesso, signore,” aggiunse, con quanta più sincerità il modo piatto
con cui parlava era in grado di trasmettere. “È il mio lavoro avere a che
fare con ogni dettaglio della sicurezza e…”

“Preston?” lo interruppe stancamente Julian, vedendo Blake in attesa, in
piedi sui gradini di pietra della sua casa.

“Sì, signore?”

“Non hai bisogno di scusarti di nuovo con me,” gli ordinò, accennando un
sorriso.

“Sì, signore. Sono terribilmente dispiaciuto, signore,” continuò Preston
con la faccia seria, uscendo dall’auto parcheggiata nel parco. “Non
accadrà più, signore,” aggiunse, appena prima di chiudere la portiera.

“Che vi siete fatti questa volta?” chiese Blake, dalla porta d’ingresso.

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“Ci stiamo solo assicurando che tu non perda la pratica,” affermò Julian,
andando verso di lui. Si fermò quando iniziò a girargli la testa e cominciò
a vacillare.

Preston gli si accostò immediatamente e, sostenendolo con facilità, lo
aiutò a percorrere il breve tragitto per arrivare alla casa.

“Andiamo allora,” mormorò Blake. “Ho già la valigetta del pronto
soccorso e il Valium pronti.”

“Non ho bisogno del Valium,” gli disse Julian, tenendosi il pacco del
ghiaccio sulla testa.

“Non è per te,” rispose Blake con una smorfia, mentre li conduceva nello
studio dove di solito li ricuciva quando finivano nei guai. Andò diretto alla
credenza e aprì una bottiglia. “Sei il più terribile paziente a memoria
d’uomo. Il Valium è per il tuo medico e per l’infermiera. Preston?” disse,
sfacciatamente.

“Grazie, signore,” rispose questi, cercando di mantenere la faccia seria,
mentre prendeva il bicchiere di whiskey che Blake gli porgeva.

“Vi odio entrambi,” borbottò Julian, coprendosi gli occhi con il pacco del
ghiaccio.

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Capitolo 6

CAMERON era seduto sopra una coperta sul pavimento e sorrideva ai
quattro cuccioli che si gli affannavano attorno alle gambe, ciascuno in
lizza per ottenere la sua attenzione. Si mise a ridere delle loro buffonate:
era un suono caldo e indice di buona salute, anche se ancora un po’
rauco. Era appena arrivato, per gentile concessione di Miri che lo aveva
preso in ospedale e portato a casa insieme ai cani.

“Hai idea del casino che fanno questi piccoli mostri?” chiese Miri, a denti
stretti. “Non ti puoi immaginare la quantità di peli che mi ritrovo sparsi
per l’appartamento.”

“Ti avevo detto che avresti dovuto spazzolarli.” Cameron rise di nuovo,
quando i cuccioli iniziarono a fare le capriole. “Ma ne vale la pena. Ti sei
ricordata i loro nomi?”

Miri sollevò gli occhi. “No, davvero. Chiamavo il giallo No, quello rosso
Cane Cattivo, il bianco Scendi Da Lì e il blu Fermati,” rispose lei divertita,
riferendosi ai colori dei loro piccoli collari.

“Può andare,” disse Cameron, sollevando Saffron e stringendola fra le
braccia.

“Allora. Il pranzo,” disse la ragazza cambiando argomento. “Ho portato
diverse pietanze pronte. Jean-Michel ha detto che se vuoi qualcosa di
particolare, qualsiasi cosa, basta che tu chiami il ristorante e lui te lo
manderà.”

“Vi state tutti prendendo così tanta cura di me,” disse Cameron, mentre
veniva atterrato da sedici piccole zampe. Miri sorrise dal bancone della
cucina, mentre toglieva i contenitori del cibo dalla borsa.

Cameron passò le dita tra il pelo morbido dei cuccioli e si appoggiò al
divano: aveva bisogno di riposarsi. Gli era bastato uscire dall’ospedale
per stancarsi. Si capiva che era molto migliorato, ma il dottore gli aveva
ordinato di rimanere a casa almeno un’altra settimana. Si chiese come
avrebbe passato il tempo, a esclusione del martedì sera e del venerdì.

Quel pensiero gli fece tornare in mente Julian. Ciò che l’uomo aveva
detto in ospedale lo aveva innervosito. Era preoccupato e anche
leggermente spaventato per i misteriosi pericoli cui l’altro aveva

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accennato. Era molto più semplice non pensare a ciò che faceva quando
non erano insieme. Ogni volta che si fermava a riflettere sulla sua
situazione, Cameron diventava teso e preoccupato e si poneva continue
domande, anche se non aveva il coraggio di dichiararlo apertamente. A
volte però non riusciva a impedirsi di rimuginare. E se Julian avesse fatto
qualcosa di illegale? Cameron sapeva per certo che il suo lavoro era
pericoloso, a dispetto delle tante rassicurazioni che non gli sarebbe
successo niente. Ogni volta che lo vedeva ferito, Cameron si spaventava
un po’ di più per lui. E adesso lo era un po’ anche per se stesso. Julian
sembrava essere senza paura, ma se anche lui era arrivato a temere per
l’incolumità di Cameron, come avrebbe potuto quest’ultimo non
allarmarsi?

Lo squillo del telefono lo riscosse da quei pensieri. Il cordless era a
portata di mano, così fece un segno a Miri che avrebbe risposto lui.
“Pronto.”

“Come stai?” lo raggiunse la voce sommessa di Julian.

Gli occhi di Cameron corsero a controllare Miri. Era occupata in cucina
con i pacchetti.

“Sto meglio adesso. Però, me la prendo con calma.” La sua voce si
addolcì mentre parlava. Ne aveva sentito molto la mancanza dall’ultima
visita che Julian gli aveva fatto in ospedale, dove Cameron era finito per
rimanere per quattro giorni. L’uomo non era tornato a trovarlo,
nemmeno il venerdì, e Cameron aveva cercato di non preoccuparsi.

“Bene. Cosa stai facendo adesso?”

“Gioco con i cuccioli, mentre Miri mi prepara il pranzo. Jean-Michel mi ha
mandato i miei piatti preferiti; ho abbastanza cibo da sfamare un
esercito.”

La linea rimase silenziosa per un po’. “Ti tratta bene?”

Cameron era ormai abituato alle lunghe pause dell’uomo, di solito però
ce l’aveva di fronte quando succedeva. Era già abbastanza difficile
decifrare le sue espressioni di persona, al telefono era praticamente
impossibile. Così la pausa e la domanda lo colsero alla sprovvista.

“Sì, è veramente grande,” rispose sinceramente. “Potrei anche quasi
chiederle di farmi il bucato.”

“Bene.” Quella parola poteva avere tanti significati in bocca a Julian,
dipendeva dal tono o dallo sguardo nei suoi occhi. Cameron si rese conto

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che era la prima volta che parlava con il suo uomo al telefono. Non era
sicuro che gli piacesse.

“Ehm, ehm,” rispose Cameron. “C’è un motivo particolare per cui me lo
chiedi?” domandò sospettoso.

La domanda fu accolta da un altro momento di silenzio. “Ho paura a
dirtelo,” bofonchiò Julian.

“Perché?” chiese lentamente Cameron. La loro ultima conversazione era
stata molto commovente, qualcosa di insolito per Julian, e lui non poteva
fare a meno di fremere per l’inquietudine quando ci ripensava. Si ritrovò
a porgli la domanda con cautela e con il timore, sempre più forte, di
chiedere qualcosa a cui Julian avrebbe potuto non rispondere.

“Perché rideresti di me,” gli disse l’uomo. “Sono geloso,” ammise. “So
fare la zuppa,” mormorò. Sembrava stranamente scontroso.

Cameron rimase in silenzio, mentre si crogiolava nella felicità per quelle
parole. Julian non parlava molto di se stesso e raramente, o forse mai,
delle proprie emozioni o difetti. “Non sto affatto ridendo,” disse
gentilmente.

“Sì che lo fai,” brontolò lui. “Mi sembra che tu stia meglio,” aggiunse.
Cameron ebbe l’impressione di avvertire l’ombra di un sorriso nella sua
voce.

“Mi sento meglio,” ammise. “Salvo…”

“Cosa?” chiese Julian.

“Mi manchi,” rispose lui. “Negli ultimi mesi questo è il periodo più lungo
che abbia passato senza vederti.”

“Anche tu mi manchi,” rispose Julian immediatamente, malgrado non
avesse offerto nessuna spiegazione per la propria assenza.

Cameron sorrise felice. “Ancora due giorni per arrivare a martedì.”

Il silenzio si protrasse a lungo. Poi infine: “Lunedì devo andare fuori città.
Può darsi che non riesca a tornare indietro in tempo.”

La delusione colpì Cameron duramente, quasi come se fosse qualcosa di
fisico. “Fintanto che dici può darsi, ho molta più speranza che se tu
dicessi sicuramente no,” mormorò, con un tremito nella voce.

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“Certo,” affermò frettolosamente Julian. “Ci proverò, ma… potrei arrivare
veramente molto tardi.”

“Fai attenzione. Ti prego. Meglio tardi che mai, giusto?” lo pregò
Cameron con voce soffocata, stringendo forte il telefono.

“Certo,” ripeté l’altro. “Cameron,” aggiunse esitante, “quello che faccio…
di solito non sono io quello in pericolo,” lo informò a bassa voce. “Lo sai,
vero?”

Cameron chiuse gli occhi; la morsa intorno al suo cuore si alleggerì
leggermente. “Lo speravo tanto,” sussurrò. “Ma non ne ero sicuro.”

Julian tacque ancora una volta. Era frustante chiedersi cosa stesse
pensando, mentre la linea telefonica era muta.

“Di’ a Miri di prendersi cura di te,” disse infine. “E tu, cerca di rimetterti
in salute per quando sarò di ritorno.”

“Non le ho raccontato niente di te,” disse Cameron riluttante.

“Ti piacerebbe dirglielo?”

Cameron alzò gli occhi verso l’altra parte della stanza, dove la ragazza
era affaccendata in cucina, intorno al forno a microonde. Sospirò. “Forse.
Lo so, che ci tieni molto alla tua privacy.”

“La mia privacy è niente in confronto alla tua felicità. Se vuoi, dillo alla
tua amica,” disse Julian con fermezza. “Solo, ti chiedo di dirle che
commercio in antichità, se domanda cosa faccio.”

Cameron si cinse il petto con il braccio libero, muovendosi a disagio.
“Capisco.”

“Davvero?” chiese l’altro con cautela.

“Per quello che mi è possibile, credo,” disse Cameron rassegnato. “Non
posso rivelare qualcosa di cui in realtà non so nulla.”

“Cameron,” disse Julian con calma. “Ti sta bene?”

“Cosa dovrebbe starmi bene? Fare tutto ciò che posso per proteggerti?”

L’uomo rimase silenzioso, per un altro lungo, imbarazzante momento.
“Devo andare,” concluse con rammarico. “Abbi cura di te.”

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“Ti penserò,” mormorò Cameron.

“A presto, amore,” disse Julian, chiudendo la comunicazione.

Cameron rimase senza fiato nel sentire quella parola affettuosa. Non gli
sembrava più fuori luogo quando Julian la pronunciava, ma il suo cuore
batteva ogni volta furiosamente. Rimase a lungo seduto lì e si riscosse
solo quando il telefono iniziò a emettere un suono prolungato,
ricordandogli che non aveva riagganciato. Premette il tasto per
scollegare la linea, chiuse gli occhi e sospirò.

Lo voleva lì, in quel momento, non in seguito. Tanto per cominciare, non
era giusto avere solo due giorni alla settimana per incontrarsi. Se poi te
ne toglievano uno, era ancora peggio.

“Cameron?”

Il giovane sollevò lo sguardo e vide Miri che lo aspettava con un vassoio.

“È pronto?” chiese a disagio, sperando di non avere un aspetto troppo
sconvolto.

“Sì, ho riscaldato l’oca. Ti ci vuole qualcosa di buono e calorico. Hai perso
peso in ospedale.” Sporse il braccio, mentre si sedeva per porgergli uno
dei due piatti.

“Sì, un po’,” riconobbe lui, con tono pacato.

Mangiarono in silenzio per qualche minuto. “Allora, chi era al telefono?
Hai una faccia…” domandò Miri alla fine.

Cameron la guardò, cercando di decidere se e cosa dire.

JULIAN era in piedi sul marciapiede e, ignorando le raffiche di neve,
guardava verso la finestra dell’appartamento di Cameron. Era tardi,
molto dopo la mezzanotte. E ormai non era più martedì. Si scontrò con il
fatto che alla fine era venuto lo stesso. Sarebbe stato fin troppo facile
per Cameron farsi male a causa sua.

Era ancora seccato dal fatto che Cameron avesse ignorato i suoi
avvertimenti così in fretta; inoltre non aveva idea di cosa dovesse dirgli
per fargli prendere coscienza della situazione senza essere costretto a

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metterlo di fronte alla realtà nuda e cruda. Una cosa del genere lo
avrebbe di certo allontanato; per quanto Julian desiderasse che il
giovane gli rimanesse accanto, non poteva però sopportare il pensiero di
vederlo in pericolo a causa sua.

Non si permise di pensare a come si sarebbe sentito se Cameron fosse
stato d’accordo con lui e avesse concluso il loro rapporto. Era una
posizione difficile la sua: cercare di fare la cosa giusta e nello stesso
tempo sperare che non funzionasse.

Julian scrutò su e giù per la strada, indeciso, poi lentamente si avviò
verso l’ingresso del palazzo. Quando arrivò al piano di sopra, bussò piano
alla porta dell’appartamento.

Quando, dopo qualche secondo, Cameron spalancò la porta, Julian era
all’ingresso, imponente e ricoperto di neve sciolta, l’espressione neutra
per cercare di nascondere l’ansia che provava. Cosa avrebbe fatto se
Cameron avesse cambiato idea e non avesse voluto più vederlo? Non
avrebbe certo potuto biasimarlo.

Ma non appena lo vide, il suo volto si aprì in un sorriso. Era ovvio che il
giovane lo stava aspettando. “Scusa il ritardo,” gli offrì.

Cameron si allungò per afferrargli il braccio e praticamente lo tirò dentro
l’appartamento, così da poter chiudere a chiave la porta dietro di loro.
Poi si voltò e gli gettò le braccia al collo, abbracciandolo stretto senza
dire una parola.

Julian lo strinse a sé, gli appoggiò il mento sulla testa e chiuse gli occhi.
“Hai un aspetto migliore,” mormorò infine.

Cameron si tirò indietro solo quanto bastava per guardarlo in viso. “Hai
l’aria stanca,” disse, premendo leggermente il palmo della mano sulla
sua guancia.

“Beh…”

Cameron scosse leggermente la testa. “Ne parliamo più tardi. A letto,
adesso. A dormire.” Fece un passo indietro e gli sfilò il cappotto dalle
spalle. Questo cadde con un lieve fruscio sul pavimento, coprendo tre dei
quattro cuccioli, che continuavano a fargli le feste anche sotto il costoso
indumento, mentre il quarto era seduto e guardava il cappotto con la
testa piegata di lato.

Julian rimase immobile, senza prestare alcuna attenzione ai cani.
Incrociò gli occhi di Cameron con espressione seria. “Ho avuto una

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nottata difficile,” ammise.

Lasciando perdere il cappotto, Cameron lo esaminò e Julian sapeva
quello che stava cercando: un qualsiasi segno evidente di ferite. Quando
non ne trovò, raccolse visibilmente il proprio coraggio e disse: “Se vuoi
parlarne, ti ascolto.”

Julian si rabbuiò e, alla fine, scosse lievemente la testa. Cameron non
aveva bisogno di sentir parlare delle cose che lo angustiavano. Non era
necessario che sapesse che anche lui, a volte, soffriva di rimorsi di
coscienza. Non aveva bisogno di sapere che intermediari e informatori
venivano trovati morti a destra e a manca nelle maggiori città; nemmeno
che girava voce che qualcuno che sapeva come funzionava il gioco aveva
improvvisamente cambiato le regole. Non aveva bisogno di essere
informato che molto presto ognuno avrebbe dovuto, con ogni probabilità,
coprirsi da solo le spalle.

“La parola letto è meravigliosa,” disse invece.

“Andiamo,” replicò Cameron, prendendolo per mano e guidandolo verso
la camera.

Julian era più stanco del solito, dopo un incarico fuori città. Era un tipo di
lavoro già abbastanza duro quando le cose andavano secondo i piani.
Quando poi c’erano complicazioni, con persone innocenti ferite, attività
smascherate, cose che prendevano fuoco e che talvolta venivano fatte
esplodere, era un casino. Julian non voleva altro che affondare nel letto,
accanto a Cameron, e dimenticarsi tutto quanto per un po’.

“L’hai detto alla tua amica?” chiese pacatamente, mentre si trascinava
docilmente dietro di lui.

Cameron si guardò alle spalle, attraversando i pannelli divisori. “Sì,”
rispose. “L’ho appena accennato, comunque.”

“Com’è andata?” chiese lui ironicamente.

“Non così bene,” ammise Cameron con una smorfia. “Non mi sono
nemmeno avvicinato per niente a quello che lei voleva sapere.” Si fermò
ai piedi del letto, per disfargli il nodo della cravatta.

Julian gli piazzò le mani sui fianchi e lo guardò con ardore, mentre l’altro
lottava con il nodo. Se avesse potuto scegliere, non avrebbe mai
allontanato lo sguardo. “Mi dispiace,” sussurrò infine.

Dopo avergli tirato via la cravatta, finalmente libera dal colletto,

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Cameron iniziò a sbottonargli la camicia, senza dire altro. Lo guardò e si
morse il labbro. “Tu sei più importante.”

Julian non rispose, ma continuò a osservarlo mentre l’altro lo spogliava.
Non era sicuro di quale dichiarazione avrebbe fatto, se avesse aperto
bocca.

Cameron finì di sbottonargli la camicia e passò ai polsini. “Aveva
praticamente indovinato che eri tu.”

“A far cosa?” domandò lui, perplesso, aspettando che Cameron
continuasse.

Cameron sorrise. “A rendermi così felice.”

Julian lo guardò di sottecchi, sorpreso, e poi gli sorrise debolmente.
Felice. Anche se per poco tempo, comunque.

Cameron inarcò un sopracciglio. “Cosa c’è? È vero.”

“Bene,” mormorò Julian.

Il sorriso radioso e gli occhi splendenti trasformarono Cameron,
mettendogli un po’ di colore sulle guance pallide, e il ragazzo gli si
premette contro, il più vicino possibile, cingendolo con un braccio alla
nuca e l’altro intorno alla vita. A Julian era occorso un po’ di tempo per
abituarsi agli abbracci casuali e improvvisi che Cameron amava rubare,
ma adesso piacevano anche lui.

Gli fece scivolare le braccia intorno, tenendolo stretto a sé, e gli appoggiò
nuovamente il mento sulla testa. “Certe notti,” disse, “tutto quello a cui
riesco a pensare è di essere qui e stringerti a me.”

“Le notti che non sei con me,” sussurrò Cameron. “Troppe notti,”
aggiunse tristemente.

“Sì,” sospirò Julian, mentre il rimpianto gli attanagliava il petto. “Mi
dispiace.” Odiava dire quelle parole, gli sembrava che gliele dicesse di
continuo. Ma non poteva rischiare di stare con lui più di così. Era già
anche troppo. Avere una routine era una cosa pericolosa. Già andare al
ristorante il martedì era un grosso rischio. Ben presto, qualcuno avrebbe
scoperto dove trascorreva anche il venerdì. Ma fare le cose in maniera
diversa significava rischiare di buttare all’aria il suo delicato castello di
carte.

Cameron si tirò indietro quanto bastava per baciarlo con desiderio,

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mentre gli tirava fuori la camicia dai pantaloni. Non c’era bisogno di
aggiungere altro ed entrambi lo sapevano. Julian era l’unico che poteva
cambiare il loro stato e non era disposto a farlo. Non ancora.

Si allungò per fermare delicatamente le mani di Cameron che gli
accarezzavano la schiena. “Io ho… ho una piccola contusione,” ammise,
con voce sommessa.

“Contusione?” chiese preoccupato Cameron, allontanando le mani.

“Penso che sia solo uno stiramento,” affermò. “Alla schiena. Ho mancato
uno scalino nel buio,” confessò con un lieve rossore. Era stato uno
scalino molto alto in realtà e con una fermata molto improvvisa, ma non
c’era bisogno che il giovane lo venisse a sapere. “Per quanto sia stato
attento.”

Un po’ della tensione nei muscoli delle spalle di Cameron si allentò.
“Meglio che essere colpiti da una pallottola,” borbottò, prendendosi tutto
il tempo necessario per spingergli la camicia giù dalle spalle.

Julian accennò un sorriso. “Difficilmente ti sparano quando ti occupi di
antichità,” disse, trattenendo a malapena una risatina.

Cameron lo guardò con sufficienza. “Antichità. Come diavolo ti è venuta
in mente una cosa del genere? Si avvicina anche solo vagamente a
quello che fai veramente?” Si spostò dietro lui, aiutandolo a togliersi la
camicia, così da evitargli di girarsi.

“Vagamente,” rispose Julian, stando sulla difensiva.

Cameron sbuffò e si inginocchiò per slacciargli le scarpe. “Vagamente,”
ripeté scuotendo la testa.

“Mi occupo di… vecchie… cose. A volte. Ho una vecchia pistola,” offrì
come spiegazione, speranzoso.

“Questa vecchia pistola è un pezzo da collezione?” chiese Cameron
spudoratamente.

Julian lo guardava rapito, il corpo piacevolmente teso mentre Cameron
gli stava inginocchiato ai piedi. “No,” rispose burbero, sollevando
docilmente prima un piede e poi l’altro. “È solo vecchia.”

Piegato sui talloni, Cameron gli tolse i mocassini italiani e i calzini.

“Non so se ho l’energia necessaria per farti quello che vorrei,” farfugliò

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Julian imbronciato.

Cameron gli fece scivolare le mani dietro ai polpacci risalendo fino alle
ginocchia. “Che sarebbe?”

“Cose troppo indecenti per le tue orecchie,” mormorò Julian, con voce
leggermente più roca.

“Perché non lasci che sia io a giudicare?” Cameron proseguì la sua
esplorazione del corpo di Julian, accarezzandogli lentamente le cosce.

Julian chiuse gli occhi, respirando lentamente per tentare di mantenere il
controllo. Quando arrivava a casa così stanco, di solito Cameron si
accontentava di rannicchiarsi felicemente tra le sue braccia e
addormentarsi. Ma quella sera evidentemente era affamato di ricevere e
dare carezze. Julian non poteva biasimarlo. Si sentiva allo stesso modo,
a dispetto della spossatezza. Fremette quando le mani dell’altro
continuarono l’esplorazione, seguendo il tessuto prezioso dei suoi
pantaloni fatti su misura.

Julian, quasi inconsapevolmente, fece scivolare una mano tra i capelli di
Cameron, in una carezza delicata. Poi aprì gli occhi e lo guardò, lacerato
tra il desiderio di toccarlo e quello di crollare semplicemente sul letto.

Cameron lo percepì e immobilizzò le mani. Lentamente si chinò in avanti
e appoggiò la guancia all’altezza della giuntura tra il bacino e le cosce di
Julian.

Lui lo accarezzò gentilmente sulla sommità del capo, guardandolo
dall’alto. Gli sembrava strano stare lì in piedi, con l’altro uomo
inginocchiato che lo abbracciava. Ma era anche molto piacevole, per tutto
un insieme di motivi. A Julian sembrava quasi di proteggerlo, anche se
non c’era alcun pericolo immediato. Raramente gli altri aspetti della sua
vita lo facevano sentire in quel modo. Era uno dei motivi che rendevano
la sua relazione con Cameron così importante.

Dopo qualche minuto, Cameron si tirò su in fretta, con un sospiro. Le sue
mani corsero ad aprirgli energicamente i pantaloni, questa volta con la
chiara intenzione di spogliarlo completamente. Julian continuò a
guardarlo attentamente. I suoi occhi scuri mostravano segni di
eccitazione, ma era sopraffatto dallo sfinimento.

“Andiamo,” disse Cameron a bassa voce e, dopo averlo opportunamente
svestito, gli prese la mano e lo accompagnò a letto.

Julian strinse le dita attorno a quelle del giovane. Non sapeva cosa dire e

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non poteva lasciarsi sfuggire le parole che aveva in gola. A quel punto
non sarebbero state molto credibili, non importava quanto lui fosse
convinto del sentimento che provava. Si conoscevano a malapena, ma lui
aveva la certezza che la connessione tra loro fosse reale.

Fermandosi accanto al letto, Cameron tirò giù le coperte e le lenzuola,
sollecitandolo a sdraiarsi.

Julian lo bloccò e, tenendogli la mano ben stretta, abbassò lo sguardo sul
letto nel tentativo di convincersi di non essere mentalmente preparato a
fare quello che invece voleva fare. E anche che Cameron non fosse
ancora pronto a sentirlo.

“’Fanculo,” disse infine, seccato. Si allungò a prendere l’altra mano di
Cameron e lo tirò fino a quando non gli fu di fronte. “Credo di essere
innamorato di te,” sbottò.

Cameron sbatté più volte le palpebre, chiaramente sorpreso e troppo
sconcertato per rispondere.

“Io… avevo solo bisogno di dirlo,” continuò Julian, lasciando andare una
delle sue mani e indicando la propria testa. “Ad alta voce.”

“Tu pensi di essere innamorato di me?” ripeté Cameron. “E lo avevi già
pensato? Prima di adesso?”

“L’ho pensato sin dalla prima volta che ti ho visto,” ammise l’altro in un
sussurro. “Ma adesso sono sobrio e abbastanza sicuro,” aggiunse con il
volto leggermente paonazzo.

“Ma… ma la prima volta che mi hai visto è stato quasi un anno fa,”
sussurrò Cameron.

“Posso essere un po’ lento a volte,” scherzò Julian, avvampando ancora
di più.

Cameron gli accarezzò le guance arrossate, sfiorando con le dita la barba
accuratamente tagliata. “È stupefacente,” disse con voce tremante.

“Sì, davvero,” concordò Julian. “Considerato che non l’avevo mai pensato
di nessuno prima.”

“Mai?”

“Ho avuto una cotta per il mio insegnante di matematica del primo
anno,” rispose lui con la faccia seria.

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Cameron gli dette un leggero pugno sulla pancia. “Scemo.”

Julian mugugnò, contento che Cameron si sentisse così a suo agio con lui
da scherzare.

“Tu mi rendi molto felice,” disse Cameron, rannicchiandosi stretto contro
di lui.

“Ne sono contento.” Julian gli appoggiò il mento sulla tempia.

Trascorse un altro silenzioso minuto, prima che Cameron sussurrasse
contro il suo petto. “Ti amo. È pazzesco. E tu… non pensavo che avresti
mai…”

Le parole saettarono attraverso il petto di Julian, che lo abbracciò più
stretto, cercando di non sorridere. Abbassò la testa e lo baciò sul collo
possessivamente. Qualunque cosa fosse successa il giorno dopo sarebbe
andata bene, perché quella notte avevano qualcosa da condividere.

ERA poco prima delle sette di un venerdì sera. La primavera stava
attecchendo in città e il sole ormai al tramonto inviava le ultime vestigia
di luce attraverso le vetrate. Le decorazioni brillavano: il ristorante era
stato tutto addobbato a festa per un party privato che sarebbe iniziato a
breve e tutt’intorno ferveva l’attività degli ultimi preparativi. La porta
d’ingresso era controllata da un metal detector e muscolosi addetti alla
sicurezza giravano per le stanze. Uomini in smoking e donne
impellicciate aspettavano che il personale controllasse i loro nomi
sull’esclusiva lista degli invitati e li facesse entrare.

Il ristorante chiudeva per ospitare feste private di quel tipo più volte
l’anno, in grazia della sua eccellente reputazione in fatto di discrezione,
rispetto, eleganza e sicurezza; ma indubbiamente anche per la vasta rete
di conoscenze di Blake. C’erano un sacco di nomi importanti quella sera:
celebrità, politici, potenti uomini d’affari, atleti professionisti, debuttanti.
Era un miscuglio di persone influenti e dei loro lacchè.

Notti come quella erano in genere interessanti. E redditizie, se c’erano
liquori a sufficienza. E Blake faceva sempre in modo che ce ne fossero in
abbondanza.

All’ingresso, Julian sollevò le braccia, guardando attentamente la

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corpulenta guardia di sicurezza che lo perquisiva dall’alto verso il basso.
Quando l’uomo ebbe terminato, si alzò di nuovo e gli fece un cenno.
“Buona serata, signore.”

“A lei,” rispose lui sommessamente e, attraversando la porta, dette un
nome alla direttrice di sala. Non era il suo, ma era comunque un nome.
E, per fortuna, non c’era Keri a monitorare la lista degli invitati.

La donna gli fece segno di entrare, dopo aver controllato il proprio
elenco. Lui rispose con un cenno cortese e presto fu nella sala,
stringendo i denti per evitare un gemito lamentoso. Odiava le folle. Lo
rendevano paranoico e nervoso. Specialmente folle come quella, quando
chiunque poteva essere fonte di guai. Gli ospiti si muovevano in maniera
disordinata nel salone principale, dove i camerieri giravano con vassoi
d’argento colmi di flute di champagne e piccoli antipasti.

Si fece strada attraverso la folla con la sua grazia naturale, annuendo
gentilmente a coloro che lo salutavano e sorseggiando dal suo bicchiere
di champagne. Blake aveva un cliente tra quelle persone, uno che
avrebbe disegnato il proverbiale bersaglio sulla schiena di chi gli stava
accanto, non appena Julian l’avesse trovato. Di solito il venerdì era
riservato a Cameron, ma, con una festa del genere, il giovane aveva
comunque dovuto lavorare. Julian aveva pensato che sarebbe stato
costretto a rimanere a casa a fissare il muro per tutta la notte, invece
inaspettatamente era stata richiesta la sua presenza. Aveva avuto
pochissimo preavviso, non abbastanza da permettergli di chiamare
Cameron e avvertirlo che sarebbe stato lì. Quando Blake chiamava, lui
doveva muoversi immediatamente. Era l’unica ragione per cui era lì,
invece che a casa a dormire.

“CAMERON,” sussurrò Miri quando ritornò nella zona di servizio per
riempire il vassoio. “Julian è qui.”

Lui sollevò lo sguardo dallo champagne che stava versando e sorrise.
“Davvero? Non sapevo che sarebbe venuto qui stasera.”

“Perché no?” domandò lei, incredula.

“Non gli chiedo dove va ogni minuto della sua giornata,” rispose lui,
mettendo da parte la bottiglia.

“Allora sapeva che avrebbe partecipato a una festa dove tu lavoravi e

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non te l’ha detto?” domandò Miri dubbiosa.

Cameron si adombrò. “Me lo avrebbe detto, quindi immagino che non
l’abbia saputo fino all’ultimo momento.”

Miri inarcò un sopracciglio. “Hai intenzione di andare fuori a vederlo?”
domandò incuriosita.

Cameron si mosse, ma poi si fermò, pensando a lungo. “Se è qui,
probabilmente sta lavorando,” disse lentamente. “Non vorrei disturbarlo.”
Il pensiero che lui stesse “lavorando” al Tuesdays gli dava una
sensazione di disagio. Non era ancora del tutto sicuro di quello che Julian
facesse, ma sapeva che non doveva essere per forza… una cosa buona.

“Lavorando?” ripeté Miri.

“Sì,” disse Cameron, in imbarazzo. “È un commerciante di antichità,
ricordi? Viaggia un sacco, cercando cose per la gente. Di solito per le
persone ricche,” improvvisò. “Probabilmente molti sono qui stasera.
Clienti, contatti… e cose di quel genere.”

Miri lo fissò un attimo, accennando un sorriso. “Siete così strani
entrambi,” mormorò allontanandosi.

Cameron la guardò andare via, scuotendo la testa. “Tu non ne hai idea,”
bofonchiò. Prese il vassoio pieno di flute di champagne e uscì anche lui
nel salone.

JULIAN guardò brevemente verso il retro del ristorante, prima che la sua
attenzione fosse richiamata da un uomo che gli faceva segno. Passò
attraverso la folla con facilità e salutò l’uomo e il suo compagno.

“Mi piacerebbe farle conoscere un mio socio,” gli disse cordialmente
l’uomo. “Ronald, questa è la persona di cui ti parlavo.”

“È un onore incontrarla, signore,” affermò lo sconosciuto stringendogli la
mano. “Gary mi ha raccontato che gli ha trovato dei libri rari nell’ultimo
anno.”

“Niente che non si possa trovare su eBay di questi tempi,” esclamò Julian
con sfrontatezza.

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Il bersaglio rise e annuì. “Sono nel mercato delle antichità del Medio
Oriente,” disse. “Ho sentito dire che dovrebbe essere facile procurarsi
merce a buon mercato, adesso che quel dannato posto è destinato a
saltare in aria. Mi potrebbe aiutare in questo senso?”

“Sono sicuro di sì,” lo rassicurò lui.

“Beh, allora non vedo l’ora di fare affari con lei,” disse l’uomo, con un
ghigno che a Julian non piacque per niente.

“Lo stesso per me,” mormorò, con un mezzo sorriso. Era molto più
semplice quando l’obiettivo era un po’ stupido, tanto per cominciare.

Distolse lo sguardo, cercando di non far vedere quanto fosse esasperato
e intravide Cameron emergere dal retro. Sentì lo stomaco stringersi per
il disagio e distolse in fretta lo sguardo, cercando di prestare attenzione
alla conversazione intorno lui. Tuttavia, i movimenti di Cameron
attirarono spesso la sua attenzione, così prese a seguirlo con gli occhi nel
tentativo di evitarlo. Non si fidava né di se stesso né di lui e temeva di
reagire con troppa familiarità se gli si fosse avvicinato. Non si poteva mai
sapere chi ti osservava in serate come quella.

Avrebbe volentieri ucciso Blake per averlo chiamato quella sera. A cosa
diavolo stava pensando? Avrebbe potuto beccare facilmente il tizio
altrove. Non era esattamente prudente starsene nel mezzo di una festa
affollata a parlare con uno sconosciuto di antichità rubate.

Cameron si muoveva per il salone senza difficoltà, offrendo il contenuto
del vassoio ai vari ospiti. Julian lo vedeva indossare la sua maschera
professionale e i suoi modi riservati, ma notava anche come osservava
discretamente la folla. Qualcuno l’aveva avvisato che lui era lì. Julian
serrò le labbra, imprecando mentalmente. Avrebbe dovuto fargli sapere,
in qualche modo, che sarebbe stato presente. La decisione che avrebbe
partecipato alla festa era stata presa all’ultimo minuto, ma anche
tenendo conto di ciò, avrebbe dovuto chiamare il ristorante per avvisarlo,
o perlomeno avrebbe potuto tentare.

Gli avrebbe comprato un telefono cellulare, subito dopo aver strozzato
Blake.

A Cameron occorse più di un giro della stanza, prima di entrare nella
zona dove Julian era in piedi a parlare con un uomo che era abbastanza
sicuro fosse il difensore centrale dei Chicago White Sox. Il giovane si
fermò più volte lungo la strada, per permettere agli ospiti di servirsi degli
antipasti dal vassoio. Infine, mentre guardava da sopra la spalla di una
donna, lo individuò. Si soffermò solo qualche secondo in più di quello che

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avrebbe fatto normalmente, poi aggirò silenziosamente il primo gruppo
di partecipanti alla festa e si avvicinò al gruppo di persone che
circondavano Julian.

Sembrava incerto e anche un po’ nervoso. Julian odiava vedere
quell’espressione sulla sua faccia, sapendo di esserne la causa. Odiava
ancor di più quello che sapeva di dover fare.

Lo guardò avvicinarsi con discrezione e quando finalmente incrociò il suo
sguardo, scosse la testa attentamente e, di proposito, distolse lo
sguardo, rivolgendosi nuovamente all’uomo con cui stava parlando.

“Va tutto bene, figliolo?” gli domandò il vicesindaco.

“Sicuro, signore” rispose Julian, con voce gentile, riportando la sua
attenzione alla conversazione in corso.

“Allora, mi dica,” gli chiese la moglie dell’uomo con un sorriso, “come si
fa ad avere un tale successo, commerciando antichità? Lei sembra
conoscere tutti qui dentro!”

“Con il passaparola, signora,” rispose Julian sorridendo a sua volta e
tracannando in un sorso la flute di champagne che aveva preso al volo
da un cameriere di passaggio.

CAMERON tornò nella zona di servizio e posò il vassoio prima di
concedersi un respiro profondo e rassicurante. Si strofinò gli occhi con le
mani e si diresse verso la cucina per scambiarsi il lavoro con qualcun
altro. Per nessun motivo voleva mettere Julian – o se stesso – di nuovo
in una situazione del genere. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma
doveva credere che l’uomo avesse le sue ragioni. Ma perché non poteva
nemmeno fargli un cenno di saluto, come avevano fatto tanti altri
sconosciuti nel salone?

Quasi subito, Miri entrò in cucina. “Cosa c’è che non va?” gli chiese con
sollecitudine, non appena lo scorse.

Cameron sospirò. “Niente.”

“Hai l’aria di un cucciolo preso a calci,” osservò lei. “Sei riuscito a parlare
con Julian?”

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“Era occupato,” rispose lui con un cenno veloce della testa. “Non potevo
interromperlo.”

Miri inarcò un sopracciglio e lo guardò dubbiosa. “Sei sicuro di stare
bene?” chiese di nuovo.

Cameron era mesto. “È solo che è difficile ricordarsi che io sono solo un
cameriere e lui una persona importante.”

Miri si bloccò e lo fissò con occhi sbarrati. “Ti ha detto questo?” chiese
con orrore.

Cameron trasalì, rendendosi conto dell’impressione che aveva dato. “No!”
esclamò, voltandosi a guardarla. “No. Non ha mai nemmeno accennato a
qualcosa del genere. È solo quello che penso io a volte, tutto qui.”

Lei lo guardò circospetta, con affetto e preoccupazione. “Voi due… è tutto
okay?” gli chiese con dolcezza.

Cameron si mordicchiò il labbro inferiore. Julian lavorava con Blake.
Sapevano di questa festa da settimane. Quindi Blake doveva averlo
avvisato già da un bel po’ che avrebbe dovuto partecipare: allora perché
non glielo aveva detto?

“Credo di sì,” rispose infine. “Non lo so.”

Miri si accigliò, sorpresa. “Perché? Cosa sta succedendo?” chiese.
“Sembravi così felice.”

Cameron si rabbuiò. “Sono solo un po’ nervoso. Non voglio rovinare
tutto. È che a volte ho paura.”

“Hai paura?” indagò lei con cautela, mentre qualcuno la chiamava.

Cameron incurvò lentamente le spalle. Nonostante Julian gli avesse
confessato che lo amava, lui temeva che potesse accadere qualcosa che
lo avrebbe allontanato. Quel congedo sbrigativo nel salone aveva minato
la sua fiducia. Non essere sicuro del proprio posto in quella relazione lo
spaventava e frustrava allo stesso tempo.

“Ti riprenderai?” gli chiese Miri preoccupata.

Lui annuì distrattamente e Miri, anche se a malincuore, lasciò la cucina.
Cameron aveva la sensazione che sarebbe stata una lunga nottata, e
all’improvviso fu molto contento di aver scambiato il posto per poter
lavorare in cucina. Non pensava che sarebbe stato capace di servire un

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tavolo dove Julian conversava amabilmente con altre persone, mentre
ignorava lui.

O ancor peggio, che lui lo trattasse come un perfetto sconosciuto.

Cercò di reprimere un piccolo ansito di rabbia. Non sarebbe dovuta
andare in quel modo.

FUORI, nel salone, Julian si allontanò dal gruppetto che lo aveva
monopolizzato nell’ultima ora e iniziò a muoversi lentamente attraverso
la folla, diretto alla zona di servizio. Aveva pensato che sarebbe stato
almeno in grado di superare la serata, magari raccogliendo qualche
buona informazione su quell’idiota che avrebbe dovuto seguire fino a
casa, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era lo sguardo negli occhi
di Cameron quando si era allontanato. Aveva bisogno di parlargli e
spiegarsi, oppure il giovane rischiava di fraintendere tutto. Evitò tutti
quelli che conosceva o che lo potevano conoscere e puntò all’ingresso di
servizio.

Julian varcò la porta sul retro, cercando Cameron e incappando invece in
Miri che arrivava di corsa dalla cucina.

Lei si riprese velocemente e, scusandosi, si scostò.

“Ho bisogno di parlare con Cameron,” le disse lui a bassa voce.

Miri sembrò esitare e si guardò intorno. “Non potrebbe aspettare?” disse
incerta. “In questo momento è occupato con i preparativi per la cena.”

“Lo troverò per conto mio,” mormorò lui, avviandosi verso la cucina.

Miri squittì per la sorpresa. “Aspetti.” Lo prese per la manica. “Questa
zona non è aperta ai clienti, signore. Se si introduce lì, ci metterà tutti in
guai seri. Incluso Cameron.”

“Allora portamelo qui,” suggerì lui.

La sua voce era bassa tuttavia autorevole. Il tono aveva chiaramente
colpito Miri, procurandole un brivido e facendola arretrare di un passo. La
voce le vacillò leggermente quando parlò. “Per favore… lo lasci stare per
stasera. Mi sembra già abbastanza sconvolto, per il momento.”

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Julian la fulminò con un’occhiataccia, esprimendo visibilmente la propria
incredulità. Sin da quando aveva risposto al telefono aveva saputo che
sarebbe stata una cattiva idea venire da Tuesdays. Si allontanò da lei
contrariato e, dirigendosi verso la porta, la spinse forte, scomparendo
nella folla senza una parola.

ESAUSTO, Cameron si muoveva attraverso il ristorante, riflettendo
sull’aspetto abbandonato della sala, mentre lo staff ripuliva l’area. Quelle
feste si concludevano sempre con tutto quanto in disordine. La gente
spostava le sedie, spingeva i tavoli, lasciava piatti sporchi e bicchieri
mezzi pieni nei posti più strani.

Non voleva nemmeno pensare ai bagni. Ogni volta qualcuno vi trovava
almeno un paio di mutandine di pizzo. Blake le teneva in un cassetto con
l’etichetta: “Oggetti Smarriti.”

Cameron certe volte dubitava del senso dell’umorismo del suo capo.

Avvicinandoglisi, Miri interruppe le sue divagazioni mentali. “Dimmi chi è
veramente,” pretese di sapere.

Cameron si irrigidì immediatamente. “Cosa vuoi dire?”

“Julian,” sibilò lei. “Chi è veramente?” chiese contrariata, guardandolo
con le mani appoggiate sui fianchi. “Non vuole parlare con te in pubblico
e lui… lui è così misterioso, silenzioso e… terrificante,” balbettò.

“Terrificante?” ripeté Cameron, voltandosi a guardarla con un’espressione
sorpresa sul volto. “Perché pensi una cosa del genere?”

“Stanotte è venuto nella zona di servizio esigendo di vederti,” gli disse
lei, incrociando le braccia sul petto. “Non ha nemmeno alzato la voce con
me, ma…”

Cameron deglutì a fatica. Sapeva quanto lui potesse sembrare
minaccioso: così alto, tenebroso e muscoloso, raramente modificava la
sua espressione impassibile e la voce difficilmente superava un bisbiglio.
“Ma?” la spronò.

“Mi ha spaventata,” rispose lei piano. “Mi ha ringhiato contro. Lui… lui è
così con te? Ti… minaccia?”

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“Mi minaccia? No!” esclamò inorridito Cameron. Perché Julian aveva agito
così verso Miri, verso una sua amica? “Lui è… tranquillo. E gentile, di
solito.”

Miri lo guardò dubbiosa, poco convinta. “Che cosa fa?” chiese. “Perché
era qui stanotte e ti ha ignorato? È in qualche modo coinvolto in politica,
è un criminale oppure qualcosa di simile? È sposato?”

La bocca di Cameron si spalancò, ma non ne uscì alcun suono. Tutte
quelle domande senza risposta gli si accavallarono nella mente. “Te l’ho
detto. È un antiquario,” riuscì a rispondere. Fece un respiro, cercando di
non reagire in modo eccessivo. Sposato? Lei pensava che Julian potesse
essere sposato? Si perse d’animo, a quel pensiero. Veramente non lo
sapeva, ma per Dio, la risposta era di sicuro no, giusto?

“Allora perché non ha parlato con te?”

Cameron strinse tra le dita la stoffa dei suoi pantaloni, raddrizzando le
spalle. “Te l’ho detto. Stava lavorando,” insistette. “Senza contare che ha
tentato di parlare con me, ma a quanto pare tu l’hai tenuto lontano.”

Miri fece un passo indietro, guardandolo storto. “Non potevo farlo
entrare,” disse a sua discolpa.

Cameron scosse la testa, frustrato. Si girò a raccogliere i piatti in una
pila da portare in cucina.

“Ehi, avete sentito del tizio che è stato trovato morto dopo la festa di
stasera?” disse Charles, passando con le braccia cariche di piatti sporchi.

“Cosa? No! Cosa è successo?” chiese Miri sorpresa.

“Qualcuno ha detto che doveva aver bevuto troppo ed è caduto davanti a
un taxi o a qualcos’altro, rompendosi il collo,” rispose quello, con una
sorta di allegria morbosa, che poteva venire solo parlando della strana o
raccapricciante morte di qualcuno che non si conosce.

“Cristo!” esclamò lei con orrore.

“Sì. Hanno detto che un momento prima l’uomo era lì in piedi che
aspettava un taxi, e quello successivo un grosso tizio l’ha afferrato
cercando di prenderlo prima che cadesse. Da brividi, eh?” disse Charles,
raccogliendo altri piatti mentre si avviava verso la cucina.

“Accidenti!” mormorò Miri, fissando ancora Charles che si allontanava. “A
proposito di nottataccia,” farfugliò, girandosi a guardare Cameron. “Cosa

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stavo dicendo?” chiese lei.

“Stavi meditando di lasciarmi da solo,” tentò lui.

“Julian è pericoloso?” gli domandò lei improvvisamente.

La vista di Cameron si sfuocò mentre fissava la tovaglia, cercando di
mantenere il controllo. “Perché pensi una cosa del genere?” domandò a
bassa voce.

“È solo la sensazione che emana,” sussurrò lei, dopo un momento di
riflessione. “Come se ne fosse… capace.”

Cameron la guardò da sopra la spalla. “Non penso a lui in questo modo,”
rispose.

Miri sospirò. “Promettimi solo che farai attenzione.”

Inclinando la testa, si girò e fece un passo per darle una stretta gentile
alla spalla. “Te lo prometto,” le assicurò con un piccolo sorriso, mentre,
dentro di lui, le ansie e il turbamento di poco prima mescolate a
un’improvvisa scintilla di rabbia minacciavano di farlo star male.

Erano le due del mattino quando finalmente Cameron lasciò il ristorante,
dopo aver sorvegliato le pulizie e la preparazione dei tavoli per il giorno
successivo. Tutti quelli che si erano impegnati per la festa avevano il
sabato libero pagato, come ringraziamento per il lavoro ben fatto. Su
insistenza di Blake, che non si era curato delle sue rimostranze, Cameron
aveva ottenuto un giorno extra, proprio per l’ottimo rendimento.

E, per la prima volta, si sentì sollevato dal fatto che Julian non fosse con
lui.

Era ormai sabato mattina e il giorno in cui avrebbero dovuto incontrarsi
era giunto al termine. Cameron aveva a disposizione anche l’intera
giornata della domenica e del lunedì per riposarsi e riflettere, prima di
tornare al lavoro martedì, anche se in realtà non aveva voglia di pensare
a niente. Sapeva di aver mentito a se stesso per tutto il tempo, ma
l’aveva ignorato, nella speranza di non dare a Julian motivo per cambiare
idea sul fatto di amarlo. Glielo avrebbe detto in quel caso, giusto? Quello
che lo seccava più di tutto era il fatto di non sapere ancora niente di lui,
nonostante fossero amanti da ormai quattro mesi.

Quelli erano i pensieri che lo divoravano e lo facevano sentire stanco e
depresso. Eppure, anche in quel momento, si sforzava di ignorare il fatto
che non desiderava altro che essere tra le braccia di Julian.

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Cameron camminava distrattamente lungo il marciapiede deserto. Si
fermò brevemente all’angolo della strada, guardando da ogni lato prima
di attraversare frettolosamente per dirigersi verso casa sua, ancora
agitato e confuso per i pensieri che gli frullavano per la testa e
praticamente ignaro del mondo intorno a lui. Un paio di isolati dopo, con
la chiave magnetica in mano, si fermò ad aprire il portone.

Un’ombra massiccia si staccò dal palazzo dall’altro lato della strada,
schiarendosi la gola. Cameron, sobbalzando in allarme, voltò di scatto il
mento per guardare nella direzione da cui era provenuto il rumore. Non
si tranquillizzò quando vide che era Julian.

“Stai bene?” gli domandò l’uomo senza attraversare la strada. La sua
voce era trasportata dall’aria nella notte fredda.

Cameron annuì lentamente e continuò a osservarlo, mentre tutti i
pensieri di poco prima gli ribollivano in testa rendendolo incapace di
rilassarsi. Nell’oscurità, illuminato solo da un paio di lampioni, Julian
sembrava veramente pericoloso. Cameron capì solo in quel momento che
non aveva voluto accorgersene prima. “Stanco,” rispose alla fine con
voce roca.

“Mi dispiace di non averti avvertito,” gli disse Julian, scendendo in mezzo
alla strada. “Non ho saputo che sarei stato invitato alla festa fino
all’ultimo.”

Cameron annuì, in lotta con se stesso. Lui credeva a Julian, ma le proprie
insicurezze lo divoravano. Lo faceva arrabbiare non essere abbastanza
coraggioso da porre quelle domande le cui risposte lo avrebbero fatto
sentire sicuro della loro relazione. E i dubbi di Miri lo rendevano così teso
da farlo esitare, incapace di pensare a qualcosa da dire in risposta alle
scuse che Julian gli stava porgendo.

L’uomo doveva aver visto quanto era agitato, perché si fermò nel mezzo
della strada, guardandolo con un’espressione interdetta. “Potrei venire
domani?” chiese, stranamente formale. Mentre parlava, il suo respiro si
gelava in nuvolette.

Incapace di leggere l’espressione o il tono di Julian, Cameron esitò.
Aveva sperato di avere più tempo per riflettere e fare i conti con ciò che
lo infastidiva. “Cosa intendi con domani, oggi in giornata o veramente
domani?”

“Domani,” rispose lui, mentre una sirena iniziava a ululare in lontananza.

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Il suono allarmò Cameron, che si girò a guardare nella direzione da cui
sembrava provenire. Julian non se ne preoccupò, restando in piedi in
mezzo alla strada, ad aspettare la risposta.

“Pensavo che la domenica non fossi libero?” chiese Cameron, incerto.

“Non lavoro questo fine settimana,” gli disse Julian in modo piatto.

Cameron lo fissò: il desiderio di stare con lui era quasi più forte di quella
che sperava fosse solo una paura irrazionale. “Okay,” acconsentì a bassa
voce, sapendo che, se in quel momento l’altro gli avesse chiesto di salire,
lo avrebbe assecondato.

Julian annuì, abbozzando un sorriso. “Dormi bene, Cameron,” disse a
voce più alta, quando la sirena si avvicinò. Il camion dei pompieri
apparve dietro l’angolo, ad alcuni palazzi di distanza, suonando il
clacson. Julian lo guardò e iniziò lentamente a indietreggiare dalla
strada. Il motore rombava per la via e la sirena era assordante mentre le
luci giravano.

Cameron lo vide passare veloce. Quando girò all’angolo successivo,
scomparendo dalla vista, la strada di fronte a lui era vuota.

Rimasto in piedi da solo, Cameron guardò lungo la strada, senza notare
alcun movimento o segno dell’uomo. Impaurito, si voltò ed entrò
velocemente nel palazzo. Non si riprese fino a quando non fu nel suo
appartamento, con la porta chiusa e bloccata dietro di sé.

BLAKE, in vestaglia, scese con passo pesante le scale dalla sua camera
da letto, brontolando. La mezzanotte era passata da un bel po’ e c’era
solo una persona che poteva bussare alla sua porta a quell’ora della
notte.

“Cosa hai combinato, adesso? Non sei nemmeno al lavoro stanotte!”
chiese stancamente, spalancando la porta e aspettandosi di vederlo,
come al solito, aggrappato a Preston e sanguinante sulla soglia.

Ma Julian era in piedi, da solo, vestito sportivamente con un paio di jeans
scoloriti e una felpa di pile. Si era tagliato la barba di recente, ma quella
notte era arruffato. Nonostante tutto, il bastardo aveva ancora un
aspetto raffinato.

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Lo sguardo nei suoi occhi, però, parlava di una sconfitta totale.

“Hai un aspetto orrendo,” sbottò Blake senza pensare. “Cosa è
successo?”

Julian rispose al suo franco apprezzamento con un cenno ironico del
capo, poi alzò una bottiglia di Bushmills, un whiskey di puro malto
irlandese, scuotendola con un movimento allettante.

“Ho capito, una nottata ad alto tasso alcolico,” osservò Blake infastidito.
“Entra, dai,” aggiunse con un sospiro, girandosi e facendogli segno di
seguirlo in casa. “Aspetta, lasciami infilare un paio di pantaloni,”
mormorò ancora mentre Julian gli sfilava davanti con passo malfermo.
“Come hai fatto ad arrivare fin qui?” domandò sospettoso, rendendosi
conto che l’altro non era esattamente sobrio.

“Mi ha accompagnato Preston,” rispose Julian, guardandosi intorno
nell’enorme ingresso. “Ha detto che torna a prendermi in mattinata.”

Blake scoppiò in una risata e scosse la testa. “Ti ha scaricato da me,” lo
accusò, rilassandosi lievemente. “Allora qual è il problema? Non è una
cosa relativa al lavoro, di sicuro.”

“Lo sto perdendo,” rispose Julian sgomento, girandosi a incrociare il suo
sguardo.

“Preston?” chiese Blake in stato di shock. Julian e Preston lavoravano
insieme sin da prima che Blake li conoscesse, quindi non era da poco.

Julian scosse la testa e distolse lo sguardo. “Cameron,” bisbigliò. “Sta
iniziando ad avere paura di me. Lo sento nel modo in cui mi guarda.”

Blake lo fissò in silenzio, preoccupato. Leccandosi le labbra, si avvicinò
all’amico e, prendendolo delicatamente per il gomito, lo guidò verso lo
studio. “Li metto dopo i pantaloni,” farfugliò, mentre camminavano
attraverso la casa silenziosa.

Julian si lasciò cadere in una delle poltrone di pelle che erano accanto al
camino a gas, spento. Blake si inginocchiò ad accenderlo, mentre l’altro
lottava per aprire la bottiglia di whiskey. Blake gli sedette di fronte,
incrociò le gambe e lo guardò, sapendo che Julian avrebbe parlato
quando fosse stato pronto a farlo. Specialmente dal momento che ci
aveva già dato sotto con la bottiglia. Il problema, forse, sarebbe stato
farlo stare zitto.

Alla fine, Julian gli passò la bottiglia senza una parola perché l’aprisse al

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posto suo e, accasciandosi sulla poltrona, fissò il soffitto scuro. “Fa delle
domande a cui ho paura di rispondere,” iniziò bruscamente. “Se mento,
lo perdo. Se gli dico la verità, lo perdo e rischio che rimanga ferito.”

“Jules,” disse Blake con calma, appoggiando con attenzione la bottiglia di
whiskey sul pavimento accanto alla propria poltrona, nella speranza che
l’altro se ne dimenticasse. “Posso farti una domanda?”

“No,” gemette Julian, scuotendo la testa.

Blake lo ignorò. “Cosa vedi in lui?” gli chiese con curiosità.

Julian lo fissò a occhi spalancati. “Ma che razza di domanda è questa?”

“Una domanda schietta,” rispose Blake. “Non fraintendermi. Adoro
Cameron. È un bravo ragazzo. Lo conosco almeno da quanto conosco te.
Ma non è esattamente… il tuo tipo,” spiegò con prudenza.

“E il mio tipo è…”

“Quello da una botta e via,” rispose l’altro in tono beffardo. “Oppure,
quello che probabilmente cercherebbe di ucciderti dopo,” aggiunse
pensieroso. “E Cameron non fa parte di nessuna delle due categorie,”
chiarì.

“Cristo, Blake,” mormorò Julian, stropicciandosi stancamente gli occhi.

“Non è carino da dire, Jules, ma è la verità. Cameron non è come noi. E,
in tutta onestà, non capisco come abbia fatto ad attirare la tua
attenzione. Non mi sorprenderebbe scoprire che anche lui se lo chiede.”

Julian sogghignò a quell’affermazione e scosse la testa. “Io lo amo,”
affermò con rabbia.

“Lo so,” lo rassicurò Blake. “Ma perché?” lo spronò a spiegarsi.

“Non c’è risposta a una domanda del genere,” protestò Julian con
evidente fastidio, indubbiamente esasperato dalla quantità di alcol che
aveva già ingerito. Blake, in realtà, preferiva avere a che fare con lui
quando era ubriaco. Equivaleva quasi ad avere a che fare con una
persona normale, uno che si permetteva di mostrare le proprie emozioni.
“Non so il perché,” continuò Julian frustrato. “Solo che…” chiuse gli occhi
esausto, le fiamme del caminetto gettavano ombre sul suo viso tirato.
“Quando sono con lui mi sento come se facessi parte dei buoni,” cercò di
spiegare.

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“Tu non sei uno dei buoni,” gli ricordò l’altro.

“Stai zitto,” brontolò Julian. “Mi… mi sento normale quando sono con lui.”

“Tu detesti sentirti normale,” affermò Blake e, ignorando il suo grugnito
di protesta, continuò a parlare, sporgendosi in avanti. “E poi come puoi
chiamare la tua relazione con lui ‘normale?” chiese infastidito. “Lo vedi –
e non sempre – quanto? Due volte alla settimana. Meno di
quarantott’ore? Di cui, probabilmente, la maggior parte la trascorri a
scopare e dormire. Tu non lo conosci, non realmente, perché non hai mai
veramente passato del tempo con lui. E lui non conosce te. La vostra non
la si può definire una relazione, non quando tutto ciò che fai è fotterlo e
andare via.

“Vaffanculo,” disse Julian, sorpreso.

“No, vaffanculo te, Julian,” rispose l’altro, calmo. “Quello che hai non è
neanche vicino alla normalità. Portalo fuori da qualche parte.”

“Lo sai che non posso,” affermò Julian.

“E allora che cosa ti aspetti da lui?” sottolineò Blake. “Gli hai detto più
del necessario, è naturale che si sia spaventato. Non è uno stupido.”

“Lo so che non è uno stupido,” sussurrò lui con voce afflitta. “Lui non è…
non è uno di noi, come hai detto anche tu. È il tipo d’uomo a cui se dai
una pistola e gli dici che ha due opzioni: ‘spara a uno dei tuoi cani
oppure sparati in testa’, si punterebbe la pistola alla tempia e
premerebbe il grilletto.”

“Maledizione, Jules, tu faresti la stessa cosa per i tuoi dannati gatti,”
disse divertito Blake.

“No,” mormorò lui, scuotendo la testa. “No, c’è una terza opzione per la
gente come noi… noi siamo quelli della terza opzione. Noi prendiamo la
pistola, la ficchiamo in bocca alla persona ed eliminiamo il problema. Poi
camminiamo verso il tramonto con il nostro micio.”

Blake dovette stringere forte le labbra per non sorridere o ridere
apertamente. Era proprio tipico di Julian dire una cosa così. Si chiese se
si fosse aperto a Cameron abbastanza da lasciare che l’altro uomo
vedesse il suo strano senso dell’umorismo.

“Ma Cameron,” proseguì Julian, con un gesto della mano per dare
maggiore enfasi. “Non sa che esiste una terza opzione.” Scosse la testa e
sospirò brevemente.

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“Allora… in parte lo ami perché non è mai stato esposto alla terza
opzione,” ipotizzò Blake con una smorfia. “Ma solo per il fatto di stare
vicino a lui, lo stai esponendo a questo rischio.”

“Lo amo per come è. Non voglio cambiarlo e nemmeno perderlo,”
sostenne Julian.

“Allora non farlo,” gli consigliò Blake, con una scrollata di spalle. “Non ti
ho mai visto così felice come in quest’ultimo anno. È merito suo. Non so
come o perché. Dannazione, nemmeno tu lo sai. L’amore è una cosa
strana e quando lo trovi devi fare di tutto per tenertelo stretto. Digli
quello che ha bisogno di sentire. Dagli ciò che pensi che lui voglia.”

Julian, incerto, chiuse gli occhi. “Se gli dico cosa sono, lo perderò di
sicuro,” disse con voce roca.

“Non ho detto di dirgli la verità,” replicò Blake. “Digli quello che ha
bisogno di sentirsi dire,” ripeté lentamente. “Fallo, se è quello che
occorre per farvi sentire entrambi felici e al sicuro.”

Julian lo fissò a lungo. “E sperare che lui non lo scopra mai?” chiese
infine.

Blake rispose con una scrollata di spalle. “Sperare che non accada mai,
sperare che accada… Cameron potrebbe sorprenderti. Potrebbe prenderti
a calci nel sedere e scappare via, come anche il contrario. Lo conosco
piuttosto bene, ma non posso azzardare un’ipotesi su cosa sceglierebbe.
Però è una persona seria, lo sai, e se dice di amarti, gli puoi credere.”

Julian grugnì infelice e continuò a guardarlo mentre la morbida luce delle
fiamme illuminava debolmente la stanza buia.

Blake si strinse nelle spalle. “Io correrei via da te veloce come il vento,”
aggiunse spontaneamente.

Julian lo guardò di sottecchi, con un sorriso malandrino sulle labbra.
“Perché sai che a me piace stare sopra,” rispose malizioso.

Blake gemette e, agitando le mani in aria, si alzò, allontanandosi dal
fuoco e dal suo amico. “Informazione sprecata con me,” mormorò
lasciando la stanza.

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Capitolo 7

CAMERON giaceva sul fianco sopra il divano e guardava fuori dalla
finestra, nell’oscurità della notte, anche se in realtà non vedeva niente.
Era stato abulico per tutto il sabato e anche per buona parte di quella
giornata, rimuginando su Julian, sulle sue paure, sulle domande che gli
frullavano per la testa.

E sul suo desiderio.

Qualcosa dell’uomo lo invogliava a farsi solo cullare dalle sue braccia, a
ignorare la verità nascosta – qualsiasi essa fosse – e a immergersi
completamente nel calore, nell’accettazione e nella salvezza del suo
abbraccio.

Ma doveva affrontare la realtà degli ultimi due giorni. Lui non sapeva
niente di Julian: dove viveva, qual era il suo vero lavoro. Se aveva una
famiglia. Perché stava con lui solo un giorno e una notte la settimana.
Dove trascorreva il suo tempo quando non era con lui. Perché non
andavano mai fuori insieme. Se era sposato.

Cameron stava andando in tilt, e si costrinse a calmarsi. Non c’era
motivo per pensare che Julian non fosse sincero; non aveva mai tentato
di eludere una domanda diretta, ma si era solamente rifiutato di
rispondere ad alcune. E quello non era mentire.

In realtà Cameron non gli aveva mai chiesto dove abitasse. Julian aveva
ammesso di svolgere un lavoro pericoloso – qualcosa che avrebbe potuto
mettere in pericolo anche lo stesso Cameron – e aveva persino lasciato
intendere che avrebbe preferito separarsi da lui piuttosto che rischiare di
vederlo ferito per colpa sua. Non aveva mai parlato di una famiglia o di
altri amici, a parte Blake. Non gli aveva mai inventato delle scuse per
giustificare che non poteva incontrarsi con lui più spesso; una volta gli
aveva anche chiesto se voleva uscire, andare da qualche parte. E non
portava una fede nuziale.

Poi c’era Julian stesso: alto, tenebroso, misterioso. Terribilmente bello,
nonché incredibilmente appassionato a letto quanto era controllato in
pubblico. Il solito cliché. Pericoloso. Per gli altri di sicuro, Julian lo aveva
avvisato di ciò. Ma per quanto riguardava Cameron? A lui non sembrava.
Non aveva mai fatto niente per minacciarlo o impaurirlo; si era perfino
scusato in quelle rare occasioni in cui era diventato rude, sebbene

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Cameron gli avesse assicurato che gli piaceva.

No, non ne era spaventato.

Solo, non sapeva cosa pensare del resto. Voleva credere in lui. Lo
amava, disperatamente. Lo frequentava da una manciata di mesi ed era
successo tutto così in fretta. Non voleva lasciarlo o essere lasciato.

Se avesse fatto altre domande o chiesto chiarimenti, gli avrebbe fatto
cambiare idea fino a indurlo ad abbandonarlo? Gli avrebbe rivolto lo
stesso sguardo vitreo che gli aveva rivolto alla festa e poi se ne sarebbe
andato via? Cameron non pensava che ce l’avrebbe fatta a sopportarlo.

Restava da vedere se era in grado di vivere e amare all’oscuro della
verità.

Il leggero bussare alla porta lo catapultò fuori dai suoi pensieri.

Cameron fece scivolare lentamente gli occhi verso la porta, prima di
tirarsi su dal divano. I cani si erano già precipitati lì davanti e
scodinzolavano felici. Cameron dovette spingerli via per poter controllare
dallo spioncino.

Julian aspettava tranquillamente sul pianerottolo, a testa china. Lo
sorprese vedere che si era rasato la barba; lo aveva già notato alla festa,
prima di rifugiarsi nella cucina, e dopo se ne era dimenticato. Stava bene
così. Anche troppo. Non era giusto che fosse un uomo così attraente.

Cameron deglutì, facendo il punto della situazione. Si sentiva
relativamente calmo. Un po’ preoccupato, ma non più nervoso del solito,
almeno supponeva. Sbloccò la porta e l’aprì.

Quando Julian sentì il rumore della serratura, sollevò lo sguardo e gli
sorrise incerto, incrociando i suoi occhi. Quel sorriso aiutò Cameron a
rilassarsi. Non aveva mai pensato a Julian come a un uomo che potesse
essere ansioso, ma aveva visto un accenno di nervosismo nei suoi occhi;
o si era sbagliato? Anche quel sorriso, ad esempio. Sembrava così
umano. Gli sorrise di rimando e aprì di più la porta, quel tanto che
bastava ai cani per affollarglisi attorno alle gambe.

Julian li guardò con una specie di affettuosa rassegnazione e, nel fare un
passo, si trascinò, attaccati alla gamba, due cuccioli giocherelloni.

Cameron ridacchiò e si chinò a prendere Saffron e Snowflake. Che i cani
lo adorassero era un altro punto a suo favore. Gli animali erano bravi a
leggere le persone, non era vero?

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“È bello vedere che a qualcuno sono mancato,” mormorò Julian,
abbassandosi per prendere gli altri due cuccioli ed entrare
nell’appartamento.

Cameron passò dietro di loro e chiuse la porta. “Ci sei mancato,” gli
confermò.

Julian mise giù i cani e incrociò con cautela lo sguardo di Cameron. “Sì?”
chiese esitante.

Tenendo i cani contro il petto, il giovane annuì e senza distogliere gli
occhi, si appoggiò alla porta.

“Mi dispiace per la festa,” disse Julian calmo, fissandolo in volto.

Cameron abbassò gli occhi, muovendosi a disagio. “Stavi lavorando.”

“Ti avrei avvisato, se avessi potuto,” insistette lui. “Blake avrebbe dovuto
pensarci, quando mi ha chiamato. Quelle persone… per loro sono uno
sconosciuto, in questo momento. Ma tra un anno, un mese o una
settimana, la situazione potrebbe cambiare. Non posso fargli sapere
come ferirmi.”

“Non capisco,” ammise Cameron. “Come potrebbero farti del male? Hai
detto che, di solito, non sei tu quello in pericolo.”

“Potrebbero fare del male a te,” rispose lui, senza tentennamenti.

Il cuore di Cameron iniziò a battere furiosamente, procurandogli un
senso di stordimento alla testa. “In che modo?”

Julian, incerto, distolse lo sguardo mentre rifletteva sulla domanda.
“Potrebbero far sparire il versamento delle tue tasse, il tuo appartamento
potrebbe essere pignorato. Potrebbero farti risultare implicato in
qualcosa di illegale e farti finire in prigione,” concluse mormorando.
“Qualcuno con meno… scrupoli potrebbe arrivare a farti male
fisicamente, se volesse mandarmi un messaggio.”

Cameron si ricordava quello che Julian gli aveva detto riguardo ai pericoli
che correva, ma prima di allora non avevano avuto un contesto preciso.
Le implicazioni derivanti dalle parole di Julian lo fecero tremare e strinse
le braccia attorno ai cuccioli con abbastanza forza da farne guaire uno.
Trasalì e si accovacciò per posarli, poi rimase fermo in quella posizione,
troppo scioccato per reagire.

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Julian lo guardò impotente. “Mi dispiace,” disse ancora una volta.

Cameron si cinse con le proprie braccia e si impose di alzarsi, ma non
riusciva a smettere di tremare. “Lo sapevi,” disse con voce tremula. “Lo
sapevi, quando ci siamo conosciuti e ci siamo messi insieme, che
sarebbe potuto accadere, che qualcuno avrebbe potuto farmi del male
per colpire te. Ma non me l’hai detto prima, perché?”

Julian chiuse gli occhi e abbassò il capo, senza risposte da dare.

“Julian?” lo spronò Cameron. “Se lo sapevi… allora perché? Perché non
me l’hai detto subito?”

“Sono stato egoista,” rispose calmo l’altro. Sollevò lo sguardo per
incrociare di nuovo il suo. “E forse ero troppo sicuro di me. Ti volevo.
Pensavo di riuscire a proteggerti.”

Cameron deglutì a fatica, tentando di riordinare le idee. “Non ti chiederò
altro,” disse. “Lo so… che non vuoi dirmi niente di te. E non voglio che tu
mi lasci.”

Queste parole fecero sussultare Julian, che mugugnò offeso in risposta.
“Non ti lascerei mai per questo motivo,” replicò inorridito, fissando lo
sguardo sul suo viso.

Cameron si sentì piccolo standogli di fronte. “Non volevo rischiare.
Sembravi così deciso ad andare per la tua strada quella notte in
ospedale, te lo ricordi?”

Julian sussultò di nuovo e distolse lo sguardo, apparentemente ignaro dei
cani ai suoi piedi, che lo cercavano per farsi prendere in braccio. Riportò
lo sguardo su Cameron e scosse la testa. “Mi dispiace,” ripeté con
rammarico. “Speravo di riuscire a proteggerti dal mio stile di vita. Che tu
capissi le implicazioni e le conseguenze dello stare insieme a me.
Pensavo di poterti proteggere. Ho commesso un errore.”

Rimasero in silenzio a lungo, prima che Cameron parlasse. “Ho bisogno
di farmi proteggere?”

“Non adesso,” rispose Julian sicuro. “Non ancora. Questo è il motivo per
cui mi sono comportato come se non ti conoscessi, perché tutto
rimanesse in questo modo.”

Cameron si fece scivolare le dita verso il collo, per toccare la medaglia
appesa alla catenina, appena sotto il colletto della camicia. La croce del
guerriero aveva lo scopo di proteggere chi la indossava. Julian sembrava

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certo di quello che stava dicendo e ciò calmò leggermente le sue paure.
“Quindi mi stavi proteggendo,” disse lentamente.

Gli occhi di Julian scivolarono in basso, verso la catenina, poi tornarono a
incrociare i suoi, in silenzio, senza che lui rispondesse.

Cameron lo studiò mentre, lentamente, si calmava. “Ci sono tante cose
che non conosco di te,” sottolineò in tono quasi accusatorio.

“Ti dirò quasi tutto quello che vuoi sapere,” gli offrì rassegnato Julian.
“Ma devi essere consapevole del pericolo che ciò comporterà.”

“Pericolo? Ci sono sempre dei pericoli,” rispose Cameron, con voce triste
e rassegnata. “Anche se tu fossi un normale, insignificante, cameriere
come me. Potresti essere aggredito da qualcuno armato. Potresti
prendere una polmonite e morire. Oppure essere investito da un autobus
mentre vai a fare la spesa. Ultimamente, ho pensato che il più grande
pericolo per me sarebbe stato ritrovarmi con il cuore spezzato.”

Julian rimase in silenzio per un momento. “Ahia!” concluse in tono ferito.

Cameron si sfregò gli occhi e, girandosi bruscamente, si incamminò
verso la cucina, dove tirò fuori una bottiglia di vino e due bicchieri,
distanziandoli l’uno dall’altro. Strinse con forza le mani al bordo del
bancone per qualche momento, prima di aprire la bottiglia con
movimenti bruschi e riempire i bicchieri.

“Cameron,” mormorò Julian preoccupato, seguendolo esitante.

Cameron assaporò un sorso di vino, poi riportò lo sguardo su Julian.
Doveva chiederlo. Doveva sapere. “Mi ami, Julian?”

Gli occhi di Julian si strinsero a una fessura. “Sì,” rispose senza
esitazione.

Cameron non distolse lo sguardo. “Pensi di lasciarmi perché amarmi è
pericoloso?”

Julian sbatté le palpebre, visibilmente incapace di stare fermo. “No,”
rispose. “A meno che non me lo chieda tu,” rettificò a bassa voce.

Cameron lo guardò meditabondo, abbassò il bicchiere e indicò l’altro.
“Allora togliti il cappotto e accetta un po’ di vino.”

Julian lo studiò attentamente e poi iniziò lentamente a muoversi. Fece
scendere il cappotto dalle spalle e, dopo averlo appoggiato sopra alla

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spalliera di una sedia, si avvicinò al bancone della cucina, fino a trovarsi
di fronte a Cameron. “Non ho davvero bisogno di bere stasera,” disse con
una smorfia.

“Hai avuto una brutta serata, non è vero?” domandò il giovane con voce
dura.

Julian alzò la testa e incrociò il suo sguardo, ma non rispose né a parole
né con l’espressione del viso.

Cameron sbuffò. “Perché ti sei tagliato la barba?” chiese, facendo
ondeggiare la bottiglia mentre si riempiva di nuovo il bicchiere.

Julian si leccò le labbra, pensieroso. “Tempo di cambiamenti,” rispose.
“Vuoi che me la faccia ricrescere?” chiese, guardandolo in cerca di una
conferma.

Cameron inclinò la testa da un lato, osservandolo con attenzione. “Ci
penserò,” disse. “Qual è il tuo colore preferito?”

“Tu,” rispose immediatamente l’altro.

Cameron inarcò le sopracciglia di scatto. “Cosa?”

Julian sorrise. “Verde,” rispose serio.

Cameron sorrise appena. “Di dove sei?”

“Appena fuori Topeka,” rispose Julian senza esitazioni. “Kansas.”

Cameron annuì e bevve un altro sorso di vino. Questo spiegava la
completa mancanza di accento, ma anche che tutta l’educazione e la
raffinatezza che trasudava le aveva probabilmente imparate da solo.
Cameron rimase impressionato già solo da quel piccolo fatto. Pensò ad
altre domande da fare. “Sei stato al college?”

“Più di uno,” rispose Julian con una smorfia.

Cameron sorrise ironicamente. “Sì, me lo immagino.” Fece una pausa.
Ora che Julian rispondeva alle sue domande, non riusciva a trovare
niente da chiedere. “Davvero non ti piacciono i miei cani?”

Julian sbuffò piano e guardò i cani che ruzzavano tra di loro. “Io… sono
sempre un piacevole benvenuto.”

Cameron arricciò il naso. “Penso che tu stia distorcendo un po’ la verità.”

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“Sì,” ammise lui, con un cenno del capo.

“Ma li tolleri.”

“Sì,” convenne Julian con un incerto, improvviso sorriso.

“Non diventeranno molto più grandi. Forse di qualche centimetro, al
massimo,” spiegò Cameron.

“La misura giusta per un proiettile,” mormorò Julian, con uno sguardo
veloce ai cani. Cameron socchiuse gli occhi in ammonimento, ma lui gli
sorrise innocentemente. “Non gli sparerei mai,” promise. “Non di
proposito, almeno,” si corresse.

Cameron sbuffò piano e bevve un altro sorso di vino. “Sei sempre così
pacato a causa del tuo lavoro?”

Julian sbatté le palpebre confuso. “No… non credo,” balbettò.

“Cosa? Non te ne eri reso conto?” chiese Cameron con un sorriso
divertito. “Sei sempre molto controllato, anche quando parliamo. L’unico
momento in cui ti sento alzare la voce è quando mi scopi a tutta forza.”

Julian arrossì. Adesso che era ben rasato, era molto più evidente. Si
schiarì la gola. “Non ci avevo mai pensato,” ammise imbarazzato, con
una scrollata di spalle.

Cameron lo guardò a lungo, bevendo un paio di sorsi di vino. “Ti piace il
tuo lavoro?” era un eco della domanda che lui gli aveva fatto mesi prima.

Julian esitò brevemente, prima di annuire. “Sono piuttosto bravo,”
affermò con un tono di voce a malapena udibile.

“Cosa scrivi di continuo nel tuo taccuino?” chiese Cameron, senza
soffermarsi su cosa comportasse essere bravi nel suo lavoro.

“Note,” rispose vagamente l’uomo. “Note di lavoro sugli incarichi,” chiarì
pescando il piccolo taccuino da una tasca interna e appoggiandolo in
mezzo a loro, sul bancone. Vi appoggiò sopra le dita. “A volte rifletto
meglio sulle mie idee se posso metterle per iscritto, invece che lasciarle
vagare nella mia testa…”

Cameron guardò il taccuino e poi Julian, con circospezione.

“Puoi leggerlo, se vuoi,” gli offrì lui calmo, facendolo scivolare sul

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bancone verso di lui. “Ci sono cose che preferiresti non sapere.”

Cameron scosse la testa e delicatamente spinse il taccuino verso Julian,
che lo prese e se lo rimise nella tasca. Cameron discusse fra sé
sull’opportunità della domanda successiva, ma la pose comunque. “Sai
delle cose di me che non ti ho detto io?”

Julian lo guardò pensieroso, a lungo. “È una domanda difficile,” concluse.

Cameron improvvisamente si sentì disagio. E se ci fosse stato qualcosa
su di lui in quel taccuino? “Difficile perché non puoi o perché non vuoi?”
domandò, aggrappandosi con una mano al bordo del bancone.

“Difficile perché se dicessi di no, mentirei, e se dicessi di sì, tu penseresti
il peggio,” rispose l’altro senza mezzi termini. “So che quando sei
nervoso ti tiri un orecchio. Che parli nel sonno. Che ti piace farmi il nodo
della cravatta anche se ti ci incasini. Conosco un sacco di cose di te che
non mi hai detto.”

Cameron serrò le mani all’orlo del bancone per impedirsi di tirarsi
l’orecchio, proprio come aveva detto Julian. Guardò il suo uomo
pacatamente, con una punta di fastidio negli occhi. “Questo è un modo
carino per non rispondere a una domanda fastidiosa,” disse prima di
sbuffare. “Parlo nel sonno?” chiese, esitante.

Julian abbassò la testa, deluso che Cameron non avesse reagito come si
era aspettato a quella che sperava fosse una specie di dichiarazione
romantica. Cameron non l’aveva capito? Julian sospirò e confermò con
un cenno del capo.

“Non ne sono tanto contento,” borbottò Cameron. “Chissà che cosa dico.”
Poi si irrigidì. Dio, c’erano tante cose che lo preoccupavano nella sua
relazione con Julian; a volte si chiedeva cosa avrebbe fatto se lui non
fosse ritornato, cosa avrebbe potuto fare per mantenere la sua
attenzione… aveva dato voce a quelle preoccupazioni, durante la notte?

“Per lo più tenti di prendermi l’ordine o mi ordini di pulire i tavoli,” gli
disse Julian, cercando di non sorridere.

La testa di Cameron scattò verso l’alto, guardando sgomento il suo
amante. “No, non ci credo!”

Julian scosse le spalle con noncuranza. “Ho sentito di peggio.”

Cameron socchiuse gli occhi, realizzando che lo aveva portato fuori pista.
Sospirò e si riempì il bicchiere, sebbene quello di Julian fosse ancora

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intatto. Chiaramente era molto bravo a parlare di altre cose, invece che
di se stesso. Se avesse voluto nascondergli qualcosa, probabilmente
sarebbe stato in grado di farlo senza che Cameron se ne accorgesse. Era
un pensiero deprimente.

“Qual è il mio colore preferito?” chiese.

Julian sorrise lievemente e guardò i cuccioli. “Verde?” tentò dopo averli
studiati.

Cameron seguì il suo sguardo. Pensò che fosse un’ipotesi valida. I collari
dei cani erano blu, giallo, rosso e bianco. Nessuno aveva il verde.
Cameron si immaginò che un uomo come Julian non avrebbe usato il suo
colore preferito per un cane in particolare, così aveva applicato lo stesso
concetto per lui. Era stato tenero, per un certo verso, e Cameron stava
lottando per non cedere alla tentazione di baciarlo.

“Dove abiti?” chiese invece. “Quando non stai con me?”

“A casa,” rispose Julian. “Qual è il tuo colore preferito?” domandò
incuriosito.

“Non faccio le domande giuste, vero?” mormorò Cameron, dopo aver
svuotato di nuovo almeno la metà del bicchiere. Guardò di nuovo Julian
e, per rispondere alla domanda che lui gli aveva fatto, aprì il colletto
della camicia con una mano e accarezzò con le dita la pietra di granato
rossa incastonata nel pendente.

Gli occhi di Julian seguirono il movimento, poi tornarono indietro su
Cameron con sorpresa. “Devi essere solo più specifico,” mormorò in
risposta alla sua domanda.

Il giovane si chiedeva perché l’altro sembrasse così scioccato, ma
continuò a tenere le dita sul ciondolo, accarezzando la pietra riscaldata
dal suo corpo. Aggrottò la fronte, cercando di trovare le parole giuste per
formulare la domanda successiva. “Più specifico,” sussurrò. Sollevò gli
occhi, meditando su cosa chiedere. “Un giorno mi porterai a casa tua?”

Julian lo guardò di sottecchi, esitante. “Ti piacerebbe vedere dove vivo?”
domandò incerto.

“Sì,” rispose lui. “È un problema?” Julian abbassò lo sguardo,
indubbiamente cercando di temporeggiare prima di dare una risposta.
Con una smorfia, Cameron bevve un altro lungo sorso di vino e appoggiò
il bicchiere ormai quasi vuoto, facendolo tintinnare. La pausa che Julian
si stava prendendo non era rassicurante. “Abiti insieme a qualcuno?”

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chiese con la sicurezza derivante dal vino e dalla crescente agitazione.
“Un fidanzato? Una fidanzata? Una moglie?” aggiunse di proposito.

Julian sollevò subito lo sguardo. “Cosa?” esclamò sotto shock.

Cameron si prese del tempo per riempirsi ancora una volta il bicchiere.
“È un tipo di domanda a cui si risponde sì o no, è molto specifica,”
rispose agitato, prima di sollevare inconsciamente una mano per
massaggiarsi il collo e tirarsi un orecchio.

“Pensi che io sia sposato?” domandò Julian, alzando la voce per la prima
volta.

“In questo momento non so cosa pensare. Ma ti conosco abbastanza
bene da sapere che se la risposta fosse stata no, l’avresti detto
immediatamente,” affermò il giovane, in attesa di vedere se l’altro lo
contraddiceva.

Julian lo fissò incredulo. “Che cosa pensi? Che se colpisci qualcuno con
un martello, quello risponda subito dicendo ‘ahi’?” replicò.

“Ho bisogno di bere ancora,” borbottò Cameron, riempiendo il bicchiere
ancora mezzo pieno. “A volte ti comporti come due persone
completamente diverse, lo sai?”

“Cosa?” ripeté Julian impotente.

“Va bene,” disse Cameron bruscamente, posando il bicchiere. “Leviamoci
il pensiero, in un modo o nell’altro. Ti vedi regolarmente con qualcun
altro a parte me?”

“No,” rispose Julian, con evidente dolore nella voce. Si fermò
improvvisamente, con la fronte corrugata. “A meno che non conti
Preston,” si corresse.

“Preston? Chi è Preston?”

“Il mio autista,” proseguì Julian, rivolgendogli uno sguardo quasi
supplichevole. Dalla posizione delle sue spalle si intuiva quanto si
sentisse ferito. “Ma che tipo di persona pensi che io sia?” gli chiese.

Cameron si accasciò sul bancone, nascondendo la testa tra le braccia.
“Sei adirato con me,” se ne uscì abbattuto.

“Da quanto tempo ti chiedi se sono sposato?” gli chiese Julian senza
rispondere alla sua affermazione. “All’inizio hai pensato che fossi una

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specie di gigolò. Adesso uno stronzo che tradisce la moglie. Cos’altro
pensi di me, Cameron?”

Cameron sollevò di scatto la testa e si rese conto che, in quel momento,
era la rabbia il sentimento dominante. “Non so cosa pensare di te, Julian!
Non parli mai di te! Non posso far altro che usare la mia immaginazione!”
La sua spavalderia, alimentata dal vino, si esaurì e smise di parlare. “Ho
bevuto troppo,” farfugliò, allontanando il bicchiere e tappando la
bottiglia.

Julian era fermo al bancone e lo fissava, indeciso tra l’essere arrabbiato o
ferito. “Bene,” sospirò dopo qualche minuto di tensione silenziosa.
“Prendi il tuo fottuto cappotto,” gli ordinò, prendendo il telefono dalla
tasca.

Cameron lo guardò da sopra la bottiglia. Il suo viso mostrava
chiaramente la rassegnazione: sapeva che Julian non era semplicemente
adirato. Lo aveva fatto infuriare. Una parte di sé era stupita per essere
riuscito a provocare una tale reazione da parte del suo uomo. Non lo
aveva mai visto veramente arrabbiato prima. Per il resto, si sentiva
ferito, sofferente e avrebbe voluto piangere. “Perché?” si ritrovò a
chiedere.

“Perché te l’ho detto io, cazzo,” scattò Julian, mentre teneva il telefono
all’orecchio. Sbraitò l’indirizzo di Cameron e poi chiuse la comunicazione
con rabbia.

Cameron lo guardò di sottecchi, con il cuore che gli batteva forte, prima
di muoversi e obbedire senza pensarci oltre. Si spostò velocemente dal
bancone della cucina e andò in soggiorno a prendere il cappotto. Julian lo
guardò muoversi, borbottando tra sé, e poi raggiunse la porta.

“Assicurati che i cani abbiano del cibo,” gli abbaiò, spalancandola.

Cameron fece velocemente ciò che gli era stato chiesto, mentre Julian
aspettava in silenzio, quasi vibrante di rabbia. Cameron credette di
capire perché Miri aveva paura di lui, ma per quanto l’uomo fosse e
agisse da arrabbiato, lui non se ne sentiva minacciato. Più che altro
sentiva la delusione e la vergogna per come si era comportato.

Prese al volo le chiavi di casa da un piccolo tavolino vicino alla porta e si
fermò davanti all’altro uomo.

Julian lo fissò senza dire una parola. Alla fine, fece scivolare gli occhi su
di lui, incrociandone lo sguardo. “Pronto?” gli domandò, con la stessa
voce bassa e tranquilla, che usava di solito al ristorante. Sembrava

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sorprendentemente calmo.

Contrariato, Cameron si chiese dove fosse finita all’improvviso tutta la
sua rabbia. “Sì,” sussurrò. Julian allungò la mano per stringergli il
braccio, le dita che gli affondavano nel muscolo, e lo guidò fuori nel
corridoio, prima di sbattersi la porta alle spalle. Poi lo spinse verso le
scale, senza proferire una parola.

Cameron non offrì resistenza, trascinandosi accanto a lui, eccetto che per
allungare il collo e assicurarsi che nessuna bianca palla pelosa li avesse
seguiti nel corridoio. Si rese conto che la rabbia di Julian non era
scomparsa: era solo sapientemente mascherata. Che l’uomo riuscisse a
nasconderla così bene lo preoccupava più del fatto di saperlo arrabbiato.
Chissà quanta altre volte aveva soppresso o nascosto le sue emozioni
con la stessa facilità? Era un pensiero inquietante.

Uscirono nella notte fredda proprio nel momento in cui una Lexus nera si
fermava davanti al palazzo. Julian gliela indicò con un ringhio sommesso,
guidandolo verso la portiera posteriore. Cameron guardò dalla macchina
a Julian e viceversa e quasi cadde contro la fiancata della Lexus, quando
l’uomo lo diresse con la mano serrata intorno al suo braccio.

Julian spalancò la portiera prima che l’autista riuscisse a scendere per
farlo e l’uomo biondo, dopo un’occhiata a Julian, ripiombò in silenzio al
posto di guida. Julian ringhiò nuovamente e spinse brutalmente Cameron
sul sedile posteriore, salendo accanto a lui e chiudendo la portiera con un
insoddisfacente tonfo sordo.

“A casa,” ordinò seccamente e la macchina si allontanò dal marciapiede.

Intuendo che fosse meglio non aprire bocca, Cameron spostò lo sguardo
da Julian al conducente – Preston? – e poi fuori dal finestrino. Sapeva
senza ombra di dubbio che non era il caso di farlo infuriare più di quanto
già non fosse. Visto il controllo che Julian aveva sulle proprie emozioni,
doveva essere davvero adirato, altrimenti non si sarebbe mai mostrato in
quello stato. Cameron non era sicuro su cosa pensare del fatto che, per
scoprire qualcosa di concreto su di lui, aveva dovuto farlo arrabbiare in
quel modo.

Volarono attraverso la città immersa nella notte per arrivare, alla fine, in
un quartiere lontano dal centro e pieno di antiche ville restaurate. L’auto
girò in una strada privata protetta da un grande arco in pietra e da una
cancellata in ferro. Preston aprì il finestrino e passò una carta magnetica
in un sensore posizionato con discrezione vicino a un cespuglio di
arbusti. Il cancello scorse su cardini ben oliati e il silenzioso autista lo
attraversò, guidando fin davanti alla casa. La costruzione in stile Tudor,

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che si trovava in cima a un ampio viale circolare, non era grande per gli
standard del quartiere, ma sembrava in qualche modo inquietante. Era la
tipica casa da cui i ragazzi del quartiere si tenevano ben lontani a
Halloween.

Julian sedeva con la testa china e gli occhi chiusi. Dopo alcuni momenti
di silenzio, alzò la testa e guardò direttamente davanti a sé. “Casa,”
annunciò a Cameron con calma.

Cameron voltò gli occhi sbarrati, che fino a quel momento erano rimasti
fissi sul paesaggio fuori dal finestrino, verso Julian. Non c’era da
meravigliarsi che l’altro uomo stesse con lui solo una o, occasionalmente,
due notti la settimana. Con quell’incredibile casa a cui tornare, perché
rimanere in un appartamentino ricavato in un ex-magazzino
ristrutturato? Improvvisamente, il giovane sentì intensamente di
appartenere a una classe sociale nettamente inferiore.

Julian lo scrutò con attenzione, sforzandosi visibilmente di tenere a freno
la rabbia. “Vuoi entrare?” chiese pacato.

Cameron girò il mento per guardare nuovamente l’imponente edificio. Le
sue mani si strinsero nelle tasche del cappotto e scosse ripetutamente la
testa. “Io… io sono proprio fuori posto qui,” sussurrò, sentendosi
veramente a disagio.

“Ha importanza per te che io ti ami?” gli chiese Julian, distogliendo lo
sguardo da lui per posarlo sulla casa.

Cameron si girò, desiderando di vedere gli occhi del suo uomo. “Per me è
la cosa più preziosa al mondo,” rispose con voce spezzata.

“Allora perché non puoi credere che per me sia lo stesso?” replicò l’altro
a voce bassa.

Il dolore lo colpì così profondamente da costringerlo a ritrarsi e dovette
girarsi a guardare attraverso il finestrino, sbattendo le palpebre più
volte, per trattenere le lacrime incombenti. “Mi dispiace,” sussurrò. “Solo
che è difficile da capire, cosa una persona con una vita come questa,”
disse indicando fuori dal finestrino con la testa, “possa vedere in uno
come me.”

“Eri più felice quando eravamo solo io e te, nel tuo appartamento,”
mormorò Julian triste, guardando la villa.

Cameron grugnì per la frustrazione. “Sapevi che mi sarei sentito in
questo modo,” realizzò ad alta voce. “L’hai sempre saputo,” aggiunse,

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con amarezza, mentre teneva gli occhi puntati sulla casa. “Mi conosci
meglio di quanto io conosca me stesso. Sono davvero così prevedibile?”
proseguì in tono lamentoso.

“Sei tutt’altro che prevedibile,” brontolò Julian irritato.

Cameron non poté fare a meno di guardarlo mentre una delle sue mani
volava a coprirsi la bocca, per soffocare una risatina forzata.

“Vedi?” gemette Julian strofinandosi gli occhi.

La risposta di Cameron fu smorzata dalla mano sulla bocca, fino a
quando non la tolse per ripetersi. “Vedi cosa?” Guardò di nuovo fuori dal
finestrino. “Mi sento come Annie l’orfanella,” bisbigliò sottovoce.

“Piantala di parlare e scendi dalla macchina,” brontolò l’altro, tirando la
maniglia per aprire la portiera.

Cameron si morse il labbro e lo seguì, fermandosi ad abbracciare con lo
sguardo tutta la facciata dell’edificio. “Tu vivi qui da solo? In questa casa
enorme?”

“Mia moglie e i ragazzi vivono in quell’ala,” rispose impassibile Julian,
allungando con noncuranza il braccio verso sinistra.

Cameron sbatté le palpebre, sconcertato fino a quando l’altro alzò gli
occhi al cielo e scosse la testa con impazienza, avviandosi all’ingresso.

“Me lo merito,” borbottò Cameron mentre lo seguiva sulle scale.

“Sì,” convenne l’altro freddamente, fermandosi davanti alla porta di
ingresso e tirando fuori le chiavi.

Cameron cominciò a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro,
soprattutto dopo che Preston si fu allontanato con la macchina. Nel buio,
Julian sembrava quasi un estraneo. Cameron avrebbe voluto toccarlo per
assicurarsi che fosse ancora il suo amante, lo stesso che lo teneva tra le
braccia di notte, e non l’ombra rabbiosa di un uomo che lui non
riconosceva.

Julian aprì l’ampia porta d’ingresso, girandosi a guardare Cameron nella
luce accogliente che si riversava dall’atrio. Rimase in silenzio per un
lungo momento e poi disse: “Volevi che ti portassi a casa mia,” mormorò
lui. “Allora… entra adesso.”

Sollevando la testa, Cameron lo guardò intensamente. “Pensavo che

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volessi metterti in ginocchio e implorarmi.” Fece un mezzo passo verso la
soglia.

Julian ringhiò e, allungando le mani, lo afferrò con la stessa forza che
aveva usato prima, trascinandolo dentro e sbattendo la porta dietro di
loro. Poi lo baciò con decisione nel mezzo di quell’enorme ingresso,
tenendolo saldamente in modo che non potesse scappare.

Cameron ansimò contro le sue labbra e si aggrappò alle sue spalle,
sentendosi sopraffatto. Julian aveva impresso tutta la sua forza
nell’abbraccio e lui non poteva resistergli. Si appoggiò contro il suo
uomo, cercando di corrisponderlo e di prendere parte a quel bacio
ardente.

Quando Julian lo lasciò, Cameron si guardò intorno stordito. Si riscosse
vedendo una figura indistinta, in abiti scuri maschili, in piedi alla base
della scala, con le mani discretamente nascoste dietro la schiena.

“Ha bisogno di me, signore?” chiese.

Senza staccare gli occhi dal viso di Cameron, Julian gli fece cenno di
andare via.

“Molto bene, signore,” disse l’uomo, con voce strascicata. Cameron poté
vedere una nota di divertimento nella sua espressione quando si girò e
con calma sparì nelle profondità della casa.

Cameron aprì la bocca per parlare, ma Julian lo baciò di nuovo per
zittirlo. Pochi secondi dopo, si staccò, incrociò intensamente i suoi occhi
per qualche istante, poi si diresse verso le scale, con il suo gomito
ancora saldamente in pugno. Lui lo seguì obbediente, guardando a bocca
aperta l’ambiente circostante. Julian lo portò fino al pianerottolo del
primo piano, dove un corridoio conduceva a una doppia porta. Oltre,
c’era una camera da letto relativamente piccola, che in pratica occupava
per intero una delle torrette della casa.

Julian lo tirò dentro e accese le luci. La stanza era arredata
semplicemente, quasi in modo spartano, con un letto a baldacchino
contro il muro e una zona soggiorno attorno a una finestra a bovindo,
che seguiva la parete curva della torretta. Su un altro muro era appeso
un televisore a schermo piatto e c’erano due enormi gatti rossi a pelo
lungo sdraiati fianco a fianco sul letto, che li fissavano con i loro identici
occhi verdi.

Cameron gettò uno sguardo nella stanza, posando infine i suoi occhi sui
gatti. “Tu vivi davvero con qualcuno. Anzi con più di uno!” disse in finta

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accusa.

Julian si schiarì la gola mentre uno dei gatti si alzava stiracchiandosi
languidamente, per poi leccarsi il pelo e saltare giù dal letto con un
sonoro tonfo, muovendosi furtivamente verso di loro. “Questo è Wesson,”
mormorò Julian, indicandolo con un dito. Fece un cenno al gatto ancora
sdraiato sul letto e disse: “E quello è Smith.”

Cameron soffocò una risata e li guardò circospetto, mentre Wesson era
sempre più vicino. Forse erano i gatti più grossi che avesse mai visto.
Dovevano essere incrociati con un leone. Cameron si riparò dietro a
Julian. “Sembrano…” Si schiarì la gola. “Uhm. Non molto amichevoli?”

“No, no. Sono il male puro,” gli assicurò lui, mentre si chinava a prendere
il gatto che gli si stava strusciando alle caviglie. Il gatto era enorme e
Cameron pensò che doveva pesare almeno sette chili; inoltre il pelo
lungo lo faceva sembrare il doppio della sua già impressionante taglia. Si
era appeso alle grandi spalle di Julian, facendo apparire l’imponente
uomo come un bambino che cercava di abbracciare un enorme
orsacchiotto. Faceva le fusa così forte che Cameron poteva udirlo bene
senza nemmeno avvicinarsi e lo fissava con lo stesso sguardo impassibile
del suo padrone. In quel momento più che mai, le abitudini di Julian lo
colpirono e pensò che assomigliasse molto ai uno dei suoi enormi gatti.
Forse aveva trascorso troppo tempo con quelle due bestie.

Julian strizzò Wesson strappandogli un miagolio di protesta, prima di
rimetterlo giù ridacchiando.

“Tu vivi con questi due mostri e non sopporti i miei cagnolini?” domandò
incredulo Cameron.

“I miei gatti potrebbero trasformare i tuoi cani in palle di pelo,” lo schernì
lui, affettuosamente.

Cameron incrociò le braccia. Sembrava che il suo scanzonato partner
fosse ritornato… per il momento. “Beh, hai quattro cani a casa mia, che
sono perdutamente innamorati di te. E questi… gatti. Voglio condividerti
solo con loro,” aggiunse serio.

“Pensi che potrei avere qualcun altro?” chiese Julian con voce dura,
mentre il gatto saltava di nuovo sul letto e si girava a guardarli. “Pensi
che abbia mentito quando ti ho detto che ti amavo?”

Cameron studiò la sua faccia. Poteva vedere chiaramente quanto fosse
frustrato. Scosse la testa. “No, non credo.” Dopo di che diede libero
sfogo alla propria insoddisfazione. “Mettiti nei miei panni, non so niente

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di te! Perdio! Stasera, è stata la prima volta che ti ho visto arrabbiato.”

Julian serrò le mascelle. “Tu non mi hai mai visto veramente arrabbiato,”
affermò con voce bassa e calma.

Contrariato, Cameron tese entrambe le mani in un movimento brusco,
come per dire: ‘Beh, visto?’ “Perché ottenere informazioni da te, equivale
a tentare di estrarti un dente?” chiese frustrato.

“Cameron, cosa devo fare per farti capire che sto cercando di tenerti
lontano da qualcosa di brutto?” chiese piano Julian, alzando una mano
per prendergli il mento. “Non voglio che tu veda il mondo che io
frequento. Cos’è che vuoi così disperatamente?”

“Ti voglio conoscere,” dichiarò il giovane, con un tono disperato nella
voce. “Ti voglio conoscere,” sussurrò, sconvolto al punto di sentirsi
soffocare e minacciando di far traboccare all’esterno quella sensazione.

L’espressione di Julian si addolcì, fece due passi per cingerlo tra le
braccia e lo attirò a sé. Cameron gli si aggrappò con mani tremanti e il
cuore che batteva forte per la paura: paura che fosse arrivato il
momento in cui lui l’avrebbe messo da parte.

Ma le grandi braccia che lo circondavano non si spostarono e si sentì
sfiorare il capo da un bacio leggero. Chiuse gli occhi e lo strinse forte. “Ti
amo, Julian,” dichiarò chiaramente.

“Lo so.”

QUALCUNO bussò alla porta di Cameron un venerdì di prima mattina. Era
prima del solito, ma Julian era tutto fuorché prevedibile, quando voleva.
I cuccioli, saltando come pazzi, si diressero in corteo verso la porta.
Cameron scosse la testa sconsolato e li scacciò in modo da poter
guardare dallo spioncino. Poi aprì la porta sorpreso.

“Preston?” esclamò timidamente.

“Buon giorno, signore,” lo salutò l’uomo, con un lieve cenno del capo. Era
vestito con il suo consueto abito fatto su misura, proprio come era solito
indossare il suo capo, e i suoi capelli biondo platino tagliati a spazzola
erano cosparsi di fiocchi di neve che non si erano ancora sciolti. Ma lui
non sembrava notarli.

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“Sarebbe così gentile da venire con me, signore?” chiese educatamente.

“Venire con lei?” doveva avere qualcosa a che fare con Julian. Una lieve
preoccupazione mista a curiosità iniziò a crescergli nel petto. “Ah, certo,”
disse, sapendo che, in ogni caso, qualsiasi domanda avesse posto non
avrebbe avuto risposta. “Devo mettermi solo le scarpe e prendere il
cappotto,” aggiunse, bloccando con un piede i cuccioli. “Vuole
accomodarsi in casa?”

“Grazie, signore. Aspetterò qui,” lo rassicurò Preston, con un cenno della
testa e un sorriso distaccato.

“Certo. Torno subito,” disse Cameron chiudendo la porta. Prese il
cappotto e le scarpe da ginnastica: visto che indossava già i jeans e una
felpa sarebbero dovuti bastare. In fondo, Julian lo preferiva con gli
indumenti di tutti i giorni. Doveva ancora capire il perché, ma sospettava
che avesse a che fare con il fatto che lui invece doveva indossare quasi
sempre vestiti formali e costosi.

Controllò le ciotole dei cani e le riempì di dolcetti, quindi afferrò le chiavi
e riaprì la porta. “Okay, sono pronto.”

Preston non disse una parola. Assentì e girò sui tacchi con un’inquietante
mossa militare, prima di fare strada per le scale fino alla macchina che
era in attesa. Gli aprì la portiera posteriore e rimase rigidamente di
fianco ad aspettare che entrasse.

Cameron si fermò un attimo, scrollandosi di dosso una strana sensazione
e salì. “Grazie,” disse, chiedendosi cosa stesse succedendo. Julian non
era nella macchina, come invece si era aspettato, e Preston non fornì
alcuna spiegazione quando scivolò al posto di guida e mise in moto.
Immettendosi nel traffico intenso, i suoi occhi di ghiaccio scivolarono
sullo specchietto retrovisore per controllare Cameron, concedendogli
quello che voleva essere un sorriso rassicurante.

L’autista gli ricordava molto Julian, anche se non avevano, ovviamente,
lo stesso aspetto. Dove Julian era grosso e robusto, Preston era asciutto
e atletico. Dove Julian era tenebroso e affabile, lui era pallido e glaciale.
Ma avevano la stessa aria competente e imperturbabile. Era quasi sicuro,
guardandolo, che ci fosse una sorta di addestramento militare alle sue
spalle. Sapeva che Blake anni prima era stato un medico in qualche
reparto militare. Forse era così che si erano conosciuti tutti. Prima o poi
doveva trovare il coraggio di chiederlo a Julian.

Rilassandosi un po’ sul sedile lussuoso dell’auto, volse gli occhi a

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guardare la città che scorreva veloce fuori del finestrino. Non passò
molto prima che l’agglomerato urbano cominciasse a sparire, sostituito
dalle grandi ville antiche che lui ricordava dal suo ultimo viaggio nella
Lexus di Julian.

Adesso però, alla luce del giorno, poteva cogliere meglio i dettagli e la
vista era ancor più impressionante. Non aveva mai visto case come
quelle nella sua vita, nemmeno alla televisione. Gli venne in mente che
Julian non doveva essere semplicemente benestante, ma estremamente
ricco. Solo le tasse sulla proprietà di posti come quelli avrebbero
svuotato in poco tempo i conti bancari di molte persone. Cameron ne era
sicuro. Scosse la testa. Era solo che Julian non aveva un’aria… snob. Non
lo era in effetti. Era solo Julian.

In breve tempo, Preston si fermò al cancello di ferro che proteggeva il
viale. Abbassò il finestrino, facendo entrare l’aria fredda della mattina e
qualche isolato fiocco di neve, e strisciò la carta magnetica che apriva il
cancello scorrevole. Una volta giunti di fronte alla casa, saltò giù in fretta
per aprirgli la portiera, sempre senza dire una parola.

Cameron scese, anche lui in silenzio. Preston chiuse la portiera e
cominciò a salire gli scalini. Il giovane capì che era meglio seguirlo e
dovette affrettarsi per raggiungerlo. Preston lo introdusse nel grande
atrio e la porta si chiuse dietro di loro come fosse l’eco di un inquietante
presagio.

“Da questa parte, prego,” indicò l’autista, facendogli strada verso
l’enorme scala interna.

Su un terreno più familiare, Cameron lo seguì per le scale e lungo il
pianerottolo che portava alla camera di Julian, sempre più sconcertato.
“Preston, cosa…”

“Lui non sa che sono venuto a prenderla, signore,” rispose Preston,
tradendo un certo divertimento con una smorfia. “Non sono nemmeno
sicuro che sia consapevole del fatto che oggi è venerdì,” gli confidò,
quando arrivarono alle massicce doppie porte della camera da letto di
Julian.

Cameron spalancò gli occhi. “Consapevole… che sta succedendo? Cosa è
successo?”

Preston fece un sorrisetto, una reazione che evidentemente cercò di
sopprimere. Allungò le mani e aprì le porte, facendogli cenno di entrare
nella stanza.

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Le tende nella camera di Julian erano tirate e quel poco di luce che
filtrava dai bordi in quella mattinata uggiosa era l’unica fonte luminosa.
Era comunque abbastanza facile distinguere i due enormi gatti sul letto,
le code che si dimenavano e palesavano la loro irritazione per essere
stati disturbati. Sotto di loro, nascosto da una trapunta e diversi cuscini,
c’era un rigonfiamento che doveva essere Julian, rannicchiato su un
fianco e immobile.

“Sta… sta bene?” chiese Cameron con voce tremante, sforzandosi di non
correre verso il letto.

Invece di rispondere, Preston si schiarì la gola per mascherare una
risatina. La figura nel letto gemette e si spostò quel tanto da disturbare i
gatti, che miagolarono entrambi in tono lamentoso, con le code che si
dimenavano più forte.

“Preston,” chiamò Julian con voce rauca da sotto i cuscini. “Per favore,
uccidimi,” chiese mestamente.

“Mi dispiace, signore, ma per quello dovrà aspettare. Ha una visita,”
rispose quello, sorridendo a Cameron. Fece un cenno con la testa,
invitandolo a proseguire all’interno della stanza.

L’insolito umorismo di Preston ottenne un mezzo sorriso da parte di
Cameron, che scosse la testa e, avvicinandosi al letto, si sedette sul
bordo, attento a non disturbare i gatti. “Julian?”

Julian si spostò leggermente sotto la coperta; con la mano spinse il
bordo di un cuscino a rivelare un occhio pesto, che lo fissava con
sguardo offuscato.

“Cameron?” chiese confuso, la voce era soffocata in modo quasi comico
dalla trapunta.

“Sì,” rispose calmo quest’ultimo, allungandosi per tirare leggermente la
coperta verso il basso. Spinse via il cuscino dalla testa dell’amante e gli
passò le mani tra i capelli. Sotto il rossore, dovuto probabilmente alla
febbre, Julian era pallido. “Cosa c’è che non va?” gli domandò
preoccupato.

Julian gli rispose con un gemito lamentoso e chiuse gli occhi. “Sto
morendo,” piagnucolò. “Cosa ci fai qui?” domandò poi con un accenno di
speranza nella voce.

“Ah, non sono sicuro di saperlo,” tentò Cameron, guardando Preston.

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“Mi ha chiesto lei di accompagnarlo qui, signore,” rispose gentilmente
l’uomo. “Non se lo ricorda?” proseguì, trattenendo a malapena una
risata, mentre si girava e usciva dalla stanza, chiudendo le porte dietro
di sé.

“L’ho fatto?” chiese Julian, mentre apriva di nuovo gli occhi, sbattendo
lentamente le palpebre, come per mettere a fuoco. In fondo al letto, uno
dei gatti si alzò, stiracchiandosi languidamente prima di muoversi
lentamente verso Cameron.

“Julian…” Cameron guardò dalla porta al gatto, e da questo al suo uomo,
poi nuovamente al gatto, per ogni evenienza. Aveva avuto una sola
esperienza con i due animali, ma aveva visto quanto potessero essere
possessivi e cattivi. Pensava di essere al sicuro fino a quando non si
fosse avvicinato a Julian. “Cosa c’è che non va?” gli domandò,
mettendogli una mano sulla fronte. “Sei malato?” Era febbricitante per
davvero.

“Due buchi,” rispose quello con voce rotta, quasi uno squittio.

Cameron sbatté le palpebre. “Ti hanno sparato? Di nuovo?”

Julian scosse la testa, cominciando a combattere con la trapunta per
scoprirsi. Quando alla fine ci riuscì, Cameron poté vedere che le spalle e
il petto nudi erano chiaramente contusi e feriti, con diversi segni rossi
che sembravano graffi superficiali. Le braccia erano fasciate e le mani
erano piene di lividi e graffi. Sulla parte superiore del braccio destro,
c’era un solo cerotto e lui lo indicò stizzosamente con l’altra mano.

“Mi hanno bucato,” esclamò, puntando il dito con enfasi contro la
medicazione.

Cameron fissò il cerotto a lungo, mordendosi il labbro inferiore. Ora
capiva perché Preston si sforzasse così tanto di non ridere. “È… terribile,”
riuscì a dire, a denti stretti per non correre il rischio di lasciarsi andare.

Il gatto iniziò a camminare verso il corpo di Julian e si accovacciò a
fianco del padrone quando questi gli fece un cenno. La sua coda si
dimenava avanti e indietro, scivolando contro il suo braccio durante il
movimento.

“Non è divertente,” insistette Julian mestamente. “Micio cattivo!” gridò
all’improvviso, appena prima che il gatto si avventasse su di lui,
colpendo le bende bianche avvolte attorno alle sue dita tremanti e
attaccandogli poi il viso con un morso sul mento, prima di saltare
dall’altra parte del letto e riprendere a leccarsi per bene il pelo.

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Cameron non poté farne a meno. La sua risata risuonò forte nella stanza
e lui cadde quasi dal letto quando Julian si rintanò sotto le coperte per
proteggersi. Ci fu un’altra zuffa, con l’altro gatto che si era unito al
primo, e si era avventato sui piedi di Julian che si muovevano sotto le
coperte.

“Mici cattivi,” borbottò lui, in uno stato pietoso.

Sorridendo, Cameron guardò il suo compagno, normalmente coraggioso
e impassibile, giacere adesso impotente e debole, e lo trovò stranamente
tenero. Gradì quella sensazione. “Non stai così male,” sottolineò. “Visto
che riesci a lottare contro quei mostri.”

“Sono malvagi,” insistette lui, infilando i piedi sotto il corpo di Wesson,
che faceva rumorosamente le fusa. Il gatto rispose con un sommesso
miagolio di protesta.

“Ma tu li adori,” sottolineò Cameron divertito.

Julian sospirò stancamente e chiuse gli occhi, mentre il suo corpo si
rilassava e si lasciava andare sul letto. “Com’è possibile che due buchetti
ti facciano stare così dannatamente male?” biascicò poi rivolto a
Cameron.

Quest’ultimo si morse un labbro. “Con cosa ti hanno bucato?” chiese, con
un tono che esprimeva chiaramente il suo divertimento.

“Con l’antitetanica e l’antirabbica,” rispose l’uomo di malumore,
mostrando l’accenno di un accento mai sentito prima, forse del New
England. “La fottuta rabbia. Come se fossi un fottuto cane.”

Cameron si morse il labbro più forte, per non ridere. “Posso fare
qualcosa per aiutarti?” aspettò a dire, quando fu sicuro di poter
formulare le parole.

“No,” si lamentò l’altro. “Mi fa male il braccio, la gamba, la testa e anche
il culo,” si lagnò, lottando con il cuscino e arrotolandosi miseramente
contro di esso.

Scuotendo la testa con indulgenza, Cameron allungò la mano per usare
le dita come un pettine fra i suoi capelli. “Povero piccolo. Ti fa male il
culo e non posso neanche prendermene il merito.”

“Non posso credere che Preston ti abbia portato qui,” borbottò l’altro
contro il cuscino.

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Cameron si accigliò. “Ha detto che glielo hai chiesto tu.”

“È un fottuto bugiardo,” affermò Julian stizzito. “Perché mai avrei voluto
che mi vedessi in questo stato?” lo apostrofò infine, guardandolo con
occhi spenti.

“Perché no? Tu mi hai visto in condizioni un casino peggiori,” disse
Cameron, accigliandosi leggermente. Si chinò per depositargli un lieve
bacio all’angolo della bocca. “Non c’è bisogno di fare sempre Mister
Uomo Tosto.”

“Sì, ma…” gemette piano lui, spostandosi nel letto. “Sono irascibile,”
ammise. “E sotto analgesici,” aggiunse, indicando con il suo lungo dito
un flacone di antidolorifici sul comodino.

“Ti sono concessi,” disse Cameron, inclinando la testa verso il flacone. Si
spostò leggermente. “Vuoi davvero che me ne vada?”

Julian lo guardò, di nuovo pensieroso. “Non proprio,” rispose infine. “Se
mi aiuti a sollevare il braccio potrei anche abbracciarti,” aggiunse, con
l’accenno di un sorriso.

Cameron si alzò in piedi, scalciò via le scarpe e si arrampicò sul letto
accanto a lui. Si mise seduto, appoggiandosi alla testiera. “Vieni qui e
lascia che ti abbracci,” gli disse. “Prometto che non lo racconterò a
nessuno.”

Julian si guardò intorno con circospezione, come se non riuscisse a
fidarsi del tutto della situazione. Cameron immaginò che non dovesse
capitargli spesso di essere coccolato, neppure quando si sentiva così
male. Julian si sforzò di tirarsi su nel letto: i muscoli della schiena e del
braccio sinistro tesi per lo sforzo supplementare, mentre il braccio destro
era stretto protettivamente contro il corpo. Riuscì a scivolare di qualche
centimetro verso l’alto, ma muovendosi fece cadere il lenzuolo, rivelando
una grossa medicazione di garza, applicata in basso sulla coscia, appena
sopra al ginocchio. Il bianco della garza risaltava contro la sua pelle e
una macchia rossa si estendeva al centro. Julian si abbassò lentamente,
appoggiando la guancia sulla coscia di Cameron con un suono simile a un
gemito.

Cameron, preoccupato, iniziò a massaggiargli lentamente la schiena,
avanti e indietro, mentre con l’altra mano gli accarezzava i capelli. “Stai
sanguinando,” mormorò con tristezza. “Cosa è successo realmente,
Julian?”

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“Non sospettavamo che ci fosse un cane,” affermò lui, in tono burbero.

“Un cane?” Cameron guardò prima la medicazione e poi il braccio. “Sei
stato attaccato da un cane? Sul serio? Era Cujo?”

“Era un cane grosso,” spiegò l’uomo, indicando la ferita da morso e i
segni di difesa sul braccio. Sembrava che i denti avessero affondato nel
muscolo della coscia, strappandone un lembo prima che la bestia
puntasse alla gola. Julian aveva tirato su il braccio appena in tempo per
difendersi dall’attacco alla sua giugulare. “Non ha avuto nemmeno
bisogno di alzarsi sulle zampe,” insistette, gli occhi sembravano
chiuderglisi anche contro la sua volontà.

Cameron lo accarezzò dolcemente. “Sono sicuro che fosse molto grosso.
E spaventoso,” mormorò. Aveva sulla punta della lingua altre domande
da porgli, ma non poteva farlo. Non quando, come in quel caso, l’altro
non era completamente in sé.

“Non sospettavamo che ci fosse un cane,” ripeté Julian lentamente.
“Dovevano sapere che c’era un cane,” borbottò tra sé. “È una cosa che
dovresti dire alle persone.”

Cameron non aveva idea di cosa dire; niente di quello che Julian gli stava
raccontando aveva molto senso per lui. “Shhhh,” lo esortò a bassa voce.
“Dormi.” Continuò ad accarezzarlo delicatamente.

“Credo che abbiano cercato di uccidermi, Cam,” bofonchiò Julian, usando
per la prima volta un nomignolo. “Ucciso da un cane. Un fottuto cane del
cazzo.”

Cameron era perplesso. Julian stava parlando del suo lavoro. Altrimenti
non avrebbe avuto un senso. “Chi pensi che ti volesse uccidere? Tu sei
più forte di qualsiasi cane.” Okay, non aveva idea di cosa stesse dicendo,
ma credeva fortemente nelle abilità di Julian.

“Sembrava Rin Tin Tin fatto di anfetamine,” disse Julian, continuando a
parlare. “Preston non ha voluto sparargli.”

“Beh,” disse Cameron, facendo una smorfia. “Nemmeno io sarei capace
di sparare a un cane, credo.”

“Mi stava mangiando!” insistette miseramente l’altro. “Ho dovuto farmi
bucare! Due volte! E dovrò ritornare per fare altre dosi di antirabbica!
Probabilmente mi sveglierò ricoperto di peli, come un fottuto lupo
mannaro,” biascicò con la sua strana pronuncia accentata, ormai
decisamente stanco e totalmente sotto l’effetto dei sedativi.

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“Quindi gli hai sparato tu?” gli domandò imbarazzato Cameron,
sfiorandogli lievemente le guance.

“No,” rispose Julian con riluttanza. “Stava facendo solo il suo dovere,”
sospirò, come se fosse l’unica cosa che potesse dire per consolarsi per
non aver ucciso l’animale che lo aveva sbranato. “Preston ha sparato in
aria e si è spaventato. Il cane, non Preston. Poi è corso a cercare Blake e
mi ha lasciato lì. Sanguinante. Preston, non il cane,” raccontò lui
seriamente. “E poi Blake si è messo a ridere.”

Cameron si coprì la bocca, tremando dalle risate silenziose.

“Penso che mi abbiano teso una trappola,” disse improvvisamente Julian.
Aprì gli occhi e sbatté le palpebre rapidamente. “Non c’era niente lì, a
parte il cane.”

Cameron si accigliò, smettendo di ridere. “Julian?” Il suo uomo non
parlava mai del suo lavoro, se non in termini vaghi. Cameron non voleva
che più tardi si arrabbiasse, perché lo aveva lasciato divagare
sull’argomento in quel modo.

“Mmmh?” rispose Julian stordito.

“Sai di cosa stai parlando?” gli domandò Cameron timidamente.

“Di solito, sì,” rispose l’altro con tono innocente.

Cameron sbuffò. “E adesso?”

“Sono abbastanza sicuro. Non c’era nient’altro che un cane,” rispose lui
con lo stesso tono.

“Giusto.” Cameron scosse la testa. Sapeva che Julian non avrebbe voluto
che lui sentisse quelle cose. “Va bene. È ora di dormire, amore,” gli
mormorò.

Julian chiuse subito gli occhi, con le dita strette ai jeans di Cameron.
“Sta cambiando, Cameron,” farfugliò. “Hanno iniziato a mangiarsi fra di
loro.”

Cameron sperava davvero che l’uomo non stesse parlando di cani. “Stai
attento, ti prego,” gli sussurrò, accarezzandogli di nuovo i capelli. Era
come se Julian si sentisse minacciato e quel pensiero gli fece stringere le
viscere.

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Julian era silenzioso e il suo respiro rimase regolare e costante per alcuni
minuti. Poi aprì di nuovo gli occhi, lentamente. “Andresti via da
Chicago?” chiese a bassa voce. Le parole gli uscivano ancora incerte, ma
era evidente che si stava sforzando di parlare con maggior senno.

“Non ci ho mai pensato veramente,” ammise Cameron mentre lo
guardava. Pensava che l’altro si fosse finalmente addormentato. “Ho
vissuto tutta la mia vita qui, non ho mai avuto motivi per andarmene.
Perché?”

Julian guardò nel vuoto per un lungo, silenzioso momento prima di
chiudere nuovamente gli occhi. “Mi fa male il braccio,” brontolò infine,
invece di rispondere.

Confuso, Cameron lasciò perdere e lo zittì gentilmente. “Dormi. Ti
sentirai meglio più tardi.”

“No, non è vero,” praticamente piagnucolò l’altro. “Starò male per giorni,
cazzo.”

Cameron sospirò. “Immagino che tu abbia già fatto l’antitetanica in
passato, uhm? Sei sicuro che non c’è niente che possa fare per aiutarti?”

“Mi hanno già prescritto degli antidolorifici,” rispose lentamente Julian,
come se misurasse le parole per evitare di biascicare. Apparentemente si
era dimenticato di averglielo già detto. “Preston se n’è andato un’ora fa
per portarmi del ghiaccio,” aggiunse. “Del ghiaccio!” gridò
improvvisamente in tono accusatorio contro le doppie porte chiuse, poi
nascose il viso contro le cosce di Cameron, lamentandosi tristemente.

“Sei così intrattabile anche quando ti bucano davvero?” chiese Cameron,
con una nota di divertimento che gli colorava la voce.

“Mi hanno bucato davvero,” insistette Julian, con voce soffocata.

“Io intendo bucato-bucato. Con una pistola,” lo corresse lui
pazientemente.

“È più semplice quando ti bucano con una pistola,” affermò Julian.

“Più semplice?” esclamò lui incredulo.

“La gente non ti ride dietro, quando sei bucato-bucato,” lo apostrofò
Julian, alzando la testa.

“Julian,” disse Cameron quietamente. “Non voglio proprio che tu venga

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ferito. Non mi importa se si tratta di una ferita da arma da fuoco o se ti
tagli con un foglio di carta.”

“Fa male anche se ti tagli con un foglio di carta,” sottolineò l’altro,
chiudendo ancora una volta gli occhi.

“Sì, lo so,” mormorò Cameron, rassegnandosi a rimanere in quella
posizione per tutto il tempo necessario a farlo addormentare. “Ti vuoi
riposare o vuoi che Preston porti il ghiaccio?”

“Riposare,” ripeté mite Julian. “Cameron?” aggiunse in un sussurro, la
sua voce stava diventando così roca da ricordargli quando gli aveva
rivolto la parola per la prima volta.

“Sì?” rispose Cameron, sfiorandogli con tenerezza le guance.

“Se dovessi prendere armi e bagagli e lasciare tutto,” continuò l’altro con
voce sommessa. “Verresti via con me?”

Cameron sentì il polso accelerare e dovette inspirare profondamente
mentre mille pensieri gli correvano per la mente. Ma in fondo tutto si
riduceva al fatto che… lo amava. “Sì. Penso che lo farei.”

Julian si rilassò, liberando il respiro che aveva trattenuto. “La prossima
volta che qualcuno cerca di uccidermi con un cane,” borbottò.

Cameron sorrise timidamente, contento che l’altro non potesse vederlo.
“Okay,” disse con un sospiro di sollievo.

CAMERON si prese un paio di giorni di ferie e rimase a casa di Julian per
la maggior parte di quel fine settimana, uscendo solo per tornare a casa
sua per accudire i cuccioli. Si trovò a passare la maggior parte del tempo
a tentare disperatamente di non ridere di quanto il morso del cane e gli
effetti secondari dei farmaci rendessero Julian infelice. C’era qualcosa di
sbagliato, e tuttavia di profondamente divertente, nel fatto che un uomo
grande e grosso si lamentasse a gran voce per il dolore e per l’effetto
degli analgesici.

Mentre l’altro smaltiva i farmaci dormendo, Cameron trascorse parte del
suo tempo cercando di non far incazzare Smith e Wesson, di far dire a
Preston più di due parole alla volta e di non preoccuparsi per le cose che
Julian aveva rivelato sotto l’effetto degli antidolorifici.

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Esplorò anche un po’ la casa, sentendosi quasi come un bambino piccolo
che era rimasto alzato fino a tardi per curiosare. Scoprì che il personale
della casa era formato da quattro persone: Preston, il maggiordomo, una
cameriera e un cuoco. Erano tutti molto cordiali, ma anche molto
riservati.

Il lunedì, Julian fu in grado di alzarsi, ma la cosa più pesante che riuscì a
fare fu mostrargli il passaggio segreto che andava dallo studio alla
cucina. Mostrare a Cameron come entrarci e uscirne lo divertì come un
ragazzino.

Parlarono fra loro senza usare toni rabbiosi, non ebbero a che fare con
segreti e misteri e la cosa più stressante che fecero fu giocare con Smith
e Wesson, un’attività che spesso includeva urla a squarciagola, quando
uno dei gatti si stancava di essere strapazzato e si attaccava ai calcagni
o a qualche altra parte tenera.

Fu divertente passare del tempo insieme in un posto diverso tuttavia
sicuro. Quel pensiero turbò Cameron più che mai.

CAMERON rientrò al lavoro in una tranquilla serata di martedì e servì con
la solita perizia una coppia, rispondendo alle loro domande sul menù e
promettendo di occuparsi del loro ordine al più presto. Miri lo aspettava
nella zona di servizio: era il suo primo giorno di lavoro dopo un’assenza
di una settimana in cui era stata a visitare la propria famiglia.

“Com’è andato il tuo weekend?” gli chiese, di proposito.

Cameron la guardò, domandandosi a cosa fosse dovuto
quell’atteggiamento. “Tutto bene, tranquilla. Me lo sono preso di ferie.
Com’è andata la visita ai tuoi?”

“Cam,” lo apostrofò la ragazza a bassa voce, in tono serio. “Non cercare
di evitare l’argomento di cui dobbiamo parlare, okay? Hai parlato con
lui?”

“Un po’,” ammise il giovane. Sebbene un tempo non si curasse della
curiosità di Miri, adesso si sentiva a disagio. Julian aveva ragione
quando, qualche mese prima, aveva affermato che era una dannata
ficcanaso.

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“E?” lo spronò lei a continuare.

“Guarda, apprezzo la tua preoccupazione,” le disse lui, con un crescente
fastidio. Si era appena riappacificato con Julian e non aveva bisogno che
lei lo fomentasse con nuove, spinose, domande. “Ma in realtà non ti deve
riguardare chi è o che cosa fa.”

Miri socchiuse gli occhi, sospettosa. “Allora gli hai chiesto chi è?”
proseguì, dopo averlo studiato da vicino.

“Io so chi è,” affermò tranquillamente Cameron. “È il mio uomo e questo
mi basta.”

Miri sospirò sgomenta, mentre un’altra cameriera passava dietro di loro
trasportando un grande vassoio. Aspettò fino a quando furono di nuovo
soli prima di avvicinarglisi. “È sposato?” gli chiese, preoccupata.

“No!” scattò lui. “Non è sposato, non fa un mistero delle sue preferenze
sessuali, non è un imbroglione e non è un pericolo per me,” rispose
diligentemente.

“Si è rotto un braccio e si è fatto tutti quei lividi, facendo l’antiquario?”
azzardò lei in tono piatto.

“Pratica kickboxing,” le rispose, scioccato con se stesso dalla rapidità con
cui gli uscì la bugia dalle labbra. “Senti, lascia perdere, okay?” proseguì
con voce addolorata, gettando via il tovagliolo per la frustrazione. “Sono
felice in questo momento. Non ti basta per essere soddisfatta?”

Lei fece una smorfia, allungandosi per prendergli delicatamente una
mano. “Voglio che tu sia felice,” insistette. “Ma che tipo di relazione puoi
avere, se non sai niente di lui?” gli chiese. “È il solito tipo pieno di soldi e
tu sei il povero, piccolo, cameriere che si tiene a fianco?”

Cameron sospirò esasperato e si allontanò. Ogni volta che lei lo
interrogava, tornavano a galla tutte le sue insicurezze e le
preoccupazioni, per quanto cercasse di ricordare le dolci parole e le
rassicurazioni di Julian. Si diresse verso lo spogliatoio dei dipendenti,
sapendo senza dubbio che lei l’avrebbe seguito.

Infatti, lei si affrettò a seguirlo, continuando a parlare. “Finora tutto
quello che ho visto è che viene qui, ogni settimana, rivolgendoti a
malapena la parola, e quando è stato con gente che conosce, gente di
alta classe, ti ha detto di non rivolgerti a lui, come se fosse imbarazzato
di stare con te.” Continuò a parlare senza sosta. “Inoltre non sai neppure
come metterti in contatto con lui! Stavi per morire, eri così malato e lui

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manco lo sapeva!”

“Era fuori città…” iniziò a spiegare lui, ma quello che stava dicendo Miri
era vero. Julian non gli aveva mai offerto il suo numero di telefono,
Cameron sapeva il perché, almeno vagamente. Stava cercando di
proteggerlo. Giusto?

“Non era fuori città, quando ti sei ammalato,” bofonchiò lei. “Era qui, a
cena con Blake. Un altro dei suoi raffinati amici.”

Cameron si rifiutò di rispondere, fino a quando non furono dentro lo
spogliatoio, con la porta ben chiusa dietro di loro. “Non è come sembra,”
insistette a quel punto. La sua voce era più forte adesso, influenzata
dalla fiammata di rabbia che lo aveva investito. Era arrabbiato perché, in
fondo, non era sicuro di ciò che stava difendendo. Ed era impaurito.
Aveva paura dei segreti. Paura per quello che poteva accadere. E per
chissà cos’altro.

Aveva visto il carattere di Julian. Aveva visto la sua forza; la potenza e la
velocità con cui lui poteva manovrarlo. Senza nemmeno approfondire la
questione di quanto Julian fosse abituato a controllarsi. Cameron non
aveva mai cercato di prendere in mano le redini, ma lui glielo avrebbe
permesso, se avesse tentato? Fino ad allora, non aveva mai avuto paura
di lui. Ma avendo saputo di altri particolari, doveva ammettere che ora
sarebbe stato più facile temerlo.

Miri incrociò i suoi occhi, preoccupata. “Lo so che hai perso la testa per
lui, Cam,” gli disse gentilmente. “Ma sei davvero in grado di
fronteggiarlo?” chiese dubbiosa. “Voglio dire…”

Cameron praticamente le si afflosciò di fronte, appoggiandosi al muro,
sconvolto. Quel poco che Julian gli aveva detto su quello che sarebbe
potuto succedergli prese a turbinargli in testa. Sapeva, senza ombra di
dubbio, che lui non gli avrebbe mai fatto del male fisicamente. Ma
mentalmente? Emotivamente?

“Non lo so,” sussurrò scrollando le spalle, impotente. “Ma è sicuro come
l’inferno che ci proverò.”

Frustrata, Miri, accennò un sorriso. “Sei innamorato,” dichiarò, come se
lo avesse appena scoperto. “Sono felice per te, Cam. Solo non farti
spezzare il cuore, okay?” lo avvisò piano, mentre si girava per andare
via.

Dopo che Miri fu uscita, Cameron si appoggiò lentamente al muro,
avvolto in un’aura di mortificazione e impotenza. Era senza dubbio

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innamorato. E aveva anche paura che, visto il modo in cui si sentiva
ultimamente, il suo cuore si sarebbe spezzato comunque.

Neanche dieci minuti più tardi, la porta si aprì leggermente e Miri infilò la
testa. “È martedì,” gli ricordò a bassa voce. “È arrivato.”

Cameron rabbrividì. Non poteva andare là fuori ad affrontarlo. Non
poteva andare da lui, guardarlo negli occhi ed essere in grado di dirgli
che andava tutto bene, quando non era vero. Julian poteva vedere
dentro di lui come se fosse fatto di vetro. Fino al giorno prima andava
tutto bene. E adesso…

Cercò di riprendersi, strofinandosi il viso con il palmo delle mani, fino a
che gli occhi gli diventarono rossi per lo sfregamento. Non si accorse
nemmeno quando, un paio di minuti più tardi, qualcuno entrò nella
stanza.

“Cam?”

Sollevò lo sguardo per vedere uno dei suoi colleghi che, lì in piedi, lo
guardava con preoccupazione.

“Stai bene?” gli chiese Charles.

Strofinandosi il viso con una mano, Cameron scosse la testa. “Io… non
mi sento molto bene,” balbettò, cercando di decidere se uscire e parlare
con Julian del problema o semplicemente nascondersi lì come un
vigliacco. Per quella sera, però, vinse la vigliaccheria.

“Non hai un bell’aspetto. Perché non te ne vai a casa? Ci penso io ai tuoi
tavoli,” si offrì Charles.

Cameron ci rimuginò sopra. “Forse è meglio,” disse con voce rauca.
“Grazie, Charles.”

Charles si corrucciò, preoccupato, ma annuì, poi si voltò per uscire,
chiudendo piano la porta dietro di sé. Cameron fu scosso da un brivido.

Sapeva che se fosse tornato da Julian, con ancora più preoccupazioni e
insicurezze così presto dopo la loro ultima discussione, lui si sarebbe
irritato. Molto più che irritato. Poteva quasi vedere l’esasperazione sul
volto del suo amante.

Aveva bisogno di parlare con lui, ma voleva farlo quando avesse messo
ordine tra i suoi pensieri. In quel momento, invece, i pensieri gli
rimbalzavano per tutta la fottutissima testa.

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CAMERON era rimasto seduto nella stanza più a lungo di quanto avrebbe
voluto. Infine, si rese conto che se non se ne fosse andato via al più
presto, Blake o Julian l’avrebbero trovato. Se ne andò senza parlare con
nessuno: prese la giacca e fuggì in silenzio dalla porta di servizio.

Era tardi, molto più tardi di quello che aveva pensato, ed era
completamente esausto. Temeva che dare anche solo un’occhiata a
Julian gli avrebbe procurato un nuovo attacco d’incertezza, e lui odiava
sentirsi in quel modo. Sapeva che a Julian non piacevano le sue
insicurezze e si chiedeva per quanto tempo il suo uomo l’avrebbe
sopportato prima di esserne stufo. Si strofinò gli occhi, camminando
lungo la strada, senza prestare molta attenzione a dove stava andando.

“Ti faccio paura?” chiese la voce di Julian dal vicolo oscuro davanti al
quale Cameron stava passando.

Il fatto che il giovane sobbalzasse dallo spavento non favorì molto la
situazione. Rimase senza fiato e si girò, cercandolo nell’ombra. “Julian?”
sibilò. “Che razza di domanda è? Mi hai spaventato a morte. E come
facevi a sapere che sarei passato di qui?” chiese.

“Rispondi. Ti spavento anche quando non sono appostato in un vicolo?”

Cameron deglutì con forza. Non riusciva a far uscire le parole. In realtà
non era lui a spaventarlo, ma l’intera situazione. Il velo di segretezza e
l’ovvio pericolo che ne derivavano. Tutto quell’alone che circondava
l’altro. E poi c’era la questione se Julian fosse uno dei “buoni”. Come
faceva a separare l’uomo da quello che lui faceva nella vita.

Julian inclinò la testa, scrutandolo dall’oscurità. “È così, non è vero?”
chiese con tristezza, trasalendo visibilmente quando se ne rese
pienamente conto.

Cameron non poté far altro che guardarlo con tristezza. Ricordò la prima
volta che ne avevano parlato, quando l’uomo aveva affermato che non
era mai stato con qualcuno che, a un certo punto, non avesse avuto
paura di lui. Gli fece male al cuore vederlo reagire in quel modo.

“Non… non lo so,” balbettò, cercando di essere onesto con sé e con lui,
nonostante questo li facesse stare male entrambi. “Non lo pensavo, ma
poi è successo qualcosa, e…”

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“È successo qualcosa che ti ha fatto dubitare di me,” osservò l’altro, con
quanta più indifferenza possibile.

Cameron poteva quasi vederlo cercare di venire a patti con quella nuova
svolta degli eventi. Si morse il labbro, per trattenersi dal chiedere scusa.
Dovevano essere onesti, se volevano risolvere la questione. “Forse,”
rispose con rammarico. “Penso a te ogni notte, contando i giorni che
mancano per arrivare ai nostri appuntamenti, spaventato a morte dal
fatto che potresti non tornare più da me. Che razza di vita è questa?”

Julian lo guardò con una smorfia sofferente. “Ho fatto tutto il possibile
per proteggerti,” insistette.

“Ma stai facendo tutto il possibile per proteggere te stesso?” lo apostrofò
Cameron.

“Ovvio!” scattò l’altro frustrato.

Cameron incurvò le spalle. “Sono comunque preoccupato per te. Mi
chiedo continuamente se sei stato ferito, se rischi di morire in qualche
posto dove non posso trovarti, oppure se qualcosa andasse a finire male
e tu dovessi… sparire. Ti amo, Julian, ma pensieri di questo tipo sono
così dolorosi che riesco a malapena a stare in piedi. E, a quanto pare,
tutti quelli che conosco hanno paura di te!”

“E questo a chi diavolo importa?” chiese Julian, al colmo della
frustrazione.

“Importa a me!” insistette Cameron.

“Non puoi avermi alle tue regole!” sibilò Julian. “Non posso essere questa
sorta di entità pacifica che tu e i tuoi amici volete che io sia, e nello
stesso tempo essere il tipo di persona in grado di proteggere me stesso e
te, come devo essere in grado di fare.”

“Cosa c’è di così pericoloso nella tua vita che ti fa pensare che io non
possa farne parte?” sbottò Cameron, mentre la paura per quello che
stava facendo gli serrava la gola. “Non dev’essere così pericoloso se non
ti impedisce di ritornare, settimana dopo settimana.”

Julian fece un passo indietro, come se lui l’avesse schiaffeggiato.
Cameron non vide alcuna emozione nei suoi occhi scuri, ma sapeva di
averlo ferito.

“Questo perché sono fottutamente bravo in quello che faccio,” ringhiò

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Julian, dopo un attimo, “Posso ritornare perché sono fottutamente
pericoloso,” disse inferocito. “È quello che so fare meglio!”

Cameron cercò di tenere a bada il senso di soffocamento che gli
stringeva la gola. “Quello che fai. Quello che fai? Non so di cosa si tratta,
a parte che implica il rischio di essere ferito, colpito, picchiato e forse
anche ucciso,” affermò. “Se questo è il tuo lavoro, non finirò mai di
esserne spaventato. Non smetterò mai di soffrirne.”

Julian lo fissò, visibilmente scosso dalle implicazioni di
quell’affermazione. “Ti ho mai fatto del male, Cameron?” chiese
improvvisamente. “Ti ho mai maltrattato in qualche modo? Ti ho mai
lasciato con il dubbio che non ti amassi e che non facessi tutto quanto in
mio potere per stare con te?”

“Non ho mai pensato che tu potessi farmi del male fisico,” rispose lui con
sicurezza.

“Fisico,” ripeté Julian. “Se non è questo, allora cosa?”

“Che ne dici dei miei sentimenti?” Dal momento che Cameron aveva
imboccato quella via, avrebbe fatto meglio a tirare fuori tutti i dubbi
prima che questi lo divorassero dall’interno.

Julian lo guardò incredulo, l’espressione del suo volto che, per una volta,
rivelava chiaramente le sue emozioni. “È questo quello che pensi di me?”

“Ti amo più di ogni altra cosa e posso vivere senza sapere i dettagli. Ma
dimmi come posso non esserne impaurito,” esclamò Cameron con voce
strozzata. “Vivere con te solo due giorni la settimana, senza sapere dove
sei o cosa stai facendo, se stai tornando da me oppure no. Per quanto
tempo possiamo continuare così? Le persone come te vanno in pensione?
Ci sarà qualcos’altro nel tuo futuro che non sia un funerale? Non mi hai
mai raccontato niente di te!”

Julian si portò la mano alla bocca dello stomaco, come se volesse
contrastare un forte dolore. Distolse lo sguardo, gemendo piano. “Stai
dicendo che è tutto o niente?” proseguì con difficoltà, incapace di tornare
a guardarlo. “Tu o il mio lavoro?” riuscì a dire alla fine, sforzandosi di
incrociare di nuovo il suo sguardo.

Una lacrima solcò la guancia di Cameron. Si raddrizzò per guardare con
decisione l’uomo che amava negli occhi. Se Julian gli aveva insegnato
qualcosa, di sicuro era stato affrontare la vita a testa alta. “Non posso
vivere così, sempre terrorizzato, senza sapere se stai bene o se stai
tornando da me.”

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Gli occhi afflitti di Julian cercarono i suoi, in un silenzio teso che durò a
lungo. Infine, amareggiato, senza dire una parola in risposta, sparì tra le
ombre, in silenzio.

Cameron era talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a respirare,
figurarsi chiedergli di fermarsi. E quando Julian fu inghiottito dalle
tenebre, le lacrime presero a traboccare liberamente dai suoi occhi.

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Capitolo 8

MIRI stava in silenzio davanti al bancone e sistemava le ricevute della
sera. Lo faceva sempre nelle serate tranquille, soprattutto quando non
voleva accollarsi il rassetto dei bagni. Sollevò leggermente il naso e
continuò ad annotare i numeri nel registro.

Un movimento attirò la sua attenzione e guardò distrattamente Blake
che si dirigeva lentamente verso la zona bar, dove uno sconosciuto con
una giacca a doppiopetto nera sedeva curvo sull’ultimo sgabello. Blake
gli si avvicinò e gli sedette accanto. Rimasero seduti a fianco a fianco per
diversi minuti, senza che nessuno dei due parlasse o si muovesse. Alla
fine, Blake disse qualcosa all’altro, si alzò e gli indicò la porta.

Miri si accigliò. Non aveva mai visto Blake dire a qualcuno di andare via
dal ristorante e si chiese cosa diavolo avesse fatto o detto quell’uomo.
Questi si girò sullo sgabello e fissò Blake a lungo, prima di alzarsi,
prendere il bicchiere in mano e andare via sorridendo. Blake non tentò
nemmeno di impedirgli di portarsi via il bicchiere.

Miri corrugò la fronte nel vedere i movimenti dell’uomo fuori dalla porta:
sembrava quasi un animale a caccia. Lo trovava leggermente
inquietante, a dir la verità, ed era felice che Blake gli avesse chiesto di
andarsene, dopo ciò che aveva notato.

Dopo aver osservato andare via l’uomo in doppiopetto, Blake scomparve
nel retro. Preoccupata, Miri mise da parte le ricevute e lo seguì nel suo
ufficio, con l’intenzione di chiedergli se andava tutto bene. Non si era
preso nemmeno la briga di chiudersi dentro, prima di prendere il telefono
e comporre un numero.

Miri si fermò brevemente accanto alla porta socchiusa, captando alcune
delle sue parole.

“Julian,” salutò Blake in tono sommesso. “Pensavo che ti avrebbe fatto
piacere sapere che stasera ho avuto un visitatore.”

Miri si guardò intorno, avvicinandosi di un passo alla porta dell’ufficio e
sforzandosi di sentire meglio.

Dopo un attimo, Blake disse: “Lancaster è in città. No, era proprio qui…
non lo so, cazzo, ma è meglio se ti guardi le spalle, amico.”

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Miri guardò con sconcerto la porta per una frazione di secondo, poi
indietreggiò lentamente, sperando che lui non l’avesse sentita. Doveva
trovare Cameron.

Il giovane era nella zona di servizio e mostrava a una nuova cameriera
come preparare correttamente un vassoio con un servizio completo da
caffè. Quando Miri entrò nella stanza, la stava spedendo fuori
raccomandandole di continuare a sorridere. Cameron guardò l’amica,
sorpreso dall’espressione che le vide dipinta sul viso.

“Lo sai che Julian e Blake sono amici, vero?” chiese lei senza preamboli.

Cameron irrigidì le spalle, ma continuò a tenere in movimento le mani.
“Sì,” disse, allontanandosi.

“Blake era al telefono con lui,” continuò la ragazza con un brivido. “Gli ha
consigliato di guardarsi alle spalle perché qualcuno di nome Lancaster è
in città. Guardarsi le spalle, Cameron! Questa non è una cosa da dire a
un antiquario!”

Cameron mostrò un insolito attacco di collera e scaraventò a terra il
tovagliolo per la frustrazione. “Qual è il punto, Miri?” le chiese,
rifiutandosi di guardarla.

“Cosa vuoi dire?” domandò lei confusa.

“Julian non è più affar mio,” dichiarò lui con un sussurro stridente,
girandosi a strofinare il bancone. Incurvò le spalle e abbassò la testa.

Miri fece un passo indietro e lo osservò; la tristezza le si leggeva
chiaramente in viso. “Mi dispiace, Cam,” gli offrì debolmente. Avrebbe
voluto chiedergli cosa era successo, ma sapeva di non dover insistere.
“Ma… non sei anche solo un po’… preoccupato?”

“Ero sempre preoccupato, Miri,” replicò lui con calma. “È questo il
problema.” Si allontanò dal bancone e, spingendola da parte, sparì nella
cucina.

“SEI sicuro che fosse lui?” domandò Julian stringendo forte la cornetta in
mano.

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“Sto diventando vecchio, Jules, ma non sono ancora rimbambito,” ribatté
piccato Blake.

“È venuto al ristorante,” mormorò Julian, con la mente che lavorava
freneticamente. Blake assentì con un mugolio e lui, frastornato, scosse la
testa. “Vuol dire che ti ha identificato come il mio contatto,” disse con
una smorfia. A meno che stesse cercando qualcun altro. Julian accantonò
quel pensiero.

“O perlomeno ne ha il dubbio,” convenne Blake.

“Dobbiamo trasferirti,” ordinò Julian con un accenno di turbamento nella
voce. Si erano preparati a quell’eventualità, ma non avrebbe mai
immaginato di mettere veramente in pratica il piano prestabilito. In
realtà, aveva sempre pensato che sarebbe stato lui il primo a essere
rintracciato.

“E come ti proponi di farlo?” chiese Blake, con una risata incredula.

“Molto rapidamente,” rispose Julian, in tono grave.

“Vaffanculo, Julian,” borbottò Blake con disgusto.

“Inizieremo domani.”

“Noi e quale esercito?” domandò incredulo Blake. “Emily non mi
permetterà di abbandonare le sue stronzate, lo sai. Non possiamo
assumere una ditta di traslochi: sarebbe capace di rintracciarla.”

“Sii creativo, Blake,” gli disse l’altro con impazienza. “Manda Emily da
qualche altra parte, stanotte troverò un posto sicuro dove trasferirti.
Sarò a casa tua domattina alle cinque, per iniziare. Non farti trovare a
letto e fai in modo di procurarti un po’ d’aiuto, cazzo, perché io e Preston
non abbiamo nessuna intenzione di sollevare da soli i tuoi maledetti
mobili,” gli ordinò, prima di concludere la chiamata e andare infuriato sul
pianerottolo della massiccia scala interna. “Preston!” gridò nella casa
buia. “Ci sono problemi!” urlò iniziando a scendere gli scalini due alla
volta.

NON era insolito che di tanto in tanto Blake riunisse il personale nel retro
del ristorante per delle riunioni, ma quella sera era ovvio che la cosa non
era stata programmata. Le sale del ristorante, benché piene di clienti,

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erano totalmente sguarnite di personale e perfino le portate pronte nei
piatti furono lasciate ad aspettare. Era una cosa senza precedenti.

Blake si mise di fronte al gruppo riunito e non aspettò che il cicaleccio si
attenuasse. “Signori e signore,” iniziò, la sua voce imperiosa fece calare
immediatamente il silenzio nella stanza. “Il ristorante rimarrà chiuso
domani. Comunque sarete tutti pagati per l’inconveniente. A coloro che
desiderano prendere un giorno di ferie auguro che sia bel tempo,” disse
con un sorriso, ma non c’era divertimento nella sua voce o nei suoi occhi
mentre parlava. “Ma se qualcuno volesse guadagnare qualche soldo
extra aiutandomi a sollevare dei pesi, vi prego di venire nel mio ufficio
per prendere accordi, prima della fine della serata. E questo è tutto,”
concluse, senza neanche sforzarsi di aggiungere qualche battuta, come
invece faceva di solito.

Si voltò e lasciò la stanza, a testa bassa, ritornando nel suo ufficio.

In piedi nel capannello di cameriere che iniziarono subito a parlare,
eccitate per l’inaspettato giorno di ferie, Cameron si rabbuiò e si chiese
cosa stesse succedendo. Alzare dei pesi? Spedì tutti al lavoro, comprese
le direttrici di sala, che aiutarono a recapitare i piatti già pronti, e cercò
di mettere da parte la propria curiosità, almeno per il momento.

Ma alcune ore dopo, quando la maggior parte del personale era andato
via, Cameron appoggiò la giacca sul bancone del bar e si avventurò
lungo il corridoio che portava all’ufficio di Blake, alla cui porta bussò
leggermente.

“Avanti,” disse Blake con voce distratta, attraverso la porta chiusa.

Cameron aprì la porta e si infilò dentro per metà. “Blake?”

Blake sgranò gli occhi, sorpreso nel vedere Cameron. Si allungò verso il
telefono, in un angolo della scrivania e disse: “Ti richiamo.” Quindi,
premendo il pulsante del vivavoce, terminò la chiamata. “Sei qui per il
lavoro supplementare o per qualcos’altro?” chiese curioso.

“Ambedue, penso. Per offrire il mio aiuto e per chiederti se va tutto
bene,” dichiarò Cameron, studiando l’uomo più anziano.

“In realtà, non va molto bene,” rispose questi, con un pizzico di
umorismo. Gli rivolse l’accenno di un sorriso. “Devo trasferirmi. Una cosa
inaspettata. E ho bisogno di aiuto con tutta quella dannata mobilia
antica,” borbottò.

Cameron inarcò un sopracciglio. “Da qui il bisogno di aiuto per sollevare

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dei pesi.” Si strinse nelle spalle. “Sarò felice di aiutarti.”

Blake lo guardò dubbioso. “Hai bisogno di soldi extra?” gli chiese.

“Non esattamente,” rispose. Poi si accigliò. “Hai già abbastanza aiuto?”

“Non esattamente,” rispose Blake ironico. “Iniziamo domattina alle sei,
ma sei il benvenuto a qualsiasi ora tu voglia. Ti posso far venire a
prendere così non avrai bisogno di cercarti un taxi,” offrì.

“Sì, trovare un taxi alle sei di mattina è una grande rottura di scatole,”
convenne Cameron. “Un passaggio sarebbe fantastico.” Si mise a
studiare Blake: aveva un’aria esausta e preoccupata. “Ti senti bene?”

L’uomo si passò le mani tra i capelli e gli rivolse un lieve sorriso. “Al
momento no,” rispose con sincerità. “Ma andrà meglio non appena Julian
sistemerà questa stronzata.”

Cameron si irrigidì, incapace di ricambiare il sorriso. Decise per un cenno
del capo.

Blake, che non sembrava aver notato il suo improvviso disagio, prese un
pezzo di carta e lo piegò diverse volte, giocherellandoci come per
dissipare un po’ dell’energia nervosa. Era la prima volta che Cameron lo
vedeva agitato. “Allora,” proseguì, buttando il foglio sulla scrivania.
“Chiamami quando sei pronto per farti venire a prendere. Penso io a tutti
i pasti. Prometto che ci saranno fiumi di alcol, se finiamo prima di sera.”

“Hai fretta, uhm?” replicò Cameron con calma. “Ti chiamo,” aggiunse.

“Molta fretta,” borbottò l’altro con un cenno del capo. “Grazie, Cameron,”
aggiunse, allungandosi di nuovo per prendere il telefono. “Buona notte.”

A disagio, Cameron annuì e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe riuscito a sfuggire del tutto ai
ricordi della sua relazione con Julian. Scuotendo la testa, tornò a
prendere la giacca al bar. Sarebbe stata una camminata tranquilla quella
verso casa, con la mente invasa dai ricordi.

“CHE diavolo fai, Blake?” bofonchiò Julian seduto accanto a Preston su
uno sgabello del bancone della cucina, mentre sorseggiava una tazza di
caffè.

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“Cosa?” chiese Blake sulla difensiva. “Bevo un caffè,” rispose con un
sorriso, tenendo in mano la caffettiera.

“Ti avevo detto di farti trovare pronto per le cinque del mattino, non di
passeggiare senza mèta in mutande e vestaglia,” lo rimproverò Julian.

“Sai cosa? Ho letto uno studio che dice che passeggiare senza mèta per
un’ora incide positivamente sulla percentuale di esercizi quotidiani da
fare,” rispose Blake, mentre si riempiva a sua volta una tazza e si sedeva
di fronte ai due. “Dovresti passeggiare senza mèta più spesso,” gli
consigliò, bevendo un piccolo sorso del liquido fumante.

“Se avessi il tempo di passeggiare lo farei, cazzo,” scattò Julian. La sua
impazienza cresceva ogni volta che pensava alla grande casa piena di
enormi mobili che aspettavano di essere traslocati prima di sera.

“Tecnicamente, signore, lei avrebbe molto tempo a disposizione per
passeggiare. Solo che non può farlo,” sottolineò Preston con calma,
nascondendo un sorriso dietro la tazza del caffè.

Julian girò il mento per squadrare l’uomo. “Prova a saltare da un fottuto
muro di sei metri e vediamo con quanta grazia atterri,” lo sfidò. “E smetti
di chiamarmi signore, maledizione,” aggiunse scontroso.

Cercò di alzarsi dallo sgabello, ma l’ingombrante stivale gessato del suo
piede sinistro, recentemente fratturato, rimase impigliato nel cerchio più
basso e dovette calciarlo via e imprecare per liberarsene.

Preston e Blake si guardarono bene dal ridere. Lo conoscevano troppo
bene.

“Quando arriva questo cazzo di aiuto?” pretese di sapere Julian,
allontanandosi dal bancone e guardando fuori dalla grande finestra della
sala da pranzo.

“È scorbutico, vero?” chiese Blake a Preston sottovoce.

Julian si girò in tempo per vedere Preston inarcare semplicemente un
sopracciglio, sorseggiando convenientemente un altro dito di caffè.

Julian vide il sorriso di Blake svanire quando i loro sguardi si
incrociarono. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che di solito
l’amico non era così allegro o sfrontato come appariva quella mattina. Si
stavano preparando a sradicare la sua intera vita. Sarebbe stata una
giornata pesante, sotto molti punti di vista.

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Julian sospirò piano, rammentandosi di non calcare troppo la mano. Non
sarebbe stato un divertimento.

“Ho una lista di indirizzi,” disse Blake, spingendo un pezzo di carta sul
bancone davanti a Preston. “Puoi prendere la mia Escalade. Farai meno
viaggi,” aggiunse, piazzando le chiavi accanto al foglio di carta.

“Sì, signore,” annuì Preston, dando uno sguardo alla lista, prima di
riporla nella tasca. Guardò Julian in piedi, poi di nuovo Blake e alla fine si
diresse verso l’ingresso.

Julian corrugò la fronte, chiedendosi per quale motivo lo avesse guardato
con quello strano luccichio negli occhi. Ma non se ne preoccupò più di
tanto. “Da dove iniziamo?” chiese a Blake.

“Dal piano inferiore, immagino,” rispose questi con rimpianto. “Dobbiamo
inventarci dei posti dove nascondere un po’ di stronzate, per ogni
eventualità.”

Julian annuì. “Sarebbe il caso che ti vestissi, tanto per iniziare,” gli
ricordò, girandosi a guardare la mattina nebbiosa.

IL CAMPANELLO suonò quasi esattamente all’ora indicata da Blake.
Cameron infilò il portafoglio nei jeans, afferrò le chiavi e in un attimo fu
fuori dalla porta, lasciandosi alle spalle disperati guaiti e uggiolii, mentre
si affrettava giù per le scale.

Si fermò di colpo davanti alla porta a vetri, sorpreso e confuso, quando
vide chi lo aspettava dall’altra parte. “Preston?”

“Buon giorno, signore,” lo accolse questi, spostandosi leggermente di lato
per indicare il grosso SUV nero parcheggiato lungo il marciapiede.

Cameron guardò il veicolo e vide Charles salutarlo dal sedile posteriore.
Lanciò un’altra occhiata a Preston. Se il suo autista era lì, allora voleva
dire…

“Abbiamo ancora diverse fermate da fare, signore,” gli fece notare
l’uomo. Si diresse verso la portiera posteriore della Escalade e l’aprì per
lui.

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Deglutendo a forza, Cameron si infilò le mani in tasca e lo seguì. Salì sul
veicolo senza alcun commento e salutò con un cenno gli altri, che erano
già stati prelevati ed erano tutti più o meno svegli. Quando Preston
chiuse la portiera, il suono si rifletté come un’eco nei suoi pensieri. E lui
chiuse gli occhi.

Ebbe l’improvvisa sensazione che la giornata sarebbe stata molto
sgradevole.

Il resto del giro per raccogliere gli altri volontari da portare a casa di
Blake si svolse in un silenzio inquietante. Quando la macchina si fermò
nel vialetto di casa sua, Blake li stava aspettando sui gradini in pietra per
accoglierli.

“Buon giorno!” li salutò allegramente. “Ci sono del caffè e ogni tipo di
cibo che vi aspettano in cucina,” offrì loro, stringendo la mano a ognuno.
“Buon giorno, Cam,” disse con un sorriso, prendendo la sua mano.
“Grazie per essere venuto.”

Cameron assentì lentamente, studiandolo. Si rese conto che
probabilmente l’uomo non sapeva che lui e Julian si erano lasciati. Era
sicuro che, se l’avesse saputo e se Julian fosse stato davvero lì, Blake
non l’avrebbe messo in quella situazione. Giusto? Gli rispose con un
mezzo sorriso e seguì gli altri all’interno, con lo stomaco già in subbuglio.

Camminando per la casa, divenne palese che un poco di lavoro era già
stato fatto. C’erano degli spazi vuoti sulle pareti, dove una volta erano
appesi i quadri, e gli scaffali erano stati liberati dai soprammobili. Le
stanze che davano sul davanti della casa sembravano una scacchiera per
elefanti: tutta la mobilia era spostata ma niente era stato ancora portato
via.

Avvicinandosi alla cucina, udirono dei colpi fragorosi che si
ripercuotevano dalla stanza adiacente. Nel passarvi davanti Blake iniziò a
ridacchiare, ma poi si fermò sulla soglia della cucina e li introdusse nella
stanza, mentre guardava oltre le loro spalle, verso il rumore.

“Vieni a fare colazione, Jules. Quella roba può aspettare,” gridò.

Cameron si fermò così all’improvviso sulla soglia, che Keri gli finì contro
strillando. Si fece da parte, scusandosi, mentre tutti quanti ridevano e lo
prendevano in giro per essere ancora mezzo addormentato.

“Non puoi dire che è colazione quando sei stato sveglio tutta la fottuta
notte, Blake,” rispose la voce di Julian, non appena i colpi si fermarono.
“Hai trovato il nastro da pacchi?” domandò seccato, sporgendosi fuori

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dalla stanza, a soli tre metri da Cameron. I suoi occhi erano su Blake
mentre parlava, ma quando vide il giovane trasalì impercettibilmente,
sbattendo le palpebre in un silenzio attonito, prima di riprendersi e
tornare a guardare Blake, senza ulteriori reazioni alla sua presenza.

Quando Julian apparve, attirando tutti gli occhi su di sé, le chiacchiere
cessarono immediatamente.

Blake mugugnò, estraendo dalla tasca posteriore un rotolo di nastro blu.
Glielo lanciò e, continuando a borbottare qualcosa riguardo alla
colazione, andò in cucina, indubbiamente aspettandosi di essere seguito.

Keri subito si schiarì la gola; era quella che conosceva Julian meglio di
tutti, a parte Cameron, naturalmente. “Buon giorno,” lo salutò. Gli altri
membri dello staff si unirono a lei, in una varietà di commenti, tutti sulla
stessa linea. Tutti eccetto Cameron, che guardava da tutte le parti
fuorché verso di lui.

Julian si limitò a rispondere ai loro saluti con un cenno, poi scomparve di
nuovo nella stanza.

“Andiamo, Cam,” disse Charles, tirandolo per un braccio. “Mettiamo
qualcosa sotto i denti, prima che Blake ci faccia lavorare come cani.”

“Come fa di solito,” aggiunse Keri scherzosamente.

Cameron si lasciò trascinare, sforzandosi di guardare davanti a sé. Una
sola occhiata a Julian gli aveva fatto battere forte il cuore; abbastanza da
farlo rimanere senza fiato e renderlo consapevole del peso del ciondolo
sotto la camicia, tiepido contro la sua pelle.

Blake stava in piedi, a un’estremità del grande bancone centrale, e
mangiava una ciambella mentre rivolgeva intorno uno sguardo
corrucciato. “Non farei mai lavorare i miei cani come farò lavorare voi,
gente,” disse con un sorrisetto.

Spostando la sua attenzione al bancone, Cameron scelse una pasta. “Hai
per davvero dei cani?” chiese distrattamente, guardandosi intorno nella
sofisticata cucina.

“Solo se contano anche Julian e Preston,” scherzò lui, con una strizzatina
d’occhio, versandosi dell’altro caffè.

Cameron si schiarì la gola e si allungò a prendere del succo, il resto del
personale del ristorante iniziò a parlare e a girare per la casa, fissando
attoniti tutto quanto, fintanto che ne avevano la possibilità. Lui rimase

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fermo lì. Cameron non aveva più visto Julian da quella dolorosa notte:
nemmeno una volta in tre settimane. Chiuse gli occhi un attimo. Non
voleva soffermarsi a pensare su quanto stesse ancora soffrendo.

“Cameron?” lo chiamò Blake piano, appena gli altri si allontanarono. “Ti
senti bene?”

“Non… non sapevo che sarebbe stato qui,” rispose lui a bassa voce,
senza alzare lo sguardo dal suo succo.

“Chi?” chiese Blake confuso.

“Julian.”

Blake guardò la porta della cucina, intrigato. Poco oltre, i colpi ripresero
di nuovo, forse un po’ più forti di prima. “Non capisco,” ammise, fissando
Cameron.

Cameron deglutì. Chiaramente Julian non gli aveva detto niente. “Non…
stiamo più insieme,” mormorò, cincischiando con la mezza ciambella di
fronte a lui.

Blake inclinò il mento con un piccolo: “Oh.” Rimase in silenzio un attimo,
prima di scuotere la testa. “Mi dispiace. Non mi aveva detto niente,”
continuò. “Non avrei mai accettato il tuo aiuto, se l’avessi saputo.” Esitò
un istante, una cosa che non era solito fare. “Vuoi che chieda a Preston
di riaccompagnarti a casa?” domandò incerto.

Volgendosi verso i ripetuti colpi, Cameron sospirò e scosse la testa. “No.
Sa che sono qui. Penso che filerà tutto liscio se ci eviteremo l’un l’altro.”
Bevve un po’ di succo. “Specialmente se continuerà a colpire la parete in
quel modo.”

“Non è la parete,” rispose l’altro con una smorfia. “È il mio tavolo da
biliardo da ottomila dollari,” spiegò.

Cameron sollevò la testa di scatto, spalancando gli occhi. “Ehm.” Guardò
in quella direzione. Lo aveva visto perdere le staffe solo una volta e
anche allora si era ripreso con notevole velocità. Cosa ci faceva lì in
nome di Dio? “Forse tu preferiresti che Preston mi portasse a casa?”
esclamò goffamente.

Blake scosse la testa. “Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile. Inoltre,”
sospirò con rammarico, “non sta maltrattando i mobili per colpa tua.”
Scosse tristemente la testa. “Sta solo cercando di smontare quella
dannata cosa.”

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Cameron si morse la lingua, per evitare di porre la più ovvia delle
domande: da quando smontare qualcosa richiedeva una tale veemenza?
Ma lo stato d’animo di Julian non era più un suo problema. “Da cosa
iniziamo?” chiese invece, con un ampio gesto intorno.

“Abbiamo già svuotato le stanze davanti, quindi iniziamo da lì,” rispose
Blake e, ritornando a un tono da uomo d’affari, gli fece cenno di seguirlo
fuori dalla cucina verso la parte anteriore della casa. “Abbiamo altre tre
stanze da fare, Cross,” gridò nella sala da biliardo, mentre passava
davanti alla porta: “Datti una mossa!”

“Impiegherò il mio stivaletto di gesso in nuove e originali attività, se non
stai zitto,” rispose l’altro con calma, da dove era seduto sotto il tavolo da
biliardo. Lo stava smontando pezzo per pezzo e c’erano delle buste piene
di documenti sparse tutt’intorno, che sembrava sarebbero finite dentro i
pezzi.

Cameron cercò di ignorare quella che sembrava essere una scena molto
sospetta e guardò invece Blake, mimando con le labbra una domanda:
“Gesso?”

Blake indicò il suo piede e scosse la testa. “Si è rotto un piede,” spiegò
con voce bassissima.

Inarcando un sopracciglio, Cameron quasi cedette alla tentazione di
guardare nella stanza ma si trattenne. Scuotendo lievemente la testa,
iniziò a camminare di nuovo. Non era un suo problema. Come Julian
avesse fatto a rompersi un piede, non lo doveva interessare, così come
doveva ignorare il fatto che stesse nascondendo importanti documenti
dentro pezzi di mobilia. Niente di ciò era affar suo.

Era stato lui stesso a volerlo.

“Il signor Cross sta catalogando le mie opere d’arte e gli oggetti
d’antiquariato, nel caso qualcosa venga danneggiato durante il trasloco,”
spiegò Blake a Cameron e agli altri che li avevano raggiunti. “Se vi dice
di fare qualcosa, fatelo e anche velocemente. Altrimenti girategli
semplicemente alla larga,” li avvisò. “Se avete delle domande, rivolgetevi
a Preston oppure a me. State fuori dai piedi del signor Cross,” ribadì
adagio.

I membri dello staff cominciarono a parlottare sul “signor Cross” e su
tutti i pettegolezzi che lo riguardavano, mentre Cameron prendeva un
lungo e lento respiro, cercando di placare il nervosismo che ancora non
gli dava tregua. Seguì Blake nella parte anteriore della casa, dove l’uomo

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cominciò a raccogliere i volontari e a impartire loro istruzioni su quello
che c’era da fare. Sollevamento di carichi pesanti, principalmente. E
neanche pochi.

Quello che stupì Cameron fu che, apparentemente, Julian era veramente
lì per occuparsi degli oggetti d’antiquariato e delle opere d’arte perché,
come scoprì, sembrava ne sapesse il fatto suo. Più di una volta sentì la
voce del suo ex-amante sciorinare dettagli sulla provenienza di un pezzo
qualunque tra quelli presenti per chiunque stesse scrivendo in quel
momento. Perché non lo aveva mai saputo? Incupendosi, Cameron si
disse di smetterla di pensarci e fare solo ciò che gli era stato richiesto.

Sollevarono i massicci mobili lavorando a gruppi di tre o quattro. Ci
furono un sacco di lamenti e grugniti, ma la mattinata trascorse senza
eventi di rilievo, ad eccezione di Charles, che si fece male al pollice per
colpa dello sportello non bloccato di un armadio.

Quando finalmente arrivò mezzogiorno, Cameron si era quasi convinto
che Julian non fosse lì. Quasi. Fu in quel momento che Preston passò con
un blocco di fogli per prendere le ordinazioni per il pranzo.

“Dove pensavi di andare?” chiese Blake al silenzioso autista,
stiracchiandosi la schiena.

“Il signor Cross mi ha detto di andare da Wendy’s,” rispose pacatamente
quest’ultimo.

Cameron e quelli a portata d’orecchio si fermarono a fissarlo. Blake
Nichols possedeva un ristorante a quattro stelle, non era il tipo da fast-
food. L’uomo borbottò qualcosa, ma alla fine sorprese tutti e dettò il suo
ordine a Preston, per poi riprendere a lavorare senza aggiungere altro.

Cameron ascoltò le richieste degli altri, ma quando Preston si avvicinò,
scosse la testa. “Niente, grazie,” mormorò. Il suo stomaco era ancora
sottosopra, non voleva rischiare di sentirsi male.

“È sicuro, signore?” chiese Preston, sorpreso. “Temo che non ci sarà altro
fino a stasera,” lo avvertì.

Arricciando il naso, Cameron sospirò. “Mi prenda un’insalata, grazie.”
L’avrebbe messa nella borsa termica insieme alle bevande, nel caso che
avesse avuto fame più tardi.

“Molto bene, signore,” rispose Preston, scrivendo l’ordine; poi si voltò e si
fermò di fianco a Blake, e gli si rivolse a bassa voce. Cameron non fu in
grado di sentire quello che diceva.

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“Dove ha intenzione di portarmi?” chiese Blake, abbastanza forte perché
Cameron riuscisse a sentire.

“Non me l’ha detto signore,” rispose Preston, a voce talmente bassa che
arrivò a malapena fino a lui.

“Non lo sai?” chiese incredulo Blake.

“Lo sa com’è fatto, signore. Ha insistito per occuparsene da solo,” rispose
l’altro, con un’alzata di spalle. Mise il blocco di fogli in tasca. “E vuole
fare il primo viaggio da solo per accertarsi che il posto sia sicuro, prima
che chiunque altro lo accompagni per aiutarlo.”

“Allora non vai con lui?”

“Ha insistito per fare a modo suo.”

Blake sospirò, manifestando il suo dissenso, e Preston andò via senza
voltarsi indietro.

Cameron si rabbuiò. C’era qualcosa di strano e non riusciva a capire cosa
fosse. Blake era quello che si trasferiva, lui e Julian avevano più volte
accennato al fatto che fosse Blake quello che comandava, ma sembrava
che quel giorno fosse Julian a prendere le decisioni. Cameron non aveva
mai visto Blake cedere così pacatamente davanti a niente e nessuno.
Forse i due erano più amici di quanto Cameron pensasse.

Scuotendo la testa, si girò nella stanza ormai semivuota e uscì nel
corridoio, dirigendosi verso il bagno al piano di sotto.

Quando sollevò lo sguardo dai suoi piedi, vide Julian che, con un grosso
pacco fra le mani, gli era di fronte dall’altra parte del corridoio. Il pacco
era ovviamente un quadro o qualcosa di simile; era stato avvolto in carta
da pacchi marrone fissata con del nastro blu. Julian si chinò, il
movimento difficoltoso e goffo a causa dell’ingombrante stivale di gesso
che gli avvolgeva il piede, e appoggiò il pacco insieme ad altri contro il
muro. Quando sentì Cameron avvicinarsi, voltò leggermente la testa, per
poi abbassare in fretta lo sguardo verso il quadro impacchettato.

Allungò la mano nella tasca per prendere un grosso pennarello indelebile.
“Ciao, Cameron,” lo salutò in tono sommesso, senza alzare gli occhi.

Cameron si fermò dov’era, con gli occhi sull’uomo che era stato il suo
amante. “Ciao, Julian,” rispose sommessamente. Si leccò il labbro
inferiore nervosamente. Sarebbe dovuto passare dietro a lui per andare

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al bagno. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta fisicamente. Si sforzò di
trovare qualcos’altro da dire. “Ah. Blake mi ha detto che ti sei rotto un
piede?”

“Già, capita,” rispose quello, con la solita voce pacata e formale che
Cameron conosceva così bene, senza smettere di scrivere sulla carta
marrone per etichettare il dipinto. Non si raddrizzò a guardarlo.
Sembrava ben determinato a non incrociare il suo sguardo.

Cameron sentì l’aria vibrare di una tensione imbarazzante. Voleva
rimanere lì a guardarlo, riempiendosi gli occhi di lui e ascoltando la sua
voce gentile dire qualsiasi cosa, ma non poteva farlo. Era troppo
doloroso. “Scusa,” sussurrò e, sfiorandolo, fuggì verso il bagno.

Julian non rispose e nemmeno si alzò in piedi, fino a quando Cameron
non si fu allontanato da lui. Non appena lui ebbe raggiunto la porta del
bagno, però, si sollevò e se ne andò, gridando: “Preston! Datti una
mossa!”

Cameron si chiuse dentro e, appoggiandosi alla porta, si avvolse le
braccia intorno alla vita, abbassando la testa. Accidenti. Quell’uomo gli
mancava così, così tanto. Non si era reso conto di quanto fino a quel
momento.

“Bene, gambe in spalla, signore. Dobbiamo correre per recuperare il
tempo perso e non possiamo permetterci di prendercela comoda,” disse
Preston con voce strascicata.

“Lo giuro su Dio, Preston…” Julian sembrava estremamente infastidito.

“Oh, ne ho altre, signore,” lo rassicurò Preston. “Lo so quanto apprezza
la varietà.” Cameron sentì i loro passi che si allontanavano.

“Apprezzo di più il silenzio,” rispose Julian irritato, prima che fossero fuori
portata d’orecchio.

Dopo che se ne furono andati, Cameron sentiva ancora la sua voce
echeggiargli nella testa; questa volta, però, ripeteva quelle parole tenere
che l’uomo gli aveva sussurrato in passato. Sentiva perfino il suo
profumo, anche se era solo la sua immaginazione. E tutte quelle ragioni
che lo avevano portato a lasciarlo, sembrarono, all’improvviso,
totalmente inutili e sciocche. Tremante, chiuse gli occhi e sospirò,
cercando di convincersi che non era stato tutto uno sbaglio.

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ATTRAVERSO la finestra, Blake guardò Julian che scendeva dal camion e
si assicurava di appoggiare bene a terra il piede ingessato prima di
appoggiarci il peso. Era inciampato e caduto tante volte la settimana
prima che Blake ne aveva perso il conto. Si sentiva quasi dispiaciuto per
il suo amico, ma sapeva che lui aveva affrontato cose ben peggiori ed
era divertente vederlo lottare con il pesante stivaletto di gesso. E lui
aveva bisogno di divertirsi un po’ in quel momento.

Nel corso della giornata, fecero diversi viaggi alla casa sicura che Julian
aveva trovato. Ma siccome volevano ridurre al minimo il rischio di
esporsi, nessuno dei volontari li accompagnò: Julian e Preston
scaricarono da soli la maggior parte dei pesanti mobili.

Tutto quel duro lavoro li aveva fatti diventare irritabili. Anzi, in realtà,
erano entrambi decisamente collerici e Blake faceva attenzione a non
ridere ascoltando i loro garbati battibecchi, ogni volta che ritornavano da
un viaggio. Era difficile rispondere a un insulto che si concludeva sempre
con la parola ‘signore’ e Blake sapeva che ciò suscitava in Julian
un’irritazione infinita.

Ritornarono dal loro ultimo viaggio insieme alla cena da distribuire ai
volontari, prima di riaccompagnarli a casa. I giovani si accomodarono sul
prato davanti casa a mangiare, godendosi il clima tiepido e in alcuni casi
addormentandosi.

Blake osservò Julian e Preston avvicinarsi alla casa e ignorare tutti
quanti. Fece una smorfia quando vide Cameron gettare uno sguardo a
Julian, ma altrettanto velocemente distoglierlo. Julian non lo ricambiò:
tenne la testa bassa come per controllare i suoi passi stanchi.

Preston camminava davanti, trasportando tre borse con il cibo da asporto
del McDonald’s, e Julian gli zoppicava dietro. Sembrava che stesse
borbottando fra sé, ma Preston gli rispose brontolando a sua volta. Blake
aprì la finestra per ascoltare quello che stavano dicendo.

“Ho intenzione di uccidere Blake quando finiremo,” stava dicendo Julian a
denti stretti.

“Avrebbe dovuto farlo prima che traslocassimo tutto quanto, signore,”
rispose Preston senza perdere un colpo. “Ci avrebbe risparmiato un
sacco di fatica.”

“Sapientone,” bofonchiò Julian sottovoce. “E smettila di chiamarmi
signore!”

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“Certo, signore,” rispose l’altro, sorridendo visibilmente mentre entrava
dalla porta d’ingresso aperta.

“State ancora a bisticciare?” gridò Blake, spostandosi dalla finestra.
“Portatemi la mia cena!”

Julian raggiunse Preston e cominciò a frugare in una delle borse mentre
l’altro le teneva pazientemente aperte, cercando di non sorridere. Tirò
fuori un cheeseburger avvolto in una carta gialla e, entrando nella stanza
dove Blake stava lavorando, glielo lanciò addosso.

Per fortuna, Blake sollevò lo sguardo appena in tempo per prenderlo al
volo, vicino al petto. “Grazie, Julian,” disse, mettendosi seduto su uno
scatolone. “Ti senti meglio?” gli domandò schiettamente.

“Ti sembra che stia meglio?” esclamò lui. “Ti sembra che sia di buon
umore?” chiese sarcastico. “Preston!” gridò all’improvviso. “Dammi i miei
cazzo di nuggets,” proseguì girandosi, soltanto per trovare Preston in
piedi dietro di lui, con la scatola dei bocconcini di pollo in mano.
“Maledizione,” lo apostrofò, strappandogli la scatola e precipitandosi fuori
dalla stanza.

“Accompagno a casa i volontari, signore,” gli disse Preston. Blake sapeva
che l’uomo stava cercando disperatamente di non ridere. Julian non
rispose, se non con un grugnito inqualificabile, scomparendo all’interno
della casa.

Blake sospirò. Sapeva perfettamente cosa lo stava rodendo. “Non lo
sapevo, Preston,” mormorò, riferendosi al giovane uomo in piedi fuori,
con il resto della sua compagnia di volontari.

“Come avrebbe potuto, signore?” chiese Preston, reclinando il capo.

“Pensavo che me l’avrebbe detto…” la voce di Blake si alzò di volume,
verso la fine della frase. Si fermò e scosse la testa. “Non ha importanza.
La giornata è finita ed entrambi hanno sofferto, per quanto ho potuto
vedere. Inutile piangere sul latte versato. Vai, Preston. E grazie per
l’aiuto.”

Preston rimase dov’era, riuscendo ad apparire stranamente dignitoso,
nonostante i sacchetti del fast food fra le braccia. Sembrò che stesse per
dire qualcosa, ma alla fine annuì in assenso e si voltò per uscire.

“Preston?” lo chiamò Blake, avendo colto la sua esitazione.

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“Sì, signore?” rispose quello, girandosi.

Blake corrugò la fronte. “Cosa stavi per dire?”

Preston rimase in silenzio, incrociando il suo sguardo. “Il signor Cross è
diventato alquanto imprudente,” disse infine, a bassa voce. “Credo che
condividere le novità sia l’ultima delle sue priorità.”

Gli occhi di Blake diventarono di ghiaccio. “Imprudente,” affermò. “Pensi
che… cerchi di proposito di mettersi in pericolo?”

Preston strinse le labbra. “No, signore,” rispose bruscamente. “Forse
quello che volevo dire era che non è più esattamente padrone delle sue
emozioni come una volta. Tende a… lanciare cheeseburger.”

“Capisco.” Blake si rilassò un poco. “Va bene. Grazie, Preston.”

“Prego, signore,” gli offrì lui con un piccolo inchino e, girandosi sui tacchi,
uscì.

Blake rimase lì seduto a pensare, scartando il cheeseburger, poi si alzò
per cercare Julian. “Cross! Dove sei?” urlò.

Lo trovò seduto al bancone della cucina, le spalle curve mentre mangiava
i suoi McNuggets. Sembrava così strano vederlo mangiare da una scatola
di cartone e Blake dovette fermarsi a fissarlo un istante.

Quando si costrinse a muoversi di nuovo, Blake afferrò due bottiglie di
Coca-Cola dalla borsa termica, mettendogliene di fronte una sul
bancone. Aspettò alcuni minuti, fino a quando fu chiaro che Julian non
avrebbe detto niente.

“Perché non me l’hai detto, Jules?” gli domandò.

“Cosa c’era da dire?” rispose lui, a bassa voce, alzando gli occhi per
incrociare il suo sguardo.

“Beh, cosa ne pensi di: Blake, non mi vedo più con Cameron, tanto
perché tu lo sappia,” gli propose Blake.

“Non sapevo che la questione sarebbe diventata un problema,” rispose
Julian gelidamente.

“Non lo era,” dichiarò Blake, con una pausa significativa. “Per me.”

Il mento di Julian sobbalzò appena, poi l’uomo sbatté con collera la mano

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sul bancone così forte da far tintinnare le scatole piene di utensili da
cucina che erano appoggiate lì vicino. “Cosa vuoi che ti dica?” chiese a
gran voce.

Blake rimase calmo davanti a quell’inusuale scatto d’ira. “Se tu me
l’avessi detto, non gli avrei mai chiesto d’aiutarmi oggi,” disse in tono
piatto. “Non sapevo neanche che qualcosa non andava per il verso
giusto, fino a quando lui non me l’ha detto. E per chi mi devo sentire
dispiaciuto, Jules? Alla fine ti sei convinto che lui sarebbe stato meglio
senza di te?” chiese con rabbia.

I muscoli della mascella di Julian si contrassero quando digrignò i denti.
“No. Lo ha deciso lui. C’è altro?”

Blake serrò le labbra: sapeva che non poteva insistere oltre. Anche Julian
aveva i suoi limiti e a quanto pareva li aveva già raggiunti. “No,” rispose
con calma, scuotendo la testa.

Julian continuò a guardarlo senza battere ciglio, gli occhi duri e neri
come schegge di pura ossidiana. Era chiaro che si stava arrabbiando,
anche se aveva provato a calmarsi. “Oggi è stata dura per lui?” esclamò
a bassa voce.

“Credo di sì,” affermò Blake, appoggiando i gomiti sul bancone. “Era…
angosciato. Avrebbe voluto chiedermi notizie su di te.”

Gli occhi di Julian si calmarono leggermente e distolse lo sguardo,
battendo il dito contro il piano di granito. “Pensavo che una risposta del
genere mi avrebbe fatto piacere,” mormorò. Si alzò per andare alla borsa
termica, dove c’erano diverse birre in attesa. “Mi sbagliavo,” ammise
senza girarsi.

Blake si incupì. “Vuoi che si senta triste? O perlomeno infelice quanto
te?”

Julian scosse la testa. “Voglio desiderare di vederlo infelice,” chiarì
abbattuto. “Ma non ci riesco proprio.”

Blake avrebbe voluto ridere, ma Julian stava davvero male e c’era poco
da sogghignare a vederlo ridotto in quello stato. “Cos’è successo Julian?
Voi due sembravate… felici.”

Julian tirò fuori una birra dalla borsa termica e lasciò cadere il coperchio
per richiuderla, poi si raddrizzò e si voltò a guardare l’amico con occhi
colmi di tristezza. “Lo spaventavo,” spiegò, con una disperata scrollata di
spalle. “E lui mi ha mandato via.”

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Blake si accasciò sul bancone. “Mi dispiace, Julian,” disse, ben sapendo
che non sarebbe stato d’aiuto. “Pensavo davvero…”

“Anch’io,” sussurrò l’altro, facendo saltare il tappo della birra e
buttandone giù un lungo sorso.

“Sai, la gente normale usa l’apribottiglie,” sottolineò Blake ironicamente,
guardando il tappo che Julian aveva gettato sul bancone.

“Ma chi se ne frega della gente normale,” dichiarò quello freddamente
mentre fissava il piano di lavoro, senza vederlo.

Blake rimase seduto in silenzio, mentre Julian continuava a bere,
tenendogli compagnia in quella notte che sembrava non finire mai.

TUESDAYS avrebbe chiuso nel giro di un’ora: i tavoli occupati erano
pochi e lontani tra loro. Cameron era concentrato a ripulire i resti di una
festa che era finita tardi. Impilò i piatti sul suo vassoio e appoggiò
delicatamente i bicchieri su un carrello vicino, prima di guardare fuori
dalla finestra.

La primavera era in pieno rigoglio: tutte le tracce di neve e ghiaccio
sparite. La maggior parte delle persone pensava che stare “al nord”
significasse che Chicago aveva primavere e autunni splendidi. Era vero,
soltanto che, circondati da cemento, vetri e asfalto, si soffocava dal caldo
come se fosse già giugno. Ma una volta fuori, quando il sole tramontava,
un’arietta deliziosa soffiava dal lago, risvegliando a nuova vita la
sonnolenta città.

Quando Cameron riportò la sua attenzione alla pulizia del tavolo, un
uomo entrò nel ristorante e, guardandosi intorno rapidamente, si tolse la
fine sciarpa dal collo. Indossava una giacca a doppio petto nera e aveva i
capelli scuri scompigliati dal venticello della sera. Si avvicinò a Keri, la
direttrice della sala, chiedendo un tavolo in una zona tranquilla del
ristorante.

“Preferibilmente in uno dei séparé,” aggiunse con un affettato accento
inglese.

Keri lo accompagnò a un tavolo tranquillo, lasciandogli il menù e
promettendo un servizio rapido. Attirò l’attenzione di Cameron, che

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rispose con un gesto d’intesa. Ritornò nella zona di servizio per lavarsi le
mani, poi si diresse verso il tavolo.

“Buona sera, signore. Mi chiamo Cameron e mi occuperò di lei per
stasera,” disse gentilmente. Ripeté a memoria il menù, che conteneva il
piatto del giorno, e poi passò a illustrare gli altri. “Torno dopo per
l’ordine?” chiese, quando ebbe finito.

“No, grazie,” rispose l’uomo sorridendo e lanciandogli un’occhiata
d’apprezzamento. “Prendo il piatto del giorno e il vino della casa,” ordinò,
sorridendo rilassato.

Cameron sbatté gli occhi, quella frase casuale aveva toccato un nervo
scoperto. “Bene,” rispose, sussultando appena. “Mi occuperò subito del
suo ordine,” gli assicurò infine prima di allontanarsi.

Fedele alle sue parole, Cameron ritornò dopo pochi minuti con un sottile
bicchiere di cristallo e una bottiglia di vino, che aprì abilmente. Ne versò
una piccola quantità nel bicchiere, per farlo assaggiare all’uomo e attese,
meditando su come una frase innocente potesse ancora colpirlo così
duramente, a dispetto di tutto il tempo che era passato.

L’uomo assaggiò il vino e annuì con approvazione poi, appoggiando il
bicchiere, lo guardò in silenzio, come per prendergli le misure.

“È sempre così affollato il Tuesdays?” domandò infine.

“Affollato?” Cameron prese il bicchiere e lo riempì a metà. “Solitamente
in prima serata. Non molto in questo momento. Se vuole cenare prima,
le consiglio di riservare un tavolo.”

L’uomo rise piano, con un suono sorprendentemente ricco e profondo.
“Io sono sempre… riservato,” rispose con una battuta.

Cameron fu spiazzato. “Mi dispiace. Non credo di averla mai vista qui, in
precedenza,” disse in tono di scusa.

L’uomo sbuffò divertito. “Questa battuta non deve essere ancora arrivata
su questa sponda dell’oceano,” disse, scrollando le spalle con sufficienza.
“No, sono stato qui solo un paio di volte. Per lo più a feste private, o al
bar per uno spuntino veloce,” aggiunse.

Cameron annuì brevemente e, mettendo giù il bicchiere e la bottiglia, gli
rivolse di nuovo uno guardò dubbioso. “La sua cena sarà pronta a breve.
Buon appetito,” disse.

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“Grazie,” rispose l’uomo con voce strascicata, guardando i movimenti di
Cameron con attenzione. “È venuto il signor Bailey stasera?” chiese, in
tono casuale.

Cameron si fermò, pensando in fretta. Bailey. Aveva già sentito
precedentemente quel nome da qualche parte, però non riusciva a
collocarlo tra gli habitué.

“Mi dispiace, non ce l’ho presente. Me lo può descrivere?” chiese
educatamente.

L’uomo lo guardò pensieroso. “Devo averla scambiata per qualcun altro,”
concluse alla fine, con una pesante pronuncia strascicata. “Il signor
Bailey era ben noto alla persona a cui stavo pensando. È andato a
trovarlo in ospedale, un po’ di tempo fa.” Socchiuse gli occhi e Cameron
fu colpito improvvisamente dalla somiglianza tra i suoi occhi e quelli di
Julian. Non erano dello stesso colore, i suoi erano di un marrone più
chiaro, quasi nocciola. Ma avevano la stessa intelligenza, la stessa
perspicacia. “Forse lo conosce con il nome di Julian?” lo apostrofò
bruscamente l’altro.

Cameron sentì stringersi lo stomaco e pregò che la sua faccia non avesse
tradito la sua reazione fisica. “Conosco molti clienti abituali,” mormorò,
sapendo di essere un pessimo bugiardo. Cameron si immaginava che
attenersi il più possibile alla verità fosse la soluzione migliore, ma non
sapeva come agire nei confronti di quell’uomo. C’era qualcosa di… duro e
predatorio in lui. “Ma nessuno dei due nomi mi ricorda qualcuno,”
aggiunse, nella speranza che l’altro non si accorgesse che stava
mentendo.

L’uomo lo scrutò con un lieve sorriso sulle labbra. “Ho commesso un
errore,” ammise senza difficoltà. “Suppongo che mi limiterò a cercarlo in
un altro modo,” disse quasi allegramente.

Visto che non era prevista una sua risposta, Cameron si girò e tornò
nella zona di servizio senza rallentare il passo. Quando fu sicuro di non
essere visto, si appoggiò contro il muro e fece un respiro profondo.

Se l’uomo lo stava veramente cercando, Cameron non sapeva come fare
per aiutare Julian. Non sapeva come mettersi in contatto con lui e non
sarebbe stato in grado di trovare la sua casa, neppure se la sua vita
fosse dipesa da quello. Sospirò, spingendo via l’improvvisa e familiare
fitta di solitudine. Fu sorpreso di scoprire che era anche un po’ geloso.
L’uomo là fuori stava cercando il suo ex-amante e lui non sapeva niente
dei loro rapporti. Chiuse gli occhi, ricordando a se stesso, ancora una
volta, che non era più affar suo conoscere i particolari della vita di Julian.

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Cameron servì la cena poco dopo, collocandola davanti all’uomo in modo
sbrigativo. “Per favore, mi faccia sapere se ha bisogno d’altro,” gli disse a
bassa voce.

“Oh, certamente,” mormorò l’uomo con un forte accento, rivolgendogli il
suo sorriso più affascinante.

Cameron soffocò la piccola scintilla di calore verso qualcuno – un bel
qualcuno – che gli sorrideva in quel modo, nonostante la sua presenza lo
preoccupasse davvero molto. Aveva evitato di proposito qualsiasi tipo di
relazione da quando si era lasciato con Julian. Era la prima reale
attenzione che si permetteva di notare da un sacco di mesi; non era
giusto che arrivasse proprio da quella persona.

Appoggiò il vassoio sul tavolo, cercando di non fissarlo.

“Lavora qui tutte le sere?” gli chiese l’uomo con indifferenza, mentre si
apriva il tovagliolo in grembo.

Campanelli d’allarme risuonarono nella testa di Cameron. L’ultima volta
che aveva risposto a domande di quel tipo era finito insieme a Julian. E,
per quanto fosse stato meraviglioso, la cosa si era conclusa molto male.
“Il mio orario di lavoro è molto variabile,” rispose. “Nel settore della
ristorazione, non abbiamo orari fissi,” aggiunse, facendo un passo
indietro prima di allontanarsi.

“Sì, il settore della ristorazione,” ripeté l’altro pensieroso. “Ho sentito che
uccide,” disse lentamente, guardandolo con quei suoi strani occhi
scintillanti.

Cameron lo scrutò, pensando che forse adesso sapeva come si sentiva la
gente quando si trovava a fronteggiare Julian: intimidita da quello
stesso, sordo spasmo d’incertezza e paura che gli attorcigliava lo
stomaco in quel momento. Come poteva una persona, che dall’esterno
sembrava così gentile e piacevole, provocargli quelle sensazioni? Era
quello l’effetto che Julian aveva sulle altre persone?

“Può darsi, signore,” riconobbe Cameron, con voce appena incerta. “Buon
appetito,” si costrinse a dire, prima di allontanarsi, puntando dritto alla
zona di servizio.

“È piuttosto carino,” commentò una delle cameriere, non appena fu
entrato nel retro. “Cam, perché tutti i ragazzi sexy e single toccano a te?
Sono tutti gay?” chiese scherzosamente.

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Allarmato, Cameron la guardò a occhi spalancati. “C’è qualcosa di
sbagliato in lui, Sylvia,” le disse.

“Cosa vuoi dire?” chiese lei, confusa, mentre Miri gli affiancava,
guardando la sala da pranzo attraverso la finestrella della porta.

Cameron chiuse gli occhi, incapace di credere alle sue stesse parole. “Mi
ha spaventato.”

Miri e Sylvia si girarono a guardarlo, incredule.

“Quel tipo?” chiese Sylvia scettica, esaminando di nuovo l’uomo
attraverso l’oblò. “Non ha smesso un attimo di sorridere da quando è
arrivato!” protestò.

Cameron annuì lentamente. “Sì,” disse, strofinandosi le braccia come se
avesse freddo. “Non lo so,” borbottò.

“Cosa ti ha fatto?” gli chiese Miri, alzandosi sulla punta dei piedi per
guardare fuori.

Cameron rifletté su ciò che poteva dire. “Mi ha chiesto di un altro cliente,
ma credo che questo non sia così fuori dal normale.”

“Allora perché ti sei impaurito?” chiese lei dubbiosa.

“Alcune delle cose che mi ha detto,” bisbigliò Cameron. Sospirando,
guardò Miri. “Mi ha chiesto di Julian.”

“Cosa?” esclamò lei sbalordita. “Forse è… suo fratello?” propose
speranzosa. “Gli assomiglia un poco.”

Cameron la fulminò con uno sguardo tagliente e la mascella tesa. Lei si
strinse nelle spalle, con una smorfia. Cameron si passò una mano sugli
occhi. “Va bene,” affermò stancamente. “Tornate al lavoro,” aggiunse poi
con espressione severa. Annuirono entrambe, ma Sylvia gettò un’ultima
occhiata all’uomo nella sala da pranzo. Cameron si concesse un attimo
per riprendersi dal doloroso ricordo di Julian e poi si costrinse a ritornare
al lavoro anche lui. Un quarto d’ora più tardi, uscì con una brocca
d’acqua per riempire il bicchiere dell’uomo.

“Spero che abbia gradito l’antipasto,” mormorò, dovendo dire qualcosa.

“Era molto buono,” rispose lui a bassa voce. Lo stava fissando in un
modo sorprendentemente simile a come Julian aveva sempre osservato i
suoi movimenti. C’era sicuramente qualcosa di predatorio in lui. Ma

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mentre quando erano gli occhi di Julian a seguirlo, Cameron si era
sentito lusingato ed emozionato, adesso sentiva solo un senso di
soffocamento e oppressione.

“Gradisce un dessert?” chiese allo sconosciuto, dopo avergli riempito il
bicchiere d’acqua, cercando di riprendersi dall’imbarazzo.

L’uomo sorrise di traverso. Quel sorriso gli donava un’aria sbarazzina,
quasi maliziosa. “Che possibilità ho?” chiese con un tono in qualche
modo suggestivo.

Cameron si irrigidì. Questa volta sapeva di non averlo frainteso. “Zuppa
inglese con caramello, crème brulé alla vaniglia, piramide di cioccolata o
fragole con la panna,” rispose, ignorando ciò che l’uomo stava
suggerendo.

Le labbra dell’uomo fremettero per il divertimento. “Magari un’altra
volta,” affermò deciso. “Non voglio trattenerla oltre,” disse con quella sua
voce strascicata, indicando il grande orologio in ferro battuto all’ingresso
del ristorante.

Quelle parole colpirono duramente il giovane, così come tutto quello che
lo sconosciuto aveva detto e fatto precedentemente. Era quasi la stessa
cosa che Julian gli aveva detto tanti mesi prima.

Guardando l’orologio per dissipare quelle sensazioni, Cameron vide che
erano quasi le undici. In condizioni normali avrebbe assicurato al cliente
che poteva rimanere tutto il tempo che voleva. Ma quella sera…

“Posso portarle il conto?” domandò.

“Grazie,” rispose quello, senza che il suo sguardo speculativo lo
abbandonasse mai.

Cameron si allontanò. Quell’uomo gli dava davvero delle brutte
sensazioni. Avrebbe voluto conoscerne il motivo preciso e avrebbe
desiderato, non per la prima volta, sapere come mettersi in contatto con
Julian. Voleva assaporare di nuovo la sensazione di sicurezza e
protezione che aveva provato fra le sue braccia.

Presumeva che se fosse stata una vera emergenza, avrebbe potuto
contattare Blake. Ma anche lui era diventato ancora più difficile da
interpellare adesso di quanto fosse stato sei settimane prima. Non
veniva al ristorante. Non c’era più stato da quando si era trasferito. Si
limitava a chiamare occasionalmente, per chiedere come andava e non
parlava per più di un minuto o due. Cameron aveva il suo numero, ma si

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sentiva uno sciocco a chiamarlo solo perché aveva delle brutte sensazioni
su un cliente.

Cameron aprì la porta della zona di servizio e preparò il conto, con le
mani tremanti. Era solo un po’ paranoico, si ripeteva fra sé per calmarsi.
Stava permettendo alla sua esperienza con Julian di influenzarlo troppo,
ancora sofferente com’era per la ferita, a malapena guarita, che era
stata inflitta al suo cuore. Adesso, voleva solo che quell’uomo se ne
andasse, portando via con sé quei ricordi dolorosi.

In silenzio, tornò al tavolo e vi appoggiò la cartelletta di cuoio con il
conto. L’uomo vi fece scivolare subito la carta di credito, con gli occhi
fissi su di lui, che invece evitava di guardarlo. Cameron prese il
portaconto e si diresse al bar, per passare la carta nel lettore e stampare
la ricevuta per la firma.

Non stava prestando molta attenzione alla procedura, ma quando la
conferma del pagamento apparve sullo schermo del computer, il nome
dell’uomo attirò il suo sguardo. Arlo Lancaster.

Lancaster.

Cameron deglutì a fatica. Quello era l’uomo di cui gli aveva parlato Miri
non molto tempo prima. Blake aveva avvertito Julian di guardarsi da lui,
così perlomeno aveva riferito lei. Adesso era veramente sconvolto, ma
anche sollevato di aver tenuto la bocca chiusa. Aveva già ferito
abbastanza Julian. Non c’era bisogno che divulgasse informazioni su di
lui alle persone da cui egli “doveva guardarsi le spalle”.

In preda all’ansia, quasi stropicciò la ricevuta ma in qualche modo riuscì
a infilarla nella cartelletta, nonostante le dita tremanti. Cameron voleva –
doveva – mandare Lancaster via dal ristorante e poi chiamare Blake.
Appoggiò la cartelletta, insieme a una penna, sul tavolo dell’uomo, fece
un passo indietro e attese con le mani unite saldamente dietro la
schiena.

Lancaster firmò la ricevuta, lasciando una generosa mancia, a livello di
quelle di Julian. Mise la carta di credito al suo posto nel portafoglio e poi
si alzò per infilarlo nella giacca, sotto la quale erano chiaramente visibili
una cinghia di cuoio e l’impugnatura di una pistola posizionata nella sua
fondina. Lancaster non era un uomo imponente ma snello e atletico,
forse della stessa altezza di Cameron; a dispetto della sua taglia, era
però evidente che trasmetteva la stessa sensazione di forza che aveva
Julian.

Solo che Lancaster lo terrorizzava veramente.

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“Grazie per la cena, Cameron,” gli offrì, aggiustandosi la giacca con un
sorriso.

Cameron si immobilizzò. Tutto quello che riuscì a fare fu un cenno
gentile.

Lancaster non si accorse, o forse non gli interessava conoscere, l’effetto
che le sue parole e i suoi gesti avevano provocato in Cameron.
Semplicemente gli passò dietro, per dirigersi verso l’uscita. Cameron
ebbe la terrificante sensazione di aver appena schivato una pallottola.

Appena l’uomo fu fuori dalla porta, Cameron andò nell’ufficio a cercare il
nuovo numero di Blake e lo chiamò a casa.

“Sì?” rispose Blake brusco al secondo squillo.

“Sono Cameron,” disse lui con voce tremante.

“Cosa che c’è che non va?” chiese immediatamente l’altro, anche se la
sua voce era ancora calma.

“Arlo Lancaster è stato qui a cena.”

Blake rimase a lungo in silenzio, tanto a lungo che Cameron pensò quasi
che fosse caduta la linea. Alla fine si schiarì la gola. “Non ti chiederò
perché hai sentito il bisogno di chiamarmi,” dichiarò. “Non preoccuparti,
Cameron,” gli ordinò, con voce gentile. “Solo stai attento stasera, quando
torni a casa.”

“Attento?” chiese lui sorpreso. “Vuoi dire che…”

“Non andare via per un’altra ora. E quando esci, torna subito a casa,”
disse Blake in tono grave. “Fallo velocemente. Non prendere un taxi.
Cammina come al solito.”

Cameron fissò la parete, mordendosi il labbro. “Okay,” rispose in tono
sommesso.

“Buona notte, Cameron,” gli rispose gentilmente l’altro.

“Buona notte, Blake.” Cameron riattaccò la cornetta e rimase a guardarla
a lungo, con la mente che lavorava freneticamente, prima di uscire
dall’ufficio.

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CAMERON uscì dal ristorante poco dopo la mezzanotte, come gli era
stato ordinato. Era incredibile come gli fosse bastato trascorrere un
brevissimo lasso di tempo insieme a Julian per diventare così paranoico.
Pur abitando in una grande città, non era mai stato veramente
impaurito: di solito si sentiva un uomo capace, sicuro di sé. Ma non in
quel momento. Non in quella situazione. Era spaventato e quella
sensazione cresceva di minuto in minuto. Non aveva mai avuto paura per
se stesso prima d’allora. Solo per Julian.

Uscì dall’edificio, nell’aria afosa e leggermente soffocante della sera e,
come al solito, si incamminò verso casa sua. Non passò molto tempo,
prima che un fruscio di passi felpati accompagnasse i suoi.

La prima volta pensò di esserselo immaginato, forse erano echi nella
notte silenziosa. La seconda volta ne fu certo. Con un nodo alla gola, si
fermo all’angolo per dare un’occhiata sopra alla sua spalla. Una figura
sottile camminava con passo noncurante lungo il marciapiede, con le
mani in tasca e la testa china contro il vento tiepido che sferzava tra gli
alti palazzi su entrambi i lati della via.

Cameron si voltò a guardare la strada, attraversandola improvvisamente.
Era stato fuori a quell’ora della notte per centinaia di volte. E lì, nel
centro nevralgico degli scambi commerciali dell’intera città, c’era sempre
almeno un po’ di traffico per le strade. Ma per qualche strana ragione,
quella notte sembrava non esserci anima viva. Il suo cuore batteva forte,
quando riprese a camminare cercando di apparire indifferente. L’altra
persona – un uomo? – continuò per la sua strada, apparentemente
ignaro del suo cambiamento di direzione, fino a quando raggiunse le
strisce pedonali. Guardò in entrambe le direzioni e poi attraversò la
strada in modo repentino, mantenendo la stessa andatura di Cameron.

Il giovane si sforzò di mantenere la calma. O almeno una calma
apparente. Non voleva mostrare quanto fosse agitato. Il suo palazzo era
a un solo isolato di distanza. Ma se l’uomo lo stava effettivamente
seguendo, non c’era un modo sicuro per lui di arrivarci. Dietro di lui, il
suo inseguitore accelerò il passo, iniziando lentamente ad avvicinarsi.

Tremando, con i nervi tesi al massimo, gli venne a mente quello che gli
aveva raccontato una volta Julian, quando aveva impedito che lo
rapinassero per strada. Forse si trattava solo della stessa situazione. La
sua mano si allungò al torace per toccare la catenina nascosta sotto la
camicia. Senza fermarsi a riflettere, Cameron si fermò e si girò di scatto,
deciso a vedere cosa sarebbe successo.

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Il marciapiede dietro di lui era deserto, tranne che per un giornale che
rotolava lentamente dall’altra parte della strada.

Cameron lo fissò a lungo, nervoso, respirando in modo convulso. Gli si
rizzarono i peli sulla nuca. Julian era in grado di svanire così;
apparentemente anche quell’uomo era fatto della stessa pasta: ormai
non poteva più considerarla una semplice coincidenza o un’ipotetica
rapina. Guardò da entrambi i lati, prima di riprendere la via di casa.
Camminava più lentamente, con tutti i sensi all’erta, tutto teso ad
avvertire il minimo accenno dell’uomo che lo seguiva. Solo il fruscio del
giornale interruppe il silenzio della strada; nessun rumore di passi lo
accompagnava lungo il suo cammino.

Lasciandosi andare a un respiro tremante, Cameron dibatté di nuovo
sulla saggezza o meno di tornare a casa. Non voleva permettere che la
vita incasinata di Julian distruggesse la sua. Riprese nuovamente a
camminare velocemente. Era quasi arrivato. Se solo fosse riuscito ad
arrivare a casa, al sicuro dietro la porta sbarrata, sapeva che sarebbe
riuscito a scrollarsi di dosso quelle strane sensazioni.

Vicino all’entrata del suo palazzo, lo raggiunse un sibilo. “Continua a
camminare,” disse una voce soffocata, che proveniva da dietro l’ombra di
un pilastro. “Gira l’angolo e aspetta. Poi torna indietro ed entra.”

Cameron incespicò leggermente, aveva capito cosa doveva fare, anche
se era spaventato a morte. Continuò a muoversi, superando la propria
porta per arrivare all’angolo e sforzandosi di non guardarsi alle spalle.
Una volta fuori dalla vista, si voltò e scomparve nelle tenebre. Fece
qualche altro passo e si fermò, appoggiandosi al muro di mattoni.
Tremava tutto, respirando con piccoli singulti, mentre si sforzava di
ascoltare ciò che stava succedendo.

Era Julian. Doveva essere lui.

Pochi istanti dopo sentì il fruscio di piedi e quello che sembrava essere
un duro scontro di corpi. “Mi scusi!” gridò qualcuno con voce impastata,
da ubriaco. “Ehi! Questo è il mio lato della strada!” gridò ancora l’ubriaco
in tono bellicoso. Poi seguì il suono di una zuffa, come se qualcuno fosse
stato spinto.

“Cristo!” sentì esclamare con disgusto da un accento inglese
spaventosamente familiare. “Puzzi come il piscio, amico.”

Cameron sentì un vuoto allo stomaco.

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“Piscio? Ora ti faccio vedere come piscio!” ridacchiò allegramente
l’ubriaco.

Poco dopo, ci fu un altro grido soffocato e quando Cameron fece
cautamente capolino dietro l’angolo, vide Lancaster attraversare la
strada. L’uomo guardò indietro da sopra la spalla, camminando in fretta,
poi si fermò e scosse la scarpa come se ci fosse qualcosa sopra. Si
guardò intorno, con le mani strette a pugno, lungo i fianchi. Cameron
fece un balzo indietro, nell’ombra della porta in cui si era nascosto. Si
sentì soffocare dalla paura e chiuse gli occhi un istante. Ma doveva
accertarsi che Lancaster non venisse dalla sua parte.

“Stronzo,” borbottò Lancaster, guardando la strada vuota. Si girò,
cercando ovviamente l’ubriaco che lo aveva avvicinato e scosse la testa
con disgusto, quando si accorse di essere da solo nella strada. “Jules?”
gridò con voce quasi divertita. Non arrivò nessuna risposta dalla via
deserta. “Mi hai preso alla sprovvista, lo devo ammettere,” disse nel
silenzio, piegando la testa in attesa di una risposta. Che non arrivò.

Lancaster aspettò ancora qualche minuto, poi si girò e, riprendendo la
strada da cui era arrivato, sparì in fretta.

Cameron attese che l’uomo non fosse più in vista, prima di girare
l’angolo e sbirciare lungo il marciapiede di casa sua. Un uomo apparve
fuori dal vicolo sul lato opposto dell’edificio, vestito di stracci e con in
mano una bottiglia quasi vuota di liquore. Stava guardando dall’altra
parte della strada, assicurandosi che la persona che aveva seguito
Cameron non fosse visibile. Mentre Cameron lo osservava, bevve un
lungo sorso dalla bottiglia. Si raddrizzò e parve scuotere le spalle,
ergendosi in tutta la sua altezza; poi, ritraendosi su se stesso, si incurvò
nuovamente. Il primo pensiero di Cameron fu che l’ubriaco fosse Julian
sotto mentite spoglie. Doveva essere così. Con il cuore martellante, fece
un passo per scostarsi dall’angolo.

Il barbone si voltò a guardare Cameron, sollevando la bottiglia in un
saluto silenzioso e, camminando con passi strascicati, si allontanò per la
via, traballando come un ubriaco e lottando goffamente con il cappello di
pelliccia che portava sugli occhi per nasconderli. Quando il cappello si
mosse, Cameron colse di sfuggita il baluginare dei capelli biondi di
Preston, nonostante la scarsa illuminazione dei lampioni, e il suo cuore
sprofondò nell’incertezza, con una fitta di delusione.

Allontanandosi dall’angolo, Cameron faceva fatica a respirare. Non era
stata la voce di Preston a metterlo in guardia. E dove c’era Preston, si
trovava di sicuro anche Julian. Mosse di nuovo la mano verso la gola,
dove si trovava il ciondolo. Era stato Julian. Anche dopo quello che lui gli

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aveva detto, Julian lo stava proteggendo. Scrutò tra le ombre, sapendo
istintivamente che lui era ancora lì, da qualche parte, in attesa, nel caso
ci fosse ancora pericolo.

“Julian?” chiamò a bassa voce, come aveva fatto anche Lancaster. Il
nome echeggiò tra le strade deserte, fino a che i suoni lontani del
traffico, furono gli unici che fu in grado di udire.

“NON può proteggere tutti, signore,” dichiarò Preston, con il suo abituale
tono calmo.

“Dovrei essere in grado di proteggere le persone a cui tengo,” sostenne
Julian, seduto nell’enorme cucina di casa sua, intento a bere un drink
insieme al fedele aiutante. “Non sono molti,” sottolineò, stropicciandosi
gli occhi stanchi.

Preston lo guardò in silenzio. Erano i primi di giugno e loro erano
rintanati da quasi tre settimane. Già si avvertiva nell’aria l’odore della
fine, ma non sapevano ancora quale forma avrebbe preso.

“Arlo non è uno stupido,” continuò Julian burbero. “Alla fine riuscirà ad
arrivare fino a noi.”

“Forse stare seduti ad aspettare non è la cosa migliore da fare,” suggerì
Preston. “Forse dovremmo affrontare il problema per poter andare
avanti.”

“Affrontare il problema?” chiese Julian perplesso. “Vuoi dire uscire e farsi
sparare.”

“Ha sempre funzionato in passato,” rispose Preston con un sorriso
beffardo, bevendo un altro sorso di whiskey.

Julian inspirò profondamente, guardando nel bicchiere come se potesse
trovare la risposta in una bottiglia di Bushmills.

“Se questo non l’alletta forse può riunire tutti quelli che sono a rischio e
portarli qui,” proseguì Preston lentamente.

Julian lo guardò con gli occhi socchiusi.

“È un’ottima posizione difensiva,” sottolineò Preston scaltramente.

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“Blake verrebbe sicuramente. Sua moglie è già a Parigi dalla madre. Ma
portare qui Cameron equivarrebbe a rapirlo,” disse Julian sconsolato.
“Non vuole più avere niente a che fare con me, Preston.”

“Allora lasci che se la sbrighi da solo,” rispose questi, con una scrollata di
spalle.

“Cosa?” chiese Julian sorpreso.

“Se non ha voluto essere protetto allora, perché continuare a insistere
adesso?” chiese incuriosito Preston. “Non saremmo così vulnerabili se lo
lasciassimo perdere.”

La faccia di Julian sbiancò al pensiero di lasciare Cameron indifeso, come
aveva suggerito l’altro. Soltanto Dio poteva sapere cosa gli avrebbe fatto
Arlo.

“Non posso farlo, Preston,” sussurrò con voce ferita. “Sono io la ragione
per cui si trova in pericolo.”

“Se lo dice lei, signore,” convenne Preston condiscendente, versando a
entrambi dell’altro whiskey.

Julian si strofinò la nuca, guardando il compagno. Lui e Preston erano
amici e colleghi da più di vent’anni. Lo conosceva da più tempo e meglio
di chiunque altro nella sua vita. Era il suo lavoro parlare schiettamente.

Pensò che fosse giusto essere arrivati a quel punto: loro due che
condividevano l’ultima bottiglia di whiskey, mentre prendevano coscienza
che ormai erano stati messi all’angolo.

“Non mi è mai piaciuto, a ogni modo,” bofonchiò Preston, riempiendo il
proprio bicchiere fin quasi all’orlo. “Non possiamo semplicemente
ucciderlo e passare ad altro?”

“Chi?” chiese Julian con orrore. “Cameron?”

“No, signore,” rispose Preston divertito. “Arlo. Potremmo trovarlo
facilmente. Sappiamo che sta sorvegliando il ristorante.”

“Arlo, non è l’unico che mi vuole morto. È solo quello più pericoloso,”
sottolineò lui. “Se gli andiamo dietro al momento sbagliato, potrebbero
andarci di mezzo anche persone innocenti.”

“Uno in particolare, suppongo?” disse Preston con voce strascicata,

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girando in tondo il proprio bicchiere di whiskey.

“Sì,” rispose stizzito Julian.

“Beh. Aspettare con le mani in mano non è da noi,” gli ricordò Preston.
“Il signor Nichols è diventato un recluso. Noi ci stiamo nascondendo e
credo di dover sottolineare che non è qualcosa che sappiamo fare molto
bene. Questo non è il modo in cui siamo abituati a operare, signore, e
Lancaster lo sa. Andrà alla ricerca di un suo punto debole per stanarla.”

“Lo so benissimo.”

“Se lei fa fuori l’uomo che è stato mandato a ucciderla, specialmente se
quell’uomo è Arlo Lancaster, le probabilità che qualcun altro sia disposto
a prendere il suo posto sono molto scarse,” continuò Preston
ragionevolmente. “La mia opinione, signore, è che Arlo è l’unico disposto
a farlo. I suoi nemici hanno cercato di ucciderla per anni e nessuno si è
mai avvicinato abbastanza da riuscirci. C’è un motivo per cui siamo
arrivati a questo punto.”

Julian lo guardò e sentì il terrore farsi strada nel suo corpo. Sapeva che
Preston aveva ragione, sapeva cosa stava per dire. Non provò nemmeno
a fermarlo.

“Permettere che il ricordo del signor Jacobs influenzi le sue decisioni, alla
fine la ucciderà, signore,” gli disse Preston in un tono piatto e senza
infiorettature. “Lui non è qui, non vuole più far parte della sua vita,
sempre che lei non lo costringa. Dovremmo incontrare Lancaster testa a
testa e farne carne da macello. Per amore dei vecchi tempi, se non
altro,” disse pensieroso, continuando a far girare il whiskey nel bicchiere.
“Gli sono debitore di almeno due pallottole nel culo,” borbottò sottovoce.

“E Cameron?” chiese Julian a bassa voce.

“Proteggerlo è stato un errore,” azzardò Preston con rammarico. “Temo
che abbiamo solo contribuito ad attirare l’attenzione di Lancaster su di
lui.”

Julian distolse lo sguardo dal bicchiere. Avrebbe voluto confutare
quell’affermazione, ma sapeva che l’altro raramente si sbagliava quando
si trattava di questioni tattiche.

Preston aprì la bocca per continuare, ma il cellulare di Julian iniziò a
suonare, interrompendolo. Entrambi gli uomini lo fissarono e poi si
guardarono l’un l’altro, sorpresi. Julian poteva contare sulle dita di una
mano il numero di persone che avevano quel numero, inoltre aveva fatto

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in modo che non fosse facile da scovare.

Girò la testa a guardarlo mentre lo sentiva suonare. Il display indicava
un numero privato, ma lui sapeva d’istinto di chi si trattava.

“Tanto vale rispondergli, signore,” sussurrò Preston, a voce bassa, come
se il telefono potesse sentire le sue parole. “Se ci conosce così bene da
chiamarci quando siamo ubriachi, allora siamo in guai più seri di quanto
pensassimo,” disse, facendo un sarcastico brindisi nell’aria con il
bicchiere prima di ingoiarne un altro sorso.

Julian grugnì snervato e prese il telefono. “Arlo,” rispose a voce bassa.

“Ciao, Julian,” lo salutò allegramente quest’ultimo. “Simpatico
quell’accento.”

“È servito allo scopo,” bofonchiò lui.

“Mi piaceva di più l’altro. Ho una proposta,” disse Lancaster, sapendo che
Julian probabilmente non avrebbe aggiunto altro, limitandosi
esclusivamente ad ascoltare. “Senti, ho un budget limitato per questo
contratto. Le persone che mi hanno assunto ti vogliono morto, ma non
abbastanza da sborsare quanto mi occorre veramente per ucciderti. Mi
segui?”

“Okay,” lo rassicurò lui. Arlo stava finanziando quel contratto con i propri
soldi. Era diventata una cosa personale per lui, l’avrebbe fatto a qualsiasi
costo. Questo era sia positivo che negativo.

“Tutta questa sorveglianza e quant’altro ha iniziato ad annoiarmi.
Cameron Jacobs è l’uomo più ordinario e insignificante che abbia mai
incontrato,” proseguì Arlo con fastidio. “Spero che perlomeno sia bravo a
letto, Jules; ed è tutto quello che ho da dire al riguardo. Devo ammettere
che hai fatto un lavoro impressionante nel nascondere Blake Nichols.
Dimmi, Julian, perché hai nascosto il tuo contatto ma non il tuo uomo?”

Julian strinse i denti, rimanendo in silenzio.

“Problemi in paradiso, eh? Potrei risolverteli io,” continuò Arlo con voce
divertita.

“Hai detto di avere una proposta,” gli ricordò Julian, passando all’accento
che gli veniva più naturale, un’inflessione tipicamente irlandese. Non
c’era più motivo per nasconderlo ad Arlo o a chiunque altro. Era quasi un
sollievo potersi esprimere così liberamente. “O hai pianificato di
ammazzarmi annoiandomi a morte?” chiese infastidito.

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Arlo espresse il suo biasimo con uno sbuffo. “Sempre il solito spiritoso,
vero? Va bene, la mia proposta è questa: incontriamoci al ristorante di
Blake, in uno dei tuoi giorni soliti. Solo tu. Di’ a Preston di levarsi dalle
palle. Sistemeremo questa cosa fra gentiluomini.”

Julian non rispose, domandandosi perché l’idea gli risultasse abbastanza
gradita. Era convinto di poterlo uccidere oppure era semplicemente
pronto a morire?

“Sarà meglio che ti presenti martedì sera, Julian, oppure Cameron
Jacobs non tornerà a casa vivo,” gli promise Arlo, prima di terminare la
chiamata.

Julian chiuse il cellulare lentamente e alzò lo sguardo per incrociare gli
occhi di Preston. L’uomo era circospetto, con l’aria di chi la sa lunga.
“L’unico modo per salvare la persona che ama è quello di morire per lui?”
azzardò con calma, il suo accento irlandese che sgorgava naturalmente
come se non l’avesse mai nascosto.

Julian annuì senza parole, fissando il ripiano del tavolo.

“È molto cavalleresco da parte sua,” commentò Preston in modo
tagliente. “Devo prepararmi una postazione da cecchino?” domandò con
una punta di trepidazione.

“No,” rispose Julian, calmo. Con un’espressione seria sul volto, si sporse
in avanti. “Fammi una promessa, Preston.”

“Certo, signore,” rispose questi senza esitazione.

“Se mi uccide,” mormorò Julian, “devi prenderti cura di Smith e Wesson.”

Preston sbatté le palpebre rapidamente, stringendo i denti per impedirsi
di mostrare quello che pensava dell’idea. Infine chiese, speranzoso:
“Potrei invece chiudermi nella bara con lei?”

Julian sorrise e scosse la testa.

“Accidenti,” brontolò Preston, mentre si alzava dal tavolo per andare via.

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Capitolo 9

CAMERON stava raccogliendo dei calici, quando Sylvia fece irruzione
nella zona di servizio, catturando l’attenzione di tutti i presenti. “Cam,”
sibilò. “È tornato.”

Cameron si girò di scatto e la fissò. “Chi?” chiese con il cuore che gli
martellava nel petto.

“Quel tizio spaventoso,” rispose lei senza fiato, catturando anche
l’attenzione di Miri, che stava arrivando in quel momento.

Cameron strinse con forza il bicchiere di cristallo che aveva in mano. “Sei
sicura?” gli chiese.

“Guarda,” sussurrò lei, muovendosi verso la porta e avvicinandosi alla
finestrella.

Le ultime settimane erano passate senza complicazioni e senza alcun
segno di Arlo Lancaster, l’uomo che l’aveva così tanto innervosito; ma
non c’erano stati segni di vita nemmeno da parte di Julian, da quando,
quella notte, lui e Preston avevano fatto scappare Lancaster. La vita di
Cameron si era tranquillizzata, tornando a scorrere su un binario
tranquillo… fino a quel momento.

Riuscivano a malapena a vederlo dal loro punto. Lancaster aveva chiesto
il solito tavolo tranquillo dell’ultima volta, sedendosi dal lato che gli
permetteva di vedere l’ingresso. Mentre lo scrutavano, Keri accompagnò
al tavolo un altro uomo. Un uomo alto, tenebroso e molto attraente che
tutti riconobbero subito.

Vedere Julian per la prima volta dopo tanti mesi mozzò il respiro a
Cameron. Lentamente si sporse in avanti, afferrando saldamente il
bancone mentre guardava attraverso la finestrella. Un dolore improvviso
gli attanagliò il petto, così intenso da riuscire a malapena a deglutire.

Julian rimase a lungo in piedi di fianco al tavolo, riuscendo ad apparire
imponente e intimidatorio anche nell’elegante vestito fatto su misura.
Lancaster si appoggiò con disinvoltura allo schienale della sedia,
guardandolo quasi con insolenza, prima di alzarsi e offrirgli la mano,
insieme a poche parole di saluto. Julian osservò la sua mano un istante,
poi l’afferrò e la strinse rigidamente. Si guardò intorno, quasi a disagio,

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poi si sbottonò la giacca lentamente e gli sedette di fronte.

Rimasero seduti in silenzio, fissandosi l’un l’altro.

“Non mi piace,” sussurrò Sylvia dal fianco di Cameron. “Cosa facciamo?”

Il giovane fissava la scena dalla porta, sentendosi prosciugato. Era stato
troppo sconvolto, troppo spaventato, troppo solo e tutto questo per
troppo tempo. La forza delle sue emozioni in quel preciso momento lo
annichiliva, così decise di seppellirle profondamente dentro di sé. “Ci
comportiamo come al solito,” rispose in tono secco, con la voce che
diventava sempre più ferma via via che parlava. “Questo non ha niente a
che fare con noi.”

“Cosa stai dicendo?” gli chiese Miri dall’altro fianco.

“Noi non li conosciamo, non sono diversi da qualsiasi altro cliente,” le
disse Cameron. L’ignoranza li avrebbe tenuti al sicuro. Glielo aveva
insegnato Julian.

Le due donne annuirono lentamente, tornando a guardare quei due
uomini pericolosi.

Sembravano agli antipodi. Julian sedeva in modo formale, il volto
inespressivo mentre guardava l’altro. Lancaster, invece, sedeva
leggermente di lato, con il gomito appoggiato sulla spalliera della sedia,
adagiato con indifferenza all’indietro, con la caviglia appoggiata sul
ginocchio. Sorrideva malizioso, mentre incrociava lo sguardo di Julian
senza battere ciglio.

Cameron si raddrizzò, aggiustandosi il colletto e la camicia. Prese i porta
menù e uscì dalla zona di servizio.

Dove avesse trovato la determinazione per farlo, non lo sapeva. Come
sapeva che quello che stava succedendo tra i due fosse sbagliato, era un
mistero. Tutto quello che poteva fare era seguire l’esempio di Julian: fare
il proprio lavoro e far finta di non conoscere l’uomo che era stato il suo
amante.

Quando arrivò al tavolo, Lancaster aveva appena iniziato a parlare con
tono sommesso. “Sei un uomo difficile da rintracciare,” disse divertito.
“Nascosto nel tuo castello. Potresti anche essere Bruce Wayne.”

“Questo fa di te Joker?” gli chiese l’altro in tono secco, chiaramente non
divertito.

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Cameron si fermò a pochi passi di distanza, completamente preso alla
sprovvista nel riconoscere il suono della voce di Julian caratterizzato da
un melodioso accento irlandese. Era perfetto ma estraneo. Non l’aveva
mai sentito parlare con un accento. Forse lo faceva apposta per
Lancaster? Era un qualcosa che gli serviva per nascondere la sua
identità? In quel caso, era veramente bravo.

Lancaster rise piano e annuì.

“Perché siamo qui?” domandò Julian con un accenno di fastidio nella
voce.

“Ho sentito che questo posto ti piace,” rispose Lancaster
innocentemente. “Il cibo è delizioso. Sebbene il servizio sia alquanto
carente.”

Julian rimase in silenzio, fissando il suo compagno senza tradire alcuna
emozione. Cameron lo prese come il segnale per avvicinarsi al tavolo.
“Buona sera, signori,” li salutò, cercando disperatamente di mantenere la
voce ferma. “Mi chiamo Cameron e stasera mi occuperò delle vostre
ordinazioni.” La voce, per fortuna, venne fuori perfettamente
professionale, così come le sue maniere. Ripeté velocemente il menù
speciale del giorno, senza soffermare lo sguardo su nessuno dei due e
poi chiese: “Vorreste iniziare con del vino?” Non riusciva a guardare
nessuno dei due negli occhi, specialmente non Julian.

Lancaster lo guardò con un sorriso aperto. “Del vino sarebbe perfetto,”
disse allegramente, con voce strascicata. “Ci porti la bottiglia più
costosa,” chiese, spostando gli occhi su Julian, quasi come a sfidarlo.
“Stasera, festeggiamo.”

Con la coda dell’occhio, Cameron vide Julian serrare la mascella.

Annuì, con un breve cenno del capo, appoggiando le carte dei menù fra
loro. “Subito, signore,” mormorò, allontanandosi per prendere il vino e i
bicchieri.

Da qualche parte dentro di sé, sentì i propri propositi vacillare: non si
capacitava di trovarsi così vicino a Julian senza essere in grado di fare
nulla al riguardo. Ma sapeva che non poteva lasciarsi andare. Proprio non
poteva. Se lo avesse fatto, non sarebbe più stato in grado frenarsi di
nuovo. Quella paura che aveva sempre provato per lui, la paura che il
suo uomo potesse essere ferito o perfino ucciso, riemerse più forte che
mai. Quando Cameron rientrò nella zona di servizio, si rese conto che,
anche se non stavano più insieme, ne era comunque totalmente
condizionato: sarebbe stato di gran lunga meglio sentirla stando insieme

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a lui.

“Cosa si stavano dicendo?” chiese Miri bisbigliando, stringendoglisi
intorno insieme a Sylvia.

“Dovreste tornare al lavoro,” disse Cameron bruscamente e, andando
allo scaffale dei vini costosi, ne tirò fuori la bottiglia più pregiata che
offrisse il ristorante. La pulì con cura e prese due calici, appoggiando il
tutto su un vassoio. Ma dovette fare una pausa, perché le sue mani
tremavano a tal punto che i calici di cristallo si toccavano e tintinnavano.

“Cristo,” borbottò Sylvia, guardando il costoso vino. “Ma cos’è? Un
appuntamento galante?” aggiunse turbata.

“Non lo so,” borbottò cupamente lui.

“Spero che tu sappia quello che fai,” gli disse ancora la ragazza a voce
bassa. “Puoi vedere la tensione che c’è tra di loro. La potresti tagliare
con uno dei coltelli di Jean-Michel!”

Cameron prese il vassoio, raddrizzando un fiocco del centrino, poi inspirò
profondamente per calmarsi. “Sono solo dei clienti,” disse, ricordandolo
sia a se stesso che agli altri. Si lasciò le ragazze alle spalle e portò il
vassoio al tavolo, appoggiandolo su un piccolo carrello lì vicino, prima di
presentare la bottiglia avvolta in un panno di fine lino.

Lancaster indicò con la testa Julian. “Lasciamo che sia lui ad assaggiarlo,
se non le dispiace,” disse.

Julian continuava a fissare l’uomo, senza dire una parola; aveva
appoggiato entrambe le mani sul tavolo, di fronte a lui, e Cameron
sapeva che di solito ne teneva almeno una in grembo quando mangiava.
E sapeva anche il perché, ma non ci voleva pensare in quel momento.
Anche Lancaster sedeva con entrambe le mani sul tavolo. A Cameron
ricordavano i giocatori di poker del Far West, sempre con le mani in
vista. Miri aveva ragione: la tensione era palpabile.

Cameron posò la bottiglia mentre tirava fuori il cavatappi e l’aprì con la
sua solita efficienza, sorpreso che le sue mani non tremassero più. Lasciò
che il vino prendesse aria un istante e poi ne versò un paio di sorsi in un
bicchiere, prima di offrirlo a Julian senza dire una parola. Infine si
permise di posare gli occhi sul suo ex-amante, provando una fitta di
desiderio così forte, che quasi lo piegò in due.

Julian fissava ancora intensamente Lancaster, con il corpo teso come una
corda di violino. Alla fine guardò altrove e prese il bicchiere. Sollevò lo

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sguardo verso Cameron: nei suoi occhi c’era una scintilla di qualcosa che
il giovane non aveva mai visto.

Sembrava essere… paura.

Julian sorseggiò il vino, approvandolo in silenzio. Dopo aver visto quello
sguardo nei suoi occhi, Cameron non poté fare altro che stare lì, con la
bottiglia stretta in una mano. Si chiese se fosse una reazione alla sua
presenza o a quella di Lancaster. Alla fine si costrinse a guardare l’altro
uomo e a offrirgli la bottiglia.

Lancaster annuì senza guardarlo, agitando la mano in aria e sorridendo a
Julian. “Allora, cosa prendiamo adesso, Julian?” domandò disinvolto. “Il
piatto del giorno?” chiese sarcasticamente.

Cameron prese il bicchiere vuoto e, in silenzio, lo riempì fino a metà
prima di metterlo con cura davanti a Lancaster. Le sue parole e il suo
tono lo spaventarono; di sicuro l’uomo si era documentato sulle
preferenze di Julian. Sembrava che lo conoscesse bene. Cameron deglutì
cercando di non trasalire.

Lancaster prese il bicchiere e lo sollevò come se fosse pronto per fare un
brindisi. Sorrise a Julian, con occhi amichevoli e calorosi, anche se
Cameron sapeva istintivamente che era una maschera.

“Qual era quel brindisi che mi avevi insegnato, Jules?” gli chiese con un
sorriso. “Qualcosa di molto irlandese,” rifletté, mentre cercava di
ricordare.

Julian lo fissò, ovviamente non aveva intenzione di rispondere. Mentre
Cameron alzava il bicchiere di Julian e lo riempiva, si permise di
guardarlo attentamente, prima di posarglielo davanti, insieme alla
bottiglia e scostarsi in attesa. Aveva insegnato un brindisi a quell’uomo?
Immaginarselo insieme a una chiassosa folla di ubriachi, declamando
brindisi “molto irlandesi” aveva un che di sbagliato. Aveva veramente
conosciuto, almeno in parte, il suo amante? Fece un mezzo passo
indietro.

“Possano coloro che ci amano amarci,” declamò Lancaster a un tratto,
sollevando il bicchiere di vino. “E quelli che non ci amano, che Dio cambi
loro i cuori. E se Egli non cambia i loro cuori, che possa Egli storcere le
loro caviglie, così da farceli riconoscere dal loro zoppicare.”

Julian strinse le labbra. Si chinò lentamente in avanti e, appoggiando
infine i gomiti sul tavolo, lo fissò attraverso di esso. Anche il suo
compagno di tavolo si sporse in avanti con evidente piacere.

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“Pensi davvero che funzioni così?” gli chiese Julian con voce bassa e
minacciosa. Il suo accento irlandese provocò a Cameron dei brividi lungo
tutto il corpo: non poteva fare a meno di guardarlo, chiedendosi quante
altre cose non aveva mai saputo di lui. “Pensi di poter venire nella mia
città senza incorrere nella mia ira?” continuò Julian. “Pensi di arrivare
vivo alla fine di questa cena?” gli ringhiò.

Il sorriso di Lancaster svanì. “Avresti dovuto pensarci prima di
insegnarmi tutto quello che sai,” mormorò con il suo stesso tono di voce.
“Il piatto del giorno?” chiese, cambiando completamente tono.
“Prendiamo entrambi il piatto del giorno,” disse a Cameron con un
sorrisetto compiaciuto e soddisfatto.

Cameron fece correre lo sguardo avanti e indietro tra i due e alla fine
annuì. “Sarò subito da voi con le vostre ordinazioni,” disse. Il suono della
sua voce risultò debole perfino alle sue stesse orecchie. Raccolse i menù
e si girò. Nel fare ciò, vide Julian alzare il proprio bicchiere verso quello
di Lancaster. “Al tuo zoppicare, Arlo,” disse solennemente.

Dietro di lui, un piccolo rumore e un grugnito di dolore stavano a indicare
che l’uomo che si era lasciato alle spalle aveva appena preso a calci
l’altro, sotto il tavolo.

Se non fosse stato così terrorizzato, Cameron si sarebbe messo a ridere.

“PERCHÉ sei qui?” chiese Julian a denti stretti.

“Perché il tuo tempo è terminato,” rispose Arlo senza mezzi termini. “Fai
il lavoro sbagliato, per la gente sbagliata, amico. L’informatore per la
polizia? Ti suona familiare?” chiese sfacciatamente.

“Tutti noi facciamo quello che dobbiamo,” rispose sommessamente
Julian. Arlo sapeva più di quanto avesse sospettato.

“Ma tu non avevi bisogno di farlo, Jules,” affermò Arlo, con ancora lo
stesso sorriso sul volto. “Non avresti nemmeno più bisogno di lavorare.
La sola ragione per cui ancora lo fai è perché ti piace,” lo accusò, con
l’aria di chi la sapeva lunga.

Julian serrò i denti più forte, abbassando leggermente la testa e
rifiutandosi di guardare altrove.

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“Ti piace pedinare, inseguire, incutere terrore. Ti piace uccidere e sarà
sempre così. Tu non sei uno di quei fottuti buoni del cazzo, quindi perché
hai tentato di farne parte?”

Julian si appoggiò leggermente allo schienale, inspirando profondamente.
Il colmo era che Arlo aveva ragione. A lui piaceva ciò che faceva. Era in
gamba, lo era sempre stato. Alla fine gli era stata data un’opportunità.
Rimanere fra i cattivi oppure scegliere l’amore. E lui si era allontanato
dall’amore. Aveva scelto di essere un killer invece di stare con Cameron.

“C’eri tu dietro quel grosso cane del cazzo?” gli chiese.

Arlo scoppiò a ridere. “No,” rispose gongolante. “Ma ne ho sentito
parlare.” Ridacchiò. “Geniale, nella sua semplicità.”

Julian sospirò e bevve un lungo sorso di vino.

“Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro,” gli disse Arlo,
improvvisamente serio. “È solo questione di tempo.”

“Qualcun altro,” ripeté Julian cupamente. “L’uomo che ti ha assunto.
Dimmi chi è,” pretese di sapere. “Lo sai, posso eliminarlo senza
problemi. Non sei costretto a rispettare l’accordo.”

Arlo rispose con un ghigno malizioso. “Cosa ti fa pensare che non voglia
farlo?” domandò.

VENTI minuti dopo aver preso l’ordine, Cameron arrivò con le loro
portate. L’atmosfera al tavolo si era fatta decisamente pesante, ma ciò in
qualche modo lo aiutava a mantenere le distanze. Era come assistere a
un litigio tra marito e moglie. Non si era fatto coinvolgere in passato e
non si sarebbe fatto coinvolgere in quel momento. Ma non poteva evitare
di ascoltare.

Sollevò i due piatti e si avvicinò. Quando li appoggiò davanti a loro,
Lancaster li annusò, sconcertato. “Che cosa sarebbe esattamente questa
cosa?”

“Stai zitto e goditela,” ringhiò Julian.

Lancaster spostò lo sguardo da lui a Cameron. “Cos’è?”

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Cameron lo guardò di sottecchi, un istante prima di rispondere: “Soufflé
di tartaruga azzannatrice in salsa red-eye e patate fritte.”

“Cristo, Jules,” grugnì Lancaster, mentre si appoggiava allo schienale per
guardarlo.

“Vorresti andare fuori nella notte con solo del vino da duecento dollari
nello stomaco? Sii il mio fottuto ospite,” borbottò quest’ultimo.

“Posso farle avere una pietanza diversa,” si sentì in dovere di offrire
Cameron.

Lancaster, storcendo il naso in segno di disgusto, continuava a guardare
Julian, che invece aveva cominciato a mangiare. “Va bene, così,”
farfugliò. “Grazie,” gli uscì a denti stretti.

“Questo è sempre stato il tuo problema, lo sai?” gli disse Julian
animatamente, lasciando cadere la forchetta sul piatto con un tonfo.
Cameron l’aveva visto raramente esprimere le proprie emozioni in quella
maniera, specialmente in pubblico. “Sei tutto apparenza e poca sostanza.
Non fai mai un cazzo di ricerche.”

“Ti ho trovato, no?” ribatté quello.

Cameron si ritirò senza il suo usuale invito a chiamarlo se avessero avuto
bisogno di qualcosa. Per nessun motivo, voleva interferire in quella
conversazione.

Mentre si allontanava, sentì di nuovo Julian ringhiare: “Mangia la tua
fottuta cena.”

Sarebbe stato comico se Julian non fosse sembrato così furioso.
Cameron si occupò degli altri tavoli, tenendo un occhio sul loro nel caso
in cui la violenza esplodesse. Non pensava che sarebbe successo – Julian
aveva una padronanza di sé quasi illimitata – ma quella notte pareva che
la sua rabbia rasentasse il furore.

Quando, alcuni minuti più tardi, Cameron si voltò, vide Lancaster
versarsi il vino della bottiglia fino all’ultima goccia. Paventava il suo
ritorno al tavolo, ma sapeva di non avere altra scelta.

“Altro vino?” chiese con calma, avvicinandosi.

Entrambi gli uomini risposero nello stesso tempo, Julian con un sonoro
“No,” e Lancaster con un allegro “Sì, grazie!”

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Il cameriere inarcò un sopracciglio in un’espressione dubbiosa, cogliendo
improvvisamente l’umorismo perverso della situazione. Non era per
niente divertente. Quei due uomini erano sul punto di azzannarsi alla
gola, ma c’era qualcosa che gli faceva venire voglia di ridere
istericamente. “E, se mentre decidete, io vi liberassi dai piatti?” propose
esitante.

Julian si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto,
guardando Lancaster a occhi socchiusi. Lancaster lo imitò e piegò la testa
di lato. “Il dolce?” chiese con sorrisetto.

“Vaffanculo,” rispose con calma l’altro.

Cameron non aveva idea di cosa dire, desiderava solo di poter andare via
da lì. Invece iniziò a raccogliere i piatti e le posate.

Lancaster alzò lo sguardo verso di lui, socchiudendo gli occhi. “Tu sei
quel tipo che sosteneva di non conoscere Julian,” disse. “Di non aver mai
sentito parlare di lui,” proseguì. “Buffo, perché le mie fonti mi hanno
riferito che voi due avete fatto coppia fissa a lungo,” continuò,
allungandosi sul tavolo per sorridere a Julian. “Sempre per parlare di
ricerche,” rifletté a voce alta.

Cameron non riusciva a smettere di guardare Julian. Voleva che lui
credesse che non aveva detto nulla a Lancaster. Accidenti, se Julian
avesse pensato che lui l’aveva tradito…

“Non so di cosa stia parlando, signore,” riuscì a dire.

“Sì, me lo immagino,” rispose Lancaster con una risata ironica. “Non
preoccuparti, amico,” sospirò, guardando Julian, che era rimasto teso e
silenzioso. “Non è più interessato a quello che fai,” affermò. “Ti ho
seguito per settimane e il tuo Jules non ha fatto niente al riguardo. Sei
occupato da cose nuove, non è vero, Jules?” gli chiese malignamente.
“Non hai tempo da sprecare con gli sfigati.”

Cameron sussultò prima di riuscire a controllarsi. Julian, impassibile
come sempre, fissava Lancaster, senza mai preoccuparsi di guardare lui.

“Dai, Jules,” lo invitò Lancaster, sorridendo come al solito in quel suo
modo affascinate, quasi infantile, sebbene i suoi occhi brillassero
pericolosamente. “Diglielo. Digli cosa facevi e con chi. Perché non vi
vedevate mai di domenica e di giovedì. Dove andavi il sabato sera, dopo
essere uscito da casa sua?”

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“Il conto, prego,” disse Julian a denti stretti.

Cameron si dileguò immediatamente. Una volta arrivato nella zona di
servizio, mise giù i piatti di botto, si accasciò tremante sul bancone e,
mordendosi con forza il labbro, cercò di trattenere le lacrime che
minacciavano di traboccare.

Miri si avvicinò e gli prese il braccio. “Cam? Cosa vuoi che facciamo?”

Cameron si costrinse a raddrizzarsi e a stropicciarsi gli occhi, respirando
a fondo. “Voi rimanete qui, io gli porto il conto. E si spera che se ne
vadano da Tuesdays, senza ritornare mai più.”

Dentro di sé, il giovane era sconvolto. Aveva creduto che non ci fossero
stati altri mentre Julian stava con lui, e ancora ci credeva, ma forse era
stato un ingenuo. O forse, l’uomo stava solo cercando di ottenere una
reazione da parte sua. Ma non voleva pensare a chi poteva essere
venuto dopo di lui. Un uomo come Julian poteva avere qualsiasi cosa o
persona volesse. Ed era quello ciò che lo feriva più di ogni altra cosa:
che, dopo essere stato allontanato, Julian potesse averlo rimpiazzato così
facilmente.

Cercando di raccogliere un po’ di coraggio, Cameron prese il conto, lo
mise nella cartelletta di cuoio e andò a liberarsi di loro. Aveva bisogno
che se ne andassero, così avrebbe potuto trovare un posto dove lasciarsi
andare, tormentandosi ancora una volta per l’uomo che non aveva più il
diritto di amare.

Quando Cameron tornò da loro, Lancaster era ancora allungato sul tavolo
e guardava Julian attentamente. “Allora,” stava dicendo a voce bassa.
“Chi esce per primo, eh? Vuoi che ti dia un vantaggio, così magari riesci
a seminarmi e a rintanarti nella tua fortezza; o preferisci che vada prima
io, così avrai il brivido di non sapere se ti aspetta o no un agguato?”
chiese con soddisfazione. “Così tanti modi per morire stanotte,” affermò,
quasi serenamente.

“Non dovresti godere in questo modo per quello che fai,” lo avvisò Julian.
“Ti rende stupido.”

Lancaster gettò indietro la testa e rise.

Cameron fece scivolare la cartella di cuoio sul tavolo, raccolse i piatti e le
posate e poi si allontanò leggermente per appoggiarli su un vassoio,
facendo del suo meglio per tenere gli occhi lontani da entrambi gli uomini
ed evitare di attrarre la loro attenzione.

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Lancaster si appoggiò nuovamente allo schienale, con le mani dietro la
nuca, e rivolse a Cameron uno sguardo divertito. “Vado per primo,”
decise dopo un attimo con espressione meditabonda, senza distogliere
gli occhi dal giovane. “Immagino vorrai congedarti, dopo tutto,” disse,
alzandosi e abbottonandosi la giacca. Sorrise a Julian, che sedeva
immobile. “È stato divertente,” affermò. “Lo dirò in giro,” promise,
chinandosi su Julian, con una mano sulla spalla a sussurrargli
nell’orecchio, “che sei stato abbastanza uomo da pagarti il tuo ultimo
pasto.”

Julian annuì appena. “Fallo,” borbottò.

Lancaster si allontanò di un passo, si fermò e mise una mano sul braccio
di Cameron. Lui si ritrasse. “Le mie più sentite condoglianze,” gli offrì
serio, ignorando la sua reazione; poi si girò e iniziò ad allontanarsi.

Cameron non si mosse mentre lo guardava uscire dal ristorante. Non
sapeva più cosa pensare, se non che Julian era in un mare di guai.
Visibilmente scosso, si voltò verso di lui.

Julian stava scuotendo la testa, alzandosi per tirare fuori il portafoglio
dalla tasca. “Dannato vino,” sussurrò, ancora con quell’accento irlandese.
Cameron stava iniziando a pensare che fosse autentico. Non lo aveva
mai visto perdere la calma in quel modo.

Incrociò brevemente i suoi occhi, prima di tornare a guardare i soldi che
aveva in mano. “Stava mentendo,” aggiunse, iniziando a contarli per
pagare il conto.

Cameron lo guardò, consapevole del desiderio e della sofferenza che
esprimeva con il proprio sguardo, ma non si preoccupava più di
nasconderli. “Su cosa?” domandò con voce addolorata.

Julian lo guardò, come se fosse sorpreso di averlo sentito parlare. “Non
c’era nessun altro, oltre a te,” rispose senza mezzi termini.

Cameron inspirò profondamente e si strinse le braccia intorno alla vita,
fissandolo per tutto il tempo. Dovette fare un passo indietro, o non
sarebbe mai stato in grado di distogliere lo sguardo. E la consapevolezza
che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che gli parlava si abbatté
su di lui come una mazzata. “Mi dispiace,” disse bruscamente. “Per quello
che ti ho detto.”

Julian lo guardò con attenzione e rispose con un minuscolo cenno della
testa, prima di tornare a concentrarsi sui soldi. “Me lo dici perché sto per
morire?” chiese con calma.

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Cameron, a quel punto, non riuscì a soffocare un gemito sommesso. “No.
Perché avevo paura. Perché non te lo meritavi,” disse implorante,
desiderando che Julian capisse.

“Sì, invece,” lo rassicurò quello. Mise il resto delle banconote sul tavolo,
poi alzò lo sguardo e cominciò ad abbottonarsi la giacca. Sembrava triste
in maniera angosciante e Cameron si trovò a essere ancora più
spaventato. “Vorresti dire una cosa a Blake da parte mia?” gli chiese
calmo.

Cameron assentì.

“Digli di correre via a gambe levate, se non torno indietro.”

Cameron aveva un nodo alla gola che gli rendeva difficile deglutire. “Ti
aspetta fuori, è così? Lancaster. Ti vuole uccidere.”

Julian annuì appena. “Di’ a Blake che ritornerò qui, se ne sarò in grado,”
proseguì, con voce roca.

Cameron leggeva chiaramente la sconfitta nelle sue spalle e si arrabbiò.
Julian era sempre stato forte e stoico: quel fantasma dell’uomo che era
stato non era lui.

“Ti sei arreso,” gli disse in tono accusatorio. “Cosa è successo al ‘Sono
bravo, in quello che faccio’?” chiese.

“Anche lui è bravo in quello che fa,” rispose con calma. “C’è un prezzo da
pagare quando fai quello che faccio io,” spiegò in tono sommesso. “Tutti
lo paghiamo alla fine. Dillo a Blake e basta,” gli chiese, con difficoltà.

Cameron rimase senza parole, colpito dalla miscela di sconfitta, desiderio
e paura che riusciva a leggere negli occhi scuri di Julian. Il suo cuore si
spezzò con un dolore quasi fisico, quando si rese conto di quello che
aveva fatto a un uomo che un tempo era stato magnifico. Non era mai
stato Julian quello capace di distruggere qualcosa nella loro relazione,
comprese Cameron: era lui che aveva avuto quel potere per tutto il
tempo.

Julian aprì la bocca come per aggiungere qualcos’altro, ma poi chinò la
testa e si girò, uscendo dal ristorante senza voltarsi indietro.

Cameron fissò le porte a vetro da cui l’uomo era uscito, fino a che, poco
dopo, non fu Blake ad attraversarle, ovviamente a conoscenza
dell’appuntamento al ristorante. Capì che il suo capo era stato nascosto

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per tutti quei mesi, ma che ora non ce n’era più bisogno, visto che, in
qualche modo, Lancaster aveva rintracciato Julian.

“Cameron?” mormorò Blake.

“Ha detto che sarebbe tornato qui, se ne fosse stato in grado,” disse
questi impacciato. “Ha detto che se non lo fa, tu devi scappare via a
gambe levate.”

Blake annuì; era pallido e teso e guardava la porta come se potesse
vedere attraverso i vetri quello che stava succedendo da qualche parte
della città. Cameron si voltò a guardarlo ed emise un lento respiro
tremante. “Ti ha detto qualcos’altro?” gli chiese preoccupato Blake.

La sua replica fu un mero sussurro: “Ha detto che stava per morire.”

BLAKE vide andare via gli ultimi clienti dopo mezzanotte, non molto più
tardi del solito. Cameron lo raggiunse al bar, lasciando che per una volta
fossero gli altri a pulire.

“Lo stai aspettando?” gli chiese con voce tremante.

Blake annuì mentre asciugava il bancone del bar. “Se ha detto che
tornerà qui, allora lo farà. Altrimenti sarà Lancaster a cercarmi. Se mi
vuole, dovrà superare questa doppietta per prendermi,” disse con
determinazione. Cameron notò il fucile appoggiato al bancone. Fu
sorpreso dalla sua improvvisa comparsa; ma in fondo, dopo aver
conosciuto Julian, niente poteva più scioccarlo. “Julian non è scappato,
come lo avevo pregato di fare,” continuò a dire cupo. “E nemmeno io lo
farò.”

Cameron lo fissò in un silenzio stordito per qualche istante, poi arrivò a
una conclusione. “Posso aspettare con te?”

Blake lo guardò tristemente. “Non sarà facile, chiunque torni indietro,” lo
avvertì. “Potrebbe uccidere anche te, se ne avesse la possibilità.”

Cameron si limitò ad annuire. Quello che stava succedendo era fuori
dalla sua portata. Se Arlo lo voleva morto, non c’era niente che potesse
fare per fermarlo.

Il tempo passava lentamente e Cameron diventava sempre più

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preoccupato, per quanto cercasse di ripetersi che sarebbe finito tutto
bene. Julian si sarebbe occupato di Lancaster e sarebbe tornato indietro.
Cosa sarebbe successo dopo, non lo sapeva. Ma non lo avrebbe più
lasciato andare via, non senza lottare. Doveva convincerlo che adesso
sapeva che quello che avevano condiviso era di grande valore. Sì, ne era
valsa la pena. Avrebbero trovato una soluzione. Dovevano farlo.

Si rese conto solo in quel momento che Julian faceva quello che faceva
perché quello era il suo modo di essere, e non il contrario. Chiedendogli
di cambiare, Cameron lo aveva ferito più di quanto qualsiasi pallottola,
piede rotto o morso di cane avrebbe potuto fare. Aveva fatto del male
anche a se stesso, privandosi del solo uomo che avesse mai veramente
amato.

Blake non fu di molto conforto durante l’attesa. L’uomo era quasi
preoccupato quanto lui e si capiva benissimo che non era il tipo da stare
seduto ad aspettare che gli altri togliessero le castagne dal fuoco al
posto suo. Camminò inquieto, lavò bicchieri che erano già puliti, pelò via
l’etichetta a una bottiglia di whiskey Bushmills, si sedette sullo sgabello
accanto a Cameron, ruotandolo avanti e indietro, poi si alzò,
camminando di nuovo per tutta la stanza. Cameron invece continuava a
controllare l’orologio.

Blake alla fine aprì il whiskey e lo versò, mettendone un bicchiere
davanti a Cameron. “Bevi. Sembra che tu ne abbia bisogno. Solo il
Signore sa, quanto ne ho bisogno anch’io,” borbottò. A conferma di
quanto appena detto, riempì un bicchiere per sé e ne bevve un
insolitamente lungo sorso.

Cameron sorseggiò il whiskey irlandese, cogliendo solo in quel momento
l’ironia della situazione. “Julian è davvero irlandese?” chiese a Blake,
guardando la bottiglia.

“Non ne so un cazzo di niente,” rispose quello, frustato. “L’ho sentito
parlare con l’accento inglese, con quello bostoniano, in spagnolo, curdo,
francese, texano e alla maniera dei surfisti, ma mai in irlandese.
Potrebbe essere quello giusto, visto che non l’ha mai usato prima,” disse
in un tono vago e sconclusionato.

Cameron lo guardò di sottecchi. “Surfisti?”

Blake agitò la mano in aria. “Sì, sai il gergo dei surfisti, quelle stronzate
lì,” disse, parodiando l’accento tipico della zona meridionale della
California. “Lo usa solo quando è al telefono, non può certo farlo di
persona.”

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Cameron, sorpreso, si chiese se c’era qualcuno che davvero lo
conoscesse. “Credo che questo spieghi alcune delle frasi strane che usa.
Confonde i gerghi,” disse, con una risata spezzata.

Blake sorrise appena, senza rispondere.

Rimasero seduti in silenzio per una buona mezz’ora, quando Cameron,
angosciato, guardò il suo capo. “Quanto ci vuole, Blake?” disse con voce
gracchiante. “Quanto tempo ci vuole… per uccidere un uomo?”

L’uomo più anziano lo studiò, muovendo il bicchiere avanti e indietro sul
bancone lucido del bar. “A Julian, direi non molto,” rispose alla fine. “Ma
con Lancaster è diverso.”

“Ha detto che è stato Julian ad addestrarlo.”

“Da quello che mi ha detto, sì. Entrambi conoscono i punti di forza e le
debolezze dell’altro. Pensano nello stesso modo,” cercò di spiegargli,
esitante. “Sono come… onde che si infrangono l’una sull’altra.” Scrutò
Cameron, cercando di valutare come avrebbe reagito. “Per qualche
ragione, qualcuno ha deciso di far fuori Julian. E tutti quanti sapevano
che l’unico uomo che poteva farlo doveva essere molto, ma veramente
molto fortunato, oppure conoscere molto bene come Julian agisce e
pensa. Sfortunatamente, Arlo è entrambe le cose.”

“E Julian?” chiese Cameron, con la voce sottile come un filo.

“Difficile da dire,” rispose Blake. “Se si è incontrato qui con lui, significa
che Arlo non è riuscito a rintracciarlo fisicamente. Però è riuscito a
recapitargli un messaggio, in qualche modo, e solo Dio sa con che cosa
l’ha minacciato,” rifletté ad alta voce. “Qualunque cosa fosse, ha colpito
nel punto giusto. Quello è l’unico motivo per cui sarebbe uscito allo
scoperto stasera. È stato messo alle strette.”

Cameron deglutì con difficoltà, un nodo di infelicità e terrore gli stringeva
la gola. Era possibile che la cosa con cui Lancaster lo aveva minacciato
fosse lui?

“Sta proteggendo il suo territorio,” continuò Blake, mettendo la mano sul
bancone davanti a Cameron e incrociandone lo sguardo. “La sua
reputazione, i suoi contatti, la sua casa. E credo che stia proteggendo
anche te, ragazzo. O almeno il mondo ideale che gli hai fatto provare.
Dove può avere una vita normale, senza essere costantemente in
pericolo.”

“Lo so,” disse Cameron con voce roca, sollevando la mano fino al collo,

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dove poteva sentire la croce del guerriero, calda contro la pelle. “Gli ho
fatto molto male, non è così?” chiese con rammarico.

“Sì,” rispose l’altro senza mezzi termini. “Sono stato preoccupato per te
tutto il tempo, ma… forse avrai la possibilità di fare la pace con lui,” gli
offrì in consolazione.

Poco dopo, Preston bussò delicatamente alla porta a vetri del ristorante e
Blake si affrettò a farlo entrare.

“Sai dov’è?” gli chiese eccitato.

Preston si limitò a scuotere la testa, mentre si sbottonava la giacca.

“Li ho persi entrambi, signore,” disse con tristezza, seguendolo al bar.
“Adesso è da solo,” continuò, sedendosi e versandosi un bicchiere di
whiskey.

Blake sospirò, guardando l’orologio. Erano le quattro del mattino. Inspirò
profondamente e poi lasciò uscire l’aria lentamente, in un filo sottile.
Tutto quello che potevano fare era aspettare.

LA CITTÀ era buia e relativamente silenziosa nella notte afosa. Per un
osservatore casuale, non c’erano tracce del gioco mortale del gatto con il
topo che si era giocato per le strade. Le sirene delle auto della polizia che
occasionalmente si sentivano non erano niente di insolito: venivano
chiamate a indagare sul suono di colpi d’arma da fuoco, su finestre rotte
o sirene di allarmi che partivano senza spiegazione.

Julian camminava lentamente lungo il marciapiede, a testa bassa e con
gli occhi concentrati unicamente sul passo successivo. Capiva perché Arlo
lo aveva fatto diventare un gioco. Lui l’aveva addestrato, gli aveva
insegnato quasi tutto quello che sapeva. Avevano lavorato insieme.
Erano stati amici, così vicini da essere quasi fratelli. Secondo Arlo, c’era
una specie di giustizia poetica in quello che stava succedendo quella
notte.

Quando era diventato troppo spericolato, Julian l’aveva sbattuto fuori
dalla sua vita e lui non glielo aveva mai perdonato. Così, quando aveva
ricevuto il contratto per farlo fuori, sicuramente aveva colto l’opportunità
per provargli quanto fosse bravo.

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E Julian doveva ammetterlo, il ragazzo era davvero in gamba. C’era stato
uno strano tipo di rispetto fra loro, durante quel gioco mortale.
Certamente nessuno dei due voleva colpire l’altro alle spalle. Julian
sapeva che Arlo si era trattenuto dallo sparargli in diverse occasioni,
perché non sarebbero stati colpi… onorevoli. E che Dio lo aiutasse, lui
aveva fatto lo stesso. Ma quando erano arrivati al dunque, era stato
costretto a fare la scelta decisiva. Uccidere o essere ucciso.

Si fermò e si appoggiò a una colonna per proteggersi, tremando mentre
cercava di scacciare quei pensieri morbosi. Il colpo era partito: era inutile
indugiare a quel punto. Guardò lungo la strada, sapeva che Arlo poteva
essere ancora là fuori, da qualche parte. Pensava di averlo ucciso, ne era
abbastanza sicuro. Ma lui meglio di chiunque altro sapeva che se non
c’era un cadavere da seppellire, voleva dire che l’avversario poteva
essere ancora lì fuori, ad aspettarti.

Julian si allontanò dalla colonna e riprese a muoversi. Dopo quella che gli
sembrò un’eternità fatta di passi lenti e strascicati, arrivò al grattacielo al
cui ultimo piano si trovava il Tuesdays. Lo guardò con gratitudine,
sentendo di dover tenere duro: non poteva mollare a quel punto. Scivolò
attraverso le porte di vetro girevoli e barcollò fino agli ascensori. Fu
sollevato dallo scoprire che funzionavano ancora, a dispetto dell’ora
tarda, e si appoggiò alla parete della cabina, mentre questa saliva verso
l’alto.

Quando l’ascensore si fermò con un sussulto, Julian barcollò e gemette
per l’improvviso cambiamento di posizione. Era esausto, quasi
fisicamente incapace di mettere un piede davanti all’altro. Le porte si
aprirono silenziosamente e Julian rimase a fissare il pavimento con aria
assente. Infine, si allontanò dalla parete a specchio della cabina e
cominciò a camminare verso la porta a vetri del ristorante.

“È DAVVERO irlandese, Preston?” gli chiese Cameron timidamente
mentre erano seduti al bar ad aspettare.

“Per oggi,” gli rispose questi ironicamente, bevendo un sorso del whiskey
che aveva in mano.

Cameron sospirò, lasciando cadere l’argomento. Chiaramente Preston
seguiva la stessa scuola di Julian quando si trattava di dare risposte
dirette. Rispondevano alle domande, ma senza dire niente di utile.

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Stavano cercando di fare conversazione. Niente d’importante o
impegnativo, solo un po’ di chiacchiere, qualcosa giusto per passare il
tempo. Cameron si tratteneva a fatica dal non fare domande a Preston,
sapendo che l’uomo non avrebbe comunque risposto.

Ma più il tempo passava e più lui era spaventato. Julian sembrava non
avere molta fiducia nella possibilità di poter sopravvivere alla nottata. E
Blake e Preston erano entrambi cupi e angosciati. Cameron non
conosceva niente riguardo alle capacità di Julian: era costretto a
prendere atto di quello che dicevano loro.

Stava bevendo un sorso d’acqua, quando Blake sollevò la testa e si
sporse per guardare attraverso la porta a vetri all’ingresso del ristorante.
Cameron si girò di scatto e lasciò la presa sul bicchiere, che cadde sul
pavimento in marmo, frantumandosi.

Julian non camminava velocemente, mentre si dirigeva verso la porta.
Era chiaro che riusciva a vederli attraverso il vetro, ma non alzò
nemmeno una mano per farsi notare. Teneva la testa bassa, trascinando
lievemente la gamba sinistra e zoppicando coraggiosamente verso le
porte.

Cameron quasi cadde mentre si alzava dallo sgabello per vedere meglio.
Julian allungò una mano alla porta a vetri chiusa a chiave, come un
bambino piccolo che bramasse un giocattolo prezioso nella vetrina di un
negozio. Cameron si allontanò dallo sgabello e, con Preston e Blake alle
calcagna, si affrettò verso il foyer per sbloccare le porte. Mentre loro si
avvicinavano, la mano di Julian scivolò lungo il vetro, lasciandovi una
scia di sangue. Fece un passo incerto all’indietro, poi uno in avanti, come
se cercasse di tenersi in equilibrio e poi cadde a terra.

Cameron si bloccò per il terrore quando Julian crollò e poi corse, corse a
perdifiato attraverso il foyer, schizzando attraverso le porte non appena
Blake le ebbe sbloccate. Le spalancò e si buttò in ginocchio di fianco
all’uomo, allungando le mani per toccarlo alle spalle. “Julian?”

Quando Blake si unì a loro sul pavimento, la testa di Julian ciondolava da
un lato. I suoi occhi non si mossero neppure in risposta alle invocazioni
di Cameron. Blake gli toccò piano il petto e le mani gli si tinsero di
sangue.

“Cazzo!” sibilò, aprendogli le falde della giacca e strappando la camicia
per cercare la fonte. I bottoni volarono in aria e un fazzoletto intriso di
sangue si spostò da un punto in basso sull’addome. Il sangue iniziò a
fluire dalla ferita esposta nel fianco.

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Cameron, senza fiato, guardava impotente, terrorizzato da tutto quel
sangue. Si chinò e premette leggermente le labbra tremanti sull’angolo
della bocca del suo ex-amante. “Julian, per favore, parlami,” lo implorò.
“Ti prego.”

Julian rispose con un gemito, mentre Blake si alzava e correva dentro il
ristorante. Preston era scomparso.

“Cameron,” sussurrò Julian, con voce rauca.

Cercando di ingoiare le lacrime, che improvvisamente gli bloccavano la
gola, Cameron si chinò a premere la fronte su quella di Julian. “Sono
qui,” riuscì a tirare fuori, con difficoltà.

“Mi ha beccato,” mormorò lui con un sussulto. Sembrava una cosa strana
da dire, visto che era lì disteso sanguinante. Probabilmente era l’unica
cosa che la sua mente riuscisse a formulare.

“Blake ti aiuterà,” gli promise il giovane, soffocando un singhiozzo. Gli
passò le dita tra i capelli umidi, cercando invano un modo per consolarlo.

Blake ritornò altrettanto velocemente di come si era allontanato,
parlando al telefono e portando con sé una pila di stracci puliti presi da
dietro il bancone. “Dove sei stato colpito?” chiese in tono sbrigativo.

“Dove c’è il sangue,” brontolò Julian debolmente, chiudendo ancora una
volta gli occhi.

Blake lo fulminò con lo sguardo e disse, portandosi il telefono alla bocca:
“È ancora un coglione, se questo vi può aiutare.”

Cameron continuò ad accarezzargli la guancia, cercando di non lasciarsi
andare. Julian non aveva bisogno che lui cadesse a pezzi proprio in quel
momento. Poteva farcela a resistere. “C’è niente che possa fare?” chiese,
sorpreso con se stesso per il tono calmo della sua voce.

Nessuno dei due gli rispose. Gli occhi di Julian rimasero chiusi, mentre
Blake parlava rapidamente al telefono; poi lo mise da parte e cominciò a
occuparsi dell’addome insanguinato. Julian raggiunse alla cieca la mano
di Cameron, stringendola debolmente. Allacciò le loro dita insieme,
strizzando le mani in modo rassicurante.

“Mi dispiace,” sussurrò un attimo prima che Blake trovasse la ferita in
fondo all’addome. Vi premette un panno per cercare di frenare
l’emorragia. Julian si piegò in due, gridando per il dolore.

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Cameron boccheggiò e si aggrappò alla spalla di Julian, cercando di
tenerlo fermo. I suoi occhi furono attratti dall’aspetto orribile della ferita.
“Cristo santo,” farfugliò, sconvolto da tutto quel sangue e sopraffatto dal
pensiero di quanta sofferenza Julian dovesse provare, per aver urlato a
quel modo.

“L’hai preso?” gli domandò Blake, mentre si occupava di lui. Julian
ansimava e stringeva inconsciamente la mano di Cameron. Blake gli si
avvicinò ulteriormente: “L’hai ucciso?” ripeté con forza.

“Non lo so,” boccheggiò Julian, aprendo gli occhi nuovamente e fissando
il soffitto a vetri dell’atrio, sopra di lui. “È caduto nel lago,” riuscì a dire
loro, con voce roca.

“Cazzo,” sibilò con rabbia Blake, tastando la ferita per verificare se il
proiettile era andato fino in fondo. Tirò fuori la mano tutta insanguinata e
si allungò per prendere un’altra pezza da premere sul foro d’uscita.
Julian gridò di nuovo, lottando per allontanarsi e piegarsi su se stesso,
mentre si contorceva dal dolore.

Cameron lottò per tenerlo il più possibile fermo. “Ti prego, Julian, cerca
di stare fermo,” lo implorò.

Julian ringhiò piano, il suono era simile a quello di un animale ferito.
Smise di lottare, ma Cameron temette che fosse dovuto più alla
stanchezza e alla perdita di sangue che alla voglia di collaborare.

“L’ambulanza è per la strada, Jules,” gli disse Blake, a bassa voce.
“Questo va oltre le mie capacità,” gli spiegò con un tono addolorato.
Guardò Cameron con preoccupazione. “Sarà al sicuro in ospedale,” gli
disse. “Fino a quando non saremo in grado di confermare la morte di
Arlo. Maledizione, se è caduto nel lago Michigan, dovrebbe morire anche
solo a causa delle infezioni.”

Cameron rabbrividì al pensiero che Lancaster potesse essere ancora là
fuori. Magari nemmeno molto lontano. Forse pronto ad arrivare per finire
il lavoro. Iniziò a respirare con affanno mentre si guardava intorno nel
foyer. Erano completamente privi di protezione, cosa sarebbe accaduto
se l’uomo li avesse attaccati lì? Nel momento in cui si poneva quella
domanda, capì che Preston doveva essere uscito a coprire loro le spalle.
Non poteva immaginare nessun’altro motivo per cui avrebbe
abbandonato Julian in quello stato, se non per proteggerlo.

Cameron stava facendo di tutto per non cedere alla paura e cercare di
rimanere calmo. Vedere Julian in preda al dolore lo distruggeva. “Julian,”
sussurrò implorante. “Ti prego, non lasciarmi.”

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La presa di Julian sulla sua mano cominciava a diventare dolorosa.
Cameron fece del suo meglio per non farlo muovere, per permettere a
Blake di esercitare pressione sulla ferita, ma Julian si stava ancora
contorcendo, sanguinava sul prezioso marmo del pavimento e i suoi
occhi iniziarono a diventare vitrei.

Sollevò lo sguardo verso Cameron e i suoi occhi furono attratti dalla
catenina con il ciondolo d’oro decorato con il granato appesa al suo collo,
che oscillava avanti e indietro come un pendolo. Quando lo guardò negli
occhi, dopo qualche istante, fu con rammarico e rassegnazione. “Mi
dispiace,” rantolò di nuovo.

Il viso di Cameron si accartocciò dalla disperazione, quando Julian si
scusò di nuovo; lo baciò gentilmente sulle labbra e sulla fronte, mentre
versava lacrime che scivolavano contro le guance di Julian. “Non puoi
lasciarmi,” gli sussurrò disperatamente. “Chi mi proteggerà dai miei
batuffoli di pelo bianco?”

Julian rimase in silenzio, lottando contro il dolore, ma si voltò verso di lui
nel tentativo di incontrare le carezze gentili di quelle labbra che lo
sfioravano dolcemente, alla ricerca del conforto che quel contatto gli
procurava. La sua presa sulla mano di Cameron si indeboliva a un ritmo
allarmante.

“Prenditi… un gatto,” rantolò alla fine, con una voce così debole da essere
a malapena udibile.

Cameron, suo malgrado, si lasciò andare a una risatina, scosse la testa e
gli passò di nuovo la mano libera tra i capelli.

“Tieni duro, ragazzo,” lo esortò Blake, aumentando la pressione sulla
ferita sanguinante e guardando con impazienza gli ascensori, in attesa
dei soccorritori che aveva chiamato.

“Mi dispiace,” ripeté Julian quando gli si chiusero gli occhi contro la sua
volontà.

“Julian! Ti prego. Oh, Dio. Julian, per favore…” lo supplicò
disperatamente Cameron, stringendogli forte la mano e premendo le
labbra sulla sua fronte, mentre i singulti lo scuotevano. Julian, però, non
gli rispose e alla fine la sua mano si rilassò nella stretta di Cameron.

Cameron si aggrappò alla sua mano, anche se lui non lo ricambiava più,
sussurrandogli all’orecchio, mentre Blake gli stava addosso, mantenendo
la pressione sulla ferita e imprecando con forza, fino a quando non

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arrivarono i soccorsi, che li spinsero entrambi via.

Cameron strisciò all’indietro fino ad appoggiarsi alle porte a vetri. Con gli
occhi spalancati e umidi guardava la scena, cercando di inalare
abbastanza aria per respirare e trattenendo nello stesso tempo l’urlo che
sentiva crescere dentro.

ERA una bella giornata di sole e faceva un caldo rovente. Gli alberi erano
verdi e in pieno rigoglio e dal terreno si innalzavano volute di vapore,
dovute al caldo intenso del sole estivo. Il mondo intero sembrava
prendersela con calma: tutti quanti si muovevano quasi in maniera
letargica, per il gran calore.

Il gruppo di persone che partecipavano al funerale era piccolo, ma
comunque più grande di quanto ognuno di loro si sarebbe aspettato. La
dipartita di Julian Cross era stata appena sussurrata. Non c’era stato
nessun annuncio ufficiale. Non c’era stata una famiglia da contattare.
Nessuna telefonata era stata scambiata per avvisare gli amici comuni
della sua morte. I suoi amici occasionali non si conoscevano fra loro. Ma,
a ogni modo, la notizia era circolata. C’erano politici e uomini d’affari di
primo piano, mescolati a umili operai e loschi individui. E ognuno di loro
pensava di averlo conosciuto veramente.

La mattina del funerale, la folla dovette affrontare la bellezza inquietante
del Forest Park, costretta a girare intorno alla moltitudine di monumenti,
per avvicinarsi alla zona in cui si trovava la fossa.

Miri portò Cameron a comprare dei vestiti che fossero, secondo lei, adatti
al funerale. Finì con l’essere vestito completamente di nero, un fatto
ironico che lui non perse occasione di notare. Abito nero, scarpe nere,
camicia nera con sottili righe grigie.

Nero come i segreti. Nero come l’ombra. Nero come il dolore. Si era
mescolato con il resto della folla, ma si sentiva assolutamente e
completamente solo.

Blake lo aveva portato a casa dall’ospedale quella notte, dopo che i
medici avevano dichiarato ufficialmente l’ora del decesso, si era fermato
con lui tutta la notte. Erano rimasti seduti insieme sul divano, incapaci di
parlare, fino a quando non erano crollati in un sonno agitato.

Cameron si era quasi totalmente estraniato nei tre giorni successivi a

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quando Julian aveva perso tutto quel sangue davanti alle porte del
Tuesdays. Sapeva che difficilmente avrebbe dimenticato come era stato
tenere la mano del suo uomo e guardarlo morire. Le sue ultime parole
erano state una richiesta di perdono, quando invece avrebbe dovuto
essere Cameron a pronunciarle.

Era successo qualcosa dentro di lui. Qualcosa che lo aveva cambiato per
sempre. Non riusciva a provare più nulla, se non una terribile solitudine e
un dolore penetrante e non era sicuro che il futuro riservasse dei
cambiamenti.

Lì in piedi, nel mezzo di quella pacifica valle, tranquilla nonostante la
folla, tutto diventò improvvisamente fin troppo reale. Non l’avrebbe mai
più rivisto. Non sarebbe mai più stato in grado di parlargli delle cose che
gli premevano. Che gli dispiaceva. Che era stato uno sciocco. Che
avrebbe affrontato qualsiasi pericolo, pur di stare con lui.

Si sentì vacillare, in piedi accanto a Blake e a molte altre persone dello
staff del Tuesdays, e si allontanò dal gruppetto, seguendo il sentiero che
portava a un grande sepolcro di marmo. Scivolò sul retro, lasciandosi
andare lungo il muro, fino a quando si ritrovò seduto per terra, con i
palmi delle mani premuti sugli occhi, cercando di frenare le lacrime. Non
aveva più pianto da quella notte, da quando l’avevano allontanato dal
suo fianco.

Adesso l’angoscia crebbe così tanto che credette l’avrebbe soffocato.

Ma la spossatezza non gli permetteva di ansimare e nemmeno di
gemere. Poteva solo stare seduto immobile, con il cuore spezzato,
mentre le lacrime gli scorrevano sul viso.

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Capitolo 10

IL SOLE che splendeva sulla città trasformava i marciapiedi, appena
coperti di neve fresca, in sentieri scintillanti. Il centro di Chicago era un
labirinto di metallo e calcestruzzo, che d’inverno tratteneva il freddo
come una ghiacciaia e d’estate ti avrebbe fatto bruciare vivo, se tu glielo
avessi permesso; quando invece soffiava il vento, potevi rischiare di
diventare un blocco di ghiaccio. Il vento che proveniva dal lago era il
peggiore, le sue raffiche gelide erano in grado di ghiacciare l’acqua
stagnante in pochi minuti.

Cameron camminava lungo la strada, avvolto nel suo cappotto di lana
pesante, con un borsone buttato su una spalla e un cellulare nella mano
opposta. “No, non credo,” stava dicendo. “Sono stato fuori tutto il giorno
e, con questo freddo, ho bisogno di una dannata pausa!”

“Beh, presto dovrai venire a cena. Jean-Michel ha paura che non ti
piaccia più la sua cucina,” gli disse Blake al telefono.

“Dovrebbe conoscermi meglio,” rispose lui divertito. “Okay. Che ne dici di
giovedì?”

“Va bene. Prenoto un tavolo per noi,” disse Blake, tutto felice. “Come va
il lavoro?”

“Abbastanza bene, credo. Non mi lamento,” rispose vagamente.

“Ho capito. Possiamo parlarne a cena,” offrì Blake.

“Credo che dovrei venire al ristorante più spesso,” disse Cameron, in
tono distaccato e piatto.

“Fai quello che ti senti di fare, ragazzo. Domani ne parliamo.”

“Ci sarò. Adesso torna a lavorare,” gli rispose Cameron, accennando un
sorriso.

“Sarà fatto.”

Cameron interruppe la chiamata e fece scivolare il cellulare in una tasca.
Scosse la testa. Dopo quasi sei mesi, Blake si stava ancora prendendo
cura di lui. O almeno ci provava. All’inizio dell’autunno, infatti, Cameron

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finalmente aveva iniziato a ribellarsi.

Le prime settimane erano state orribili. Cameron era riuscito a malapena
a sopportare di rimanere sveglio, per non parlare di alzarsi o fare altro,
ed era rimasto chiuso nel suo appartamento, cercando di venire a patti
con quello che era successo.

Due settimane dopo il funerale, mentre dava da mangiare ai cani,
improvvisamente si era ricordato di Smith e Wesson. Da una telefonata a
Blake, era venuto a sapere che la casa era stata svuotata e venduta a
un’asta non molto tempo dopo la morte di Julian; era stata acquistata da
uno straniero, che doveva ancora arrivare a occuparla. Lo stesso Blake
aveva tentato di trovare i due gatti, andando a casa di Julian il giorno
successivo alla sua morte. L’aveva perquisita da cima a fondo, ma senza
alcun risultato e senza che nessuno tra il personale sapesse niente della
sorte delle due bestie.

Preston era scomparso la notte in cui Julian era stato ucciso e nessun
segno di lui o dei gatti era mai emerso. Cameron era devastato. Sapeva
che Julian aveva amato quei gatti. Erano dei mostri inflessibili, quindi per
quale altro motivo se li sarebbe tenuti, se non li avesse amati?

Poteva solo sperare che Preston li avesse portati con sé.

Dopo un mese, Blake aveva bussato alla sua porta, dicendogli che se
avesse rifiutato di tornare a lavorare da Tuesdays, allora gli avrebbe
offerto un altro tipo di lavoro. Sotto la guida di Blake, era diventato uno
dei contatti. Tutto quello che doveva fare, era rispondere a un cellulare,
prendere il messaggio – spesso in un codice che lui non capiva – e
chiamare qualcun altro per trasmettere l’informazione. Era preciso,
veloce e, più di ogni altra cosa, sapeva tenere la bocca chiusa.

Con i soldi dei primi, folli pagamenti sottobanco, Cameron aveva
imbiancato l’appartamento, rinnovato la cucina e comprato dei mobili
nuovi per la prima volta nella sua vita. Si era rifatto il guardaroba, con
dei bei capi che Miri lo aveva aiutato a scegliere. Lei voleva che Cameron
socializzasse di più. Lui decisamente no; ma dopo un paio di mesi aveva
iniziato a uscire con lei e i suoi amici, anche se solo per tenerla
tranquilla. Effettivamente, quelle distrazioni lo avevano aiutato
parecchio.

Finita l’estate, si era reso conto che rimanere a casa a poltrire non gli
faceva bene, così si era iscritto a una vicina palestra. Trovandola un’utile
distrazione, vi andava regolarmente e, con sua grande sorpresa, i suoi
muscoli presero a irrobustirsi. Inoltre, correva almeno due chilometri sul
tapis roulant tutte le volte che era lì. I cambiamenti del suo corpo lo

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fecero sentire una persona diversa, una persona che gli piaceva e,
quando Blake gli aveva suggerito di prendere lezioni di kickboxing, lo
aveva fatto con piacere.

Dopo alcune lezioni, si era reso conto che le bugie sulle contusioni di
Julian dovute agli allenamenti di kickboxing erano state appropriate, in
fin dei conti.

Cameron non era voluto tornare a lavorare al Tuesdays. Mai più. Blake
aveva impiegato tre mesi per riuscire a riportarcelo. Il foyer gli scatenava
i ricordi peggiori. Il marmo aveva assorbito il sangue al punto da perdere
ogni speranza di poterlo smacchiare. Era stato sostituito, ma le nuove
piastrelle erano leggermente più chiare rispetto a quelle che le
circondavano e creavano quasi una sorta di medaglione decorativo.

Aveva una notevole somiglianza con la croce del guerriero che il giovane
portava ancora al collo; gli ricordava anche le tombe dei cavalieri sepolti
nelle chiese in Europa.

Cameron poteva ancora vederlo disteso là, con le porte a vetri imbrattate
del suo sangue. Quando le oltrepassava, le cose andavano un po’ meglio,
ma era ancora talmente scosso che, se poteva, evitava di andarci, salvo
che Blake non insistesse a lungo.

Finalmente, dopo quasi sei mesi, Cameron si sentiva quasi lo stesso di
sempre. Viveva ancora da solo nel suo appartamento ristrutturato, con i
suoi quattro cani, ormai completamente cresciuti e alti pressappoco venti
centimetri. Leggeva molto e ascoltava jazz dalla radio. Gli piaceva
cucinare per se stesso, guardare DVD e vestirsi dimesso quando stava in
casa, stravaccato sul divano.

Solo che a volte non era in grado di gestire la solitudine, allora chiamava
un amico, per avere un po’ di compagnia e per cercare di dimenticare,
per breve tempo, quello che aveva perduto. Di solito quell’amico era
Blake, perché sapeva quello che il giovane stava attraversando. Julian
Cross era stato un uomo difficile da trovare e ancora più difficile da
perdere.

QUALCUNO bussò piano alla porta, un suono quasi soffocato dai rumori
all’interno dell’appartamento. L’unica ragione per cui Cameron lo sentì, fu
perché i cani improvvisamente uscirono dalla cucina e corsero verso
l’entrata.

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Cameron, curioso, mise le costolette di maiale che aveva tirato fuori dal
frigo nell’acquaio e si diresse anche lui verso l’ingresso. Guardò
attraverso lo spioncino: era un’abitudine acquisita da tempo. Non c’era
nessuno in vista, ma qualcuno bussò di nuovo, lievemente.

Cameron perplesso aggrottò le sopracciglia e si scostò. Non gli piaceva
molto quella cosa. Perché non c’era nessuno davanti alla porta? Qualche
volta era troppo paranoico, lo sapeva. Il palazzo era munito di sistemi di
sicurezza, dopo tutto. Scuotendo la testa, decise di aprire, sbloccò la
serratura e aprì un pezzettino, mettendosi dietro l’uscio.

“Ciao, Cameron,” lo salutò da dietro la porta una voce morbida e
accentata, la cui origine era, però, ancora fuori portata.

Cameron si ritrovò con il respiro mozzo e le dita serrate sul bordo della
porta. Quella voce. Era così simile a…

Come poteva una persona essere così crudele? Cameron fu investito da
una fiammata di collera, spalancò la porta così forte da farla sbattere
contro il muro e uscì nel corridoio per vedere chi gli stava
deliberatamente giocando un brutto scherzo. “Chi diavolo è?”

Arlo Lancaster era appoggiato al muro accanto alla porta, con le mani
ficcate nella giacca a doppiopetto, e guardava Cameron con i suoi occhi
scuri. Aveva una brutta cicatrice sotto l’occhio sinistro, probabilmente
procurategli dalla pallottola del colpo con cui Julian aveva sperato di
averlo ucciso. Sorrise con cattiveria quando incrociò gli occhi di
Cameron.

Il giovane sentì il sangue gelarsi nelle vene per la paura. Era uno dei suoi
incubi ricorrenti. Non pensò nemmeno di protestare quando Arlo lo
costrinse a rientrare nell’appartamento.

“Hai fatto dei cambiamenti, da quando sono stato qui l’ultima volta,”
mormorò alle sue spalle, mentre chiudeva la porta.

Dopo tale affermazione, si sentì paralizzato dalla paura e purtroppo non
poté fare a meno di mostrarlo, perché sentì il sangue defluirgli dal viso.
Si mosse a disagio, facendo qualche passo per allontanarsi dall’altro
uomo. “Ho imbiancato da poco,” rispose, con la mente confusa. Cosa
doveva fare? Non c’era nessuno che lo potesse aiutare e nessuno si
sarebbe accorto della sua assenza per almeno altri due giorni, quando si
supponeva avrebbe dovuto presentarsi al Tuesdays per cenare con Blake.

“Lui dov’è?” chiese educatamente Lancaster.

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La bocca di Cameron diventò asciutta e il dolore lo attraversò come un
fulmine. “È morto,” rispose con voce soffocata.

Le labbra di Lancaster si curvarono in un lieve sorriso, quasi affettuoso,
quindi annuì pensieroso. “Non ti ha contattato, eh?” mormorò quasi tra
sé. “Meno male che ho un piano di scorta,” gli disse con una smorfia
ironica. “A ogni modo, ti porto con me. Potrei scommetterci che con te
ha chiuso. Ma è meglio essere prudenti. Vuoi dare da mangiare ai cani
prima di andare?” gli consigliò divertito. “Potresti star via a lungo,”
aggiunse seccamente.

Cameron aveva lo stomaco attorcigliato. “Perché?” chiese. Quando iniziò
a pensarci, sentì rizzarsi i peli sulla nuca. Julian poteva davvero essere
ancora vivo?

Il sorriso di Lancaster si spense, rivelandolo ancora più duro e pericoloso,
soprattutto quando gli spuntò in mano una pistola. “Non me ne frega
niente, se i tuoi animali muoiono di fame,” ringhiò. “Muoviti.”

Cameron annuì lentamente, stringendo le mani a pugno, quando queste
iniziarono a tremargli. “Il cibo è in cucina,” disse, indicando la direzione
prima di avviarsi, senza mai smettere di guardare Lancaster. “Devo
preparare una borsa?” chiese, mentre riempiva le ciotole con cibo e
acqua in abbondanza.

Lancaster fece una risata sprezzante. “Compreremo uno spazzolino,”
disse con voce strascicata, tenendolo sotto il tiro della sua pistola con il
silenziatore. “Adesso mettiti in posizione, amico mio,” gli ordinò,
indicando con la mano libera il muro più vicino.

Le spalle di Cameron scattarono all’indietro. “Come, scusa?”

“Mani appoggiate al muro, gambe aperte,” latrò Lancaster impaziente.
“Muoviti, Jacobs.”

Tenendo gli occhi sulla pistola, Cameron fece come gli era stato ordinato
e, con il mento rivolto a guardare Lancaster, appoggiò i palmi delle mani
al muro e allargò le gambe.

Lancaster infilò la pistola dietro la schiena, dentro la cintura, e si spostò
dietro a Cameron. “Muoviti e ti spezzo il collo,” promise, mettendogli una
mano sulla nuca e spingendogli la testa verso il basso. Iniziò a fargli
scivolare le mani lungo i lati del corpo, poi sul petto e lungo la schiena.

Cameron lasciò cadere la testa in avanti e, con la schiena rigida, chiuse

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gli occhi, rendendosi conto di cosa Lancaster stesse facendo.

“Nascondi qualcosa?” gli chiese l’uomo, con un tono sarcastico e
provocatorio.

Cameron fece una smorfia. Avrebbe quasi voluto che fosse stato vero.
“No,” rispose sinceramente.

“Perdonami, se non ti credo,” rispose l’altro educatamente, mentre
continuava la perquisizione. I suoi movimenti, accurati e rapidi,
esprimevano chiaramente gli insegnamenti che Julian aveva trasmesso al
suo allievo.

In qualche modo rincuorato da quei modi professionali, Cameron corrugò
comunque la fronte. Quando Lancaster ebbe finito, si alzò e gli diede una
pacca sulla spalla, facendogli intendere che poteva rilassarsi.

“Fai strada,” gli ordinò, indicando la porta. Cameron esitò, ma la pistola
che aveva puntata alla schiena era uno sprone sufficiente a fargli
muovere i piedi. Quando arrivò all’ingresso, Lancaster borbottò: “Fai una
mossa sbagliata e i cani saranno i primi a essere colpiti.”

Cameron gli scoccò un’occhiata di puro odio da sopra la spalla, mentre
apriva la porta. “Pensi davvero che sia ancora vivo?” gli chiese. “Se fosse
così… mi avrebbe contattato,” disse, tremando.

“Oh, sì?” rispose Lancaster con fare pedante. “Cosa te lo fa pensare?”

“Mi amava,” insistette lui con un roco sussurro. “Mi avrebbe fatto sapere
che era vivo.”

“Mah, non so,” rispose Lancaster, con la sua voce cantilenante e una
smorfia maligna. “L’amore è solo una parola per la maggior parte delle
volte,” affermò, spingendolo sul pianerottolo. “Se tu fossi stato uno di
noi, lo avresti saputo da tempo.”

ARLO LANCASTER gli strappò rudemente la benda dalla testa e Cameron
sbatté gli occhi più volte nella penombra, per adattarsi all’ambiente
circostante. Dopo averlo gettato nel retro di un furgone senza finestrini,
Lancaster l’aveva bendato e legato come un salame. Poi si erano mossi
per quella che sembrava un’eternità. Cameron aveva perso il conto delle
volte che avevano cambiato direzione. Per quanto ne sapeva, Lancaster

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avrebbe anche potuto semplicemente aver girato per cinquanta volte
intorno all’isolato, senza mai allontanarsi dal quartiere. Oppure potevano
essere finiti a Milwaukee.

Di sicuro si trovava in un grande edificio, con poche finestre e tanta
polvere. Sembrava fosse un magazzino abbandonato da molto tempo. E
faceva freddo. Non gli era stata data la possibilità di prendere il
giaccone, e Cameron aveva cominciato a tremare per il freddo già dentro
al furgone. Il gelo gli era penetrato fin dentro alle ossa, facendolo
rabbrividire.

L’ampio stanzone era pieno di casse di legno e il pavimento era
disseminato da trucioli, anch’essi di legno, usati per gli imballaggi. Sul
fondo c’era un ufficio, illuminato da una debole luce. Lancaster iniziò a
spintonarlo, indicandogli la strada per arrivarci.

Avvicinandosi alla stanza, Cameron si accorse che c’era già qualcun altro
dentro. E quando incrociò gli occhi di Blake Nichols, rimase senza fiato.

Blake ringhiò piano, tirando i lacci che lo immobilizzavano alla sedia di
metallo su cui era seduto; guardò furioso oltre la spalla di Cameron e,
con voce rauca, apostrofò Lancaster: “Ti avevo detto che Cameron non
aveva niente a che fare con tutto questo.”

“Beh, adesso sì,” rispose quello quasi allegramente. Gli dette un’altra
pacca sulla schiena, spingendolo all’interno dell’ufficio. “Sai come si
usano?” chiese in tono sarcastico, indicando un mucchietto di strisce di
plastica, che erano su una sedia di fianco a Blake.

“Sì,” farfugliò Cameron. “Sono fascette stringi cavo.”

“Ottimo,” rise Lancaster. “Usale,” gli ordinò.

Cameron si adirò. “Vuoi che mi leghi da solo alla sedia!”

“Sì, caro, e guarda di farlo anche velocemente, eh?” rispose l’altro in
tono quasi amorevole. “Sono sicuro che presto avremo compagnia.”

Cameron si avvicinò a malincuore alla sedia e raccolse le fascette di
plastica. “Come vuoi che mi leghi?” chiese, con chiaro risentimento nella
voce.

“Le caviglie alle gambe della sedia, i polsi sui braccioli,” gli ordinò l’uomo,
questa volta in tono serio. “Sbrigati.”

Cameron si accigliò ma si sedette con un tonfo e fissò le fascette sulle

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caviglie, sopra ai jeans. Poi ne prese un’altra e se l’avvolse intorno al
polso sinistro, la tirò abbastanza da far in modo che la mano potesse
muoversi pur senza uscire dal laccio di plastica. “Mi spiace,” disse con
impertinenza. “Non ho più mani disponibili.”

“Peggio per Cross,” rispose Lancaster, avvicinandosi e legandogli l’altra
mano, con una forza tale da tagliargli la pelle del polso.

“Maledizione!” sibilò Cameron, mentre le dita stavano iniziando a
formicolargli per la mancanza di circolazione.

“Smetti di piagnucolare,” sbuffò Lancaster, dandogli un manrovescio.

Cameron gridò per il dolore e la testa gli scattò di lato per la forza del
colpo ricevuto. Quando si voltò, un filo di sangue gli usciva dall’angolo
della bocca.

“Lascialo stare, cazzo,” ringhiò Blake.

“Avresti dovuto tenerlo lontano da Julian,” lo rimproverò Lancaster,
allontanandosi.

Il volto striato di sporco di Blake si arrossò lievemente, mentre l’uomo
guardava Cameron con aria colpevole. “Pensi veramente che lui sia
ancora vivo?” chiese incredulo a Lancaster. “Non pensi che a questo
punto si sarebbe già fatto vivo?” gridò quasi.

“Penso che nessuno di voi due conosca nemmeno la metà di ciò di cui è
capace,” rispose Lancaster, lasciandosi cadere su una vecchia poltrona da
ufficio e facendola scivolare all’indietro. Tirò fuori la pistola e cominciò a
controllarla oziosamente.

“Era il mio migliore amico,” sostenne Blake con voce addolorata.

“Sì?” affermò Lancaster in tono sarcastico. “Anche il mio,” rispose
freddamente, il sorriso sul suo volto si spense all’improvviso. Si alzò e
iniziò a camminare avanti e indietro, lentamente. “Conosci perlomeno il
suo vero nome?” lo sfidò. “Da dove viene veramente? Eh?”

Blake deglutì a fatica e guardò Cameron, poi abbassò gli occhi invece di
rispondere. Infine, si limitò a scuotere la testa.

“Sì,” convenne Lancaster. “Nessuno lo sa, Nichols. Nessuno eccetto
Preston. E nessun altro lo saprà mai,” dichiarò semplicemente. “Quando
l’ho conosciuto, viveva a Londra e parlava tedesco con un accento
perfetto,” raccontò loro, divertito. “Alla fine, è venuto fuori con questo

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accento irlandese, dicendomi che era stanco. L’unica persona di cui
gliene è mai fregato qualcosa è Preston. Ricordatevelo.”

Si fermò improvvisamente e, fissando Cameron, fece due rapidi passi, si
chinò e afferrò la catenina che portava al collo.

Cameron spalancò gli occhi per la paura, quando se la sentì strattonare.
“No. Non…”

Lancaster lo squadrò, tenendo il ciondolo nel palmo della mano, con gli
occhi scuri nascosti dalla luce bassa. Dette uno strappo alla catena
facendo scattare la chiusura.

“Accidenti!” sibilò Cameron, quando la sentì tagliargli dolorosamente la
pelle del collo; poi il confortante peso del ciondolo sparì, per finire in
mano a Lancaster. Cameron lo fissò. Lui non se l’era mai tolta. Nemmeno
una volta. Mai. Neanche quando l’aveva allontanato da sé. Né quando lo
aveva visto seppellire.

Lancaster si raddrizzò e fece qualche passò in avanti per avvicinarsi alla
luce, poi guardò il ciondolo. Infine abbassò lo sguardo nuovamente verso
di lui, una vampata di rabbia che gli illuminava gli occhi, mentre lo
stringeva nel pugno. “Hai la minima idea di cosa sia?” gli chiese con un
ringhio.

Cameron trasalì, fissandogli la mano. Gli occhi dell’altro dardeggiavano di
collera. Cameron non capiva perché, ma lo spaventava più di qualsiasi
emozione Julian gli avesse mai mostrato. “Me l’ha data lui,” rispose in
tono sommesso.

“Merda,” scattò Lancaster, facendo un gesto quasi come se la volesse
buttare fuori dalla porta, nel magazzino vuoto. Sul suo volto si
rincorrevano le espressioni della sua lotta interiore, ma alla fine non
riuscì a fare quello che ovviamente avrebbe voluto. Invece, si girò e la
gettò disgustato in grembo a Cameron, voltandosi poi dall’altra parte.

Lasciando andare un respiro tremante, Cameron guardò la catenina che
giaceva appoggiata precariamente sulla sua coscia. Senza pensarci, si
sforzò di raggiungerla con la mano, ma non c’era modo di toccarla.
Chiuse gli occhi e tentò di calmarsi.

“Cosa cazzo avrà visto Jules in uno come te?” si chiese Lancaster in tono
pacato, mentre si allontanava per guardare il magazzino silenzioso,
scuotendo il capo.

Cameron tirò su la testa per guardare l’altro uomo, che non poteva

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sapere che anche lui si era posto la stessa domanda, anche dopo che
Julian se ne era andato da tanto tempo.

“Allora che significato ha?” chiese con voce rauca, guardando in basso
verso la catenina. Non era sicuro di volerlo sapere, non da Lancaster
perlomeno. Ma a quel punto non sapeva più cosa pensare, aveva creduto
che avesse un significato solo per Julian.

Lancaster si girò leggermente e lo squadrò con evidente disprezzo. Poi
distolse lo sguardo, come se rispondere alla domanda fissandolo negli
occhi fosse troppo pesante da sopportare. “La pietra viene passata da un
guerriero all’altro,” rispose con amarezza. “È chiamata la croce del
guerriero. È il fottuto simbolo del legame che ci unisce e la croce
rappresenta quello che dobbiamo sopportare per essere ciò che siamo.”

Cameron aggrottò la fronte. Lui non era un guerriero. Neanche
lontanamente. “A me disse che era una protezione per chi l’indossava,”
obiettò.

“Sì?” chiese l’altro a denti stretti. “È quello che gli dissi, quando gliela
regalai.”

Cameron alzò la testa di scatto e lo fissò incredulo. Lancaster gli dava le
spalle e fissava il magazzino buio.

“Adesso non mi sento più troppo in colpa, per voler uccidere quel
bastardo,” mormorò.

Cameron sapeva di tremare sia di paura che di freddo. Deglutì a fatica,
con il sapore del sangue in bocca. Guardò Blake e quando i suoi occhi
spalancati incrociarono quelli dell’altro, l’uomo ricambiò il suo sguardo,
limitandosi a scuotere la testa sconsolato. Erano delle esche, pure e
semplici esche. Per un pesce che era già stato catturato.

“Ha trovato Smith e Wesson,” mormorò Blake a Cameron, con un cenno
del capo verso l’angolo dell’ufficio.

Cameron seguì con gli occhi la direzione indicata: nell’angolo c’era una
grossa gabbia per animali, ricoperta con delle coperte per proteggerla
dal freddo intenso del magazzino. Attraverso una fessura, poté vedere
chiaramente del pelo arancione. Con un tempismo perfetto, dalla gabbia
partì un basso miagolio gutturale, subito seguito da un altro.

“Forse non verrà per voi due,” disse loro cupo Lancaster, in piedi sulla
soglia e con le spalle voltate. “Ma lo farà sicuramente per questi due
animali,” azzardò con fiducia.

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“Come hai fatto a trovarli? Dov’erano?” sbottò Cameron.

“Li aveva Preston,” rispose quello dopo un istante di riflessione. “È stato
più facile da trovare, rispetto a Julian,” spiegò.

“Sì, vero?” chiese Blake ironicamente. “Buffo, visto che Julian è morto!”
urlò per la frustrazione.

“Dove si trova Preston, nelle vicinanze c’è Julian. Ho trovato Preston,”
continuò, come se non avesse sentito le parole di Blake, “e l’ho seguito.
Ho cercato di farlo fuori, ma quel figlio di puttana è riuscito a scappare,”
sputò con un ringhio. “Ma ho trovato i gatti.”

“Come facevi a sapere di loro?” gli domandò Cameron. “Stanno bene?”
chiese preoccupato, con la mente pronta ad afferrare qualsiasi spunto
che non includesse in alcun modo la parola ‘morte’.

“Stanno bene,” rispose Lancaster, accarezzandosi i graffi che aveva sulla
guancia. “Ero con Julian quando li ha raccolti,” aggiunse, voltandosi a
guardarli. “Li abbiamo trovati una notte, in un fosso. Così piccoli che
avevano ancora gli occhi chiusi. Li ha dovuti nutrire con il biberon. Julian
vide le punte delle orecchie mentre guidava. Si fermò nel bel mezzo di
un dannato affare multimilionario per la compravendita di armi, per
salvare quei maledetti gatti,” proseguì con un sospiro. “Il nostro
compratore non ne fu molto felice,” disse. “Quei gatti sono stati il motivo
per cui abbiamo dovuto lasciare l’Irlanda. Ma ne valse quasi la pena, solo
per il fatto di vederlo mentre li allattava con il biberon,” disse
meditabondo.

A Cameron si strinse la gola al pensiero di Julian. Sembrava che dentro
l’uomo che lui aveva amato coabitassero due persone completamente
diverse. Lancaster e Blake parlavano di lui come di un freddo killer, un
uomo brutale e implacabile, forse addirittura crudele. Ne parlavano con
rispetto per le sue capacità, e forse anche con un pizzico di paura per
quello che era in grado di fare.

Ma Cameron aveva conosciuto un uomo diverso. Un uomo che aveva
avuto paura di maneggiare i suoi cuccioli perché erano troppo piccoli. Un
uomo che amava far finta di non sapersi fare il nodo alla cravatta perché
gli piaceva che fosse Cameron a farlo per lui. Un uomo che amava così
tanto quei due dannati gatti, che amava lui così tanto, da esserne quasi
annientato quando Cameron stupidamente lo aveva respinto.

“Pensi davvero che sia ancora vivo?” si ritrovò a chiedere con speranza.
“Lo sai per certo?” domandò a bassa voce.

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“Non l’ho visto,” rispose Lancaster onestamente, con un sorriso sulle
labbra. “Ma ho sentito i suoi occhi su di me,” affermò con sicurezza. “Tu,
no?” gli domandò sarcasticamente, sapendo ovviamente che la risposta
era negativa.

SEMBRAVA che fossero seduti in quell’ufficio da sempre, prima che un
suono riecheggiasse nel magazzino. Lancaster alzò immediatamente la
testa, teso come la corda di un violino, mentre scrutava nell’oscurità.

“Non sei in una posizione strategica,” lo riprese Blake con un tono
ironico. “C’è una sola luce in questo dannato posto, e tu ci stai seduto di
fronte,” disse, facendo schioccare la lingua. “Se c’è Preston là fuori, sei
già spacciato. Era un cecchino prima di diventare il suo autista, se
proprio lo vuoi sapere.”

“Sono ben consapevole di che tipo di persone si circonda Julian,”
borbottò Lancaster. Non sembrava affatto nervoso. Ma, piuttosto, quasi
eccitato. “Julian non gli permetterà di spararmi. Abbiamo una questione
in sospeso da portare a termine prima.”

“Dannazione!” esclamò improvvisamente Blake. “Julian è morto!” gridò di
nuovo, con la voce rotta per il dolore di pronunciare quelle parole.
“L’abbiamo visto morire!”

“Sì, davvero?” chiese in tono calmo l’altro, quasi distratto mentre
perlustrava con gli occhi il magazzino. Sembrava un furetto, basso, teso
e nervoso. “Ne sei sicuro?” borbottò, con un sorrisetto soddisfatto.
“L’avete visto perdere sangue. L’avete visto portare via in un’ambulanza.
Che era guidata da Preston, a ogni modo.”

“Cosa?” proruppe Cameron confuso. Blake fissò la schiena di Lancaster,
con uno sguardo istupidito: uno sguardo accompagnato da
un’espressione speranzosa sul volto.

“Avete parlato con il medico che l’ha operato? Avete visto la sua salma
dopo che è stato dichiarato morto?” continuò Lancaster. “No, perché,
dopo averlo soccorso, è stato portato in terapia intensiva, sotto una serie
di falsi nomi e poi è stato trasferito non si sa dove, appena è stato in
grado di spostarsi.”

“Come fai a saperlo?” gli chiese Blake con voce esitante.

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“È il mio lavoro venire a conoscenza di queste cose,” rispose lui a bassa
voce, tornando a rilassarsi, dopo aver evidentemente deciso che il
rumore che aveva sentito non era niente. “Ho seguito le sue tracce per
quanto ho potuto, ma il dottore in ospedale non ha saputo dirmi dove
era stato portato. Ma posso dirvi una cosa,” proseguì con un sorriso
arrogante, controllando forse per la quinta volta la sua pistola. “Julian
Cross non è morto quella notte. È rimasto vivo, per almeno altre tre
settimane, anche se in stato quasi comatoso. Cosa è successo dopo, non
lo so. Il suo dottore – prima che morisse misteriosamente in un incidente
il mese scorso – mi ha raccontato che il trasferimento avrebbe potuto
ucciderlo,” disse pensieroso, muovendosi incessantemente sulla vecchia
poltrona. “Credo che fra poco lo scopriremo,” farfugliò tutto felice.

Ci fu un forte rumore nel buio. Lancaster si alzò in piedi, mettendosi sulla
soglia. La sua ombra si stagliava volutamente nella luce fioca e Cameron
non ne capiva il motivo.

“Julian,” chiamò Lancaster con tono sommesso.

“Dove sono?” Una voce con un forte accento irlandese ruppe
improvvisamente il silenzio del magazzino.

Cameron rimase a bocca aperta quando la sentì. La voce di Julian era
incredibilmente vicina, apparentemente appena oltre il cono che veniva
proiettato dalla debole luce dell’ufficio. Poteva arrivare da qualsiasi parte,
aiutata dall’eco del magazzino cavernoso. Sentì dei brividi freddi corrergli
giù per la schiena, già congelata per il freddo intenso, e iniziò a tremare
ancora più violentemente.

“Come, nemmeno un ciao?” chiese freddamente Lancaster, rimanendo
fermo sulla soglia. Poi scosse la testa e sospirò. “Dimmi una cosa, Cross.
Che cosa avrai mai visto in questo ragazzo?”

“Non oltrepassare i limiti,” rispose calmo Julian, la cui voce bassa e
incorporea sembrava controllata a stento.

Lancaster si irrigidì. “Non ci sono limiti in questo gioco,” ricambiò con un
ringhio. Inclinò la testa e spostò la pistola di lato, puntandola verso
l’angolo della stanza. “Fai una mossa e colpisco i gatti,” lo avvertì in tono
piatto e lievemente ironico.

“Non hai idea del guaio in cui ti sei cacciato,” ringhiò Julian, con voce
bassa e un tono pericoloso. Cameron chiuse gli occhi per trattenere le
lacrime che minacciavano di uscire. Non aveva mai sentito quel livello di
rabbia nella sua voce, nemmeno quell’ultima notte al ristorante. Per

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quanto sentire la voce di un uomo morto lo scioccasse, quello che lo
spaventava di più era l’emozione.

La mano di Lancaster si strinse sulla pistola che teneva all’altezza della
gabbia, nell’angolo, poi cambiò direzione e puntò l’arma contro Cameron.
“Si merita veramente la croce del guerriero, Julian?” chiese con una voce
che sembrava quasi sofferente.

Cameron guardò la pistola, respirava con difficoltà e le lacrime gli
rendevano la visione sfocata.

Dalle tenebre non gli arrivò alcuna risposta.

Lancaster armò il grilletto.

Senza un suono di avvertimento, un pesante blocco di legno volò fuori
dalla zona buia, andando a colpire il braccio di Lancaster con un tonfo
sordo. L’uomo si ritrasse dalla porta e la pistola fece fuoco. Il proiettile
colpì rumorosamente la parete di fianco a Cameron e rimbalzò via,
mentre Lancaster grugniva di sorpresa e di dolore, barcollando
all’indietro e perdendo la presa sull’arma, che cadde a terra.

Blake iniziò a lottare con le fascette di plastica che lo immobilizzavano.
“Buttati giù, ragazzo,” grugnì, spingendo la sedia di metallo verso la
parete in fondo all’ufficio. “Stai giù, non alzarti,” gli ordinò a denti stretti,
cercando di liberarsi.

Lancaster si raddrizzò imprecando, si voltò, tirò fuori un’altra pistola e la
puntò contro la porta. Cameron rimase a bocca aperta quando Julian
apparve sulla soglia. Era vestito tutto di nero, anche i suoi occhi erano
neri come delle pietre di ossidiana e scintillavano di rabbia. Sembrava un
fantasma materializzatosi dal buio. Si fermò sulla soglia, infuriato, grosso
e vivo.

Lancaster sparò e lo colpì in pieno petto. Cameron e Blake gridarono
sconvolti, ma il colpo lo fece solo incespicare all’indietro. Lancaster lo
fissò sorpreso. Julian abbozzò un sorriso, inclinando la testa mentre gli si
avvicinava.

“Hai addosso un giubbotto anti proiettile?” chiese Lancaster con voce
offesa, abbassando lievemente l’arma. “Imbroglione.”

“La prossima volta spara alla testa,” gli consigliò Julian.

Cameron lo fissò in stato di shock. Non gli sembrava vero sentirlo parlare
con quella sua bella voce accentata.

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Lancaster sollevò di nuovo la pistola, ma Julian gli si lanciò contro, con
un movimento così improvviso e feroce che Cameron sussultò per la
sorpresa. Non aveva mai visto nessuno muoversi in quella maniera.
Come se ad attaccare fosse un leone.

Julian spinse Lancaster contro la parete posteriore del piccolo ufficio,
scrostando l’intonaco di bassa qualità e facendo volare in aria polvere e
calcinacci. Cameron provò disperatamente a tenere giù la testa, come gli
aveva detto Blake, ma non riusciva a distogliere lo sguardo. La battaglia
tra i due uomini non era aggraziata come quelle che si vedevano nei film.
Non era armoniosa e silenziosa. Ma veloce, brutta e anche caotica e
rumorosa.

Ogni volta che uno dei due sferrava un colpo, c’era un rumore disgustoso
di carne contro carne. Era talmente brutale che per Cameron era difficile
anche solo ascoltarli, figurarsi guardarli. Non riusciva a credere che
quell’uomo così gentile con lui fosse capace di una tale, spaventosa forza
e violenza.

Cameron chiuse gli occhi quando sentì la sua sedia ribaltarsi e cadde a
terra con un grugnito, mentre il dolore gli si irradiava dalla spalla al
braccio. Non aveva ancora toccato terra, quando vide Lancaster afferrare
il braccio di Julian a metà di un colpo. Sentì il rumore di ossa che si
rompevano. Lancaster aveva fatto pressione su entrambi i lati del
braccio, spezzandolo.

Julian non urlò di dolore ma avvolse l’altro braccio attorno al suo
avversario, se lo caricò sulle spalle e lo gettò contro la finestra interna
dell’ufficio. Non sembrava che quel gesto gli fosse costato molto sforzo.

Ci fu un rumore di vetri rotti, seguito da un grido di dolore e rabbia,
quando Lancaster sfondò la finestra e cadde sul pavimento del
magazzino. Julian estrasse una pistola e fece fuoco ripetutamente nel
buio, fino a quando il caricatore non fu vuoto. Lasciò cadere la pistola e
tirò fuori un lungo pugnale nero, girandosi verso Cameron.

Si chinò su di lui, afferrò il bracciolo della sedia e tagliò in fretta una
fascetta. Poi si allungò a liberarlo anche dell’altra. Uno sparo echeggiò e
Julian annaspò di dolore, cadendo addosso a Cameron e girandosi
leggermente su un lato.

“Cosa te ne pare questa volta?” lo apostrofò Lancaster, da qualche parte
nel buio. “Ha fatto il suo dovere contro il giubbetto antiproiettile?” sputò
fuori con sarcasmo.

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Cameron afferrò Julian, quando lo vide sbandare contro di lui e il coltello
schizzò in mezzo al pavimento. Poteva vedere il contorno del corpo di
Lancaster muoversi verso di loro.

“Julian,” lo chiamò allarmato. “Julian, sta arrivando.” Lo toccò con la
mano libera e quando la ritirò era bagnata di sangue.

Julian scivolò sul pavimento, con il braccio che sanguinava
abbondantemente e lasciava macchie di sangue sul cemento, mentre
cercava la pistola di scorta. Lancaster si mise a correre, lanciandosi
attraverso la porta per fargli saltare via l’arma di mano. Julian rotolò e gli
colpì la gamba con un calcio, mandandolo a sbattere contro la vecchia
scrivania che si spezzò sotto il suo peso, facendolo scivolare a terra

Julian era già in piedi quando Lancaster cercò di rialzarsi e, non appena
quest’ultimo fu in grado di reggersi sulle ginocchia, cercò di placcarlo,
lottando per impossessarsi dell’arma.

Intanto che i due uomini si confrontavano a terra, Blake si contorceva
sulla sedia, cercando invano di liberarsi. Aveva i polsi insanguinati per lo
sforzo, ma non si fermò. Cameron girò il viso per cercare il coltello nella
penombra. Lo vide a circa cinque metri di distanza, vicino alla parete di
fondo della stanza, mezzo nascosto sotto un vecchio schedario.

Iniziò a muoversi velocemente verso di esso, usando la mano libera per
trascinarsi in avanti insieme alla sedia, lanciando delle occhiate indietro
verso i due killer che lottavano corpo a corpo.

Julian era più grosso e più forte di Lancaster, ma era ferito e stava
sanguinando profusamente. Lancaster, invece, era tutto muscoli e
determinazione. E giocava sporco. Mentre Cameron li guardava, lui tirò
fuori un coltello da un fodero che aveva alla caviglia e lo affondò nel
fianco di Julian, facendo scorrere la lama sotto il giubbetto protettivo.
Julian urlò per il dolore e inarcò la schiena mentre cadeva su un fianco.
Lancaster gli si avventò contro, inchiodandolo a terra con una mano e
usando l’altra per puntargli contro il viso la pistola che si stavano
contendendo. Julian grugnì di dolore, cercando di allontanare la mano
con il braccio rotto.

“Colpirmi con un maledetto pezzo di legno,” disse Lancaster a denti
stretti, mentre lottavano.

La pistola sparò di nuovo, obbligandoli a rotolare via l’uno dall’altro, in
una momentanea tregua, con le orecchie fuori uso. Cameron si spinse
più vicino al coltello, tentando disperatamente di raggiungerlo, senza
però perdere d’occhio i due uomini. Lancaster saltò di nuovo contro

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Julian, mentre questi si contorceva cercando di strapparsi il coltello dal
fianco, e lo colpì duramente sul viso con il calcio della pistola. Cameron
fece una smorfia e distolse lo sguardo. Le dita erano appena scivolate
sopra la lama del coltello quando sentì un forte tonfo: Lancaster aveva
colpito ancora una volta Julian.

Cameron imprecò e si allungò fino a che tutto il suo corpo sembrò urlare
di dolore per lo sforzo, riuscì a spingere la lama di lato, facendo ruotare il
pugnale fino a poterlo prendere senza rischiare che finisse
completamente sotto lo schedario, Alla fine lo afferrò e lo usò per
tagliare rapidamente le fascette all’altro braccio e alle caviglie.

Quando fu libero dalla sedia, Cameron strisciò sul pavimento polveroso
verso Blake, con il coltello stretto in mano. Ma i suoi occhi erano ancora
fissi sui due uomini che combattevano a pochi metri di distanza.
Lancaster era a cavalcioni di Julian, che teneva la canna della pistola con
tutte e due le mani, cercando di spingerla via, mentre l’altro cercava con
tutte le sue forze di prendere la mira. L’aveva messo alle corde. Se Julian
avesse usato le mani per liberarsi, Lancaster sarebbe stato in grado di
usare la pistola per farlo fuori.

La pistola sparò di nuovo, colpendo il pavimento accanto alla testa di
Julian e facendo volare ovunque schegge di cemento. Cameron si coprì la
testa e Blake si tirò indietro. Julian urlò di rabbia e di dolore, mentre
cercava ancora una volta di rovesciare la situazione, ottenendo solo di
impedire che Lancaster riuscisse a puntargli di nuovo la pistola alla testa.
Cameron tagliò in fretta le fascette che tenevano legate le mani di Blake,
poi gli passò il coltello con mani tremanti e quello continuò da solo a
liberarsi le caviglie.

Julian iniziava a perdere la forza nelle braccia a causa delle ferite e
Lancaster lo pressò, girando la canna della pistola verso la sua fronte.
Julian strinse i denti e chiuse gli occhi, cercando di trovare la forza di
reagire.

“Aiutalo!” gridò Blake, lottando con l’ultima fascetta.

Cameron si guardò disperatamente intorno per cercare qualcosa da
usare come arma. Prima che si muovesse, Lancaster grugnì di dolore e
rotolò via dal corpo di Julian, atterrandogli accanto sulla schiena, le
gambe divaricate sul freddo pavimento di cemento. Cameron non aveva
idea di cosa fosse successo e dallo sguardo attonito sul volto di Julian,
ancora disteso a terra, si capiva che nemmeno lui lo sapeva.

Lancaster si mise in ginocchio, piegato in due dal dolore. Grugnì e,
guardando fuori dalla porta dell’ufficio, si accovacciò tenendosi la spalla

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con una mano. Lo schedario accanto alla sua testa si aprì con uno
schianto e un colpo che misero tutti a tacere.

Poi i proiettili cominciarono a cadere come grandine: uscivano da
un’arma con il silenziatore e facevano poco rumore nel magazzino
cavernoso, ma il suono delle pallottole che rimbalzavano sulla lamiera del
tetto e sulle pareti risuonò nelle orecchie di Cameron. La sua reazione
istintiva fu di chinarsi e coprirsi la testa, mentre percorreva pochi passi
incerti fino all’angolo della stanza. Anche Lancaster si chinò e, mentre la
stanza intorno a loro esplodeva, Blake agguantò Cameron, lo buttò a
terra e si gettò su di lui per proteggerlo.

Quando l’assalto finì, nessuno si muoveva nell’ufficio distrutto.

Un silenzio irreale scese nel magazzino e quando Blake finalmente alzò la
testa per consentire a Cameron di guardarsi intorno, calcinacci, polveri e
pezzi di carta straccia avevano appena iniziato a posarsi.

Quando l’adrenalina iniziò a calare, Cameron fu nuovamente consapevole
del freddo che gli serpeggiava nelle ossa. Tremava quando Blake lo aiutò
ad alzarsi e insieme cominciarono a esaminare i danni.

Lancaster, sanguinante, era disteso sulla schiena e fissava il soffitto
senza battere ciglio. Preston si fermò sulla soglia a ricaricare, con calma,
quello che doveva essere un potente fucile di precisione. Julian giaceva ai
suoi piedi, ancora rannicchiato e con le mani a proteggersi la testa,
mentre frammenti di giornale si libravano nell’aria intorno a lui.

“Avrebbe dovuto fornirmi un bersaglio migliore, signore,” gli disse
l’autista, con un tono pacato.

“Mi dispiace,” gemette debolmente lui, scoprendosi la testa e lasciando
cadere le braccia sul petto. “È morto?” chiese con una punta di
apprensione nella voce.

Gli occhi di Cameron si spostarono sul corpo di Lancaster e si
spalancarono. Sembrava davvero morto. Cameron vide Preston inclinare
la testa, imbracciare il fucile, puntarlo su Lancaster e premere il grilletto,
lasciando partire una breve raffica di colpi. Il corpo senza vita di
Lancaster sussultò quando i proiettili lo colpirono, così come fece quello
di Cameron, strappandogli un gemito.

“Adesso di sicuro,” rispose brevemente Preston, rimettendosi il fucile in
spalla e accennando un sorriso.

“Grazie, per essere stato così scrupoloso,” borbottò Julian, girandosi su

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un fianco e toccandosi le costole.

“Come sempre, signore,” rispose educatamente Preston mentre,
appoggiando il fucile contro il telaio della porta, gli si inginocchiava
accanto. Afferrò il manico del coltello che sporgeva dal fianco dell’altro e
tirò forte.

Julian imprecò debolmente e abbassò la testa, quando l’uomo gli
premette un fazzoletto sotto il giubbetto per fermare l’emorragia.
Preston tornò ad alzarsi, si girò a guardare Blake e Cameron e annuì loro
come se stesse salutando qualcuno nel parco. Poi rivolse la sua
attenzione alla gabbia in un angolo, dove Smith e Wesson stavano
riempiendo l’aria di una cacofonia di orribili suoni.

“Gesù Cristo!” esalò Blake per l’orrore, alzandosi. “Preston, che diavolo?”

“Arriva un momento in questo lavoro in cui non c’è posto per l’onore,”
affermò quello, scavalcando con attenzione i detriti sul pavimento. “Ecco
perché ha bisogno di me,” disse loro, con un sogghigno, scavalcando
anche Julian per dirigersi verso la gabbia.

Blake li fissò entrambi a lungo e poi si mosse per aiutare Julian ad alzarsi
in piedi. Non appena l’altro fu in grado di stare in piedi da solo, Blake lo
afferrò per le spalle, guardandolo negli occhi. “Tu sei un figlio di
puttana,” sbottò e poi lo colpì, facendolo barcollare all’indietro verso la
soglia. “Ti ucciderò io stesso!” gridò, afferrandolo per la camicia nera e
pronto colpirlo di nuovo.

“No! Blake!” urlò Cameron per la sorpresa. Non avevano avuto già
abbastanza violenza per quella notte?

Julian non era nemmeno in grado di alzare una mano per difendersi.
Oscillò pericolosamente e si accasciò all’indietro. Blake smise di
percuoterlo e si mosse per afferrarlo, prima che il grosso uomo cadesse
per terra.

“Dannazione,” brontolò Blake, adagiando a terra il corpo privo di sensi.
“Come fa tutte le volte a evitare il secondo colpo?” chiese a Preston,
seccato.

“Per via dell’emorragia, signore,” rispose quello in tono calmo, liberando
Smith e Wesson dalla loro gabbia.

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BLAKE e Preston misero Julian seduto sul letto, in modo da potergli
rimuovere con cautela gli stivali. L’ospedale gli aveva fornito un camice
da indossare per andare a casa e un paio di coperte da mettergli sulle
spalle, per tenerlo al caldo mentre passava dal reparto ospedaliero alla
macchina e dalla macchina all’appartamento. Era a petto nudo, per via
dell’ingombrante gesso al braccio e la bendatura che gli teneva ferme le
costole. Il braccio era rotto, ma non era una brutta frattura. Il proiettile
che lo aveva colpito, era passato attraverso il muscolo del braccio e gli
faceva male, ma nemmeno quella era una brutta ferita.

Il vero problema era la coltellata al fianco. Gli aveva fatto perdere un
sacco di sangue e il coltello aveva recato danno non solo ai tessuti molli,
ma anche alle costole. Era stato solo per pura fortuna che la lama aveva
mancato i polmoni. Muoversi e respirare gli faceva male, ma non era in
pericolo di vita.

Cameron era uscito da quella terrificante nottata con un ampio
assortimento di lividi, un labbro spaccato e lacerazioni al polso, che si era
procurato lottando con la sedia per raggiungere il coltello e, una volta
che tutto si fu concluso, con un vero e proprio crollo nervoso.

Ma in quel momento, dopo aver pianto fino allo sfinimento in ospedale,
era per lo più calmo e indifferente e finalmente era riuscito a riscaldarsi.
Osservava Julian, resistendo all’impulso di avvicinarsi. L’uomo aveva
sonnecchiato per tutto il tempo da quando avevano lasciato l’ospedale.
Forse era sotto shock oppure era l’effetto della morfina.

Non aveva ancora detto una parola a nessuno di loro e non aveva rivolto
nemmeno uno sguardo a Cameron.

“Vado a recuperare la roba all’ospedale,” disse Blake in tono calmo,
uscendo dalla stanza. Era ancora arrabbiato, Cameron ne era sicuro. Da
quando aveva colpito Julian al magazzino, si muoveva e parlava
gentilmente, cercando di non manifestare più la sua collera, ma lo sforzo
che faceva per reprimersi la rendeva solo più evidente.

Cameron non poteva biasimarlo. Adesso che la paura era, almeno in
parte, passata, non poteva guardare Julian senza che gli venisse voglia
di strozzarlo, senza ricordare tutto il dolore che la sua perdita gli aveva
causato. O senza desiderare di rannicchiarsi accanto a lui e abbandonarsi
al sollievo che fosse ancora vivo.

Julian, che sembrava facesse uno sforzo enorme per mettere a fuoco,
guardava Cameron con aria assente. Cameron voleva urlargli di
riprendersi. Finché non si fosse rimesso non avrebbe potuto fargli tutte le

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domande che voleva e neppure prenderlo a calci negli stinchi. Così,
invece di gridare, si avvicinò e gli fece scivolare la mano dietro alla spalla
sana. “Piano,” lo esortò con un tono sommesso, aiutandolo ad adagiarsi
contro i cuscini.

Julian allungò lentamente una mano e gli afferrò il polso. Alzò lo sguardo
a cercare i suoi occhi, ancora intontito dall’effetto della morfina, anche se
era evidente che cercava di combatterne gli effetti. “Mi sei mancato,”
affermò pacato.

Cameron sentì come un tuffo al cuore e si morse un labbro per reprimere
un gemito di sofferenza. Prima di rispondere, incrociò il suo sguardo e
annuì lentamente. Si perse in quegli occhi scuri, rendendosi conto che
non sapeva cosa dire.

Julian sospirò esausto e abbassò lo sguardo sulla mano di Cameron. Se
l’avvicinò e sfiorò la parte interna del polso con le labbra, prima di
spingere il suo volto contro il palmo e chiudere gli occhi.

E mentre la sua mano si appoggiava a coppa sulla guancia di Julian,
accarezzandogli la pelle ruvida con la punta delle dita, Cameron chiuse a
sua volta gli occhi. Gli era mancato così tanto da non riuscire a respirare
senza provare dolore. Ma ormai non voleva più soffrire. Non voleva che
nessuno dei due soffrisse.

“Hai bisogno di riposarti,” lo esortò a bassa voce. Ma non sapeva
decidersi a muovere la mano.

Julian abbassò la testa sconsolato, poi, con cautela, si appoggiò sui
cuscini.

“Ti fa molto male?” gli chiese Cameron, appoggiandogli con cautela la
mano sulla fronte, nel timore che l’effetto degli antidolorifici fosse già
esaurito.

“No,” rispose lui debolmente, rilasciando la mano di Cameron e
sdraiandosi sulla schiena. Era la prima volta che il giovane lo sentiva dire
una bugia senza metterci nessun impegno per renderla credibile. Fissò il
soffitto e poi chiuse gli occhi lentamente.

“Sono in salotto, se hai bisogno di qualcosa,” gli disse Cameron, incapace
di rimanere oltre nella stanza.

Julian si limitò ad annuire, per fargli capire che aveva sentito. Tenne gli
occhi chiusi e alla fine si raggomitolò su un fianco. Smith e Wesson si
stesero immediatamente accanto a lui, accoccolandoglisi contro e

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facendo le fusa con veemenza.

Esausto, Cameron lasciò la stanza e, chiudendosi dietro la porta, dovette
fermarsi a stringersi con le dita la radice del naso.

“Ti senti bene?” gli chiese Blake, ignorando chiaramente Julian a suo
favore.

Dopo un istante, Cameron lasciò cadere la mano. “Non lo so,” disse
piano. Si trascinò verso la cucina dove Preston sedeva tranquillamente al
tavolo a bersi un caffè. Doveva essere il suo appartamento. Aveva paura
di chiedergli se Julian vivesse lì. Non era lontano da dove abitava lui.

Blake lo guardò a lungo, prima di sedersi lentamente di fronte a Preston.
“Ti sentirai meglio una volta che l’avrai colpito,” gli mormorò con tono
compassionevole.

Cameron strinse la mascella e praticamente collassò sulla sedia. Blake lo
guardò, abbattuto.

“Non ti sto giudicando, figliolo,” lo rassicurò. “Ho sentito un casino la sua
mancanza, se pensi poi che quel bastardo mi piace a malapena,” disse,
con un cenno alla porta della camera da letto.

Cameron arricciò il naso. “Solo di rado è un bastardo,” lo difese.

Blake si inalberò. “Il peggio deve venire. Quando sta male diventa
intrattabile.”

“Ti ricordi quella volta, che aveva il braccio al collo e venne lo stesso al
ristorante per cena?” lo interruppe bruscamente Cameron. “Mi raccontò
tempo dopo che era venuto perché aveva già saltato una volta. Gli
avevano sparato due settimane prima e, nonostante tutto, era venuto a
cena.”

“Non volevo dire male fisicamente,” disse piano Blake. “Sebbene sia un
paziente terribile. L’hai servito tu, quella notte di fine novembre, quando
ha ordinato un bicchiere in più?”

“Sì,” rispose Cameron. “Tutto ebbe inizio quella sera. Mi chiese se mi
piaceva il mio lavoro.”

Blake lo guardò pensieroso e poi sbuffò piano. “Bene. Quel bicchiere in
più era per Arlo. Era l’anniversario del giorno in cui l’aveva buttato fuori
dalla sua vita. Ogni anno, ordinava un bicchiere in più per un brindisi
speciale, rammaricandosi di ciò che Arlo era diventato e aveva fatto. Di

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solito finiva per ubriacarsi tanto da non riuscire a stare in piedi.”

Cameron si accigliò. “Non rimase a lungo. Ricordo di aver pensato che
fosse una serata molto strana. Due bicchieri di vino, senza nemmeno
toccare la cena… e mi lasciò duecento dollari di mancia.”

“Lo so,” disse sospirando Blake. “Lo chiamai per un lavoro quella notte.
Mi ricordo di aver avuto paura di non averlo trovato in tempo e che
sarebbe stato troppo ubriaco per andare. Ecco spiegato il buco nel
braccio. Secondo il mio punto di vista, però, era amareggiato per come
lui e Arlo si erano separati. Penso che, nel profondo, a Julian non
importasse di morire, se fosse stato lui a farlo fuori.”

“Allora cos’è cambiato? Perché Julian ha cercato di ucciderlo?” gli chiese
Cameron.

Blake si strinse nelle spalle. “Questo lo devi chiedere a lui. La sua mente
non funziona come quella di una persona normale.”

Cameron inspirò profondamente. Aveva creduto – temuto – di essere lui
la ragione di quel cambiamento. Allontanò rapidamente quel pensiero.

Preston lanciò loro un’occhiata e si schiarì la gola. “Lui l’amava, signor
Jacobs,” affermò senza scomporsi. “Amava anche il signor Lancaster, a
modo suo.”

“Lo sapevo che mi amava,” disse Cameron con un filo di voce, sorpreso
per il fatto che Preston fosse intervenuto. Un dolore lancinante lo
attraversò, mentre con lo sguardo andava alla porta chiusa della camera
da letto. “Ma io l’ho mandato via.”

“Cam, non l’ho mai visto così, come quando è con te,” gli disse Blake.
“È… un uomo completamente diverso. Forse quello che sarebbe stato, se
la sua vita fosse stata differente. Anche quando l’hai lasciato, ha
continuato ad amarti.”

“Non mi amava abbastanza, però, da farmi sapere che era ancora vivo,”
bisbigliò lui.

Preston era in silenzio, gli occhi su Cameron, che lo guardò con l’aria di
chi si aspetta qualcosa.

“Perché non mi ha cercato?” gli chiese Cameron, mentre sentiva un
impeto di rabbia montargli dentro. Dopo aver vissuto una notte come
quella appena passata, durante la quale i suoi nervi e il suo controllo
erano stati messi a dura prova, non aveva più la forza o il desiderio di

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trattenersi.

Preston rispose alla sua ira sbattendo semplicemente le palpebre e
guardandolo negli occhi, senza cambiare espressione.

Cameron girò il mento verso Blake. “Hai detto che mi amava ancora
anche dopo che lo avevo lasciato. Allora perché non me l’ha detto?”

“Cam, non è così semplice,” iniziò Blake.

“Anche tu sei incazzato con lui! Se n’è andato, lasciandoci a pensare per
tutto questo tempo che fosse morto!” continuò, alzando la voce e
diventando paonazzo, prima di alzarsi e iniziare a camminare.

“Lo so, ma Cam…”

“No, non ci sono ma, Blake. Nessuna telefonata. Nessuna e-mail. Un
qualcosa per farmi sapere che respirava ancora. Se mi aveva perdonato,
se ci teneva così tanto a me, perché lasciarmi soffrire tutto questo
tempo?” imprecò, tremando, come se le sue emozioni avessero preso il
sopravvento.

“Questo, non lo so, signore,” rispose con calma Preston, come se lui gli
avesse chiesto del tempo. “Il signor Cross ha sempre una ragione per
tutto quello che fa o non fa. Ciò non vuol dire che io lo comprenda
sempre.”

Cameron deglutì a fatica, aspettandosi una risposta da Blake.
Quest’ultimo incrociò il suo sguardo e poi chiuse gli occhi, scuotendo la
testa. Cameron girò sui tacchi, afferrò la giacca che gli aveva prestato
Preston e lasciò l’appartamento.

DOPO circa una settimana da quella vicenda, Cameron ancora si rifiutava
di rispondere alla porta o al telefono. Rimase nel suo appartamento con i
cani, ribollendo dalla rabbia per l’inganno che Julian aveva perpetrato nei
suoi confronti, lanciando quello che gli capitava tra le mani, quando il
pensiero gli andava a tutte quelle volte che aveva sognato che Julian
sarebbe tornato da lui.

Non era giusto saperlo vivo ed essere così arrabbiato con lui. A maggior
ragione, se ciò che gli aveva detto Blake era vero.

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Cameron era seduto sul divano e fissava con sguardo vago fuori dalla
finestra, quando il campanello suonò. Non si mosse, lasciando che
suonasse ancora. E questo continuò insistentemente. Infine, si alzò e,
trascinandosi lentamente a piedi nudi sul pavimento in legno, rispose al
citofono.

“Cosa?” sbottò. L’ultima volta era Miri, che tentava di consegnargli un
sacchetto con del cibo del ristorante.

“Fammi entrare, Cameron,” gli intimò la voce bassa di Julian.

Cameron premette il pulsante apri-porta senza nemmeno pensarci, poi
scosse la testa per l’esasperazione, al pensiero di come fosse automatico
per lui fare quello che l’altro gli diceva. Sapendo che sarebbe salito,
sbloccò la serratura e, sospirando, tornò al divano. Stava cominciando a
tremare, quindi si mise giù e si avvolse in una coperta.

Cosa era venuto a fare?

Quando sentì la maniglia girare, trattenne il fiato. E quando Julian entrò
nell’appartamento, non riuscì a fare altro che guardarlo e cercare di non
tremare. L’uomo si tolse il cappotto e lo appese a uno dei ganci a lato
della porta, poi inclinò la testa e lo guardò, senza spingersi oltre
all’interno dell’appartamento. Cameron fu sorpreso di vederlo con il
tutore legato alla spalla. Doveva essere molto doloroso avere a che fare
con quella cosa ingombrante, inoltre si muoveva ancora lentamente,
come se sentisse dolore dappertutto.

Cameron lo fissò, incapace di pensare anche a una sola, semplice cosa
da dire.

“Ciao, Cameron,” mormorò Julian a bassa voce, con quell’accento
irlandese ancora così insolito e sconosciuto alle sue orecchie.

Cameron sbatté le palpebre e aprì la bocca, ma la richiuse subito,
scuotendo la testa. Si sforzò di deglutire, concedendosi di guardare il suo
ex-amante. Indossava un paio di jeans, stivali e una semplice T-shirt blu.
Lui l’aveva visto sempre in abiti costosi o… senza nulla addosso. Era
sconcertante vederlo in quel modo.

“Ciao,” bofonchiò infine.

“Ti trovo bene,” osservò Julian, dopo un attimo di silenzio.

In quel momento, i cani uscirono incespicando dalla camera, dove erano
rimasti a sonnecchiare davanti al camino, e corsero verso l’ingresso

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come uno sciame, affollandosi intorno alle sue caviglie.

“Blake, si è occupato di te?” chiese Julian, con i cani che gli
mordicchiavano i lacci delle scarpe e l’orlo dei jeans. Non gli staccò gli
occhi di dosso neanche quando i cani iniziarono a saltellargli intorno.
“Posso entrare?” domandò infine, visto che Cameron non gli rispondeva.

Cameron era ancora troppo stordito e riuscì solo ad annuire. Non voleva
distogliere lo sguardo, nemmeno per un secondo. Nello stato in cui era,
aveva pensato che sarebbe stato in grado di rimanere compassato di
fronte alla sua presenza, ma vederlo di nuovo lì, a casa sua, era sia
doloroso sia meraviglioso. Cosa… perché… come… milioni di domande gli
vorticavano per la mente, senza che riuscisse a sceglierne una; così
chiuse la bocca e scese dal divano. Scelse deliberatamente di guardarlo
negli occhi e si mosse in avanti, fino a trovarsi a poche decine di
centimetri da lui.

“Stai veramente bene,” gli sussurrò Julian, con uno sguardo di
apprezzamento.

Parte dello shock si dissolse, rimpiazzato da un dolore terribile, con cui
ormai Cameron pensava di aver chiuso. “Grazie,” farfugliò.

“Mi dispiace per quello che ti ho fatto,” gli disse Julian con rammarico.

Cameron sospirò profondamente, fissandolo intensamente negli occhi. Si
avvicinò ulteriormente, a pochi palmi di distanza, e allungò la mano per
seguire con le dita i lineamenti del suo volto. Quando tolse la mano,
Julian chiuse gli occhi e abbassò la testa.

Non vide arrivare il pugno di Cameron. Barcollò all’indietro e, scuotendo
la testa, si portò la mano al labbro spaccato. Sbuffò leggermente e fece
un cenno col capo. “Me l’aspettavo prima,” ammise.

“Figlio di puttana,” sibilò Cameron, con una smorfia. “Ma che cazzo?”

“Mi dispiace,” si scusò piano Julian. “Dovevo scomparire se volevo
continuare a vivere.”

“Vivere? Vivere?” gridò incredulo Cameron. “Ma tu sei morto!”

“In teoria,” convenne Julian con una smorfia.

“Una teoria con cui ho dovuto convivere per sei mesi!” disse Cameron
bruscamente, stringendo di nuovo la mano a pugno.

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Julian lanciò con circospezione un’occhiata al pugno chiuso e abbassò il
mento. “Lo so,” rispose brevemente. Senza scusarsi oltre.

Il tono della sua voce colpì profondamente Cameron e, per il momento,
la preoccupazione superò la rabbia. “Dove sei stato?” chiese con voce
rotta.

“Cercavo di seppellirmi,” rispose lui.

Cameron non poté trattenersi dallo sbeffeggiarlo. “Buona fortuna, perché
noi l’abbiamo già fatto!” sbottò. Si passò le mani tra i capelli e fece dei
respiri profondi per calmarsi, poi si volse verso la cucina. Sapeva che se
avesse continuato a guardarlo avrebbe avuto un attacco di nervi. “Blake
lo sapeva?” chiese con voce cupa e arrabbiata.

“No,” rispose Julian con un altro sussulto. “Gli ho parlato stamattina,”
aggiunse. “Mi ha colpito di nuovo. Due volte.”

A Cameron venne da ridere, ma era un suono basso e incerto. “Te lo sei
meritato, se lo vuoi sapere.” Tornò a guardarlo, stringendo gli occhi.
“Non so cosa dire, Julian,” bofonchiò. “Eri in giro per il mondo vivo e
vegeto e non hai mai, neppure una volta, tentato di farmi sapere che
stavi bene.”

Julian chinò il capo e fece scivolare lentamente le mani in tasca.

“Come ci sei riuscito?” pretese di sapere Cameron.

Julian trasalì e tornò a sollevare la testa. “Preston ha corrotto i dottori,
dicendo loro di dichiararmi morto e di nascondermi sotto falso nome. Mi
hanno tenuto sotto copertura fino a quando non sono riuscito a
muovermi per conto mio. Sono rimasto allettato per tre settimane e poi
ce ne sono volute altre sei per riprendermi,” disse a bassa voce. “Quando
sono stato in grado di badare di nuovo a me stesso, dovevo assicurarmi
che Arlo non fosse fuori ad aspettarmi. Non potevo contattarti. Non
volevo vederti nuovamente in pericolo per colpa mia.”

Era sensato, ma non per quello faceva meno male. Cameron era un
uomo diverso perché, insieme a Julian, nella sua vita erano arrivati
anche l’amore, la paura, il dolore e il pericolo. “E adesso?” gli chiese con
voce tremante.

Julian scrollò le spalle. “Non esiste più alcun contratto perché sono
morto. Lui è andato. E io sono tornato.”

“Sei tornato,” ripeté Cameron in tono sommesso, sentendosi morire

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dentro. Voleva così tanto avvicinarsi e accoccolarsi accanto a lui,
costringersi a credere che fosse veramente tornato per lui e dimenticarsi
di tutta la sofferenza che aveva patito. “Ma non è cambiato niente. Ci
sono altri come lui in attesa di farti del male. È ancora pericoloso
esattamente come lo era due settimane fa, quando pensavo che tu fossi
morto e invece eri solo troppo codardo per farmi sapere che non era
così.”

“È vero, sì,” affermò Julian, mentre il suo viso di solito impassibile
manifestava un accenno di dolore a quelle parole.

Cameron si strinse con forza le braccia attorno al corpo. “Allora, adesso
cosa? Perché sei qui? Saresti ritornato da me?” chiese con evidente
pena. “Se lui non si fosse fatto vivo? Saresti tornato?”

Julian rimase in silenzio, studiandolo per qualche minuto. “L’ultima volta
che ci siamo visti mi hai detto di starti lontano,” gli ricordò infine. “Non
era un mio diritto farmi vivo per implorarti di riprendermi.”

Cameron gli rivolse uno sguardo ottuso.

“Ma adesso?” continuò Julian calmo. “Non mi importa se ne ho il diritto o
meno. Spero che una volta passata la rabbia, tu desideri nuovamente
avermi accanto.”

Cameron si lasciò andare a un respiro tremante, si passò le mani sul
viso, per poi lasciarle cadere, tornando a fissarlo negli occhi. “E quanto
tempo pensi che mi occorrerà perché mi passi la rabbia? Perché ti dico
che, in questo momento, non ho idea di come affrontare la questione.”

Julian si strinse nelle spalle a disagio. “Suppongo che ci vorrà un po’,”
bofonchiò.

Lasciandosi andare a un gemito strozzato di frustrazione, Cameron si
girò e strinse i pugni. “Non sarà facile,” disse con voce roca.

“No, se sei furibondo,” convenne Julian. “No, se non riesci a perdonarmi.”

“Mi è crollato il mondo addosso quando ti ho dato per morto e mi ci è
voluto tutto questo tempo per rimettermi in sesto,” disse Cameron, con
la voce strozzata dalla rabbia e dal dolore repressi. “E adesso… Julian,
Cristo Santo.” Strizzò gli occhi e abbassò il capo, lottando per mantenere
il controllo.

Julian rimase in silenzio. Entrambi sapevano quanto sembrassero false le
parole “Mi dispiace”. Cameron era fortemente tentato di dirgli di

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andarsene, così da allontanare dalla sua vita una probabile fonte di
sofferenza. Ma sapeva che, se in quel momento lo avesse rifiutato, non
l’avrebbe mai più rivisto e quell’idea lo faceva star male.

Cameron riuscì a riscuotersi e aprì gli occhi solo per accorgersi che Julian
stava indietreggiando. Vedergli di nuovo la stessa espressione sul viso gli
spezzò ancora una volta il cuore. “Ti prego,” disse con voce roca. “Non
andare via. Non di nuovo.”

“Non sono mai andato via,” insistette Julian piano, scuotendo la testa.

Cameron lo studiò a lungo, con il cuore che gli martellava in gola, poi
annuì lentamente. Cercando di riacquistare un po’ di contegno, guardò
verso la cucina e disse: “Ho bisogno di bere. Vuoi da bere? Vado a
prendermi da bere.” E si diresse verso il bancone senza aspettare la
risposta.

“Bene,” mormorò Julian. “Bevi anche il mio, okay? Mi ricordo che è più
facile avere a che fare con te quando sei alticcio.”

Lasciandosi andare a una risatina, Cameron tirò fuori dal frigorifero
l’ultima bottiglia di vino. “Ho bisogno di maggiori quantità rispetto al
passato,” gli disse mestamente, posando la bottiglia e prendendo due
bicchieri dalla vetrinetta.

Julian rimase a osservarlo in silenzio.

Cameron riempì i due bicchieri e mise la bottiglia da parte. Poi ne spinse
uno dall’altra parte del bancone e bevve una lunga sorsata dal proprio,
prima di premerselo contro la fronte chiudendo gli occhi. Quella girandola
di emozioni era estenuante: voleva uscirne prima di esserne nuovamente
stritolato.

“E questo nuovo accento?” chiese bruscamente.

Julian sbatté le palpebre, perplesso. “Cosa, non ti piace?” rispose sulla
difensiva.

Cameron si accigliò leggermente. “A dire il vero, mi piace molto. Volevo
solo sapere da dove proviene. Se ti appartiene sul serio.”

Julian diventò tutto rosso e si schiarì la gola. “È mio. Sono nato a
Dublino,” rispose a disagio.

“Dublino, Kansas,” affermò Cameron, con appena un tocco di umorismo
amaro nella voce.

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Julian si strinse nelle spalle, con aria colpevole. “Vicino,” mormorò.

Cameron strizzò le labbra. “Uh, uhm.” Scosse la testa. “E le altre cose
che mi hai detto quella sera?”

Julian si mosse a disagio. “Ti ho mentito,” ammise. “Ti ho mentito su un
sacco di cose. Ma mai perché volessi farlo o per ferirti.”

“Che cosa dovrei credere adesso?” gli chiese Cameron chiaramente. Poi,
a sorpresa, si lasciò andare a una risata leggera. “Perché sai, qualsiasi
cosa tu mi racconti con quel tuo maledetto accento, io divento come
creta nelle tue mani.”

Julian sbatté le palpebre per la sorpresa. “Mi sei mancato,” rispose a
voce bassa, guardandolo rapito.

“Lo spero bene,” disse Cameron inarcando il sopracciglio, in attesa del
resto.

Le labbra di Julian si contrassero. “E ti amo,” aggiunse in tono
sommesso.

Cameron annuì, inclinando la testa, in attesa, anche se a quel punto
stava già sorridendo, e anche più sinceramente. Si sentiva
disgustosamente euforico, il che era terribile, visto che sapeva che in
realtà avrebbe dovuto essere ancora arrabbiato.

Julian si morse il labbro inferiore, abbassando leggermente la testa, e
continuò a fissarlo senza distogliere lo sguardo. Ci pensò su un minuto,
poi inclinò nuovamente la testa. “E mi piace il colore che hai scelto per le
pareti?” tentò speranzoso.

Cameron non poté trattenere una risata. “Sei uno stronzo, lo sai vero?”
lo accusò.

“Sì,” rispose lui, ubbidiente.

“Julian Cross, è il tuo vero nome?” gli chiese Cameron con un po’ di
paura. Non poteva immaginarselo con nessun altro nome se non Julian.

“Per lo più,” rispose lui con una smorfia. “Julian è il mio nome di
battesimo. Cross… no,” gli offrì con una scrollata di spalle contrita.

Cameron annuì sollevato. “Se Julian è il tuo vero nome, per il resto posso
farmene una ragione,” ammise esitante.

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“Lo è,” affermò l’altro speranzoso. “E forse ho bisogno di un cubetto di
ghiaccio,” aggiunse, leccandosi il labbro sanguinante.

“Non scherzare,” rispose Cameron. “Blake mi aveva avvertito che mi
sarei fatto male, è stato un impulso del momento.”

“Ti consiglio di non stringere la mano a nessuno,” borbottò Julian
seccamente. “La prima volta che ho colpito qualcuno, mi sono rotto un
dito,” aggiunse con una smorfia.

“Penso di essermelo evitato,” disse Cameron, guardandosi la mano. Le
nocche si stavano già scurendo per le contusioni. Sospirò e si bloccò,
solo per guardare Julian, e perdersi in lui. “Non riuscivo a smettere di
pensarti,” ammise in tono sommesso, la maggior parte delle emozioni
ostili ormai dileguate. “Ogni cosa che ho fatto, ogni cambiamento mi
domandavo… cosa ne avresti pensato?”

Julian rimase in silenzio, guardandolo attraverso il bancone della cucina.
Infine, si allungò e gli prese il mento tra le mani. “L’unica cosa che conta
sei tu,” dichiarò. “Mi basta sapere che sei felice.”

Cameron ebbe difficoltà a respirare quando le dita di Julian gli sfiorarono
la pelle. Cameron si allungò per afferrargli il polso, in modo da non farlo
allontanare.

“Mi puoi perdonare?” chiese Julian preoccupato.

Le spalle di Cameron si curvarono e la sua mano gli strinse più forte il
polso. “Forse,” sussurrò onestamente. “Non lo so, Julian. Fa ancora tanto
male. Ho voglia di essere ancora arrabbiato.”

Julian si lasciò sfuggire un respiro represso e annuì. “Posso conviverci
per ora,” sussurrò incerto, con una mistura di sollievo e chiara sofferenza
nella voce.

Il cuore di Cameron batteva forte, mentre con gli occhi lo osservava
intensamente per la prima volta dopo molto tempo. Sembrava stanco e
preoccupato, spossato e completamente esaurito. I suoi occhi non erano
le stesse schegge di pura ossidiana che lui ricordava nei suoi sogni. Si
rese conto che, per tutto quel tempo, Julian doveva aver sempre vissuto
sul filo del rasoio.

“Non ti sei preso cura di te stesso,” lo accusò in tono sommesso.

“No,” convenne Julian impenitente. “Avevi ragione. Ho bisogno di

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qualcuno che lo faccia per me.”

Cameron si leccò le labbra lentamente, con la fronte aggrottata. Lo
guardò, sentendosi già colpevole per il labbro spaccato che gli aveva
procurato. “Di cosa hai bisogno?” gli chiese a bassa voce.

Julian ficcò la mano nella tasca dei jeans e ne estrasse un flacone di
pillole. “Ho bisogno di un bicchiere di acqua,” rispose desolatamente.

“Okay,” disse Cameron e, cercando di non fargli notare quanto fosse
divertito, si girò a riempire un bicchiere.

Julian lo prese e borbottò un ringraziamento. Ingoiò le pillole di colpo e
poi bevve il resto dell’acqua. Non lo guardò più negli occhi, fino a quando
non gli restituì il bicchiere.

Cameron lo prese, osservando il volto arrossato di Julian. “Ne vuoi
ancora?” gli chiese piano, allungandosi a lisciargli i capelli arruffati
intorno alle orecchie.

Julian negò con un cenno della testa. “Come stai?” gli chiese. “A parte il
fatto che sei arrabbiato?”

Cameron sospirò, senza sapere cosa dire. “Male,” mormorò. Si voltò,
sollevando la camicia per mostrare un vivido ematoma nero, che andava
dalla spalla al gomito.

Julian si corrucciò, guardandolo confuso. “Come te lo sei fatto?” gli
domandò piano.

“Quando mi sono rovesciato da quella maledetta sedia,” disse Cameron,
ispezionando con cura i lividi che stavano iniziando a svanire.

Julian allungò la mano buona, sfiorandolo gentilmente con le dita sul
braccio. “Mi dispiace che ti sia ferito,” mormorò.

Cameron diventò sempre più cupo mentre guardava quegli occhi
indecifrabili. “Hai mai avuto intenzione di ucciderlo veramente?” chiese
incuriosito.

Julian sorrise tristemente. “Sì,” rispose. “Erano cinque anni che cercavo
di ucciderlo,” ammise. “C’era un motivo per cui non mi era mai riuscito
prima.”

Cameron capì e sapeva da che parte cominciare. Si mordicchiò un labbro
e curvò le dita delicatamente intorno al polso di Julian, permettendosi di

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toccarlo come non aveva mai neanche sognato di poter fare di nuovo.
“Blake mi ha detto che voi… stavate insieme, una volta,” azzardò
esitante.

Julian scattò per la sorpresa, poi chiuse gli occhi e scosse la testa. “No,”
rispose piano. “Non era così. Amavo quel bastardo come un fratello,”
disse con voce dura. “Ma diventò sempre più sconsiderato, mettendoci
tutti in pericolo. Non potevo permetterglielo.”

Cameron gli lasciò andare il polso e iniziò ad allontanarsi dalla cucina.
“Fa male perdere qualcuno che si ama,” sussurrò, girandosi a guardarlo.

Julian annuì, seguendolo con gli occhi mentre si muoveva. “Mi ha fatto
più male quando ho perso te,” sussurrò all’improvviso.

Cameron ponderò a lungo la questione, in lotta con se stesso. Voleva
avvolgere le braccia attorno all’altro e lasciarsi andare al conforto che gli
poteva offrire, come era stato in passato. Ma aver pronunciato il nome di
Lancaster gli ricordò che voleva anche delle risposte. “Perché mi hai dato
la catenina con il ciondolo?” chiese a bassa voce. “Avevi detto che per te
aveva un significato, ma non me lo hai mai spiegato.”

Julian trasalì e fece un passo indietro, a testa bassa e occhi chiusi.
“Aveva un significato,” mormorò in risposta. “Era speciale per me. Era un
simbolo di protezione, di fratellanza e lealtà. Era il simbolo dell’unico tipo
di amore che conoscevo prima di incontrare te,” disse in fretta,
guardandolo con tristezza. “L’unico momento in cui potevo guardarla,
senza ricordarmi quanto fossi adirato, era quando te la vedevo addosso.”

“Ti ha tradito,” disse Cameron in tono sommesso. Sollevò lo sguardo
verso di lui, con il volto addolorato. “Ti ho tradito anch’io.”

Julian incrociò brevemente i suoi occhi, prima che un brivido lo
percorresse. Distolse lo sguardo, senza dargli una risposta.

Cameron si morse il labbro. “Non c’è più,” sussurrò.

“Cosa?” chiese Julian con voce roca, girando di nuovo la testa.

“La catenina con il ciondolo.”

Julian inclinò la testa, la fronte aggrottata mentre allungava la mano
sana, facendo scivolare le dita sotto il colletto della camicia di Cameron.
“Bene,” disse infine bruscamente.

Cameron tirò su il mento per la sorpresa. “Bene?”

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Julian annuì, senza dire una parola, la mascella ostinatamente contratta.
“Bene,” ripeté sfiorandogli con le dita un lato del collo e accarezzandogli
con il pollice la parte superiore della clavicola. “Una cosa in meno in
sospeso tra di noi,” proseguì, guardandolo fisso.

Cameron, scrutando dentro quegli occhi, si perse nuovamente in un
mare di emozioni: sapeva che se non si fosse tirato indietro in quel
momento, sarebbe stato perso per sempre. Fece un passo indietro,
allontanandosi da quella mano.

Julian rimase dov’era, guardandolo in silenzio. “Amarsi non è sufficiente,
vero?” chiese, con voce piatta e senza vita.

Quando Cameron lo guardò, non poté evitare di mostrare la sofferenza
nei suoi occhi. “Ho paura che sia troppo difficile,” disse con voce rotta. “Il
pericolo è ancora in agguato, no? Per entrambi. Che cosa farei se ti
dovessi perdere di nuovo?”

“Allora, starai nuovamente male,” rispose Julian, senza mezzi termini. “E
alla fine imparerai ad andare avanti, come ti è successo la prima volta.”

Cameron deglutì con difficoltà. Aveva un nodo alla gola. “Non voglio che
accada,” sussurrò, fissandolo negli occhi.

Julian inclinò la testa da un lato, strizzando le labbra mentre meditava
sulla sua risposta. “In passato, ti ho perso perché ti ho mentito,”
sottolineò. “Non posso prometterti che non succederà di nuovo, che
staremo sempre insieme, al sicuro, ma…” continuò impotente, scuotendo
la testa. “Sei stato tu a dire che puoi venire investito da una macchina
mentre vai a fare la spesa.”

Cameron annuì lentamente, passandogli le braccia intorno alla vita.
“Preferisco essere spaventato stando insieme a te, piuttosto che da solo.
È stato terrificante essere impaurito quando sapevo che avrei potuto
essere con te.”

Julian assentì con solennità, poi gli cinse le spalle con il braccio sano e lo
attirò a sé. E quando Cameron ricambiò il suo abbraccio, gli appoggiò il
mento sulla testa. “Ho scoperto che avere qualcuno che ti guarda le
spalle aiuta ad affrontare le paure,” aggiunse piano.

“Sì,” sussurrò Cameron. Chiuse gli occhi e girò la testa, premendo
l’orecchio contro il petto di Julian, in modo da poterne sentire l’eco del
cuore, che batteva furiosamente.

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“Ancor meglio se ha un fucile da cecchino,” non poté fare a meno di
aggiungere l’altro.

Cameron sbuffò e scosse la testa. Poi la piegò all’indietro. “Julian, visto
che sei…morto… continuerai a fare… questo lavoro?”

Julian inalò profondamente, facendo un passo indietro, poi sollevò il
mento per guardare dritto davanti a sé. “Non sono più motivato,” rispose
infine. “A ogni modo, il gioco è cambiato,” mormorò, abbassando la testa
per guardarlo in volto.

“Cambiato?” ripeté Cameron.

“Non c’è più onore,” rispose Julian, quasi imbarazzato per quello che
aveva appena detto.

Cameron sorrise lievemente. “Lo sapevo che c’era un cavaliere bianco
nascosto sotto quella corazza nera,” lo prese in giro gentilmente.

“Non illuderti, adesso,” lo avvertì l’altro, arrossendo.

Cameron sorrise, alzandosi sulle punte per baciarlo dolcemente.

Julian si tese contro di lui e aprì le labbra per assecondare il bacio.
“Questo significa che ho un’altra possibilità?” gli chiese senza fiato.

“Sì,” sussurrò Cameron tra i baci.

Julian per il sollievo gli si afflosciò quasi contro e lo strinse a sé con
ardore. “Resterai con me?” chiese incerto.

“E tu cercherai di non morire di nuovo, per favore?” gli domandò
Cameron contro il petto.

Julian sospirò, tornando a posare il mento sulla sua testa. “Se è questo
che pretendi, mi dispiace ma non posso assicurartelo,” disse
ironicamente. “Ma prometto di tentare con tutte le mie forze,” aggiunse
seriamente.

“Questo è ciò che mi importa,” disse Cameron. Chiuse gli occhi e inspirò
profondamente. “Ti amo, Julian. Lo so di aver distrutto entrambi i nostri
cuori quando ho rotto con te. Ma non ho mai smesso di amarti.”

Julian annuì, con tristezza. Improvvisamente i suoi occhi scuri si
illuminarono e sul volto gli si aprì un sorriso. “Sei mai stato in Irlanda?”
chiese con una punta di malizia nella voce.

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“Irlanda?” rispose Cameron, guardandolo sorpreso per quella domanda
assurda. “Non sono mai stato fuori dal Midwest, figuriamoci all’estero.”

“Oh, rimedieremo anche a questo,” gli promise Julian, cingendolo con un
braccio e cercando di liberare l’altro dal tutore.

Corrucciandosi, Cameron tentò di rannicchiarsi contro di lui. “Non farti
del male,” lo ammonì. “Allora, vuoi portarmi in Irlanda?” gli chiese,
titubante.

Julian finalmente riuscì a liberarsi dal tutore e prese il volto di Cameron
tra le mani, incurante del dolore che il movimento doveva causargli.
“Voglio portarti ovunque tu voglia andare,” gli disse in tono sommesso,
prima di prendere possesso delle sue labbra.

Cameron si sentiva in preda alle vertigini, quando finalmente Julian gli
permise di riprendere fiato. “Fino a quando sarò con te, non mi
interessa,” mormorò, sfiorandogli le guance con le mani.

“Ti amo Cameron,” gli disse Julian con voce roca, tenendolo ben stretto a
sé. “Ti prego, non dubitarne mai più.”

Cameron inclinò la testa all’indietro e, incrociando gli occhi del suo uomo,
sussurrò: “Te lo prometto.”

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Authors

MADELEINE URBAN si è dedicata al genere M/M romance dal 2007. Ha
smesso di scrivere nel novembre del 2011.

ABIGAIL ROUX è nata e cresciuta nel North Carolina. Ha un passato da
pallavolista ed è specializzata in sarcasmo e scivoloni spettacolari; passa
il tempo ad allenare una squadra di pallavolo delle superiori, già
spaventata al pensiero di quando la figlia raggiungerà quell’età.

Abigail ha una bambina, che chiama Boomer, quattro gatti adottati, un
cane, una folle famiglia estesa e un cast di migliaia di personaggi in
testa.

Altri titoli di Madeleine Urban & Abigail Roux…

http://www.dreamspinnerpress.com


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