Banana Yoshimoto Sly


BANANA YOSHIMOTO.
Sly.

Titolo dell'opera originale: SLY.
Traduzione dal giapponese di ALESSANDRO GIOVANNI GEREVINI.

Avvertenza.

Per la trascrizione dei nomi giapponesi Š stato adottato il sistema Hepburn,
secondo il quale le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti
come in inglese. Si noti inoltre che:
ch Š un'affricata come la c nell'italiano cesto;
g Š sempre velare come in gatto;
h Š sempre aspirata;
j Š un'affricata come la g nell'italiano gioco;
s Š sorda come in sasso;
sh Š una fricativa come sc nell'italiano scelta;
w va pronunciata come una u molto rapida;
y Š consonantico e si pronuncia come la i italiana.
Il segno diacritico sulle vocali indica l'allungamento delle stesse.
Seguendo l'uso giapponese, il cognome precede sempre il nome (fa qui
eccezione il nome dell'autrice).
Per la traslitterazione dei sostantivi arabi Š stato seguito il Sistema Inter-
nazionale; per quella dei toponimi egiziani, invece, la grafia convenzionale
in uso in Italia.




SUGGESTIONI, UNA BELLA ALBA GIAPPONESE.

Ricordo stranamente bene quel pomeriggio. Il giorno
dopo la festa a casa di Takashi.
Il tempo era sereno e dalla finestra si vedevano il cielo
azzurro e la luce. In un soggiorno, buio rispetto all'ester-
no, qualcosa era nato tra di noi segnando nello stesso
istante l'inizio e la fine di un periodo.
Ricordo bene che anche se partecipavo alla conversa-
zione, il mio animo errava e fissava i raggi del sole che
danzavano al di l della finestra della cucina nello stesso
modo in cui si osservano degli esseri animati.
Questa Š la storia da me vissuta di un viaggio durato una
decina di giorni soltanto. Un viaggio che, proprio come mi
aspettavo, non aveva portato alla conclusione di niente e
non aveva goduto di slanci particolari. Io e i miei compagni
avevamo semplicemente vagato da un posto all'altro trasci-
nati dalla bellezza del panorama. Senza mete n‚ speranze.
C'erano stati, comunque, anche istanti in cui avevo percepi-
to la presenza di qualcosa di bello, di straordinario. Questo
Š il breve racconto in cui parlo di ci• che Š accaduto.
Quella notte, a casa di Takashi, c'era stato un continuo
andirivieni, una quindicina di persone in tutto. Per lo pi
gente che non vedevo da quasi cinque anni. Avevo mangia-
to e bevuto di tutto e, brilla dopo tanto tempo, avevo pas-
sato la notte senza dormire.
Verso l'alba erano andati tutti a casa, eravamo rimasti
solo io che lavavo i piatti e mettevo in ordine, e Hideo che
aveva cucinato l'intero menu della serata. Tutto indaffara-
to a distribuire gli avanzi a quelli che tornavano a casa per-
ch‚ li mangiassero il giorno dopo.
Quella sera la ragazza di Takashi, Mimi, non era rien-
trata a casa, con mia grande sorpresa. Infatti quella era la
festa d'inaugurazione della vecchia casa in puro stile giap-
ponese dove avevano traslocato il mese prima, cosć mi ave-
vano detto.
A questo punto vorrei parlare dei rapporti che legavano
me e Hideo a Takashi.
Io ero stata la sua prima ragazza-donna. Nel senso che
lui, in origine, era uno di quelli cui piacciono soltanto gli
uomini. Mi ero messa con lui a diciassette anni, pi o me-
no dieci anni prima. Avevamo vissuto insieme a lungo e
poi ci eravamo lasciati.
Anche Hideo era stato con Takashi, che aveva cono-
sciuto quando gli aveva arredato l'interno del negozio che
gestiva. Takashi, per•, l'aveva lasciato dopo essersi seria-
mente innamorato della seconda donna della sua vita, la
pittrice Mimi, con cui ora viveva. La cosa risaliva a tre anni
prima, se non sbaglio.
Io, Hideo e Mimi, forse perch‚ avevamo tutti e tre uno
splendido carattere, forse perch‚ eravamo egoisti e ce ne
infischiavamo di tutto all'infuori di quello che avevamo
davanti agli occhi, forse perch‚ avevamo pi o meno la
stessa et e facevamo dei lavori simili, o forse ancora per-
ch‚ avevamo instaurato ci• che si pu• definire una vera
amicizia, avevamo un ottimo rapporto e ci frequentavamo
normalmente.
Con questo non voglio dire che nel profondo non aves-
simo mai avuto momenti di confusione; il tempo per• ave-
va risolto ogni cosa. Senza quasi rendercene conto ci erano
restati soltanto la gioia di avere incontrato persone affini e
il piacere di un confronto sincero.
Mentre lavavo i piatti e li rimettevo al loro posto, avevo
chiesto a Takashi un'infinit di volte: "E Mimi, che fine ha
fatto?". La domanda era diretta, eppure lui aveva conti-
nuato a rispondermi in modo vago: "Dovrebbe tornare,
credo," oppure: "Non so, dormir in atelier".
Ciononostante io e Hideo ne avevamo parlato alle sue
spalle ed eravamo giunti a una conclusione: "Avranno si-
curamente litigato!".
Quando finimmo di riordinare tutto, il cielo a levante
cominciava a schiarirsi.
"Usciamo in giardino e ci mangiamo la gelatina di fra-
gole che ho dimenticato di tirare fuori ieri sera?" aveva
proposto Hideo; li avevo preceduti e, in un primo tempo
sola, mi ero sdraiata sull'erba fredda a osservare i colori
dolci del cielo.
Nel giardino della casa c'era un albero della canfora e il
mattino, passando attraverso le cascate di rami flessi e il
verde delle fronde fitte, era arrivato all'improvviso con
una vitalit incredibile insieme alla luce e al vento. Con del
rosa, del blu chiaro e dell'oro. Per me, la combinazione di
colori pi intrisa di speranza su questa terra.
Faccio la disegnatrice di gioielli.
Nel mio lavoro spesso mi capita di creare oggetti che
abbiano come tema l'alba. Con varie pietre e metalli,
oro, tormaline rosa, ametiste e topazi blu, cerco di espri-
mere quella sensazione di speranza. Eppure, nella realt
l'alba Š talmente prepotente, immensa e ricca di colori
dolci e delicati che i miei flebili sforzi finiscono col di-
ventare penosi.
Takashi mi aveva raggiunto e si era seduto vicino a me,
poi era arrivato Hideo con una terrina intatta di gelatina.
Dimenticata nel frigorifero, si era ghiacciata per met;
dentro aveva delle fragole intere ed era trasparente. Con
quel suo aspetto algido, era il cibo pi adatto per quel
momento. In silenzio, seduti uno di fianco all'altro, man-
giavamo la gelatina e bevevamo passandoci una bottiglia
di champagne avanzato, osservando il cielo di Tokyo
schiarirsi.
I raggi di luce mattutina che colpivano le guance bian-
che di Hideo, la forma affusolata delle dita delle mani virili
di Takashi che sbucavano dai polsini, la percezione della
rugiada che dalla terra morbida sotto l'erba saliva per la
schiena, la brezza piacevole che se fosse stata appena pi
fresca sarebbe diventata fredda: tutto era troppo perfetto,
tanto che all'improvviso mi ero commossa.
I miei amici, senza fare commenti sulle mie lacrime
guardavano il cielo e gli alberi con uguale sentimento.
Sino ad allora, molte, moltissime volte avevo creduto
che non fosse possibile vivere istanti pi appaganti di quel-
lo presente.
Una situazione nella quale convivevano due sensazioni:
una che il mondo fosse una costruzione di legno duro, du-
rissimo, l'altra che fosse un fiore profumato che cambia in
continuazione la sua forma delicata...
Poi il cielo si era rischiarato in maniera uniforme, e
una banale mattina aveva fatto la sua comparsa. A noi era
venuto sonno, ma troppo stanchi per tornare alle rispetti-
ve case, avevamo ottenuto da Takashi il permesso di sten-
dere dei futon nella camera degli ospiti e ci eravamo ad-
dormentati.
Al risveglio, il cielo era di un blu intenso che ricordava
quello dell'alba. Lo stato di ebbrezza si era affievolito co-
me un profumo che lascia la sua traccia, eppure impregna-
va ancora ampiamente il mio corpo. Nel futon vicino al
mio, Hideo dormiva ancora, cosć mi ero alzata ed ero an-
data a farmi una doccia. Da molto tempo non passavo la
notte fuori casa. Avevo l'impressione di essere tornata ai
tempi della scuola, quando stavo con Takashi.
Mimi non era ancora rientrata, almeno cosć sembrava.
Finita la doccia, mentre mi rivestivo, avevo sentito delle
voci. "Ah, Š tornata!" Uscita dal bagno, mi ero diretta ver-
so il soggiorno.
Non vi avevo trovato Mimi, bensć Takashi e Hideo se-
rissimi in viso. Le loro espressioni erano talmente cupe
che, percependo l'impossibilit di intromettermi nelle tin-
te forti di quell'atmosfera, avevo chiesto senza esitare:
"Preferite che me ne vada?".
"Senti, Kiyose," mi aveva detto Hideo. "Vieni qui, devi
sapere anche tu."
"Se Š un problema tra di voi, io non voglio immischiar-
mi," avevo risposto, ma lui aveva chiarito:
"Non Š come pensi!".
"Non Š cosć grave," si era intromesso Takashi.
"Cos'Š? Riguarda Mimi?"
"Anche."
Grazie alla mia presenza, Hideo sembrava essersi ri-
preso un poco. Non riuscivo a credere che fosse lo stesso
che, fino a qualche minuto prima, dormiva profonda-
mente. Le cose si erano messe male tutt'a un tratto, nel
tempo di una doccia. Avevo pensato che dipendesse da
una qualche storia tirata fuori ancora sotto l'effetto
dell'alcol o di chiss che cosa, e cosć ero entrata in sog-
giorno tranquilla.
"Prendete un caffŠ?" avevo chiesto e l'avevo preparato.
Un aroma intenso, di quelli che risvegliano le cellule, si
era diffuso nell'ambiente. Il davanzale della finestra della
cucina era inondato di luce. A chiudere gli occhi le palpe-
bre s'infuocavano.
"Mmm, ottimo," aveva esclamato Hideo bevendo il
caffŠ, ormai di buon umore. Poi aveva aggiunto:
"Sai, Takashi mi ha detto di essere sieropositivo".
In quell'istante l'atmosfera della stanza mut•. Un fluire
straripante di emozioni aveva trasformato con forza l'aria.
Ringraziai il cielo di essere riuscita a non dire nulla di
strano sotto il peso di tanta oppressione.
"Ah sć?" Poi avevo proposto con voce tremante:
"Mettiamo un po' di musica!"
Takashi aveva sorriso, si era alzato ed era andato verso
lo stereo. Dopo di che la musica inizi•.


Vagabondo, volgo le spalle al mare
torno a casa, tutti ne hanno una
errando, vagando
vado dove posso fare quello che mi pare.
Anche se sembra che siano passati mille anni
sono ringiovanito di molto
come se il mondo fosse diventato la mia dimora
conosco ogni persona che incontro
riconosco il suono di una campana
sentita in una melodia eseguita ormai pi di mille anni fa...


In quel momento di silenzio, tutti e tre ancora un po'
brilli, avevamo ascoltato la musica con una strana atten-
zione.
Prima di tornare in me, ero fuggita da tutto e per qual-
che attimo avevo vagato in un altro mondo.
Takashi batteva il tempo con gli occhi chiusi.
Mi spaventava il pensiero che in quel corpo ci fosse il
virus. All'apparenza era davvero impossibile immagi-
narlo...
"E' per questo che Mimi non c'Š?"
Avevo aperto bocca all'improvviso, rompendo il silenzio.
Per qualche istante eravamo stati conquistati dalla forza
della musica nonch‚ dalle sue pause: eravamo calmi.
"Fino a che non si sapr il risultato dell'esame, ha detto
che dorme in atelier," aveva risposto Hideo.
"Che donna forte!"
Mimi era la persona pi risoluta che conoscessi. Agiva
sempre dando priorit assoluta a se stessa. Mi chiedevo
che diavolo di conversazione fosse la nostra. Era come se
si stessero parlando solo le superfici dei nostri corpi. Nel
profondo non ne eravamo affatto convinti.
"Non vi siete lasciati, vero?" aveva chiesto Hideo.
"Abbiamo pensato di stare separati per riflettere meglio
sulla situazione fino a quando si conoscer l'esito. Comun-
que, in questo periodo sia io che lei riusciamo a pensare
soltanto a noi stessi," aveva risposto Takashi. "Dovreste
farlo anche voi due, l'esame. Non si sa mai."
"Ti prego, smettila! E' da anni che tra noi non c'Š pi
niente," avevo detto io.
"Sć, per•, visto che non so quando sono stato contagia-
to, Š bene che tu lo faccia," aveva replicato lui. Dell'Aids
avevo solo una conoscenza approssimativa, in pratica non
ne sapevo niente.
"E io, Š bene che lo faccia?"
"E' evidente!"
"Certo ! "
"Ci andiamo insieme?" mi aveva chiesto Hideo.
"Va bene, andiamoci insieme."
"Io credo di avere pi probabilit di te di risultare sie-
ropositivo."
"Le probabilit sono sicuramente le stesse. In ogni ca-
so, dobbiamo farlo. Quando andiamo?"
"Decidi tu."
"Se facciamo la settimana prossima, sono libera."
Mentre, con le agende in mano, pensavamo in silenzio
al giorno fatidico, Takashi, con nostra grande sorpresa, era
scoppiato a piangere. Non era da lui piangere davanti agli
altri. In questo modo mi aveva trasmesso il peso di quanto
portava dentro. E il mio cuore si era riempito di lui, non
esagero. Takashi, Takashi, Takashi... avevo ripetuto quel
nome dentro di me decine e decine di volte, senza per•
elaborare alcun pensiero.
"Certo che voi due non cambiate mai! "
Aveva cominciato a singhiozzare come un bambino, noi
ci eravamo avvicinati e gli avevamo stretto le mani.
"Non ti preoccupare, staremo insieme fino alla fine,"
aveva detto Hideo.
Mi ero chiesta se non fosse stato troppo esplicito, ma
non avevo detto nulla, perch‚ mi ero commossa a vederlo
passarsi la mano di Takashi sulla guancia dove era spunta-
ta un po' di barba.
"Quando si muore si Š sempre soli e la morte tocca a
tutti, senza eccezioni," aveva proseguito.
Ai tempi delle medie Hideo aveva perso i genitori e i
fratelli in un incendio. Mi aveva raccontato che quella not-
te era rimasto a dormire a casa di amici.
Qualsiasi cosa venisse spontanea dal suo animo, per
quanto scontata, non suonava mai falsa ed era gradevole a
sentirsi.
"Non Š ancora conclamata la malattia, vero?" avevo
chiesto.
Takashi aveva scosso la testa piangendo in grembo a
Hideo.
"Sai che si possono allungare i tempi, vero? Se tutto va
bene anche per decine di anni," aveva aggiunto.
Chiss se anche nel mio corpo si stava verificando lo
stesso fenomeno.
Non avevo nessuna certezza.
In origine, nella mia coscienza la capacit di oppormi
alle cose era molto debole; anche quella volta. In momenti
come quello, pi che in altri, vivevo la realt in modo rilas-
sato, muovendomi con una certa disinvoltura, pi o meno
alla velocit del battito delle palpebre, cercando di abi-
tuarmi alla nuova situazione. Guardavo le gerbere disposte
nel vaso sul tavolo dove la sera prima c'erano i piatti di
portata, pensando che avessero un colore incredibile.
Un colore vivo, che so, come un frutto, come un insetto.
Se avessi dovuto paragonare il periodo trascorso con
Takashi a un colore, avrei usato quello: delicato, violento.
Non avrei cambiato nulla di quei momenti durante i quali
la sua personalit mi aveva regalato tanta gioia.
"Non siete arrabbiati?" ci aveva chiesto dopo aver fi-
nalmente smesso di piangere.
"Perch‚? Anche se mi avessi contagiata, la nostra non Š
stata una storia tale da pensare che sarebbe stato meglio
non averti mai incontrato. Un altro forse lo odierei, non te.
Se anche dovessero chiedermelo sotto ipnosi, credo che
non darei mai una risposta del genere."
"Nemmeno io. E comunque in qualsiasi momento do-
vessi andarmene, dall'altra parte troverei la mia famiglia ad
accogliermi," aveva detto Hideo. Poi si era rivolto a me in
cerca di consenso:
"Che cosa si risolve ad arrabbiarsi? No?".
"Ben detto!"
Gi di mio ero una persona che non provava emozioni
violente, con Hideo poi, trasportata dalla sua imperturba-
bilit di gran lunga superiore alla mia, prendevo le cose
con una tranquillit ancora maggiore.
Analizzando la nostra amicizia, il senso del nostro lega-
me stava proprio in questo.
Takashi era un'altra cosa, Takashi era il mio fiore del-
l'adolescenza, la luce, un triste ricordo, ineluttabile, il pi
violento. Ormai non c'era pi amore, nei suoi confronti
non provavo niente di diverso da quello che avrei sentito
per un'amica, eppure al solo pensiero di me in quel perio-
do, nel cuore rinasceva qualcosa di vitale. Lui per me era
un ricordo, una passione, una persona simile a un cristallo
al cui interno Š racchiuso un bellissimo minerale di nome
"Passato".
Pertanto, non riuscivo a credere che in un solo colpo le
probabilit che lui sparisse da questa terra prima di me
fossero aumentate e avvertii una profonda tristezza.
"Ci pensiamo un'altra volta," aveva detto Hideo.
"Sć, adesso siamo confusi," avevo commentato. Lui ave-
va annuito in silenzio.
Ero andata a preparare un'altra volta il caffŠ e Hideo a
mettere un nuovo CD. Tutti, in silenzio, ascoltavamo la mu-
sica e leggevamo delle riviste sdraiati per terra, spiluccan-
do gli avanzi se ci veniva fame, o bevendo tŠ o caffŠ.
Come se nulla fosse successo.
Non so perch‚, ma fu un pomeriggio assai significativo.






IL TEST, LA SETE DI NATURA, LA TELEFONATA
IN PIENA NOTTE.

Hideo e io ci demmo appuntamento davanti all'ospeda-
le K.
Dopo di che, sbrigate le procedure all'accettazione, ci
fecero il prelievo del sangue.
"Se fossi stato solo, chiss che paura avrei avuto!" ave-
va detto commosso, ma un istante dopo aveva scritto sulla
richiesta d'esame "Hosoya Takashi": con una gran faccia
tosta se l'era fatto fare con il nome e l'indirizzo di Takashi.
Una cattiveria da vera checca.
Io naturalmente avevo compilato il tutto con nome e in-
dirizzo giusti. La carta d'identit per• non serviva e cosć
non l'avevo esibita.
L'esito si sarebbe saputo due settimane dopo; ci dissero
che l'avrebbero comunicato esclusivamente a voce e al di-
retto interessato, e che non sarebbe mai stato reso noto in
caso di smarrimento della ricevuta.
"Vuoi che te la tenga io, cosć non la perdi?" mi chiese
Hideo. Credetti che lo facesse non per gentilezza, ma
esclusivamente perch‚ aveva paura di andare a sentire il ri-
sultato da solo, e cosć rifiutai.
"Ma se quando siamo andati alle terme insieme tu che
avevi i biglietti di tutti ti sei dimenticato di portarli," gli ri-
cordai. E lui controbatt‚:
"Sono due cose diverse!".
Non appena uscimmo, l'atmosfera pesante dell'ospeda-
le si dissolse. Il cielo era di un azzurro abbagliante, mi vol-
tai e vidi l'edificio svettare altissimo, tanto da schiacciare
quelli circostanti.
"In un giorno cosć bello, non posso credere che lć den-
tro ci siano solo ammalati," disse Hideo.
"Non mi andrebbe proprio di doverci venire periodica-
mente," aggiunsi.
Quando si sta male, non Š poi cosć dura stare in ospe-
dale. Lo so perch‚ qualche volta sono stata ricoverata, an-
che se per piccole cose. Quando si sta bene poi non si rie-
sce pi a starci, Š una cosa epidermica. Spirito e corpo, gli
esseri umani sono fatti davvero bene.
Pranzammo da PR, un ristorante nelle vicinanze.
All'apparenza Hideo non sembrava affatto preoccupa-
to, mangiava un hamburger enorme facendo gocciolare il
sugo della carne.
"Qui gli h mburger sono eccezionali!" disse.
Avevo seguito il suo consiglio e avevo preso anch'io un
cheeseburger; cosć, lottando con il condimento che colava,
gli chiesi:
"Come mai conosci questo posto? E' cosć lontano da ca-
sa tua".
"Perch‚ venivo ad assistere un amico. Questo ospedale
Š famoso per essersi occupato di Aids sin dai primi tempi.
Sai, per noi le probabilit sono molto alte. Certo, all'uffi-
cio d'igiene sarebbe gratis, ma se pensi all'eventuale assi-
stenza di cui potresti avere bisogno dopo, Š meglio rivol-
gersi a un ospedale. Pensa che per un certo periodo, anzi-
ch‚ dire che si andava a fare il test, si diceva: 'Vado a farmi
un hamburger!"'
"E il tuo amico che fine ha fatto?"
"E' morto."
Volenti o nolenti, non c'Š dubbio che vi siano persone
che hanno molte probabilit di scontrarsi con la morte al-
trui. Hideo era una di quelle. Non so perch‚, comunque,
se dovessi morire, mi piacerebbe avere vicino un tipo tran-
quillo come lui. Per loro quella Š una sorta di missione, co-
me se fossero degli angeli.
Strano, ma la sensazione di rassegnazione che si sprigio-
nava da lui, il colore dei suoi occhi che erano stati costretti
a vedere cose enormi e ineluttabili, non mi suscitava nessu-
na disperazione. Quando ero con lui, a volte mi sembrava
di percepire l'eternit, come quando tra le rovine antiche
si sente il vocćo delle civilt passate.
"Immagino tu abbia molto da fare al lavoro. Decidiamo
il giorno in cui venire a sentire l'esito?" gli chiesi. Lui sus-
surr• un "va bene" e, con il contorno della bocca ancora
sporco, tir• fuori l'agenda e cominci• a sfogliarla. Quella
vista mi trasmise una sensazione di grande vitalit.
Quando facevo la scuola media, avevo lavorato part-time
in un ospizio per malati terminali in mezzo alle montagne.
Conoscevo un bambino delle elementari che era morto
di cancro al polmone. Mi aveva detto: "Per me adesso la
persona pi comoda Š la mia sorellina, che litiga con me
anche se sono ammalato". Poi, con tono da adulto, aveva
aggiunto: "Sapessi quanti problemi ho!".
Luso della parola "comoda" era sbagliato, eppure ave-
va impresso nella mia mente il senso di quello che voleva
dire pi che se ne avesse usata una appropriata.
L'aveva detto mentre mangiava dei biscotti fatti in casa
che gli avevo portato io. Il movimento incessante da
scoiattolo della sua bocca, le briciole sulle labbra e sulle
lenzuola.
Quello significava essere vivi, avevo pensato. Con la
stessa bocca con cui il giorno prima aveva ingerito potenti
antidolorifici ora stava mangiando dei biscottini.
"Le cose belle, brutte, commoventi o insignificanti, tut-
te le cose, esistono nello stesso istante e il giorno dopo as-
sumono una forma differente. Noi puntiamo la luce su ci•
che vogliamo vedere, entriamo in quello spirito e ci avvia-
mo verso quel punto."
Cosć avevo pensato.
Da quella volta, quando vedo qualcuno con la bocca
sporca di cibo, di riflesso mi capita di meditare sulla vita e
sulla morte.
"Avr• dimenticato di fare qualcosa?" pensai mentre an-
davo da Takashi. Mi aveva chiamata.
Giunta a Tokyo a diciassette anni, avevo studiato design
in un istituto d'arte. Mi interessavano i gioielli e cosć in un
primo tempo avevo lavorato come disegnatrice per una
grande azienda. Per•, facendo sempre gli stessi disegni su
commissione, mi ero resa conto che cominciavo a intuire
qualcosa di pi.
Sentivo che le pietre conoscevano gi la forma che
avrebbero assunto. Che facendo dei modelli contrari alla
loro indole, avrebbero perso la forza vitale.
Sin da piccola avevo la passione per l'archeologia, mi
interessavano soprattutto i tesori egizi rinvenuti nelle tom-
be. Cosć mi era venuta voglia di fare gioielli simili, avevo
schizzato dei disegni e li avevo portati in giro a far vedere.
Ottenuto il permesso da un amico che lavorava in un labo-
ratorio con cui la mia ditta era in affari, avevo fatto di na-
scosto dei campioni con materiali poco costosi e schegge
di pietre che avevo comprato. Li facevo per amici e paren-
ti e li vendevo a chi li voleva.
Cosć facendo, avevo conquistato la stima del proprieta-
rio del negozio dove adesso vendevo i miei gioielli ed ero
riuscita a mettermi in proprio. Anche a sua moglie piaceva
l'archeologia; non appena aveva un po' di tempo andava in
giro per il mondo a visitare scavi. Io vendevo le mie cose
nella gioielleria e inoltre lavoravo su ordinazione. A volte
servivo anche i clienti in negozio. E continuavo il lavoro
part-time di disegnatrice per le aziende. Una crescita pro-
fessionale assai fortunata.
Eppure c'erano ancora moltissime cose che avrei voluto
fare.
I gioielli in vendita nel negozio erano per lo pi fragili
antichit che la signora comprava a Londra, autentiche o
rifatte che fossero, sempre di gusto r‚tro.
Certo, rispetto ai primi tempi, facevo un lavoro di
gran lunga piU stimolante, per•, dovendo seguire le indi-
cazioni del proprietario, non potevo evitare di produrre
gioielli che, seppure elaborati, non osavano pi di tanto.
Prima o poi avrei voluto dare vita solo a cose che piace-
vano a me, fare una mostra proprio come le personali
dei pittori. Progettarne da sola l'allestimento e tutto il
resto, realizzare un ambiente in cui sentire la voce delle
pietre. Dare vita a gioielli unici disegnati da me in modo
che Si addicessero ai clienti che li commissionavano, e
solo a loro.
Sć, le pietre sanno come dovrebbero essere tagliate, co-
me dovrebbero essere esposte. Il mio lavoro consiste nel
pensare con loro il loro destino. Anche i minerali sono vi-
vi, Š chiaro. E anche il platino, l'oro e l'argento portano
dentro la saggezza di sapere come manifestare la propria
vitalit.
Queste cose gli antichi le sapevano bene, meglio di noi.
Utilizzavano l'energia dei minerali per servire gli dŠi. Io,
prima di concludere questa mia vita, avrei voluto avvici-
narmi almeno un po' a quell'energia.
La luce delle stelle risplendeva nel cielo leggermente
nuvoloso, una tipica serata di primavera.
L'atmosfera era impregnata dell'alito di stagione, di
quelli magici che senza accorgersene mettono fretta, fanno
dimenticare di vestirsi pesante e accelerano tutta una serie
di cose.
I ciliegi portavano in grembo boccioli che cominciava-
no a schiudersi, cercando da un momento all'altro di libe-
rare il loro profumo in quell'aria di primavera che era un
crescendo di delicatezza e vigore.
"Chiss quante altre volte vedr• i ciliegi in fiore in que-
sta vita," pensai.
Comunque fosse andata, non doveva essere un numero
particolarmente elevato.
Poi ricordai un documentario sui malati terminali di can-
cro e l'eutanasia che avevo visto qualche giorno prima alla Tv.
Un ammalato, combattuto tra il desiderio di morire e
quello di continuare a lottare, compariva con una signora,
sua moglie. Nella loro casa c'era un giardino tranquillo,
ricco di verde. Lć la signora raccontava tutta triste: "Di so-
lito, in questo periodo dell'anno porto tutti i suoi maglioni
in tintoria, quest'anno per• non posso. Al pensiero che il
prossimo inverno non li metter pi, mi sembra di impaz-
zire".
Se l'avessi guardata col volume abbassato, la scena era
talmente tranquilla che avrei creduto si trattasse di un pro-
gramma di giardinaggio. Il verde del prato, da solo, tra-
smetteva, con la sua feroce forza vitale, la durezza di quel-
le frasi e la grave tristezza degli esseri umani che, a un cer-
to punto, finiscono volontariamente con l'arginare.
L'entrata dell'albergo era illuminatissima; arrivando dal
buio rimasi quasi abbagliata.
I lampadari brillavano in modo esagerato; lć sotto la
gente prendeva il tŠ, chiacchierava, e nonostante tutti fos-
sero impegnati nelle loro faccende, in sottofondo l'esecu-
zione di una musica tranquilla creava l'atmosfera.
Takashi era gi arrivato e stava bevendo un caffŠ.
Gli amici hanno sempre belle pose, dolci. Aspettano in
posizioni che noi conosciamo bene.
Pensai che fosse qualcosa di misterioso.
Gli occhi, in accordo con la coscienza, modificano le
immagini in un modo familiare.
"Ehi, Kiyose!" Takashi si alz• in piedi.
"Hai gi cenato?"
"No, per• non Š che abbia particolarmente fame."
"Va bene, possiamo mangiare qualcosa qui e poi andare
a bere in un locale."
"Ok! "
Percepii che stava nascendo qualcosa di severo in que-
sto pacifico mondo di stanchezza.
Qualcosa di delicato, di piccolo. Il segno di una lieve
tensione.
Qualcosa che doveva gi essere nel corpo di Takashi
anche quando c'eravamo visti la volta scorsa, ma che non
avevo percepito.
C'eravamo incontrati senza particolari entusiasmi a
Shinjuku, avevamo sorseggiato un tŠ concentrati ciascu-
no sulla propria rivista. Soltanto quando trovavamo qual-
che articolo interessante, ce lo mostravamo e ridevamo
insieme.
Dalla vetrina si vedeva la stazione dove molta gente
camminava. C'eravamo detti: "Che cosa facciamo?". "An-
diamo a mangiare un riso al curry da Haichi?" "Be' per il
curry Š meglio Nakamuraya," e cosć via.
Fondamentalmente, conoscevo l'importanza di quei
momenti banali, eppure adesso quelle giornate mi appari-
vano in lontananza offuscate, avvolte da una luce sacra.
"Le calde mani delle divinit proteggevano i bambini,
promettendo sogni eterni," avevo addirittura questa im-
pressione.
Volevo tornare indietro, non m'importava quanto noio-
so potesse risultare, non m'importava che fosse di nuovo
tutto uguale. Con urgenza, trattenendo il respiro. Con tut-
te le forze, tanto da arrivare a vomitare.
Sempre che fosse stato possibile tornare indietro.
Seduta al banco, osservavo gli scaffali: le bottiglie dalle
molteplici forme e la lunga fila di bicchieri di cristallo
splendenti abbagliavano da fare paura.
Quell'introspettivo "effetto bellezza" che mi stava do-
minando era inopportuno e, diversamente da quanto desi-
deravo, non riuscivo ad arrestarlo. Il mondo mi appariva
bello in una maniera addirittura ironica, tanto da pensare
di voler smettere di percepire le cose cosć intensamente.
"E' tornata Mimi?"
"Non ancora."
"Si sa gi il risultato dell'esame?"
"Ha detto che ci vorranno ancora due o tre giorni. Do-
vrebbe farsi viva per dirmelo."
Quando credeva di essere finalmente pronto sulla linea
di partenza per la corsa della vita con lei, tutt'a un tratto
Takashi aveva dovuto pensare a cose pi fondamentali. Si
era dovuto addirittura rendere conto che le linee di parten-
za, in effetti, non esistevano e che erano solo un espediente
degli esseri umani per rifuggire la noia.
"D'altra parte, non sono ancora in grado di pensare a
quello che riguarda gli altri. Mi chiedo come andr a fini-
re," disse Takashi.
"Cosa speri che succeda?"
"Non vorrei che mi lasciasse. Anche se non potrei mai
costringerla a non farlo."
Takashi, quando non vuole pensare a fondo, elabora
pensieri banali. Lo prendevo spesso in giro per quel suo
modo di fare; quella volta, per•, capii di poterlo giustifi-
care.
Pensai che forse per Mimi sarebbe stato meglio se si
fosse lasciato andare, se fosse scoppiato a piangere davanti
a lei, ma non glielo dissi. Erano comportamenti spontanei
che non si potevano stabilire col ragionamento.
"Mi raccomando, fammi sapere anche tu l'esito!"
"Certo," risposi.
La sensazione che stessimo parlando di cose immagina-
rie era ancora presente, fluttuava nello spazio davanti a noi
come una nube.
Un sogno lungo, quasi interminabile, di un amico... quel-
le frasi: "grazie per oggi", "ci vediamo la settimana prossi-
ma", "come Š finita quella cosa della volta scorsa?". Proprio
cosć, ripetendo quelle cose, un giorno saremmo morti. In
quell'istante, rimossi quei pensieri dalla mente, un bagliore
bianco simile a quello di un diamante mi fece aprire gli oc-
chi: era lo sconvolgimento che nasceva dall'aver capito che
la realt delle cose avrebbe potuto farsi cosć impellente, in-
discriminata e insensata.
Parlando, parlando, come sempre si fece notte.
"Cosa? E gi l'una? Che palle tornare a casa!" dissi sen-
za alcuna malizia.
"Prendiamo una stanza?" mi chiese lui.
"Va bene," feci io. Lui si alz• di scatto e and• a fare la
prenotazione. In quel momento venni di nuovo travolta
dalla consapevolezza che le probabilit che se ne andasse
da questo mondo prima di me erano di colpo aumentate.
Takashi, quella natura gentile, quella bella persona raffina
ta agli occhi di tutti, che mi teneva le borse pesanti o che
era venuto a port rmi da mangiare fino a casa quando ero
stata ammalata.
In futuro, chiss c•n quante altre persone sarei riusci-
ta a instaurare un rapporto nel quale mi sarebbe bastato
dire: "Che palle tornare a casa!" perch‚ l'altro dicesse: "Va
bene," e mi prendesse una stanza come se niente fosse
stato.
Scoppiai a piangere.
"Cosa Š successo, cosć tutt'a un tratto?" Takashi si
ferm• per lo stupore.
"Sono un po' scossa..."
"E normale," e mi mise un braccio sulle spalle. Pensai
che non avesse capito affatto la mia commozione. Un per-
fetto estraneo, con cui per• avevo costruito qualcosa.
"Ad ogni modo, aspetta un attimo!"
Takashi corse alla reception.
Una volta in bagno piansi tutte le mie lacrime e mi cal-
mai. Quando tornai al nostro posto, lui mi venne incontro
con la chiave in mano.
"Ho trovato una stanza."
"Bene."
"Hai finito di piangere?"
"Perdonami, immagino mi vorrai dire che forse sei tu
quello che vorrebbe piangere."
"No, sai, non me ne rendo ancora conto," disse ridendo.
Dentro di me pensai con ammirazione a quanto, sino a
quel momento, ero stata consolata da quel suo atteggia-
mento imperturbabile e da quella sua calma insensata.
C'erano soltanto camere matrimoniali, noi in ogni caso
non eravamo cosć ragazzini, n‚ animali da pensare di fare
del sesso.
Io da un lato, lui dall'altro, ci distendemmo sul letto in
silenzio, niente di pi.
Lo guardai mentre si riposava e finalmente capii.
Takashi quella notte non se l'era sentita di tornare a ca-
sa da solo.
Con l'abat-jour acceso, leggeva un tascabile. A quella
vista all'apparenza sana di cui in passato spesso avevo
goduto, mi tranquillizzai. E tutte le cose che avevo sapu-
to in quei giorni mi apparvero come un brutto, triste so-
gno.
La notte, seguendo il ritmo dei corpi celesti, muoveva
le lancette del suo grande orologio lentamente, con ardore.
Una notte silenziosa in cui si aveva l'impressione di sentire
quel rumore, di vedere quei movimenti.
"A proposito, Š morto Yamada Yasuo, vero?" dissi.
"Aaahhh, che spavento!" Takashi mi guard•. "Pensa-
vo dormissi. Cosa c'Š? Perch‚ me lo chiedi cosć all'im-
provviso?"
"Sai, stavo pensando a un grande orologio," risposi.
"Ho capito! Uno come quello della torre nel film di Lu-
pin III?"
"Esattamente. Hai capito benissimo!"
"Pensavo che Yamada Yasuo sarebbe vissuto in eterno!"
"Anch'io."
"Ho visto Maverick, l'ho trovato identico a Lupin."
"Sai, Š una storia classica."
"La donna che continua a scappare e l'uomo che la in-
segue."
Con le tende chiuse solo a met, dalla finestra si vede-
vano varie luci. Frammenti di luce metropolitana che du-
rante la notte non si spegneva mai. Entravano nella stanza
proprio come dei raggi lunari.
"Che bello se fosse un vero chiaro di luna!" pensai.
Per quanto l'animo cercasse di aprirsi, sotto una volta
celeste cosć biancastra, l'ardore si attenuava. Volevo vedere
un cielo completamente buio. Di quelli dove la luna ri-
splende chiara come una perla.
La mattina quando aprii gli occhi, Takashi era seduto
su una sedia e beveva un succo d'arancia del frigobar.
Controluce, con la finestra alle spalle, si accorse che mi
ero svegliata, mi disse: "Buongiorno!" e mi sorrise.
Forse aveva osservato il mio viso mentre dormivo.
"E' inutile, pu• succedere qualsiasi cosa, pu• passare tut-
to il tempo che si vuole, il sentimento che c'Š tra di noi non
cambia," pensai. In silenzio, di nascosto, con coscienza.
"Perch‚ non dormi ancora un po'? E ancora presto!"
mi disse.
"Non riesci a dormire?" gli chiesi.
"No, ultimamente mi sveglio sempre a quest'ora, pi o
meno," rispose.
Al Takashi che conoscevo io piacevano moltissimo le
bibite gassate, tanto che beveva sempre e soltanto, che so,
cola o soda. Un succo d'arancia per lui era qualcosa di
molto raro.
Intuć il mio pensiero e disse:
"Figurati che cerco di bere cose che, anche se poco,
facciano bene al fisico. So che non durer a lungo...".
Raggi di una primavera dolce, superficie del succo che
risplendeva riflettendoli. Riuscivamo a incontrarci solo in
un mondo di sentimenti pacati.
Cosć era sempre stato e sempre sarebbe stato anche in
futuro.
Di notte, mentre lavoravo a casa, suon• il telefono,
nell'istante in cui mi ero alzata per andare in cucina decisa
a prendermi un tŠ perch‚ gli occhi avevano cominciato a
dolermi per la troppa concentrazione. Guardai l'orologio:
le due. Poteva essere solo una persona intima.
Sollevai la cornetta e sentii la voce di Mimi:
"Pronto?".
"Ah, Mimi!" Tirai un sospiro di sollievo. La verit Š
che avrebbe potuto anche non farsi pi viva, cosa impen-
sabile per me.
"Hai saputo di Takashi?" mi chiese con una voce relati-
vamente allegra.
"Sć, l'ho saputo. Sono anche andata a fare l'esame. I ri-
sultati non sono ancora pronti per•. E il tuo com'Š anda-
to?" chiesi e senza volere sorrisi pensando: "Che diavolo
sto dicendo, non sono mica gli esami dell'universit!".
"Sono risultata negativa," fece lei.
Sentii quelle parole e impassibile osservai me stessa
provare sollievo e insieme venire attraversata nell'animo
da un'ondata crudele e alquanto complessa della psiche
(cosć Takashi sarebbe rimasto solo).
Un'immagine violenta che fluttuava nel buio pesto.
Mimi proseguć:
"A dire la verit, Š da un bel po' che l'ho saputo. Ero si-
cura di essere stata contagiata, ossessionata dall'idea, tanto
che quasi ci sono rimasta male. Poi come una scema ho
avuto l'impressione di aver fatto qualcosa di male a Takashi
e cosć non sono riuscita a dirglielo".
"Non l'hai ancora fatto?"
"Sć, poco fa per telefono. Mi ha detto di essere felice
per me, ma anche di provare sensazioni contraddittorie.
Normale, no?"
"Vivrete separati?"
"Ho intenzione di tornare da lui. Quella casa mi piace
molto, ma da quando ci siamo trasferiti lć, non Š successo
niente di buono. Anche se non Š da me, ho pensato di farla
vedere a qualcuno, a un esperto di quel genere di cose," dis-
se Mimi. Dall'altra parte del telefono, la sentii sorseggiare il
caffŠ. Ne beve sempre moltissimo, nero come l'inchiostro,
cosć tanto che penso subito a lei quando ne sento l'aroma.
Adoro le telefonate in piena notte. Non ti sente nessu-
no, nemmeno gli dŠi, e io ho la sensazione di poter dire
qualsiasi cosa. Come se la mia voce e quella del mio inter-
locutore risuonassero nell'universo.
Anche in quell'occasione era cosć. Sentii l'essenza di
una nuova aria.
"E comunque Takashi prima mi ha detto di volere stare
solo ancora per un po'."
"Questa Š nuova. Sai, quando l'ho visto l'altro giorno
mi ha detto un'altra cosa."
"Anch'io per• penso che sia meglio cosć," continu•.
"Se adesso stiamo separati, possiamo riflettere con luci-
dit su quello che succeder da qui in avanti. Comun-
que, in futuro, vivr• dove vorr lui. So che non dovrei
pensare a queste cose adesso che la sua malattia non Š
ancora conclamata. Ah... perch‚ tutto questo? Proprio
ora che ci eravamo trasferiti nella casa nuova... Perch‚ Š
andata cosć?"
"Hai proprio ragione, Mimi."
"Mah, cercher• di parlargli. Immagino che non voglia
lasciare il suo lavoro attuale."
"Chiss. Comunque c'Š ancora tempo."
Capii che pi parlavamo, pi ci facevamo concrete: "Se
anche si dovesse ammalare, potrei fargli da infermiera in
qualsiasi momento".
"Grazie. Eh, sć, certe cose esistono davvero," disse.
"CioŠ?"
"Che so, la morte, gli amici, gli sconvolgimenti. Chie-
dermi di chi mi fido, scoprire a chi penso in questi mo-
menti, quanto amo Takashi. Se tutto questo non fosse suc-
cesso, anche se avessimo litigato e ci fossimo lasciati, forse
non me lo sarei mai chiesta. Che sia tutto relativo? Oppure
tutto assoluto?"
"Boh..."
Non lo sapevo davvero.
Ad ogni modo la morte, mettendo a nudo qualsiasi co-
sa, delineava le forme essenziali che riflettevano la verit
del momento. E anche i rapporti interpersonali tornavano
al primo incontro, al sentimento originario.
Credevo che avrei potuto parlare di queste cose a notte
fonda solo una volta invecchiata. Remoto, cosć vedevo il
mio futuro quando mi relazionavo con gli amici. Non c'era
niente di particolarmente strano nel fatto che, invece, quel
momento fosse gi arrivato; eppure, la sensazione di dolore
che provavo nel cuore era forse dovuta al crepitio dell'ener-
gia della giovinezza che ancora respirava nell'animo con vi-
gore.
Cosć, nell'istante in cui i mutamenti apportati dallo
scorrere del tempo ti costringevano a guardare in faccia la
realt, il modo in cui il paesaggio circostante si rifletteva
negli occhi testimoniava quello che si era fatto sino a quel
momento.
Quello che si rifletteva nei miei occhi non era male e la
cosa mi rattristava. Certo, molte cose erano successe e molti
stravolgimenti avevo conosciuto, per• ogni volta avevo con-
fidato che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Mai avrei
pensato che potessero esserci sviluppi cosć contingenti.
Proprio non avrei immaginato di assaporare di nuovo a
quest'et la sensazione di illogicit che tante volte avevo
conosciuto da bambina. L'irritazione provata quando non
avevo pi potuto vedere la mia amica del cuore, perch‚ i
suoi genitori avevano deciso di farle cambiare scuola, o
quando avevo visto morire, per mancanza di cure, il cane
dei vicini. Il mondo non gira affatto come vorremmo. Per
quanto stretti fossero i legami e ardenti i sentimenti di cui
li si caricava, indiscriminatamente si veniva travolti come i
rami di un vecchio albero abbattuto da una forte ondata.
Forse, visti da lontano, pu• darsi che anche quei senti-
menti delineassero bellissimi tracciati nella sabbia.
"Insomma, sono rimasta senza parole."
"A chi lo dici!"
Cosć dicendo, riattaccammo.






LA NOTTE BUIA DI NAGANO.

In attesa dell'esito dell'esame, con il pretesto di andare
a comprare delle pietre a Yamanashi, decisi di tornare per
qualche giorno dai miei genitori.
In origine abitavano a Nagano, poi, quando mio padre
era andato in pensione, avevano venduto la casa in citt e
si erano trasferiti in montagna dove tuttora vivevano soli.
La villa, per la verit, era stata concepita per la villeg-
giatura e aveva una forma stranamente moderna, tanto che
non riuscivo proprio a considerarla come la "casa del pae-
se natio".
Sono figlia unica. Spesso mi chiedono se non sono orfa-
na, perch‚ intorno a me non si intravede molto l'ombra
dei miei genitori. Ma non Š affatto cosć, sono semplice-
mente uscita presto di casa per rendermi indipendente. Sin
da piccola, mi sembrava di vivere in uno spazio che non
mi apparteneva, cosć che andarmene era stata una scelta
molto naturale.
Si ascolta lo stormire dei boschi, si mangiano i frutti di
stagione, si beve il vino del posto, si stendono i futon a ter-
ra e si dorme. Al risveglio si sentono il forte cinguettio de-
gli uccelli, i rumori della mamma in cucina, il ritorno dalla
passeggiata del pap.
In teoria, una vita molto normale per un essere umano,
eppure in tutto quel lusso mi sentivo piccola piccola. E, di
riflesso, mi rendevo conto di quanto fosse strano vivere da
soli a Tokyo.
Di notte, dopo che tutti erano andati a letto, alla luce di
una vecchia lampada, lessi d'un fiato pi di un libro sul-
l'Aids. Pi studiavo e pi mi sembrava che si riducessero le
possibilit di essere stata contagiata. Mi sentivo pi tran-
quilla di quando non ne sapevo niente, eppure quella stessa
tranquillit, generata dallo studio, interponeva un'irriduci-
bile distanza tra me e Takashi, che aumentava piano piano.
Proprio come quando preparavo gli esami, stavo seduta al-
la scrivania che avevo usato sin dalle elementari, con gli oc-
chiali inforcati, sottolineando con un evidenziatore. Per• le
parole su cui mi soffermavo erano del tipo: polmonite da Pneu-
mocystis carinii, candida, citomegalovirus, realt delle cure.
Cose che venivano da lontano, pensai.
Cosć facendo rimasi sveglia tutta la notte, mi versai un
bicchierino di vino per conciliare il sonno e, bevendolo,
uscii in giardino a guardare le stelle. Osservai all'infinito
gli astri sparire uno dopo l'altro nell'azzurro del cielo.
Non c'era bisogno che chiedessi niente, perch‚ ci pen-
savano loro dall'altra parte della volta celeste a mostrarmi
combinazioni differenti di momento in momento.
Da dietro le montagne arriv• l'alba. Il bagliore schiac-
ciante del mattino, l'oro e l'arancio visitavano la terra sotto
forma di raggi trasparenti.
L'istante che pi amavo, l'istante che ritenevo sacro.
Tra il verde intenso, i fasci di luce brillavano, salendo
verso l'alto.
Sembrava un sogno pieno di energia.
In passato, mi era successo di credere di essere incinta.
Quando ero molto giovane e vivevo con Takashi.
Fisicamente non stavo affatto male, tuttavia le mestrua-
zionl non arrivavano. Il viso poi, in un certo qual modo,
mi Si era ingentilito.
Il padre non poteva essere che lui, eppure non avrebbe
avuto senso tenere il bambino. Comunque un giorno,
quando ormai avevo deciso di andare l'indomani al-
l'ospedale, ero stata travolta da una felicit improvvisa e
violenta che aveva scacciato la sensazione di disagio che mi
tormentava.
Era stato il momento in cui l'istinto aveva messo a terra
la ragione.
La gioia mi si era diffusa per il corpo, tanto da non riu-
scire piU a respirare.
Mi sembrava meraviglioso che tutte le persone che ve-
devo passare, nessuna esclusa, fossero in questo mondo
dopo avere sperimentato il battesimo di quella felicit.
Quindi avevo pensato: "Forse adesso non sono sola e
questa scena la sto vedendo con il bambino che porto in
grembo".
Alla fine, il ciclo era arrivato dopo una settimana e mi ero
resa conto che era stata solo un'illusione; ma non potevo di-
menticare l'emozione di quegli istanti. E nemmeno la sensa-
zione di avere capito un po' come fosse fatto il mondo.
Nell'attesa dell'esito dell'esame, stranamente, il mio sta-
to d'animo era molto simile a quello di allora.
I cambiamenti che avvengono nel corpo delle persone
sono difficili da comprendere. Elementi essenziali alla vita
degli stessi che non succedono senza una ragione specifica,
periodi in cui si Š pervasi da sentimenti solenni, la confer-
ma estrema di essere se stessi. E la quiete che ne deriva re-
gala momenti talmente ricchi di significato da credere di
sentirne il profumo.
Comunque fosse, due settimane di attesa cosciente era-
no proprio lunghe. Per quanto mi sforzassi di pensarci,
non riuscivo a capire perch‚ le giornate durassero di pi
che a Tokyo.
Ormai annoiata, quando i miei genitori andavano a
dormire, scappavo sempre in un locale vicino a casa.
Cenavo e andavo lć, dove mi facevo degli amici man-
giando, che so, delle verdure cotte e bevendo il vino della
casa. Poi mi facevo accompagnare a casa in macchina se
c'era qualcuno motorizzato, se no tornavo a piedi per le
strade di montagna.
Il cammino era molto breve, eppure, quando gli occhi
si abituavano, si vedeva un numero spaventoso di stelle
fluttuare sfuocate.
Nell'aria si respirava l'odore fresco dell'erba e degli al-
beri, le tenebre fitte nei boschi si raccontavano i misteri
della notte.
Mi capitava di trasalire, quando realizzavo di trovarmi in
una notte nera da spavento. Gli occhi si sbarravano. Sentore
di buio profondo. La quiete tipica delle notti di montagna
che assorbiva ogni suono, si diffondeva all'infinito.
Riuscivo a formulare i miei pensieri solo da quel mo-
mento.
Oppressa dalla schiacciante forza delle tenebre, stringe-
vo le paure al petto e con i pori percepivo il mio animo at-
traverso l'odore della terra sotto i piedi; l'enorme animo di
questa piccola me stessa.
Quando giungeva il mattino e penetravano i primi rag-
gi, mi sentivo al sicuro e ancora una volta prendevo un
po' di coraggio. Mi era impossibile sfuggire da questo ti-
po di comportamento. Se non stavo a contatto con la ter-
ra, in un modo o nell'altro, mi sarebbe potuto succedere
qualsiasi cosa.
Quella notte tornai a casa ubriaca e mi addormentai
con la testa sulla scrivania leggendo un libro.
Sognai il periodo in cui preparavo gli esami di ammis-
sione.
Studiavo inglese, seduta su una panchina in una stradi-
na alberata, davanti alla scuola. Di quando in quando pas-
savano i parenti, adulti e bambini, dei pazienti dell'ospe-
dale per malati terminali. C'erano persone che avevano la-
sciato i loro cari ancora in vita, altre che li avevano salutati
per l'ultima volta. Si mischiavano agli studenti in divisa,
cosć che non ricordo quali fossero gli uni e quali gli altri.
Le sole cose che ricordo sono il sole, i suoi raggi che
passavano attraverso le fronde e tremolavano sul suolo, il
vento fresco e il tempo cosć bello che tutti sembravano
felici.
C'erano persone che si salutavano.
Altre che camminavano serie in viso.
Poi Takashi che veniva verso di me.
In quel momento, il mio stato d'animo era mutato nello
stesso di quando c'eravamo visti per la prima volta.
Agitata tanto da avvertire dolore al petto, i miei pensie-
ri erano tutti per lui. Percepivo in continuazione il suo
sguardo, sia in sogno sia nella realt.
Pensai che in verit gli esseri umani conservassero in
eterno il nucleo splendente del sentimento provato al pri-
mo incontro. Lć stava scritta ogni cosa: per quale destino ci
si era conosciuti, in che modo era possibile frequentarsi,
quando ci si sarebbe lasciati. Non c'era dubbio, ci• che
componeva il nucleo non veniva mai meno, che ci si fosse
lasciati ancora in vita o dopo la morte.
In sogno, mentre parlavamo, tutt'a un tratto ci eravamo
trovati di sera nell'appartamento in cui avevamo vissuto
insieme. C'erano due persone in piedi alla finestra. Si ve-
devano chiaramente nel loro appartamento del palazzo di
fronte. Era una famiglia a proprio agio tra le mura dome-
stiche, con il televisore acceso. Uno spazio pieno di calore,
con sfumature arancio.
"Certo che da qui si vede benissimo nella casa di quelli
di fronte," dicevo.
"Da bambino guardavo nelle case degli altri e pensavo
a quanto erano felici, a quanto si divertivano. Ancora ades-
so che vivo per conto mio, quando guardo i vicini dalla fi-
nestra provo invidia," comment• Takashi.
"Non Š che non vuoi crescere?" lo schernii.
Forse si trattava di una conversazione realmente avve-
nuta, quando non lo so.
"E cosć dicendo, mi Š successo questo!" proseguć.
"Questo, cosa?"
Era terrorizzato dal termine "malattia".
Senza aggiungere altro, sprofond• in pensieri alquanto
gravi.
A quel punto aprii gli occhi. Il cuore batteva forte, mi era-
no scese delle lacrime e anche della saliva dalla bocca. Den-
tro di me sentivo ancora il riverbero della triste passione pro-
vata. Uno sconvolgimento tale che mi misi a ridere da sola.
Dopo di che mi distrassi per un attimo ed ecco che
suon• il telefono.
Non volevo che i miei si svegliassero, cosć mi affrettai a
rispondere.
"Pronto, Kiyose?"
Era Hideo.
"Ah, Hideo!" dissi. "Cosa c'Š a quest'ora della notte?
Ti ricordo che in montagna ci sono orari diversi!"
"Scusami, sai, ma Takashi mi fa pena. Mimi, tu e tutte
le sue amiche l'avete lasciato solo."
"L'abbiamo lasciato solo?"
"Nel senso che ve ne siete andate."
"Guarda che io torno presto!"
"Fai alla svelta, allora! Sapessi com'Š gi."
Stava telefonando dal suo locale, in sottofondo si senti-
vano dei rumori. Era sicuramente ubriaco anche lui.
Comunque quella telefonata nel cuore della notte mi
riempiva di gioia. Parlai piano piano nel corridoio, poi
portai il telefono in camera e pensai a Hideo lontano.
"Credo che sia molto difficile trovare qualcuno sereno
nelle sue condizioni," dissi.
"E Mimi?"
"Mi ha telefonato, era tranquilla."
"Ascolta, avrei un'idea: andiamo a fare un viaggio con
Takashi," disse tutto allegro.
Sembrava una ragazza che parlava dell'amico che aveva
avuto una delusione d'amore, pensai.
"Tutto sommato forse Š l'ultima possibilit che abbia-
mo di andare all'estero insieme."
"Sć, per•..."
"Poi, fra un po' di tempo, faremo in modo che ci vada
con Mimi, no?"
"Sć, certo..."
"Questo Š il nostro momento! Non credo proprio che
Takashi riesca a distrarsi continuando ad aspettarla. Dob-
biamo crearci dei ricordi, dai, andiamo!"
Anche quelle frasi che, pronunciate da un altro, mi
avrebbero fatto riattaccare, dette da lui riuscivo a perdo-
narle.
"Lo dico io a Takashi. Vieni anche tu, mi raccomando!"
"Perch‚ anch'io?"
"Se andiamo noi due soli e ci rimettiamo insieme, t'im-
magini il casino?"
Era un tipo sincero.
"Ci penser•," gli dissi e riattaccai.






L'ADDIO A NARITA.

Non esagero, era il paese che avevo sempre sognato:
l'Egitto. Mai avrei pensato di andarci con tanta facilit,
fantasticai bevendomi un caffŠ americano.
Quando me ne resi conto, ormai mi trovavo sola, sedu-
ta al bancone del bar del terminal numero 2 dell'aeroporto
di Narita.
Senza nemmeno sapere l'esito dell'esame.
Nella libreria in fondo all'atrio Hideo stava scegliendo
dei tascabili.
Vedevo anche Mimi e Takashi che mangiavano da
Morinaga Love dei sandwich al tonno, i loro preferiti. Lei
stava ridendo. Aveva il viso molto rilassato. L'espressione
che si ha dopo aver riflettuto su cose alquanto profonde.
Aveva detto che non sarebbe venuta con noi e che avrebbe
aspettato Takashi a casa. Credetti di poterla capire. Al suo
posto forse mi sarei comportata nello stesso modo.
Dalla mia postazione guardavo gli altri gironzolare per
l'aeroporto e ricordai i tempi della scuola quando, seduta
a tavola durante la pausa del pranzo, seguivo con lo sguar-
do i compagni di classe che si sparpagliavano in tutte le di-
rezioni.
All'incirca due settimane prima, Hideo e io ci eravamo
dati appuntamento per andare a sentire il risultato del-
l'esame.
Quando eravamo usciti dalla stazione, il suo passo si
era fatto pesante, gli erano venute le lacrime agli occhi e
aveva cominciato a dire di avere davvero paura. Ero rima-
sta di stucco di fronte a quell'improvvisa debolezza, tutto
sommato lui aveva assistito molti amici sino alla morte.
"Va bene, lasciamo perdere per oggi," gli avevo detto.
"Quando vorresti tornare? Ci veniamo insieme, dai!"
"Non avrei mai creduto di agitarmi cosć tanto," aveva
risposto dopo essersi calmato. "Cosa ne dici se andiamo a
farci il nostro viaggio prima? Per i biglietti aerei e il resto,
faccio tutto io."
"Non Š forse meglio partire con il cuore in pace, dopo
aver saputo il risultato?" provai a controbattere.
"Tu non hai paura, perch‚ hai mantenuto una condotta
impeccabile. E' per questo che riesci a dire quello che dici.
Per me invece, la situazione Š molto pericolosa. Sono ter-
rorizzato all'idea di sapere di essere stato contagiato, cerca
di capirmi!"
Certo che ero sicura della mia condotta, per• capivo
anche il suo stato d'animo.
"Dove vuole andare Takashi?" gli avevo chiesto.
"In Egitto," aveva risposto d'un fiato.
Per un istante avevo avvertito una fitta al cuore. Ricor-
davo che in passato noi due avevamo comprato spesso li-
bri sull'Egitto e che avevamo progettato di andarci insie-
me. Rivedevo nella mia mente la vecchia libreria del picco-
lo appartamento di noi poveri squattrinati. Ormai non
c'era pi, da nessuna parte sulla terra. La cosa mi rattrista-
va in uno strano modo. Il tempo... il grande orologio con-
tinuava a battere le ore senza sosta.
"Perdonami! Se mai dovessimo rifare l'esame, pagher•
io le spese," aveva detto Hideo. E io avevo accettato:
"Va bene. Vorr dire che la prossima volta lo faremo al-
l'ufficio d'igiene".
"Ok."
Poi era successo tutto in un baleno. Ci eravamo affidati
a un'agenzia di viaggi, c'era stato giusto il tempo di spedi-
re il passaporto per il visto e di riceverlo indietro che gi ci
trovavamo a Narita.
"Che cosa hai provato la prima volta che sei andata al-
l'estero?"
Cercavo di ricordarlo. Il problema stava nel fatto che
ogni volta ero partita dallo stesso posto, cosć che i ricordi
mi si sovrapponevano nella mente. Riuscivo a rievocare
soltanto una sorta di concentrato di malinconia e di tri-
stezza che mi serrava l'animo.
Terminate le pratiche d'espatrio, vidi Mimi che agitava
la mano, un sorriso dai denti smaglianti e i capelli che le
scendevano sulle spalle. Nel bianco della camicetta e della
carnagione, le sue labbra rosa sorridevano nella forma del-
la luna.
Un'espressione dolce e spontanea che lasciava senza pa-
role.
Sembrava una bambina cresciuta in una selva fitta che
salutava i familiari diretti a caccia nel cuore della foresta.
A piedi nudi, con le mani vuote e gli occhi grandi, libera,
senza alcuna emozione forte, n‚ tanto meno preoccupa-
zione.
Hideo disse di avere passato alcune notti in bianco per
organizzare la gestione del negozio e tutto il resto durante
la sua assenza, cosć che dall'istante in cui salć sull'aereo non
fece altro che dormire. Anche se gli unici momenti in cui
aveva tenuto gli occhi aperti erano stati quelli per andare in
bagno, aveva insistito per sedersi vicino al finestrino.
A volte quel suo carattere infantile era un po' irritante,
per• nel complesso mi piaceva molto.
Takashi era silenzioso. Leggeva, guardava i film e si ap-
pisolava.
"E' incredibile che sia giunto il giorno in cui noi tre fac-
ciamo un viaggio insieme. Chiss che faccia avrei fatto se
me l'avessero detto qualche anno fa," dissi.
"Avremmo dovuto farlo prima," comment• lui.
Takashi era un tipo serio: aveva comprato pi di una
guida sull'Egitto, le aveva lette a fondo e sottolineate dap-
pertutto.
"Sar perch‚ non viaggio molto..."
"E come mai?"
"Perch‚ va sempre a finire che perdo l'entusiasmo nel
marasma delle mie ricerche."
"Vedrai che ci divertiremo!"
"Ne sono sicuro. Sono contento di essere partito cosć.
Preparare la valigia, uscire di casa il mattino presto, pren-
dere l'aereo, Š stato tutto pi divertente di quanto pensas-
si," disse Takashi. "Significa che il morale non Š a terra!"
Ne convenni con lui.
Qualche mese dopo avere cominciato a lavorare part-ti-
me nell'ospedale per malati terminali, avevo perso la capa-
cit di supplicare, di scongiurare gli altri di non morire.
C'erano un'infinit di altre cose da fare prima.
Pregare qualcuno di non morire serviva soltanto a se-
gnargli ulteriormente il tempo. Nel mio lavoro, invece, do-
vevo far sć che i pazienti che andavano incontro alla morte
se ne dimenticassero. Girare per le corsie, schiacciata dal
peso della preghiera; era come ostentare ai malati l'enor-
mit del tempo.
Cosć facendo, nel momento in cui avevo cominciato ad
andare al di l di ci• che si definisce "tempo", era fiorito
qualcosa di naturale dentro di me.
Era accaduto in un momento di sconforto: avevo senti-
to che mi stava succedendo qualcosa di imprevedibile.
Avevo risvegliato una forza vitale. I pazienti si arrabbiava-
no all'improvviso, poi ritrovavano il buon umore, scoppia-
vano a ridere, facevano la pace, tutto come se fossero in at-
tesa di qualcosa, come se non gliene importasse pi nien-
te o se non sapessero quello che gli sarebbe successo. Non
dovevo esercitare nessuna pressione su di loro, la cosa di
cui avevano pi bisogno era cogliere l'attimo in cui, senza
esserne consapevoli, si sarebbero scordati dello scorrere
del tempo.
Il tŠ bollente dei giorni di pioggia, i cinque minuti in
pi di sonno al mattino, l'inaspettato divertimento di un
programma visto per caso alla Tv.
Pi di una volta avevo scorto minuzie di questo tipo na-
scondere barlumi miracolosi. Inezie che non riuscivo pi a
sottovalutare.
Quando qualcuno esalava l'ultimo respiro, erano pro-
prio le cose da niente che restavano nella mente di tutti.
"Ah, quel signore che un pomeriggio di pioggia aveva rice-
vuto dei senbei da un parente, e li aveva mangiati di gusto
raccontando dei divertimenti di quando era bambino. Ave-
va messo tutti di buon umore e grazie a lui eravamo stati
su di morale per l'intera giornata..."; mi chiedevo se ci fos-
sero persone in grado fin dall'inizio di mettere in relazione
questi piccoli ricordi.
Se mai ci fossero state, erano coloro che chiamiamo "dŠi".
Avevo fatto quel lavoro all'ospedale non come passa-
tempo n‚ tanto meno per uno scherzo del destino, bensć
per sostenere quell'imprevedibilit di cui dicevo.
Una cosa che si stava rivelando utile al presente.
Seppure solo per un attimo, mi ero commossa per la
mia stessa vita e i suoi doni, per la prima volta da quando
ero nata. Poi avevo pregato che quel mio stato d'animo
continuasse a essermi di conforto, in un modo o nell'altro,
anche in futuro.






OASI.

"Perch‚ sto dormendo da sola in questo posto?" mi
chiesi svegliandomi in piena notte. Una camera d'albergo
buia pesta, il soffitto stranamente alto, le lenzuola rigide.
Una alla volta prendevo coscienza delle cose.
Andai in bagno, poi aprii il frigobar per bere. Su una
bottiglia di acqua minerale mai vista prima, c'era scritto
"Baraka". Lo capii da quel particolare. Ero in Egitto.
Finalmente sveglia, me ne resi conto.
Sentivo le gambe e il resto del corpo molto pesanti. La
stanchezza tipica di quando si sta a lungo in aereo. Come
se qualcosa mi avesse afferrato e mi schiacciasse con tutte
le sue forze.
Prima di tornare a letto provai ad aprire le tende dell'enor-
me finestra. Un fiume immerso nelle tenebre. Un frammen-
to di Nilo. Poi non ce la feci pi a resistere al freddo e tor-
nai a letto. Nessuno mi aveva detto che`al Cairo faceva cosć
freddo in aprile. Al mondo ci sono un'infinit di cose che si
capiscono solo se si provano sulla propria pelle.
Una ragazza che viaggiava con due uomini e che, per
decidere l'assegnazione delle camere, aveva tirato a sorte
perch‚ con loro aveva un rapporto tale per cui qualunque
combinazione sarebbe andata bene, da bambina l'avrei
considerata l'esempio vivente della dissolutezza. La verit
era che, nonostante le apparenze, non era affatto cosć. Cer-
to, qualcuno avrebbe anche potuto non pensarla in questo
modo.
Il destino aveva voluto che quella notte Hideo e Takashi
dormissero nella stessa stanza. Chiss se a quell'ora Hideo
stava piangendo guardando il suo compagno dormire, op-
pure se il pensiero della morte non gli era nemmeno bale-
nato per la mente e aveva riposato profondamente.
Forse nessuna delle due cose. All'idea che il nostro
viaggio sarebbe stato velato di ambiguit sino alla fine, il
corpo mi impose di astenermi dal riflettere e quando cer-
cai di rimuovere il pensiero, l'animo sprofond• nel buio.
Per raggiungere un compromesso con quel dolore, l'unica
era mantenere la situazione indefinita... Con queste rifles-
sioni, mi addormentai.
Mi sentivo sempre triste la prima notte di un viaggio.
Perch‚ sono qui? La testa si sforzava di comprenderlo ve-
locemente, il corpo invece continuava a tentennare.
Il mattino dopo, di buon'ora, partimmo per Assuan.
Il posto che Takashi desiderava visitare pi di ogni altro.
Io e Hideo gli avevamo detto che per noi non era affat-
to un problema concentrare il nostro viaggio lć, lui per•
aveva espresso il desiderio di vedere pi di una citt, nei li-
miti concessi dal tempo. Disse di volerlo fare perch‚, per il
momento, era ancora nel pieno delle forze. Paradossal-
mente, quando sentii quella frase, pensai alla sua malattia e
il respiro mi venne a mancare. Poi per•, quel suo modo di
parlare mi sembr• deplorevole. Un pensiero alquanto ca-
priccioso rispetto al movimento dell'animo.
Il piccolo aereo fece un decollo molto maldestro, degno
di un trenino locale; un po' prima di arrivare ad Assuan,
fuori dal finestrino ci si present• un panorama inaspettato.
CioŠ, pi che inaspettato, spaventosamente ovvio.
Laggi il Nilo era un serpente blu che si contorceva. In
quell'unica distesa di deserto, era la sola cosa viva che si
estendeva sino in lontananza. Un verde intenso seguiva alla
perfezione il suo corso, regalando policromia a quel mondo.
Dalle sue acque aveva avuto origine la vita. E ancora
adesso i colori cosć distinti, visibili a occhio nudo, testimo-
niavano la forza vitale del Nilo. Il paese esisteva intorno a
quel fiume che, continuando a scorrere, donava la vita agli
esseri umani con l'energia straripante delle sue acque.
Osservata dal cielo, quell'immagine di esuberanza era la
stessa che avevo visto tante volte al cinema e alla televisione.
Eppure, mi sembrava di averla davanti per la prima volta.
Enormi fasce disegnate dal deserto da una parte, dal
Nilo e dalla vegetazione dall'altra. In quei documentari
c'era sempre, sempre un testo molto ovvio che parlava dei
misteri della vita. I soliti commenti banali che consideravo
stupidi e falsi, la verit Š che non lo erano quasi per niente.
Quello scenario comunicava lo scorrere della vita in mo-
do chiaro, stupefacente, inequivocabile. E cambiava di mo-
mento in momento per la forma delle ombre, della luce, del-
le nubi. Era un dipinto che diffondeva l'amore di qualcosa
verso un altro qualcosa. Come se, mutando forma, gli ele-
menti si amassero a vicenda. Era la prima volta che vedevo
un panorama trasmettere un messaggio cosć chiaro, come so-
lo la parola scritta potrebbe fare.
"Ti sembra giusto bere il welcome drink con noi due?
SarŠsti dovuto venire con Mimi, no?" disse a bruciapelo
Hideo a Takashi.
Stavamo degustando un succo di melagrana rossa sulla
terrazza dell'Old Cataract Hotel. La vista dava sul cortile
di quello splendido albergo, ricavato all'interno di un vec-
chio palazzo reale.
"Che diavolo dici, cosć all'improvviso? Ma se sei stato
tu a insistere perch‚ venissimo noi due anzich‚ Mimi..."
puntualizzai.
"E' un posto talmente bello che tutt'a un tratto ho aper-
to gli occhi," fece lui.
"Nessun problema, con Mimi posso venirci quando vo-
glio," disse Takashi sorridendo.
Intesi da quel suo mezzo silenzio che qualcosa si stava
sviluppando in lui. Che fosse con lei o no, in quel viaggio
Mimi cresceva nella sua vita. Come l'affetto nei nostri con-
fronti. Lo si poteva intuire da quel gesto da niente. Aveva
deciso di non parlarne perch‚, se l'avesse fatto, quella fie-
vole eppure coraggiosa gestazione sarebbe spirata. C'erano
cose che si riuscivano a percepire con pi precisione all'in-
terno di quello splendido scenario.
Era davvero un posto magnifico.
L'ombra fresca degli alberi, i fiori dalle mille tonalit...
il cortile dava su un piccolo imbarcadero, bagnato da una
tranquilla acqua azzurra.
In fila, ai lati delle scale che portavano al fiume e del
sentiero assolato che arrivava alla piscina, c'erano delle
piante d'un verde vigoroso. Praticamente avvinghiate, le
buganvillee erano zeppe di fiori rossi e rosa che davano
forma a motivi svariati.
Oltre a quelle, un'infinit di altri fiori gialli, scarlatti,
bianchi... sbocciati in una ricca e azzardata combinazione
di colori che gli dŠi avevano seminato con le loro mani do-
rate. Verdi di varie tonalit respiravano l'impeto delle tinte
naturali, anche se in disarmonia.
Le feluche, piccole barche a vela, stavano ormeggiate a
riva, una di fianco all'altra come uccellini fermi sui rami.
L'acqua limpida, di una tonalit pi scura dell'azzurro del
mare.
Dall'alto, diverse variet di cinguettii riecheggiavano
con accordi divini.
Da ogni cosa irradiavano le tinte della tranquillit e del
piacere. Una brezza mite e delicata spirava un alito imma-
colato.
"Quello che si vede laggi Š un monumento, vero?"
Sulla cima di una collina che Takashi indicava con la
mano, si vedeva un vecchio edificio color sabbia. Il colore
della Terra.
Da cosa dipendeva tanta perfezione? Quell'aspetto ani-
mato quella tracimante vitalit dolce come il miele? Il mio
animo era stupefatto alla vista di un'oasi vera, la prima;
ben presto per•, la sorpresa si tramut• in una pace straordi-
naria. Persino il respiro ne era assorbito con eleganza,
completamente.
Era un paradiso impensabile su un'isola circondata dal
mare. Quell'oasi abbondava di uno splendore energico,
che aveva messo le sue grandi radici in terra d'Africa.
Prendemmo la feluca e andammo a visitare un villaggio
nubiano.
Vedevo gli scurissimi indigeni scendere sulle loro picco-
le imbarcazioni le correnti quiete del Nilo, sfruttando con
abilit la debole brezza. E sulle rive, le palme stormire per
il dolce vento.
La nostra barca era molto lenta, eppure si chiamava
Concorde. Feci notare la cosa al nocchiere imbastendo una
stentata conversazione in inglese e ci ridemmo sopra. Mi
disse che il termine "Nubia" significava "oro". I nubiani,
in genere, non usano n‚ l'arabo, n‚ l'inglese, ma hanno
conservato la loro lingua.
Le terre in cui vivevano, a causa dell'aumento del livel-
lo dell'acqua provocato dalla costruzione della Diga Alta
di Assuan, erano state sommerse. Moltissimi erano i siti ar-
cheologici perduti per sempre. La gente, invece, si era tra-
sferita sulle isole del fiume.
Una storia molto triste, ma che, forse per colpa di quei
raggi trasparenti e di quel blu quasi forzato del cielo, mi
sembr• molto normale. Era uno scenario che trasmetteva
fiducia nella potenza di ci• che si definisce il "corso degli
eventi". Il Nilo era tutto, e gli esseri umani, adeguandosi ai
suoi cambiamenti, potevano soltanto riceverne i doni, met-
tendosi prontamente al sicuro dai pericoli come fanno gli
uccelli acquatici.
I nostri amici nubiani ci dissero sorridendo che, se la
diga si fosse rotta, l'Egitto intero sarebbe stato inondato in
diciassette ore.
Sul fondale del fiume si vedevano delle rigogliose pian-
te acquatiche, fitte come una foresta. Flesse dalla corrente,
ondeggiavano illuminate dai raggi del sole. A fissarle per
un po', si faceva fatica a capire se il mondo sommerso fos-
se il loro o il nostro. In lontananza si scorgeva la citt di
Assuan. Si vedevano anche edifici moderni. Sul lato sini-
stro, invece, svettavano impassibili alcuni monumenti anti-
chi. L'Old Cataract, che ci eravamo lasciati alle spalle, era in
uno stile intermedio. Era una vista meravigliosa, in cui con-
vivevano molti periodi storici.
Procedendo lentamente, la feluca arriv• su un'isola.
Il terreno era coltivato a erba e luccicava di un verde
oliva tanto brillante da sembrare finto.
Una dopo l'altra, si succedevano alcune tombe dal tetto
a cupola.
Sotto i nostri piedi, l'arida terra esposta al sole scric-
chiolava. Realizzai di essere molto pi a sud del Cairo. I
raggi pomeridiani di piena estate si riversavano sull'isola.
Hideo era all'ombra, intento a spalmarsi la crema pro-
tettiva. Dietro di lui c'era un bar molto grande dal quale
proveniva una musica ad alto volume.
"Questa Š musica nubiana. Quella di cui ci parlava pri-
ma il barcaiolo."
A differenza di quella esotica che di solito si sentiva
nella capitale, era veloce e con un ritmo allegro, aggiunse.
Era in sintonia con il blu e il verde dell'isola.
Tinte violente e vivide che nascondevano un fascino
che induceva la mente all'abbandono.
In quell'atmosfera torrida, prendemmo un tŠ alla menta
e ci divertimmo molto a guardare dei souvenir e a fare un
giro in cammello.
Takashi scatt• alcune foto tutto felice, Hideo trov• del-
le bambole di cattivo gusto e della bigiotteria da quattro
soldi e le propose come regalo per Mimi. Eravamo come
degli amici d'infanzia che giocano nella canicola.
Nonostante tutto, l'isola non aveva affatto un aspetto
turistico. In quel pomeriggio immobile, gli abitanti girava-
no a vuoto, soffocati dall'afa e quasi per errore tra di loro
c'eravamo noi, gli estranei. Gli unici un po' impegnati era-
no i ragazzini dei cammelli che, ogni volta che ci vedevano
liberi, cercavano di farci montare sulle loro bestie.
Pergole di luffe, un vecchio mulino ad acqua.
Buoi accaldati sdraiati al sole.
Donne con un telo nero sul capo entravano e uscivano
da una capanna dove facevano il pane.
La gente della Nubia che una volta aveva dominato un
territorio enorme, conduceva su quella piccola isola una
vita incentrata sulla famiglia, forse come aveva sempre fat-
to. I poster dei cantanti appesi alle pareti e i frigoriferi del-
le case apparivano incredibilmente vecchi. Il fiume scorre-
va tranquillo intorno a loro e la velocit della sua corrente
penetrava nel profondo dei loro cuori.
Al ritorno, la feluca scivol• sul Nilo all'ora del tramonto.
La scena era completamente differente da quella dell'an-
data, un altro mondo.
Le persone che a riva facevano il bucato erano illumina-
te da una luce rossa, il cielo poco alla volta volgeva all'ama-
ranto. Il vento era leggermente pi fresco e gli uccelli at-
traversavano il cielo cinguettando, diretti ai loro nidi.
"Quello Š un ibis ! "
Attraverso gli occhiali da sole, Hideo aveva visto un
grande uccello bianco ed esile prendere il volo.
Anch'io l'avevo notato passare per il cielo come una fe-
luca con le sue forme eleganti e il suo equilibrio precario.
Vidi la sua grande traccia nell'aria e di colpo tornai in me.
Nei miei occhi erano entrati soltanto colori talmente belli
che non sapevo pi dove arrivasse il sogno. Anch'io, insie-
me alle acque del Nilo, avevo l'impressione di tingermi
d'arancio.
"Che bello, mi sembra di sognare," disse Takashi perso
a osservare il cielo e il verde dell'isola. Piccino, abbronzato
dal sole, si guardava intorno come un bambino.
Gli feci una foto con la sua macchina fotografica, sullo
sfondo il cielo che volgeva in un tramonto di dimensioni
milioni di volte superiori alle sue. Chiss se quella scena,
una volta stampata su carta e rinchiusa in un piccolo ret-
tangolo, si sarebbe guastata. Comunque fosse stata, quan-
do l'avrei guardata, il colore di quel cielo mi si sarebbe
espanso nel petto dove l'avrei custodito per l'eternit.
In quel momento decisi di non andare oltre a immagi-
nare il futuro, nel bene e nel male. L'unica cosa, e credevo
di non sbagliarmi, era che ero felice di essere viva e di ave-
re potuto vedere tutto ci• insieme a loro. Com'era stato per
il tramonto di un indimenticabile ultimo giorno di vacan-
za, i ricordi dalle tinte forti non si potevano creare senza
l'aiuto della natura. Anche se lei non si faceva alcun ri-
guardo nei nostri confronti, o se non gliene importava
niente del fatto che fossimo vivi o morti, la natura ce ne re-
galava a iosa. Di tramonti cosć grandiosi. Dal momento in
cui il sole sorgeva al mattino, senza un istante di tregua,
continuava a donarci un'infinit di scene modificandole di
momento in momento.
Per poterlo percepire non c'era tempo per lasciar vaga-
re il cuore.
Il colore di un istante, se non lo si guardava in quello
stesso preciso attimo, si dissolveva velocemente, cambian-
do faccia. La sera pian piano portava con s‚ la notte. A
oriente, ormai cominciava a mostrare la sua fievole figura
un indaco intriso nel profumo della notte. Gli uccelli si af-
frettavano sulla via del ritorno attraversando in lontananza
quel cielo cosć alto.






IL TEMPIO DELL'AMORE.

Salimmo su una barca a motore rumorosissima e poco
dopo ci avvicinammo a una piccola isola tra il verde, il sole
e l'ombra. Nell'istante in cui un'atmosfera tranquilla da
miraggio entr• scivolando nel campo visivo, in silenzio
scorgemmo anche degli enormi edifici di arenaria color
sabbia chiaro.
Era lo splendido complesso di File.
Il primo tempio egizio che i miei occhi vedevano da
quando ero nata, era dedicato a Iside, la dea dell'amore
che governava le piene del fiume.
"Una volta questa terra Š stata tutta sommersa dal Ni-
lo," disse Takashi.
A causa della costruzione delle dighe di Assuan, il com-
plesso che in origine si trovava sulla cima di una collina,
era stato coperto quasi completamente dalle acque. File
veniva chiamata "la perla dell'Egitto".
Un nome assolutamente appropriato, pensai. Le sue di-
mensioni contenute e lo splendore serafico in cui era con-
centrata la forza magnifica con la quale aveva superato le
sofferenze passate erano proprio quelli delle perle. Sulla
barca mi ero distratta pensando che, se avessi dovuto dise-
gnare un gioiello ispirato a quell'isola, avrei usato sicura-
mente-delle perle. Perci•, quando Takashi descrisse quella
bella immagine, da una parte trovai normale averla condi-
visa con qualche egizio del passato, dall'altra mi fece uno
strano effetto.
L'Unesco aveva ritenuto inaccettabile lasciare quei mo-
numenti sommersi, quindi aveva studiato il progetto per
trasferire il tutto sulla vicina isola Agilkia. L'acqua era stata
prosciugata, costruito un argine di protezione, i massi nu-
merati uno a uno e trasportati nonostante le loro decine di
migliaia di tonnellate. Una ricostruzione per cui erano oc-
corsi ben otto anni.
Nonostante fossero stati a lungo erosi dall'acqua, i tem-
pli conservavano un nobile splendore. Le preghiere e i si-
gnificati che vi erano stati rinchiusi non avevano perso
niente del loro vigore.
Mettemmo i piedi a terra e per prima cosa vedemmo svet-
tare l'enorme pilone dell'ingresso. Ormai il mio concetto
di grandezza era sfalsato. Che costruzione audace! Sulla
facciata erano scolpite delle grandi sculture: Tolomeo, la
dea Iside, la dea Hathor, il dio Horus dalla testa di falco.
Tolomeo, che l'aveva costruito, aveva voluto esprimere il
proprio rispetto verso gli dŠi.
Il pilone era a forma di U, perch‚ il sole, anch'esso una
divinit, potesse sorgervi proprio nel mezzo.
Sul lato occidentale dell'isola si susseguivano lunghi co-
lonnati. Belle colonne semplici con capitelli a forma di pa-
piro o palma da dattero, fior di loto e cosć via. Mi chiesi se
una volta fossero colorate e cercai di immaginare lo sfarzo
della scena.
Tra l'una e l'altra si vedevano zampilli d'acqua danzare
brillanti. Delle piante con fiori rosa adornavano l'isola, un
modesto tocco di verde.
Ci prendemmo per mano tutti emozionati e varcammo
il portale.
Se avessero dovuto dare una forma al concetto di amo-
re, alla sua bellezza e purezza, inavvicinabilit e sfolgorio,
fremito e grandezza, forza, quiete, magnanimit e gentilez-
za, dolcezza e tristezza e tutto il resto, chiss come ci sa-
rebbero riusciti bene gli antichi che avevano costruito
quel posto.
Il tempio intero era pervaso di pace, qualcosa di medi-
tativo.
Forse anticamente l'aria traboccava di forza fresca e
qua e l c'erano sorgenti di energia. Forse, con la stessa fa-
cilit con cui si mette in bocca un frutto, quell'energia apri-
va i cuori e ne faceva un tutt'uno.
Forse in passato era possibile concepire anche l'esisten-
za della potenza degli dŠi cosć come adesso si potevano
toccare le figure parietali. Poi gli dŠi e gli uomini avevano
congiunto le loro forze e avevano sviluppato quel modo, il
modo di dare la forma dell'amore a quella piccola perla
che risplendeva sotto un cielo violentemente azzurro.
"Questo Š il faraone bambino che viene allevato dalla
dea. Vedi, succhia il latte dal seno di Iside."
"I bambini sono tutti nudi con le dita in bocca. Raffigu-
rati cosć... Š facile riconoscerli e poi sono molto belli."
Hideo e Takashi si scambiavano impressioni guardando
i dipinti. Hideo si era accorto, quasi d'un tratto, che l'Egit-
to era un paese che se non capivi non riuscivi a trovarlo in-
teressante e per questo la notte precedente aveva letto at-
tentamente la guida.
L'entusiasmo di quella conversazione, oltre a servire da
stimolo anche a me, mi riport• alla mente il periodo in cui
Takashi aveva progettato il negozio di Hideo. Avevano di-
scusso per giorni, consultato numerose riviste e libri, e stu-
diato la sua funzionalit. La notte, poi, si erano confrontati
senza dormire, arrivando a litigare. La natura della loro re-
lazione includeva anche quello. Era stato cosć anche quan-
do si erano amati. Finivano sempre col questionare in eter-
no. Per loro era una sofferenza, ma anche qualcosa di pia-
cevole. Alla fine avevano realizzato un locale che solo loro
due avrebbero potuto concepire.
Quando andai a vederlo per la prima volta, vi trovai
molte cose che Hideo non avrebbe potuto comprendere,
lui che amava la semplicit.
Il negozio era ricamato in ogni suo angolo dell'amore di
Takashi per lui.
Il bordo di legno del bancone ricoperto di pelle morbi-
da, uno specchio di vetro veneziano non troppo grande, le
tanto amate gardenie scolpite sulle pareti... lć stava tutto il
suo affetto, quello stesso che cercava di non esternare con
troppe parole.
In un modo o nell'altro, le cose che creiamo parlano di
noi con pi precisione di ogni altra.
Da quel bianco pomeriggio abbagliante, per un istante
il mio animo era volato a una notte di Tokyo. Per poi tor-
nare in quello spazio generato da un amore di uguale na-
tura.
Gli ambienti del tempio pi bui, quelli pi in fondo,
erano le stanze sacre. Restava solo un basamento su cui in
origine poggiava l'imbarcazione della dea Iside, che era
stata rubata. In quell'oscuro santuario, soltanto dei fili di
luce che passavano attraverso dei piccoli buchi illuminava-
no leggermente le figure parietali. Dai colori e dalla sacra-
lit di quello spazio inviolabile, ebbi l'impressione di riu-
scire a percepire con i sensi le sagome delle immagini sem-
plici e delicate.
"Pare che i sacerdoti che entravano qui dedicassero alla
dea dei profumi e spazzassero con una specie di scopino la
via per cui erano arrivati," disse Takashi.
Sulle pareti era raffigurata la storia della vita del farao-
ne. Il dio Khnum che lo creava con l'argilla. Una dea che
lo allattava. Il dio Amon che gli dava la chiave della vita.
Una chiave, detta di Ankh, con la punta ansata. Lo scriba
Thot con la testa di ibis intento a trascrivere il giudizio
dell'anima del faraone dopo la sua morte. Il cuore del de-
funto veniva posto su un piatto di una bilancia e sull'altro
la piuma della giustizia, la Piuma di Maat. Il cuore simbo-
leggiava il comportamento coscienzioso mantenuto in vita
Quelli grevi di peccati non venivano pi restituiti ai pove
retti e la loro esistenza di spiriti finiva.
Osservando quei dipinti su ogni centimetro di colonna,
su ogni millimetro di parete, tanto da risultare quasi os-
sessivi, pensai che tutte quelle cose potevano essere suc-
cesse davvero. Non ce n'era uno che fosse privo di signifi-
cato, era come leggere un'autobiografia o un'enciclope-
dia. Quei grandi massi erano come un enorme testo scrit-
to su papiro.
Dando una bella forma alle credenze della gente di quel
paese, cosć com'erano, quelle immagini continuavano a ce-
lebrare coloro che avevano voluto costruire il tempio.
Usciti dalla penombra delle stanze sacre, ci riposammo
all'ombra di una bella costruzione, un chiosco.
Le colonne svettavano alte con capitelli decorati in det-
taglio con stupefacenti motivi floreali; nel passato, quando
salpava l'imbarcazione sacra della dea Iside, lć venivano ce-
lebrati i riti propiziatori.
Oppressa dallo sfarzo di quell'energia, sommaria e sin-
cera al tempo stesso, ebbi una strana sensazione, come se il
mio animo venisse purificato completamente. Comunque
fosse, quello spazio sereno simboleggiava fino all'estremo
Iside e Hathor, le dee dell'amore. Circondato solo da
splendenti acque tranquille, conservava per l'eternit le
qualit del loro spirito: la fertilit, la misericordia e la bel-
lezza.
Quando la nostra barca prese pian piano il largo, ebbi
l'impressione che un minuscolo frammento del mio cuore
mi chiedesse di restare per sempre. Era triste e dolente e
faceva brillare le nostre tre immagini in preda a una com-
mozione biasimevole. In ci• stava il significato estremo di
quel luogo.






VITA DI CROCIERA.

Prendemmo una nave da crociera che scendeva il Nilo,
fermandoci a visitare i monumenti situati lungo il suo corso.
Avevo immaginato un'imbarcazione di gran lusso; in
verit le cabine sembravano un po' le stanze di un busi-
ness hotel ammuffito. I mobili da quattro soldi, i letti fis-
sati ai muri, il soffitto e le pareti sottili, entravano rumori
da ogni parte. La piscina era un po' pi grande di una va-
sca da bagno e la cucina del ristorante straordinariamen-
te cattiva. Per finire, i negozietti vendevano solo tristi
souvenir.
Nonostante tutto, quella nave mi piaceva. I ragazzi che
vi lavoravano erano simpatici e alla mano. Anche se era
piccola e la si poteva girare in un attimo, quando si sposta-
va un po' il panorama si muoveva con lei e l'atmosfera de-
gli ambienti si animava, tornava a vivere, un cambiamento
che trovavo spettacolare.
La noia di quel mondo limitato, il lusso della vista sul
Nilo che invece cambiava di continuo.
"C'Š una signorina giapponese che viaggia da sola, po-
trebbe venire al vostro tavolo?" ci chiese uno della recep-
tion; rispondemmo prontamente "yes" e cosć a bordo fa-
cemmo la conoscenza di Yukiko.
Minuta come un uccellino, abbronzatissima perch‚ in
Egitto da pi tempo di noi, la voce bassa, era una ragazza
giovane, elegante e determinata. Mi colpirono i suoi lunghi
capelli permanentati. Aveva anche il tipico sguardo aguzzo
di chi viaggia solo e il savoir-faire di una persona matura.
Mi piacque molto, tanto da voler stare sempre insieme
a lei, sia a bordo sia durante le visite ai monumenti.
La sera del primo giorno, a cena, quando vide che era-
vamo in tre e capć che uno era gay, chiese con un po' di
imbarazzo:
"Perdonatemi, ma voi in che rapporti siete?".
"Siamo semplicemente buoni amici. Davvero!" rispose
Hideo. "Qualche tempo fa sono successe molte cose tra
noi, adesso per• non pi, niente sesso o roba del genere.
Stai tranquilla che se anche diventi nostra amica, non ti
coinvolgeremo in nulla di strano. Te lo dico subito, tanto
per essere chiari."
Cosa diavolo dici, non te l'ha chiesto nessuno, pensai.
In momenti come quelli emergevano con chiarezza le fissa-
zioni della gente.
"Capisco," replic• Yukiko dimostrandosi convinta, e la
cosa finć lć. Per il resto fu molto discreta e, a parte quella e
pochissime altre, non fece pi domande personali.
Disse di avere visitato molti paesi, ma che l'Egitto le
piaceva particolarmente. Era il suo terzo viaggio in quella
terra. Aveva soggiornato a lungo ad Assuan, prima che noi
arrivassimo dal Giappone. La volta precedente c'era stata
solo di passaggio, cosć aveva desiderato tornarci con un
po' di calma.
Cosa rara fra donne, non c'era niente dell'una che desse
fastidio all'altra. Quando sentiva il bisogno di stare da so-
la, agiva per conto suo in modo molto disinvolto, sia che le
succedesse durante le visite ai monumenti, sia che le venis-
se sonno oppure voglia di fare quattro passi.
Gli eventi seguirono il loro corso naturale e and• a fini-
re che Hideo e Takashi rimasero compagni di stanza sino
alla fine. Avevano un'aria talmente affiatata da sembrare
una vecchia coppia di sposi. Arrivai a chiedermi se per ca-
so tra loro non fosse scoccata di nuovo la scintilla e non
andassero a letto insieme. In fondo anche quei pensieri
erano uno dei divertimenti del viaggio... Quando, per•,
entravo nella loro stanza, trovavo sempre Takashi intento a
studiare la cultura egizia come uno studente sotto esame e
Hideo, sfinito, che dormiva come un ghiro. Un'atmosfera
che non aveva nulla di sensuale.
Una volta Hideo si era addormentato nel suo lettino av-
volto come una mummia in una coperta leggera. Fuori dal-
la finestra scorreva il Nilo. Takashi prendeva appunti su
un quaderno con tutta una serie di libri e di cartine aperti
sulla piccola scrivania vicina alla finestra, metteva ordine
tra le pellicole e scriveva cartoline a Mimi.
Una bella scena di zelo e semplicit.
"Ti va di andare su?" mi chiese.
E cosć lasciammo dormire Hideo e andammo a berci un
cocktail dolce, specialit del bar di bordo, e un carcadŠ. A
volte eravamo saliti in coperta anche per prendere il tŠ.
Esposti al vento pomeridiano del fiume, in silenzio
l'uno di fronte all'altra, persi il concetto del tempo. Lo
scenario continuava a scorrere, mutando dal deserto a zo-
ne di verde, dai villaggi a giungle disabitate; tuttavia io, os-
servando il viso stanco di Takashi rinfrescarsi accarezzato
dalla brezza e dalla bellezza del panorama, avevo l'impres-
sione che quel pomeriggio si stesse protraendo in eterno.
Non che fosse qualcosa di particolare, eppure la perfe-
zione di quella vista appena brillante mi si impresse nel
cuore con grande intensit. Si ripose di nascosto in quel
contenitore laggi in fondo, in quella fonte segreta di ener-
gia che nessuno poteva toccare.
Quello era il vero carattere di Takashi, che celava tratti
di serenit: nella pace di quello scenario maestoso trovava
ci• che gli interessava, ci meditava con attenzione alla fine
della giornata per poi addormentarsi contento osservando
il tramonto...
Da giovane era molto pi disordinato. Separava netta-
mente il sesso dalle ambizioni, le possibilit che offriva la
metropoli di Tokyo dai desideri e dalla voglia di essere li-
bero. Il suo modo di divertirsi, poi, era catastrofico. Eppu-
re, anche a quei tempi, a volte ero riuscita a vederlo come
era adesso.
In un gesto banale, ad esempio nei momenti in cui
leggeva con piacere un libretto d'istruzioni, durante un
viaggio o quando osservava il cielo seduto su degli scalini
riflettendo sul passato del luogo, la sua brama, la sua fol-
le passione per le cose belle eppure semplici, lasciava in-
travedere un bianco barlume, come un piccolo, piccolis-
simo diamante incastonato di fianco a uno smeraldo e a
un rubino.
Cose di questo genere, ricordai.
La nave si fermava nei siti archeologici pi importanti,
noi scendevamo a terra e andavamo a visitare le rovine a
piedi.
A seconda delle divinit a cui erano consacrati, l'atmo-
sfera dei templi cambiava radicalmente. Quello del dio
Khnum, che creava gli uomini, era dedicato all'immagine
del sesso; quello del dio cattivo Sobek dalle sembianze di
coccodrillo incuteva terrore e lasciava intuire un culto fisi-
co perfino volgare. Quello del dio Horus, coraggioso falco
pellegrino, re vivente che dominava i cieli, era tinteggiato
con amore dai colori della giovinezza, della purezza e del
coraggio.
Pi ne vedevamo, pi mi convincevo che il tempio di
Iside e Hathor a File, visitato all'inizio, non potesse rap-
presentare altro che l'amore. Ero contenta di esserci stata
prima che negli altri. E grazie a quell'incontro, dentro di
me era spuntato il germoglio dell'amore. Impregnato d'ac-
qua, capivo che, per la potenza di altri elementi, si stava
dilatando come un papiro.
Sulla strada che portava ai monumenti, c'erano sempre
dei venditori. Le strategie erano varie. Ad esempio c'era
chi metteva dei bambini sul dorso di un asino e li faceva
cantare per poi chiedere soldi a chi li fotografava. Una vol-
ta fu incredibile: dall'imbarcadero sino al tempio, c'era
una fila lunghissima di "bambini con asino". Tra di loro
c'era anche chi, ormai annoiato, si girava da una parte e
dall'altra cantando alla bell'e meglio.
Dall'altura delle rovine la vista del mercato degli ambu-
lanti mi aveva emozionata un po'. In fila sulle bancarelle
sventolavano alla brezza della sera le gallabiyyat (le tuniche
che gli egiziani indossano abitualmente) per turisti ricama-
te in mille modi.
Come bandiere, danzavano nella luce dorata che prove-
niva da occidente. Quando per• scesi dal tempio ci erava-
mo ritrovati circondati dalla folla di venditori, eravamo
stati costretti a tornare di corsa all'imbarcadero.
Un'altra volta, ero rimasta di stucco quando mi ero ac-
corta che c'erano persóne che cercavano di venderci cose
dal ponte di una chiusa che il battello stava attraversando.
Dall'alto della loro postazione facevano sventolare galla-
biyyat, costumi da danza del ventre e tessuti vari. Sotto,
noi seduti in coperta a guardarli.
"Come si far a pagare?"
Incuriosito, Hideo aveva deciso di comprare una stof-
fa. Piano piano la nave si avvicinava al ponte. Terminate
le trattative a urla, i venditori avevano fatto cadere la
merce nell'istante in cui eravamo passati sotto di loro In-
sieme al contenitore di un rullino da rilanciare con den-
tro i soldi.
Un commercio non certo semplice. Hideo, che era un
tipo onesto, vi aveva messo il denaro e l'aveva gettato alto
alto. Il ragazzino con cui aveva trattato l'acquisto l'aveva
preso al volo e gli aveva sorriso.
"Che bello! E andato tutto bene. Non ci conoscevamo
per niente, per• ci siamo fatti un gran sorriso!" aveva
commentato.
Di notte la nave restava attraccata senza muoversi Al-
l'aperto non si poteva stare, perch‚ oltre ad abbassarsi la
temperatura, soffiava un vento sorprendentemente freddo,
e cosć stavamo sempre sotto coperta.
Dalle finestre si vedevano molte altre navi da crociera
simili alla nostra. Con il buio del Nilo come sfondo, sem-
bravano dei palazzi che sprigionavano luce.
Quelle lontane delle citt si distinguevano ai bordi del
fiume.
Di sera, divenne una piccola abitudine quella di bere
una birra in camera con Yukiko. Forse perch‚, per quanto
Takashi e Hideo fossero come delle amiche femmine, sen-
tivo la necessit di uno spazio dove potermi cambiare sen-
za problemi o di fare stupidi discorsi da donne con una
donna vera.
Seppi che aveva imparato l'arte del cesello in Giappone
e in Italia. Che il suo ragazzo, un giapponese che studiava
culinaria a Roma, sarebbe tornato in patria dopo un anno,
che pensavano di mettere su casa a Tokyo, che si erano co-
nosciuti in Italia e che dopo quel viaggio sarebbe stata per
circa un mese a Roma.
Non era certo una che parlava con facilit delle sue co-
se, per• un poco alla volta mi aveva fatto qualche confi-
denza. Fuori dalle finestre si vedevano l'acqua nera e le lu-
ci delle navi. La musica da quattro soldi che ogni sera pro-
veniva dalla discoteca del piano superiore, comunicava
una strana sensazione, piacevole e un po' nostalgica.
Quando si incontrano persone con cui si condividono
delle cose, si finisce per parlare la stessa lingua. Osservando
le reciproche creazioni, si pu• intuire cosa e quanto piac-
cia all'altro e ci• che desidera fare.
A bordo, per•, non avevamo portato i nostri gioielli.
Eppure avevo l'impressione di sapere come fossero i suoi:
audaci e molto femminili. Credevo anche che mi potessero
piacere.
Per proteggersi dai raggi del sole o dal freddo, avvolge-
va sempre spalle e fianchi in uno scialle scarlatto. Di solito
portava solo i colori fondamentali, eppure quello s'intona-
va benissimo ai lineamenti ben marcati del suo viso. L'im-
magine di quello scialle, che come un fiore danzava legge-
ro a ogni suo movimento, divenne un altro dei miei ricordi
pi cari.
"Penso che non ci siano persone che vogliono davvero
viaggiare da sole," disse una volta Yukiko.
"Che diavolo dici? Ma se Š quello che hai sempre fatto
tu!" risposi, e lei:
"Nel senso che si desidera sempre incontrare altra gen-
te. Ti assicuro che non ci si vuole certo estraniare per tutta
la durata del viaggio. Credo che per un essere umano sia
impossibile riuscire ad agire completamente solo".
"Non dipender dal fatto che per noi umani Š indispen-
sabile comunicare?" feci io, lei annuć e mi rispose:
"Quando affitti un'auto, viaggi per centinaia di chilo-
metri su strade di campagna dove non c'Š anima viva e
non ti capita di parlare se non quando fai la spesa; al-
l'inizio provi una gran pace nell'animo. Poi poco alla volta
cominci a sentire che prende a vagare. Diventa difficile
riuscire a concentrarsi anche su quello che ti sta davanti
agli occhi. Se perseveri, poi finisce che cominci ad avere le
allucinazioni. E non riesci pi a stare sola, una cosa molto
pi semplice di quanto si possa immaginare".
Un'altra volta disse:
"Voi tre sembrate pap, mamma e bambino".
"Non mi dirai che la bambina sono io, eh?" le chiesi in
un sobbalzo.
"No, non tu, Takashi! Mi fa quest'impressione. Tu e Hi-
deo invece sembrate i due genitori che con tutte le forze
portano in giro per l'Egitto il figlioletto malato," disse e si
mise a ridere. In quell'istante morii dalla voglia di dirle
tutto, ma tacqui sentendo di non poterlo ancora fare. Co-
munque lei, in possesso di una sensibilit tale da percepire
quel che di ingenuo traspariva da noi tre, qualcosa che si
poteva definire sia tensione sia bellezza, se anche l'avesse
saputo, forse non avrebbe cambiato affatto atteggiamento
nei nostri confronti.
"Senti, a che et ti sei innamorata la prima volta?" mi
chiese all'improvviso una sera, in camera sua, mentre ci fa-
cevamo una maschera doposole all'aloe.
"Perch‚ lo vuoi sapere? Cosć, tutt'a un tratto."
"Non fare storie e cerca di ricordartelo!"
La mia memoria torn• al cortile delle elementari di Naga-
no, mentre mi chiedevo perch‚ dovessi ricordarmi del mio
primo amore proprio sul Nilo.
"Ah, sć, quando facevo la quarta elementare. Eravamo
andati in gita sullo Yatsugatake e passammo la notte in
uno chalet," dissi.
Lei senza scomporsi disse "sć" in segno di assenso. Illu-
minata dalla maschera sul viso, con i lunghi capelli intrec-
ciati e appoggiata allo schienale della sedia, sembrava una
statua.
"Cosć di notte mi misi a parlare con un bambino nel
corridoio. Intorno a noi c'era della gente che andava in gi-
ro a fare casino."
La settimana prima gli avevo fatto un brutto scherzo.
Mentre si alzava per salutare il maestro che entrava in clas-
se, gli avevo spostato la sedia e lui era caduto. Ormai cre-
devo non ci fossero pi tonti che potessero cascarci, per
cui, quando era ruzzolato a terra facendo un gran fracasso,
ero rimasta senza parole davanti a tanta stupidit.
Nel silenzio dell'aula, il rumore che aveva fatto si era
sentito fino alla cattedra. Il maestro, su tutte le furie, mi
aveva dato una lavata di capo. E lui a quel punto aveva
detto:
"No, maestro! La colpa Š mia che sono caduto apposta".
"Non Š colpa tua," volevo dire, poi mi era parso che la
sua bont spontanea penetrasse nel mio animo. E davanti
a una scusa tanto commovente, anche il maestro aveva pla-
cato la sua ira.
"Sei riuscita a farlo innamorare facendolo cadere? Ti
invidio, sapessi la fatica che ho fatto io!" comment• Yuki-
ko. Io proseguii:
"Quella notte non smettevamo pi di parlare dalla felicit
di trovarci sotto lo stesso tetto a un'ora in cui di solito erava-
mo sempre separati nelle rispettive case. Eravamo ancora
piccoli, per cui non ci sfior• nemmeno l'idea di toccarci. Sa-
pevo soltanto che avevamo poco tempo a disposizione. Non
ci siamo detti niente di speciale, solo sciocchezze. Per•,
quando si sono abbassate le luci e gli altri sono andati a gio-
care da qualche altra parte, noi siamo restati lć a parlare, infi-
schiandocene dello scherno di cui saremmo stati oggetto.
Niente di concreto, non ci siamo nemmeno detti che ci vole-
vamo bene. Era una semplice simpatia molto intensa".
"Ci sono stati sviluppi poi?"
"No, io ho cambiato classe e non ci siamo pi visti."
"Va sempre a finire cosć!"
Eppure, stranamente, mi sembrava di non ricordare al-
tri momenti, nemmeno da grande, in cui ero stata oggetto
della simpatia di qualcun altro, in un modo puro come
quello provato nel buio di quella notte. Forse perch‚ gli
adulti pensano sempre al dopo. Un'assurdit. Invece, quel
concentrato di energia che illuminava le tenebre, quello sć
che era qualcosa di spettacolare.
"Sai, la verit Š che il mio ragazzo attuale Š anche il mio
primo amore," disse Yukiko.
"No! ? ! "
"Davvero, fino a quando ci siamo messi insieme cinque
anni fa, sono rimasta vergine e non c'era nessuno che mi
piacesse, tanto che pensavo di non essere normale."
"Non ti eri mai innamorata? Neanche un po'?"
"No, mai."
"E per quale motivo?"
"Forse perch‚ riuscivo a fare tutto per conto mio. Gui-
davo, parlavo le lingue, non avevo paura di niente ed ero
sempre in viaggio. Da sola riuscivo a essere sia uomo che
donna," rispose.
"Che cosa ti ha attratto del tuo ragazzo?"
"Chiss! Forse il fatto che si distinguesse chiaramente
dagli altri."
"Che ragione strana!"
Il mondo Š bello perch‚ Š vario, pensai.
"Per me era importante. Sai, fino ad allora mi dimenti-
cavo addirittura dell'esistenza degli altri. Tutta concentrata
su me stessa," disse.
Parlando di quelle cose di poco conto, la notte si era
fatta pi nera, la musica era finita e il rumore dei passi dei
passeggeri di ritorno alle cabine giungeva attraverso le pa-
reti.
Stando con quella ragazza minuta come un uccellino, di
quando in quando avevo l'impressione di essere stata sem-
pre con lei a parlare in quel modo. Il nostro incontro an-
dava al di l del fatto che fossimo entrambe donne. C'era
addirittura qualcosa di spirituale. Emanava il profumo del-
la libert, quella di un falco che vola alto nei cieli. Due se-
mi sparsi sulla vastit della terra che per un caso incredibi-
le si impigliano in uno stesso filo sottile e finiscono con
l'incontrarsi, accada quel che accada.
Sul Nilo immerso nella notte, sentivo germogliare nel
silenzio il fatto che fossimo due donne, che avessimo le
mani affusolate e che ci muovessimo facendo svolazzare
l'orlo delle gonne.
Una sera uscii in coperta, mi sedetti su una sdraio ai
bordi della piscina e cominciai a leggere un libro. Yukiko
si mise al mio fianco a osservare il Nilo con il viso esposto
ai raggi trasparenti del sole.
Dopo un po' salirono anche Hideo e Takashi con l'aria
annoiata. Si sedettero vicino a noi e ordinarono qualcosa
da bere.
In lontananza si vedevano dei monti. Il Nilo, immenso
quanto un mare, cullava la nostra nave lungo il suo corso.
Spirava una brezza che portava con s‚ la secca calura.
Il corpo veniva quasi purificato da quella perfetta luce so-
lare.
Qualche minuto pi tardi i raggi si dipinsero legger-
mente d'arancio, colpendo soprattutto i contorni delle
montagne giallo sabbia. La loro ombra s'intensific• un po'
e, quando me ne accorsi, ormai erano completamente di-
ventate di un colore brillante che non si poteva definire n‚
oro n‚ arancio. I raggi dorati piovevano sulla nave tingen-
do la pelle dei miei compagni.
Il sole, il dio di quella terra, se ne andava un poco alla
volta. Il mio cuore prese a dolersi dell'imminente scom-
parsa, arrivando a comprendere sino in fondo il credo di
quegli uomini che in passato avevano pregato perch‚ ogni
giorno tornasse a sorgere.
Quella carrozza d'oro su cui erano montate la bellezza
e l'energia, superava qualsiasi immaginazione. Illuminando
ogni cosa in ugual misura con il vigore della sua luce, invi-
tando l'animo degli esseri umani a raccogliersi in medita-
zione, attraverso storie di purificazione ne tingeva le gior-
nate, giornate in cui si avvicendavano tutta una serie di co-
se in maniera molto naturale. Inducendoli cosć a tornare
alle loro insignificanti attivit quotidiane.
Quella era la forza del sole.
A questo mondo niente ne superava la potenza. Un'al-
chimia in grado di qualunque cosa.
Il sostegno di quel paese circondato da una natura cru-
dele era senza dubbio quel sole.
Sulla sponda del fiume si vedevano persone che saluta-
vano agitando la mano.
"Incredibile! Se ascoltate bene, si sente la parola 'baqsls .
Vogliono dei soldi. Come pensano sia possibile? Sono cosć
lontane ! "
Il sorriso di Hideo e il volto abbronzato di Takashi che
replicava ridendo: "Lo diranno al posto del saluto!" erano
colorati d'arancio.
Mi era gi successo di provare qualcosa di simile. Nel
giardino della casa di Takashi, guardando il cielo del matti-
no il giorno dopo la sua festa. Ebbi l'illusione che da
quell'alba a quel tramonto fosse trascorsa solo una lunga,
lunghissima giornata.
Tutti i passeggeri saliti in coperta osservavano il sole
sparire dall'orizzonte. Gente di ogni nazionalit. L'enorme
palla di fuoco arancione piano piano sprofondava nella
terra.
Nacque una preghiera. Pensai di voler seguire il ritmo
della natura. Forza immensa che non perdona alcuna acce-
lerazione. Forza che protegge, distrugge, cresce e fa torna-
re alla terra. Enorme orologio che crea il mondo.
Lć gli dŠi possedevano ancora la loro forza.






LA NOTTE DI LUXOR, LA CARROZZA DEI FARAONI.

Yukiko disse di dover comprare dei profumi che le aveva
chiesto un'amica e and• a prenderli per conto suo, cosć noi
tre decidemmo di farci un giro per la citt.
"Prendiamo la carrozza! Quella pi fastosa con le de-
corazioni oro e blu ! "
Hideo non stava pi nella pelle, perch‚ un cameriere di
cui era diventato amico a bordo gli aveva consigliato una
serie di bei negozi. Per cui, quando salimmo sulla carroz-
za, si sedette al posto pi alto di fianco al cocchiere e prese
a indicargli con entusiasmo la strada e a dirgli il nome dei
negozi.
Io e Takashi ci sedemmo vicini, sul sedile posteriore,
con tanto di decorazioni e mantice.
A prima vista, poteva anche sembrare lussuosa, ma in
realt era di vinile sottile e anche le decorazioni non erano
altro che plastica rivestita di carta dorata.
Eppure si confaceva stranamente all'aria densa di quel-
la serata. Non sapevo se dipendesse dal fatto che ci fossero
monumenti grandiosi nelle vicinanze o che si percepisse
qualcosa di storico, comunque la sera a Luxor era melan-
conica e piena di vita. Un'atmosfera fresca che entrava nel-
le ossa attraverso i pori.
Quando la carrozza cominci• a correre sulla strada che
seguiva il corso del fiume, mi commossi. Il panorama sa-
rebbe risultato finto se goduto a una velocit diversa da
quella del trotto di un cavallo.
"Wife?" chiese il cocchiere a Takashi girandosi verso di
noi e indicandomi con un dito.
"Sure!" risposi io.
"Beautiful! You are lucky!" fece di nuovo a Takashi.
"Do you have wife?" gli chiese lui in un inglese appros-
simativo.
"No wife, but many girlfriends! Special girlfriend is
eighteen!" rispose. Era pi o meno sulla quarantina. Que-
sto spiegava la sua aria compiaciuta.
"But you are lucky, your wife is beautiful! And this is
special coach! For king and queen!"
Ebbi davvero la sensazione che a bordo di quella car-
rozza da niente fossimo come un re e una regina circondati
dall'oro, tale fu la felicit con cui ce lo disse.
Rimasi incantata a osservare il Nilo che sobbalzava a
ogni nostro sballottamento. Molte erano le navi attraccate,
sulla superficie dell'acqua le loro luci fluttuavano sino in
lontananza. Che citt rigogliosa! Gli alberi ai lati dei viali
emanavano un'aria dolce, ogni cosa respirava irradiando
energia.
Le stelle numerose in cielo illuminavano in ugual misu-
ra il fiume e la citt, e il rumore degli zoccoli si sovrappo-
neva a quello delle auto, creando una strana armonia. Per
le strade echeggiava un ritmo vitale. Dopo un po', i viali
asfaltati diventarono polverosi vicoli di terra battuta, noi ci
accordammo con il cocchiere per il ritorno e ci facemmo
lasciare in una zona molto affollata.
Come in un set cinematografico, sembrava che tutta la
gente della citt si fosse raccolta lć apposta per ridere e
scherzare, l'atmosfera della sera era elettrizzante. Com'era
prevedibile, di donne neanche una; gli uomini, invece, sta-
vano seduti sul ciglio della strada a fumare il narghilŠ, inten-
ti in un gioco che aveva tutta l'aria di essere backgammon.
Ci sedemmo a un caffŠ al pianoterra di una pensione
per stranieri. Le sedie e i tavolini erano disposti anche nel
vicolo davanti al locale. Pareva di essere su una veranda
d'estate. Io bevvi un tŠ caldo alla menta. Hideo prese inve-
ce ad aspirare, tutto concentrato, il tabacco al miele da un
narghilŠ eccessivamente decorato. Pi di una volta in quei
giorni avevo pensato che fumando quella roba si perdesse
la capacit di riflettere, cosć almeno mi sembrava.
Takashi bevve una tisana gialla dal sapore indefinibile
che sembrava una medicina per favorire la digestione.
"Mi hanno detto che fa bene quando si ha un peso sul-
lo stomaco," disse a Hideo:
"Non sai proprio darti per vinto, eh? Ormai qualsiasi
cosa bevi Š lo stesso per te!".
Rimasi senza parole a sentire quell'incredibile battuta.
Lui invece, ormai avvezzo al suo compagno di camera, si
mise a ridere e gli chiese di lasciarlo in pace. Forse Hideo
riusciva ad assuefarsi alla realt delle cose solo attraverso il
suo spirito.
"Per• Š vero, sono diventato pi sensibile, capisco su-
bito cosa fa bene alla salute," continu• a un tratto Ta-
kashi.
Le stradine erano affollate di gente che andava e veni-
va. Mille edifici a ridosso. Alberghi, caffŠ, abitazioni ed
empori. Non c'erano molti negozi per turisti. Giusto una
bigiotteria che vendeva gioiellini d'argento.
"Ah, sć!" feci io. Hideo, immerso com'era nel mondo
del suo narghilŠ, emanava senza parlare un dolce profumo
di miele, ma questa volta aggrott• le sopracciglia come in
difficolt.
Takashi proseguć:
"Sono contento perch‚ riesco a prendermela pi como-
da di prima. Quando sto male, sto male cento volte di pi,
e quando sto bene o mi lascio andare, invece, provo una
felicit tale che mi sembra quasi di volare. Chiss perch‚
sino a ora non sono riuscito a vedere le cose in questo mo-
do. A ben pensarci, non ho nemmeno un ricordo".
"Neanche uno? Starai scherzando, vero? Ti sei dimen-
ticato, che so, della nostra prima notte, di quando sul far
del giorno siamo andati insieme a mangiare il ramen a Shin-
juku?" disse Hideo a voce alta togliendosi il bocchino dal-
le labbra.
Takashi sorrise.
"Certo che mi ricordo! Per• ero sempre di fretta, sem-
pre, facevo una cosa e gi pensavo a quella dopo e a quella
dopo ancora. E la prima volta che faccio un viaggio di
questo tipo in compagnia. Avremmo dovuto farne altri
molto tempo fa."
Non si era trattato soltanto di una confessione triste,
bensć di un monologo spontaneo che recitava sulla felicit
e la gratitudine. Pertanto tirai un sospiro di sollievo.
In carrozza, al ritorno, pensai.
Nei confronti della vita non possedevo nessun tempera-
mento particolare come Takashi. Vivevo alla giornata e,
non so perch‚, il futuro mi aveva sempre fatto paura.
Per• sul lavoro, quando disegnavo, mi succedeva una
cosa strana. Nei momenti in cui mi riusciva qualcosa di
ben fatto, di speciale, con una forza uguale al desiderio di
continuare a lavorarci in eterno, venivo allontanata da una
luce che diceva: "Fai cose ancora migliori!". Se si faceva
troppo insistente, per•, finiva col disperdersi. In quei fran-
genti pensavo:
"Sarebbe fantastico se la persona che porter questo
mio anello dovesse naufragare su un'isola deserta e questo
per lei dovesse diventare l'unico anello al mondo. Forse
riuscirebbe a percepire quello che ci ho messo dentro e
addirittura pure qualcosa di universale. Intorno a me suc-
cedono troppe cose, incluso il fatto che continuo a fare
anelli nuovi. Non mi Š pi possibile osservare le cose con
uno spirito in grado di impadronirsene una a una. Mi
manca il tempo di conoscerle a fondo".
"Qualcosa del genere?" chiesi a Takashi.
I sonagli del cavallo tintinnavano. E le decorazioni della
carrozza ballavano al loro ritmo.
"Sć, pi o meno. Anche se la libert Š sempre un poco
pi in l, quando ci si trova bloccati in una posizione fissa,
manca l'aria come dentro una scatola e ti viene ancora pi
voglia di andare avanti. Poi ci sono quelli che ti stanno in-
torno e ti guardano con la faccia compassata."
Lo ascoltavo e mi sovvenne che durante la nostra convi-
venza, quando pensavo che fosse gi di morale, faceva
sempre le cose in gran fretta e parlava solo al futuro, vici-
no o lontano che fosse. L'energia che lo catturava in quei
momenti non proveniva dal sole, dalla luce o dalla vita,
bensć dalla morte.
"Un tempio, un tempio!" grid• Hideo dal sedile ante-
riore.
Nella penombra si vedevano delle bellissime colonne
disposte su due file. Colonne dalla forma di fusti di papiro
fascicolati. Il tempio di Luxor, disse Takashi.
"Bellissimo, cosć in mezzo alla citt. Come se niente fos-
se, come una casa privata o una spazzatura qualsiasi," dis-
se Hideo.
Come se gli dŠi che l'abitavano avessero spento la luce
per dormire, il tempio imponente sprofondava nella pace
delle tenebre.
Alzai lo sguardo e, attraverso le decorazioni lucenti a
forma di stella, vidi la schiena ricurva di Hideo e quella ro-
busta del cocchiere al suo fianco, simile a quella di mio pa-
dre. E oltre, molto, molto pi lontano, le stelle vere che ri-
splendevano nel buio del cielo.
"E adesso? E adesso, durante questo viaggio come ti
senti, Takashi?" gli chiesi.
"In questi giorni mi capita spesso di dimenticarmi del
tempo che scorre," rispose osservando passare l'enorme
pilone dell'ingresso del tempio.
"Ho visto talmente tante cose, tutte cosć maestose, che
non ho avuto il tempo di pensare al mio futuro."
L'aspetto era felice.
Eppure non Š che mostrasse sempre quel sorriso sere-
no. C'erano mattine in cui aveva gli occhi gonfi per il pian-
to e momenti in cui guardava il panorama con un'aria tal-
mente sconsolata da non potergli nemmeno rivolgere la
parola. Ma allo stesso tempo, anche degli attimi in cui si il-
luminava di felicit in un modo mai visto in passato.
Non dava una sensazione di squilibrio, piuttosto sem-
brava che si stesse esaminando in profondit.
Io invece, quando per caso lo toccavo solo un istante,
mi sembrava che una minuscola scheggia di tensione rag-
giungesse a stento i miei sensi e non potevo fare a meno di
pensare al virus.
E quella flebile sensazione finiva col trasmettersi chiara
a lui. Non Š pi come una volta... queste parole emersero
dall'acqua scura sul fondo del cuore.
Non l'avrei fatto comunque, per• a quel punto i baci e
l'amore di una volta... Non sarebbe stato pi possibile
condividere le emozioni del crepuscolo con la stessa sem-
plicit... Sć, ormai con nessuno Takashi avrebbe potuto fa-
re a cuor leggero queste cose.
Non avrei mai immaginato che potesse essere motivo di
tale e tanta tristezza. Una cosa all'apparenza da nulla, in
realt dolorosa e greve, come un destino che in un baleno
vanificava l'amore.
Una realt che con una forza perentoria adombrava an-
che le tranquille attivit di tutti i giorni. Qualcosa per cui
nessuno avrebbe potuto fare nulla.






LA VALLE DEI RE, YUKIKO E L'OLTRETOMBA EGIZIO,
THUTMOSIS III.

"Una volta avevo moltissimi gatti a casa," disse Yukiko.
"Ogni tanto ne moriva uno e lo seppellivo sotto il pruno
del giardino. Solo che in dieci anni ne ho sotterrati talmen-
te tanti che adesso non si capisce pi niente."
"Cosa stai dicendo?" le fece Hideo asciugandosi il su-
dore col fazzoletto.
Era una giornata torrida. Il sole scottava senza piet e
non si riusciva quasi a connettere.
In un'enorme valle senza un filo d'erba, tra una catena
di montagne calcaree, riposavano per l'eternit i re di
quella terra. Un picco svettava come una piramide. Lć di-
morava una dea chiamata la "donna che ama il silenzio".
Lontani dal Nilo, i re la pregavano perch‚ li proteggesse
dagli intrusi. Nelle braccia della pace assoluta.
Nonostante i turisti fossero numerosi, la valle era tal-
mente estesa che sembravano formichine che camminava-
no nel palmo di una mano.
"Dico soltanto che assomiglia al mio giardino! Con
tutte queste tombe in un colpo solo. Sai, a casa nostra or-
mai non possiamo pi scavare e seminare piante dove ci
pare."
"E' davvero cosć? Qui per• ne hanno costruite anche una
sopra l'altra. Ad esempio quella di Tutankhamon, i ladri
non l'hanno trovata, perch‚ era sotto quella di Ramses VI.
Ce ne sono sessantadue in tutto, comprese quelle che non
sono ancora state localizzate."
"Va bene, ho perso! Da me non ce ne sono cosć tante."
Proseguendo nella conversazione, camminavano con
passo fiacco.
Comprammo i biglietti d'ingresso, piccoli rettangoli di
carta sottile, e visitammo le tombe una dopo l'altra. I ladri
erano stati fantastici. Senza esagerare, a parte quello che
era dipinto sulle pareti, avevano rubato tutto. Tanto da
pensare che la loro energia eguagliasse quella con cui erano
state scavate le tombe stesse. Mi chiesi come avessero potu-
to profanare le tombe dei re, lavorando nel buio in una re-
gione cosć remota. Che tipo di nervi d'acciaio fossero stati
necessari. Con che spirito avessero rinunciato alla felicit
della vita futura in quell'epoca. I tombaroli continuavano a
esistere in quella terra nelle vesti di predatori di reperti ar-
cheologici. A proposito di un articolo nel giornale locale re-
lativo al furto in una tomba, un ragazzo conosciuto sul po-
sto, seppure sconsolato, aveva detto:
"Nessun problema! Anche se ne hanno saccheggiata
una, ce ne sono talmente tante".
Sembrava addirittura che avessero utilizzato massi presi
dai vicini templi preesistenti per edificarne di nuovi, o che
avessero racimolato pietre dai monumenti circostanti per
costruirsi le case.
Di reperti ce n'erano a iosa, o almeno cosć sembrava.
Comunque, dentro le tombe non restava che fare lavo-
rare l'immaginazione. Fui felice di vedere le immagini co-
lorate alle pareti. In quei dipinti tombali di faraoni, divi-
nit, navi e cibo, si conservavano nei loro tratti ben detta-
gliati solo i colori vivaci, blu, rosso, oro, verde e giallo.
Pare che per realizzare quelle immagini sia stata neces-
saria una mole di lavoro impressionante. Si racconta che
sminuzzassero il calcare, lo unissero a cera d'api, albume
e al minerale che serviva come base per il colore, che fa-
cessero asciugare il tutto al sole mentre costruivano gli ar-
nesi, e che, una volta terminata l'opera, la passassero nuo-
vamente con la cera d'api. In quel paese dal cielo azzurro,
chiss cosa provavano gli antichi pittori quando, dopo
una giornata di lavoro trascorsa al buio, uscivano all'aria
aperta e alzavano lo sguardo verso il sole abbagliante del-
la valle.
Forse non vedevano niente pi del panorama che si go-
deva e che da allora non era cambiato per niente.
Nelle stanze degli oggetti sepolcrali, degli stessi non re-
stava neanche l'ombra.
Nell'ambiente dove avrebbero dovuto trovarsi le urne,
ce n'erano molte dipinte alle pareti; stessa cosa in quello
degli strumenti musicali. Ve n'erano pure con tappeti, mo-
bili e cibo. Nonostante fossero completamente vuoti, si ca-
piva molto bene lo scopo per cui erano stati progettati.
Pensai che fosse come disegnare dei vini sui muri di
un'enoteca, e di fronte a quel tipo di logica, provai uno
strano sentimento di pace e violenza al tempo stesso.
Era un atteggiamento che gli egiziani di oggi avevano
ereditato. Per la religione islamica Š molto importante recar-
si in pellegrinaggio una volta nella vita alla Mecca, per cui
sui muri delle case di quelli che c'erano stati molto tempo
prima venivano raffigurati dei cammelli. Perch‚ il proprieta-
rio c'era andato sul loro dorso. Adesso, per•, che vanno in
nave o in aereo, con molta onest disegnano navi e aerei.
All'inizio ero rimasta a bocca aperta. Sul muro di una casa
c'era dipinto addirittura un jumbo.
Col tempo anche quell'immagine sarebbe diventata an-
tica. Nella stessa terra, mescolandosi alle cose che veniva-
no dal passato, quelle destinate all'eternit restavano, le al-
tre svanivano.
Vivendo, giorno dopo giorno, in mezzo ai monumenti
antichi, assimilavano quella percezione del tempo. Avvici-
nandosi sempre pi al loro credo.
"Le persone quando morivano si trasformavano in
energia, cosć si credeva," disse Yukiko. Era una grande ap-
passionata del mondo dei morti dell'antico Egitto e sapeva
un sacco di cose. Di quando in quando ci illustrava le sue
strane conoscenze e Hideo la chiamava l"'egittologa del-
l'aldil".
Ci aveva detto che quando faceva il liceo, all'improvvi-
so le era nato l'interesse per le mummie, cosć che aveva ini-
ziato a occuparsi delle culture che le avevano generate e da
allora aveva continuato a leggere libri sulla visione della vi-
ta e della morte in Egitto. Per questo sapeva tutta una se-
rie di strani dettagli, veri o falsi non si sa, e queste sue no-
zioni misteriose tingevano il nostro viaggio di colori altret-
tanto misteriosi. Come se quello che vedevamo con i nostri
occhi di giorno rappresentasse l'Egitto ufficiale, e ogni
tanto facesse la comparsa l'Egitto delle ombre.
"Diventavano spiriti?" le chiesi.
Stavamo per raggiungere la tomba di Thutmosis III, Ci
eravamo fermati a bere un succo dopo tanta sete. Avevamo
scarpinato sotto il sole, cosć sentivo il liquido spandersi nel
corpo. In quel momento la fatica fisica mi opprimeva ma
una volta divenuta un ricordo, l'avrei dimenticata comple-
tamente e mi sarei ricordata soltanto del blu intenso del
cielo da cartolina, del color sabbia dei monti e del buio da
vertigini all'ingresso delle tombe.
La incitammo e lei proseguć la sua lezione sull'aldil
egizio.
"Sć, quelli che noi chiamiamo 'spiriti' sono in effetti
energia. L'energia Š molto vicina agli uomini, conosce be-
ne ci• che li riguarda e loro a volte riescono a vederla.
Quando si muore, l'aspetto fisico se ne va e cominciano a
prendere forma le sagome degli dŠi e il bellissimo panora-
ma del mondo ultraterreno. Il dio pi importante dell'ol-
tretomba si chiama Osiride, Š quello che avete visto raffi-
gurato in moltissimi templi e qui nelle tombe. Lui in origi-
ne era un essere umano. Quando morć, tra quelli che lo
prepararono per il funerale si intromise un pagano, che
gli tagli• il corpo in quattro parti. Sua sorella Iside, che
era gi nel mondo dei morti, vide la scena in sogno. Osiri-
de, smembrato in quel modo e senza il cuore, non poteva
pi sostenere il giudizio della Piuma di Maat. Cosć la so-
rella ne ricompose le spoglie, pronunci• alcune formule
magiche e restituć al cadavere del fratello la forma origina-
ria. Lui si present• al cospetto di Thot per essere giudica-
to, ma il dio, temendo che potesse essere pericoloso to-
gliergli il cuore una seconda volta, gli concesse l'ingresso
nell'aldil senza pesarglielo. Le altre divinit, venute a co-
noscenza di tale favore, attaccarono Osiride spinte dalla
gelosia. Il poveretto venne squartato ancora una volta e
sepolto dentro le quattro colonne che indicavano i punti
cardinali del mondo ultraterreno. E di nuovo Iside con un
sortilegio ne ricompose il corpo. Ma il suo calvario non
ebbe fine lć: venne bruciato, perse la parola, lo assalirono
un serpente, una lucertola e un'enorme mantide religiosa
e nell'orribile inferno dei morti risultati peccatori duran-
te la pesatura dell'anima, con un inganno fu sul punto di
nutrirsi del sudiciume. Gli spiriti che mangiavano quel
cibo non potevano pi tornare nell'oltretomba tra i puri.
Per•, durante quell'ultima lotta, nel momento in cui
l'ombra mut• in luce riportando i raggi del sole su quel
mondo avvolto dalle tenebre, venne fatto dio da Thot.
Perci• in questo paese quando si muore, si diventa tutti
'un Osiride', dal suo nome."
Ascoltate in mezzo a tutte quelle tombe, le sue storie ri-
suonavano silenziose nelle orecchie, lontane dalla confu-
sione degli altri turisti, con uno strano realismo.
Cosć le persone morivano e cominciavano una vita ul-
traterrena e, per vivere vicine agli dŠi, abbandonavano in
quella valle il loro cadavere e gli oggetti indispensabili ad
affrontare il viaggio dopo la morte.
"I riti funebri che venivano celebrati qui, pi che por-
re fine ai rapporti terreni, ricordavano le verit dell'ol-
tretomba e servivano a propiziare l'inizio di una nuova
vita. Quando moriva qualcuno, si pensava solo alle cose
future."
La sorgente dell'enorme energia che era stata lasciata lć
stava proprio in quella fede incondizionata.
Eppure, chiss perch‚, in tutte le culture i miti dell'al-
dil comunicavano oltre che un senso di tristezza, bellezza,
confusione e fastidio anche qualcosa di nostalgico. Forse
perch‚ noi tutti sviluppavamo il nostro modo di pensare
sulla loro base, o perch‚ in passato ne avevamo fatto parte.
Nessuno poteva saperlo.
La tomba di Thutmosis III era un po' diversa dalle altre
gi dall'ingresso. Per proteggerla dai profanatori, era stata
costruita a una discreta altezza ed era profondissima. Cosć,
per visitarla ci tocc• salire un infinito numero di scalini al-
ti, rimanendo senza fiato.
Tuttavia, anche quello sforzo era stato vano, perch‚ i la-
dri avevano portato via tutto. Nella tomba non restava
niente, tanto da risultare paradossalmente interessante.
Camminavo per quei soffocanti corridoi sotterranei,
pensando alla fatica che dovevano avere fatto per scavarli.
Nonostante fosse un soggetto gi visto in molti altri monu-
menti, la distesa infinita della volta celeste sul soffitto e le
stelle dorate dai tratti delicati come asterie che emanavano
una bella luce, erano notevolmente vivaci.
C'erano molti dipinti che raffiguravano il faraone men-
tre apriva la porta del tempio durante la vita terrena. Era-
no linee abbozzate solo con due colori: nero e rosso. Ai
miei occhi, che fino a quel momento avevano visto figure
molto pesanti, apparvero moderni. Anche le scritte verti-
cali, simili a quelle delle pitture su rotolo cinesi o dei sutra
tibetani, avevano tratti molto leggeri.
"Sembrano le strisce di Hige e boin,Å» disse Hideo sot-
tovoce, e io feci di tutto per rimanere seria, pensando
all'incredibile eco che avrei originato se fossi scoppiata a
ridere lć dentro.
Era uno spazio essenziale, come se avessero srotolato e
steso sulle pareti i disegni di un papiro.
Thutmosis III era il legittimo successore al trono, ma
venne tradito dalla matrigna Hatshepsut che approfitt•
del fatto che fosse ancora un bambino per rinchiuderlo a
lungo in una prigione. Lei si incoron• re e fece edificare
un obelisco e un tempio enormi. Nei suoi ritratti era sem-
pre raffigurata con la barba. Questo perch‚ alle donne non
era concesso divenire faraoni. Alla sua morte, Thutmosis III
salć al trono e per vendetta fece cancellare il nome della
matrigna da tutte le iscrizioni del tempio da lei voluto.
Sui faraoni d'Egitto avevo sentito tante storie terribili,
molti episodi di epoche turbolente, eppure quella di loro
due mi rest• impressa in modo assai vivido.
Sulle scale che portavano al vestibolo, mi accadde una
cosa incomprensibile. All'improvviso venni assalita da un
senso di oppressione all'altezza delle cosce, tanto da avere
difficolt a procedere.
Pensai fosse solo un'impressione, ma quando Takashi
che era a capofila si gir• per guardarmi, vidi un'espressio-
ne corrucciata sul suo viso.
Nello stesso istante Hideo disse: "Che male alle gambe!".
E anche Yukiko si stava massaggiando i muscoli delle cosce.
Decisi che dipendeva dai numerosi scalini che avevamo
fatto prima e continuai a scendere. Era un dolore molto si-
mile a quello provocato da un forte vento che ti soffia con-
tro impedendoti di andare avanti.
L'aria del vestibolo aggiunse a quello il suo peso, era
uno spazio claustrofobico. Come se il campo magnetico
fosse impazzito, o se la forza di gravit opprimesse con
tutta se stessa. Con quel peso sulle spalle, il respiro si fece
ancora pi affannoso.
In fondo alla stanza c'era un imponente sarcofago a for-
ma di cartiglio, l'ovale speciale in cui si scriveva il nome
dei faraoni.
In quell'istante ebbi un'allucinazione.
Dai lati del coperchio uscirono due braccia sottili.
Mi stropicciai gli occhi e tutto sparć.
Incredibile, non ebbi paura.
Forse anche perch‚ provavo simpatia per i gusti di quel
faraone che non aveva scelto di rappresentare gli esseri
umani nella loro dinamicit utilizzando dei colori estremi
aveva descritto la sua vita attraverso linee semplici e deli
cate, aveva dipinto a tinte vivaci soltanto le stelle del fir-
mamento sul soffitto e si era disteso in quel sarcofago ros-
so dalla forma strana.
I segni evidenti lasciati ai posteri, anche nei momenti di
inquietudine, ne fanno emergere il creatore in modo che lo
si possa abbracciare come se fosse ancora vicino.
L'incontro delle anime... era proprio quello il luogo del-
la "vita eterna" creato dal pensiero degli uomini.
Pregai perch‚ quella lieve sensazione vitale potesse irra-
diarsi verso chi, il giorno che me ne fossi andata da questo
mondo, avrebbe raccolto le mie opere nella terra in cui sa-
rei stata sepolta.
Chiss se riuscir a percepire il mio sguardo, come se
avesse ritrovato un vecchio amico.
Il grande sarcofago ovale di pietra di silice rosso era
tutto scolpito di geroglifici.
"Quando hanno scoperto questa tomba, il coperchio
era per terra e dentro non c'era pi nemmeno la mum-
mia," disse Takashi sbirciando l'interno da una fessura.
"Wow, che bella!" esclam•.
Guardai anch'io e rimasi senza parole.
Sul fondo era stata dipinta con un giallo brillante una
dea splendida con le braccia allargate in modo da accoglie-
re dentro di s‚ la mummia del faraone. Le palme delle ma-
ni erano rivolte all'interno e arrivavano sino al bordo del
sarcofago.
Quelle che avevo visto prima erano proprio quelle pal-
me, pensai. Chiss perch‚ l'anima di colui che le aveva di-
pinte vi si era infusa con il proposito di proteggere in eter-
no il faraone.
E con la sua grande forza continuava a respingere tutti
quelli che varcavano l'ingresso della tomba, in modo che
non la violassero.
Di sicuro avevano fatto una brutta fine i ladri che l'ave-
vano profanata, rubando la mummia e gettandola da qual-
che parte, se solo a darci un'occhiata si percepiva tanta op-
pressione.
La osservai con attenzione e la divinit mi trasmise la
sua tristezza facendomi venire le lacrime agli occhi.
Anche se tra le sue braccia c'era il vuoto, continuava a
infondere la sua protezione nella solitudine.
Mi era gi successo di subire l'influsso della potenza dei
sentimenti lasciati da qualcuno. In quel caso si trattava
senza dubbio dell'indelebile amore di colei che vi era rap-
presentata o di chi l'aveva raffigurata.
Un dolore inguaribile, il tormento della volont.
Credetti di vedervi queste cose. Forse si trattava di un
mondo mitologico che immaginavo solo io. Eppure, quel
contatto vivo, come quando si tocca una persona, mi era
entrato dentro... In ci• che cercavamo di trasmettere
all'eternit, non c'era niente di inutile, nemmeno una cosa.
Da qualche parte, in quel modo, venivano registrati tutti i
nostri sentimenti, anche i pi lievi.
Una forte emozione, il nostro viaggio disperato, una
piccola gentilezza, non erano affatto inutili. Quello che noi
cercavamo di tessere: i desideri, la forza di Hideo con
l'espressione indifferente, la mia che tentavo di non pen-
sarci, di Yukiko che riusciva a farci sentire a nostro agio e
di Takashi, che con il suo animo gentile si sforzava di pro-
vare solo amore nei nostri confronti, di certo sarebbero re-
stati in qualche angolo dell'universo cosć come era succes-
so l dentro.
Lo splendore delle azioni degli uomini, intrepidi o
sciocchi che siano, vive per sempre.






LA CHIESA COPTA E IL GELO.

Quel pomeriggio finalmente ci rilassammo.
In ogni viaggio ci sono sempre momenti come questi.
Un pomeriggio languido in cui i frutti esotici, le stoffe pas-
savano sulla superficie degli occhi senza fermarsi. Dimen-
tichi a osservare i raggi del sole... anche la conversazione
non si animava pi di tanto. Carico di inedia, nello stesso
modo in cui lo era stato di felicit durante le impennate di
gioia, il tempo aveva arrestato il suo corso.
E come in ogni altro viaggio, non me ne rammaricai af-
fatto.
La fiacchezza di quello stato era speculare alla freschezza
con cui poco alla volta ci si rinfrancava. Nella vita di tutti i
giorni, le onde portatrici di cambiamenti si frangevano sulla
battigia a distanza di alcuni mesi l'una dall'altra, in viaggio
invece si susseguivano nel breve arco della sua durata.
In quelle condizioni andammo a fare un giro al suq di
Khan el Khalili, il mercato pi importante del Cairo, ma
tutto era talmente turistico che ben presto ci stancammo.
I negozi erano in fila uno dopo l'altro per tutta la lun-
ghezza dei vicoli.
Dopo avere comprato per quattro soldi menta, zaffera-
no e olio di mandorle in una bottega di spezie, contrattam-
mo il prezzo delle ampolle per i profumi. Poi prendemmo
una stradina all'ombra, dove vendevano anche cose di uso
comune: fazzoletti di carta, piatti, calze, quaderni e tiram-
mo un sospiro di sollievo.
Ormai non avevamo pi nulla da fare, cosć andammo
tutti e quattro a berci un tŠ seduti ai tavolini di una pastic-
ceria dall'insegna molto semplice, "Egyptian pancake",
all'entrata del suq.
Il sole era caldo, la temperatura per• non molto alta;
era piacevole guardare l'andirivieni animato del mercato.
Penetrava nei nostri animi, che si godevano in silenzio la
bonaccia dei loro mari.
Le frittelle erano ottime, anche se fatte da un rustico si-
gnore di mezza et con un aspetto che proprio non aveva
niente a che vedere con il nome pancake.
"Buonissime!" gli facemmo capire con dei gesti attra-
verso la vetrina, e lui dall'altra parte gesticol• qualcosa del
tipo: "Visto, ve l'avevo detto!".
Erano un po' come delle crepes, sull'impasto sottile
ben cotto c'erano marmellata calda, frutta, cocco e zuc-
chero al velo. Dolci al punto da paralizzare il cervello, il
loro sapore possedeva una delicatezza che risvegliava la fe-
licit.
Una prelibatezza che prendeva vita esclusivamente sot-
to il colore di quel cielo.
Noncuranti delle mie emozioni, Hideo e Yukiko man-
giavano di gusto le loro frittelle e tutti seri si chiedevano
quali fossero le creme abbronzanti pi efficaci e a quali va-
lori facesse riferimento il fattore di protezione.
I miei compagni di viaggio, me compresa, non erano
capaci di parlare del pi e del meno. Potrei addirittura di-
re che odiavamo fare domande del tipo: "Cosa fai doma-
ni?", "Che interessi hai?", "Dove sei stato?", "Dove vai?".
Era una caratteristica che accomunava Yukiko a noi tre,
come se fossimo amici di vecchia data.
Takashi osservava in silenzio un gatto.
Con il collo e le zampe lunghe, i gatti egiziani avevano
mantenuto lo stesso aspetto nobile di quando venivano ve-
nerati come divinit. Di fianco al negozio, assottigliando
gli occhi con aria accaldata, si faceva la toilette.
Dopo tanti anni, ormai riuscivo a capire se il silenzio di
Takashi appartenesse alla sfera della felicit o della malin-
conia.
In quel momento sembrava che, anche se aveva il corpo
provato dalla stanchezza e dal languore, si stesse rilassan-
do. Una cosa che mi penetr• nell'animo, neanche si fosse
trattato di me stessa. Sarebbe stato facile per lui essere in-
trattabile. Oppure far finta di essere triste e depresso. Quel-
l'espressione rilassata era invece qualcosa su cui non si po-
teva mentire e che non si poteva costruire a comando.
Pi tardi decisi di andare da sola a visitare una chiesa
copta e il museo annesso. Pensavo che ne avrei potuto
trarre ispirazione per il mio lavoro.
La chiesa copta egiziana, che segue un'antica dottrina
cristiana considerata eretica, annovera nella sua storia in-
numerevoli repressioni. I suoi seguaci rispettano ancora
oggi dei precetti molto rigidi. Aveva messo in silenzio le
sue radici nella terra d'Egitto, dominata per la maggior
parte dall'Islam.
Lo stile artistico copto era molto delicato, tanto da non
far percepire affatto il suo passato cruento. Motivi geome-
trici, floreali e tralci di piante disegnati in dettaglio. Con
un che di orientale.
Anche l'austero portale di legno dell'entrata era ricama-
to con semplici, ma precise incisioni di viti ed edera e ave-
va una croce d'avorio intarsiata.
Un po' per volta, uno a uno, toccai tutti gli oggetti su
cui stava scritto "Vietato toccare".
E qualcosa di completamente differente da quando li
guardavo soltanto, entr• in me. Molte sono le cose di cui
ci si impossessa solo dopo averle toccate.
Senza un ricordo concreto, una volta che li avessi so-
gnati, non sarei stata in grado di capire se appartenevano
al mondo onirico o alla realt.
I colori esclusivi delle vetrate rifinite con minuzia
diffondevano nel museo una luce soffusa.
Sola com'ero, mi sentivo smarrita.
Nel silenzio della parola, l'animo prendeva a muoversi
velocemente sorpassando il presente.
Un giorno forse avrei ricordato come un sogno pi ir-
reale di essere stata davvero in quel posto e di avere vi-
sto, con il rumore dei miei passi che rimbombava nelle
sale, tutti quei piccoli oggetti di buon gusto frutto della
fede.
La chiesa era diroccata, lć lć per crollare. I colori e i trat-
ti sbiaditi di un'immagine del Cristo si sposavano strana-
mente bene con la fatiscenza dell'edificio.
Alcuni giovani fedeli misero dei soldi in una teca di ve-
tro e si raccolsero a pregare. Mi avvicinai e vidi che dentro
c'era un panno rosso. Sopra, il ritratto di un santo e di
fianco, un altare.
Capii che in quell'involucro grande all'incirca quanto
un sacco a pelo a una piazza ci dovevano essere le reliquie
del santo.
Il tessuto arrotolato a cilindro era ricamato con fili
d'oro e trapunto di perle e rubini.
Nei gioielli che disegnavo io, le perle rappresentavano il
dolore e la forza protettrice dell'amore, i rubini la difesa
dagli spiriti del male.
"Ah, qui hanno lo stesso significato," fui felice di consta-
tare. Pensai anche che, per quanto grandiosa potesse essere
stata una persona in vita, una volta morta le sue dimensioni
si sarebbero ridotte a un fardello. I ragazzi che si raccoman-
davano a quella salma sorpassando le barriere del tempo, un
giorno ne avrebbero seguito l'esempio insieme alle preghie-
re elevate, abbandonando cosć il loro corpo fisico.
Comprai la cartolina di un affresco dell'interno della
chiesa e la scrissi a Mimi nel bar dell'albergo.


Cara Mimi,
questo paese Š molto interessante.
Le cose antiche sono tuttora piene di vita, non per• come
in Nepal o in India. In un modo pi tangibile e spudorato.
Si ha l'impressione che gli dŠi girino ancora per le strade.
Noi stiamo tutti bene. E ci siamo fatti pure un'amica.
Stando qui, sento che l'eternit esiste davvero e anche la
stupidit di noi esseri umani che la desideriamo.
Kiyose.


Esistevano davvero a questo mondo cose cosć impellen-
ti da doverle riferire subito e a tutti i costi agli assenti?
Per me, in quel momento, la fiacchezza di quel tardo
pomeriggio al caffŠ dello Shepherd's Hotel rappresentava
tutto. Un locale che, a parte la colazione del mattino catti-
va da guinness, era molto carino. Ero sola, non solitaria.
Perch‚ sapevo che nel giro di poche ore avrei ritrovato gli
altri e insieme saremmo andati a cena sulla Torre del Cai-
ro, come stabilito.
Scrivendo la cartolina rimuginai dei pensieri che avrei
evitato volentieri. Era tutto talmente vero, da provare un
briciolo di tristezza.
Mi sembrava di avere smarrito da qualche parte la bra-
mosia patologica per le persone lontane che certo non di-
pendeva dal fatto di provare nostalgia per l'espressione
sorridente di Mimi.
Eppure, in quella tristezza languida che avevo davanti
agli occhi c'era una dimensione fluttuante, una libert che
profumava come un fiore fresco. Un mondo che ti acco-
glieva a braccia aperte in cui si era completamente liberi di
gioire o di deprimersi.
Aahh, forse era quello di cui mi aveva parlato Takashi
in carrozza.
Dentro di me restava una serena sensazione di chiarez-
za che si sommava a quella leggermente grave maturata
dopo la visita alla chiesa.
Pensai di disegnare, una volta tornata in Giappone, una
collana di perle e rubini con la stessa sacrale austerit e
provai a fare qualche schizzo su un pezzo di carta.
Non era un sacrilegio. Perch‚ sarebbe stata creata per
proteggere carne e ossa di chi l'avrebbe portata al collo,
esattamente come faceva quel santo.
"Sapete che qui una volta si Š rotto l'ascensore e sono
morti tutti?" disse Hideo davanti alla Torre del Cairo.
"Non c'Š da stupirsi, Š di legno!" La battuta di Yukiko
suon• talmente vicina alla realt che non mi fece affatto ri-
dere.
Nel buio, la vecchia torre illuminata da una debole luce
arancio aveva la bella forma di un fiore di loto ed era alta
187 metri.
L'ascensore traball• violentemente e a noi non rimase
che tacere.
L'osservatorio era esposto a un vento molto forte. Il pa-
norama notturno cosć ventilato appariva stranamente bello.
E come se non fosse bastato, quella sera faceva anche
freddo. Un freddo mai provato prima che entrava nelle ossa,
nonostante avessimo indossato uno sopra l'altro tutti gli abiti
estivi che avevamo, e che poco alla volta ci fece congelare.
Insomma, un'aria da far venire i brividi.
Le coppiette di egiziani, infischiandosene del vento,
senza abbracciarsi n‚ tanto meno baciarsi, si godevano i
loro incontri in silenzio.
Mi chiesi quanto fosse importante per una ragazza nata
in quella citt, in quel mondo islamico, uscire con il pro-
prio amato.
Come minimo un tale languore da non curarsi di quel
freddo incredibile.
Increduli di fronte a quei ragazzi che riuscivano comun-
que a starsene tranquilli, facemmo un giro dell'osservatorio
tutti abbracciati, ripetendo all'infinito: "Che freddo!".
A ogni modo la vista era splendida. In lontananza si in-
travedevano le sagome delle piramidi. Stringendomi il cor-
po in preda ai brividi, vidi il blu splendente dell'acqua del-
la piscina di un albergo e le collane disegnate dalle file di
automobili. Pi pensavo di non potere resistere a lungo e
pi mi sembrava tutto bello, tanto da non riuscire a smet-
tere di guardare.
Dopo di che fu la volta del ristorante sotto l'osservato-
rio dove, nonostante si fosse al coperto, faceva ancora pi
freddo. Con un'oscurit tale da non riuscire a distinguere
niente.
"Il buffet delle insalate Š talmente al buio che non so
che diavolo ho preso," disse Takashi.
"Nemmeno io. C'erano due tipi di minestra, ma non ho
capito cosa c'era dentro," fece Yukiko.
Andai dopo di loro e scoppiai a ridere quando vidi che
era proprio vero. Il gelo saliva dalle gambe. Con i piatti
freddi che incalzavano.
"Mi verr la diarrea!"
"Non prendi qualcosa di caldo?"
"Intanto che arrivo al tavolo, si Š gi raffreddato tutto."
E tra un brivido e l'altro, cenammo scambiandoci bat-
tute di questo tipo.
Il ristorante era fatto in modo che si potesse godere il
panorama a 360 gradi. Talmente veloce, per•, da fare veni-
re la nausea. E non Š tutto: forse a causa della vetust della
costruzione, a ogni punto di giuntura il pavimento rotante
faceva un rumore da cardiopalmo.
"E' la prima volta che mangio in un posto cosć freddo,"
disse Hideo.
La vista notturna, il freddo, il ristorante buio da far
paura. Le sagome triangolari delle piramidi che dopo qual-
che giro sembravano pi piccole. Ricordi violenti. Che sal-
tavano agli occhi come schegge di ghiaccio sotto quel cielo
freddo.
Senza aprir bocca, tornammo in albergo con il gelo nel-
le ossa e ci precipitammo in camera di Hideo e Takashi a
prendere qualcosa di caldo.
Ordinammo un tŠ con la voce ormai allo stremo.
"Avvolgetevi in questi!"
Hideo ci lanci• tutti gli accappatoi e le coperte disponi-
bili e corse in bagno vittima della sua stessa associazione
tra freddo e diarrea.
Come si fa in campeggio, infilammo le gambe nel letto
e ci avvolgemmo nelle coperte aspettando il servizio in ca-
mera.
Quando Hideo uscć, pallido in viso, ormai le gambe
ghiacciate si erano scaldate e il tŠ fumante era davanti a noi.
A quel punto riuscii anche a fare una foto ai miei com-
pagni con le tazze strette fra le mani per riceverne il calore.
Takashi dentro al letto con le coperte alzate fino alle
spalle, forse a causa del tepore, si appisol•.
"Ma... si Š addormentato?" disse Hideo.
E fissammo tutti e tre lo sguardo sul suo viso dormiente.
Io e Yukiko chiedemmo il permesso di farci un bagno
nell'enorme vasca con idromassaggio di cui era dotata la
loro suite.
Minuta, con il seno pi grande di quanto sembrasse,
struccata, aveva il viso di una bambina. Eravamo tutte e
due veramente abbronzate.
Restammo immerse nell'acqua tanto, tantissimo tempo,
neanche fossimo state in un bagno pubblico. Mi trovavo
nuda nella stessa vasca con una persona sconosciuta fino a
qualche giorno prima, a parlare del sapore delle frittelle
mangiate la mattina... le sole cose definibili come speranze.
Fatalit che per fortuna avrebbero continuato a succe-
dersi fino al momento precedente la morte. Doni in una
vita piena di sofferenze. In ogni giornata c'erano molte
facce diverse. Noi nuotavamo nel bel mezzo cercando di
evitare le peggiori, dando vita a un mosaico misterioso.
Quando uscimmo dal bagno, anche Hideo si era appiso-
lato sul pavimento avvolto in pi di una coperta. Era in una
posizione talmente bella che gli feci una foto, ma il flash
svegli• lui e Takashi ed entrambi mi sorrisero.
Ci manc• poco che quei loro visi abbronzati dal sole e
provati dal gelo mi commuovessero.
Qualche giorno ancora e il nostro viaggio sarebbe finito.






I BENI DI TUTANKHAMON.

Nella Valle dei Re avevamo visitato la tomba di Tutankha-
mon e visto anche la mummia di quel faraone. Una tomba
molto pi piccola di quanto pensassi e di livello artistico
non particolarmente elevato. Il classico scavo archeologico
egizio che tante volte avevo visto in foto e alla Tv.
Per cui, quando ero andata al Museo Egizio pensando
di trovarci solo la maschera d'oro e invece vidi la mole de-
gli oggetti rinvenuti, rimasi turbata dal vortice di quel-
l'energia, tanto da avvertire una fitta allo stomaco.
Se in quella piccola tomba c'erano stati tutti quei beni,
chiss quali incredibili tesori dovevano esserci stati in
quelle degli altri faraoni pi grandiosi e longevi di lui.
La tomba di Tutankhamon sembrava quasi improvvisa-
ta. C'era una teoria, poi, secondo la quale i suoi sarcofa-
ghi sarebbero stati ricavati da quelli di altri defunti. Tutta-
via, salendo al primo piano di quell'enorme museo in cui
era esposto di tutto, ci si imbatteva in un fasto che supe-
rava di gran lunga le aspettative. Lć, cominciava la grande
"personale" di Tutankhamon. Cercai di immaginare
l'emozione di Lord Carter quando, sciolti i sigilli di cera
d'api, l'aveva scoperta per primo. Un turbamento cosć
violento, da suscitare pi la voglia di fuga piuttosto che la
gioia.
In un istante, la sensazione che la propria vita sarebbe
cambiata.
Il momento che segue un incantesimo in grado di cam-
biare il senso di un'esistenza. Conoscere un'infinit di co-
se, cambiare i colori della storia, toccare con mano per pri-
mi la vita e la morte di qualcuno sorpassando le barriere
del tempo. Il sogno di tutti gli archeologi Š di vivere in pri-
ma persona l'istante conosciuto da Carter.
Oggetti mozzafiato sfilavano dappertutto e in mezzo a
loro la maschera d'oro appariva molto piccola.
La statua nera di un custode snodato, una di Anubis
dal bel corpo, numerosi amuleti, modelli di barche, letti da
cerimonia dalla forma di vacca e di leone, abiti, sandali,
calze, guanti, scrigni portagioie, portasigilli, portaunguen-
ti, portaspecchi, giochi, carri da guerra, scettri da battaglia
e da cerimonia, troni, giare di vino, pane, carne... il tutto
incastonato con decorazioni minuziose di vetri, lapislazzu-
li, cristallo, oro e argento dai riflessi abbaglianti.
C'era anche tutta una serie di oggetti ornamentali.
Abbozzai qualche schizzo e feci delle foto.
Vetro, oro, pietre preziose, cristallo di rocca, lapislazzu-
li, avorio, serpentina, turchese... presi nota di tutto quello
che riconoscevo.
Tra i girocollo ce n'erano molti cesellati con vetro lavo-
rato, d'una minuzia spaventosa. Altri zeppi di scarabei az-
zurri. Le linee degli anelli erano per la maggior parte sem-
plici. Quelli d'argento a foggia di papiro o di occhio di Ho-
rus sembravano talmente attuali, da pensare di poterli tro-
vare coperti di polvere su una qualche bancarella.
In una bacheca c'era una montagna di statuine. Addi-
rittura 413.
"Si chiamano shabti, sono quelli che lavoravano la terra
nell'altra vita. Se non si mettevano nella tomba insieme al
defunto, il poveretto poi doveva coltivarsela da solo. Pare
che perfino i poveri ce li mettessero, anche se di legno,"
spieg• Yukiko.
"Come gli haniwa," comment• Hideo.
"A me ne bastano tre o quattro," disse Takashi, e io:
"Se ti accontenti di cosć poco, te li faccio d'argento".
"D'argento! Chiss come lavoreranno bene!" fece Yu-
kiko a Hideo:
"Ti dureranno in eterno!".
In quello spazio la nostra conversazione venne risuc-
chiata dalle onde imponenti del tempo.
Nel museo, pi che le persone che arrivavano da tutto il
mondo per visitarlo, erano gli oggetti esposti a possedere
forza. Una forza silenziosa che ritrovavi in ogni angolo di
corridoio, persino negli spazi dove non c'era nulla. Si per-
cepiva con timore qualcosa di simile a una sicurezza deri-
vante dal fatto di essere stati a lungo testimoni di questo
mondo.
La salma del giovane faraone, salito al trono a quattro
anni e morto a diciotto, venne protetta da tre sarcofaghi e
da quattro catafalchi dipinti con diverse divinit.
La mummia era stata arricchita con molti ornamenti.
Un copricapo di perline di vetro, bracciali in quantit da
coprire interamente le braccia, una collana, cinque anelli,
un girocollo a forma di fiore di loto, una cinta e un'infinit
di amuleti.
Ancora una volta mi resi conto del senso del mio lavo-
ro. Creare gioielli era certo una forma di espressione, ma
senza dubbio anche un modo per proteggere coloro che li
avrebbero portati.
Il naas in cui erano custodite le viscere del faraone era
decorato con serpenti sacri e su ogni lato aveva in rilievo
una dea con le braccia aperte: Iside, Neith, Neftis e Selket.
Dentro c'era un cofano in alabastro bianco e al suo in-
terno, uno di fronte all'altro, quattro vasi canopi su cui
erano raffigurate altrettante divinit. In essi erano stati ri-
posti gli organi del re, protetti dalle dee del fegato, dello
stomaco, dei polmoni e dell'intestino.
"Per preparare una mummia si estrae il cervello dal na-
so, si disinfetta l'interno con dei medicinali, si tolgono le
viscere, si fa un lavaggio con oli e aromi, si riempie di mir-
ra e di sostanze molto profumate, si immerge nel natron
per settanta giorni, si lava il tutto e lo si avvolge con le
bende..."
Le macchie nerastre dentro i canopi ripresero vivezza.
Il colore del sangue, il sangue uscito dagli organi del fa-
raone.
A dire la verit, non sapevo niente della breve vita di
Tutankhamon, e non avevo nessuna idea particolare al ri-
guardo. Eppure, dopo aver visto tutte quelle cose, lo senti-
vo molto vicino. Pensavo all'amore che aveva ricevuto, alla
vita che aveva vissuto, al modo in cui l'aveva gestita, ai
moltissimi oggetti che dopo la sua morte erano stati fatti a
sua immagine... Su una cosa non v'erano dubbi: un uomo
era nato e poi morto.
Circondata dal calore dei beni che raccontavano la sua
vita, che aveva usato o che avrebbe dovuto usare, nel-
l'istante in cui vidi quel sangue sentii che senza dubbio era
vissuto e che la sua morte era stata protetta da una forza a
me sconosciuta. In modo che noi potessimo fare in quel
luogo le nostre elucubrazioni, senza sapere per• in nome
di quale disegno divino.
Immaginai che ci fossero persone che consideravano
quella sensazione come una maledizione. Dopo che cosć
tanta gente vi aveva dedicato tempo ed energie per seppel-
lirlo con i suoi oggetti, pregando perch‚ non venisse mai
riesumato, non era possibile che colui che invece l'aveva
riportato alla luce non ne subisse un qualche influsso ne-
gativo.
Perch‚ mi trovavo in quel museo? Perch‚ stavo trascor-
rendo il mio tempo in mezzo al tesoro personale di Tu-
tankhamon? Quegli oggetti erano stati conservati con la
stessa forza misteriosa con cui era nata l'idea di mummifi-
carne il corpo, in modo da offrire un'opportunit di rifles-
sione ai posteri.
Sazi di reperti e di descrizioni di vite di personaggi
morti, ci sedemmo a riposare nel giardino del museo.
"Com'Š il paradiso egizio?" chiese Takashi a Yukiko.
E lei con i lunghi capelli svolazzanti al vento rispose se-
rafica:
"Pare che ci sia un lago bagnato dal sole con dei raggi
abbaglianti. E tanti olivi zeppi di bellissimi frutti arancio.
La sabbia delle rive ha granelli verdi e dorati come dei
gioielli".
"Che bello!" comment• Takashi affascinato. "Chiss se
ci sar pure Tutankhamon, anche se gli hanno mummifica-
to il corpo."
"Vallo a sapere!"
Mentre li sentivo conversare, ripensai ai canopi mac-
chiati di sangue.
Il Nilo e il suo delta, una civilt creata da un aspetto to-
pografico peculiare. Sulla riva occidentale il mondo dei
morti, su quella orientale il luogo in cui prendevano forma
le attivit umane. Senza le sue piene, i campi si sarebbero
inariditi, anche se, con le sue inondazioni, i villaggi ne ri-
manevano sommersi.
Dal Nilo ogni cosa veniva creata e nel Nilo andava a
morire. Il dio Sole di giorno attraversava la volta celeste, di
notte passava nel mondo dell'aldil per poi ripetere ogni
mattina la sua orbita.
Anche in quella citt cosć trafficata dove adesso i pa-
lazzi Si susseguivano uno dopo l'altro, restava ancora
l'odore del periodo in cui gli antichi percepivano gli spo-
stamenti del sole che attraversava quella terra da est a
ovest. Fluttuando sfocato in quello spazio moderno come
uno spirito.
Non avevo mai visto il tempo scorrere in un modo cosć
chiaro e ne rimasi disorientata. Non era facile controllare
quello stato confusionale. L'unica cosa che riuscivo a fare
era stare immobile e continuare a percepirlo.






ACCESSO FEBBRILE.

A Takashi venne la febbre l'ultima sera al Cairo, l'in-
domani avevamo in programma di visitare le piramidi.
Cosć decise di starsene in camera senza andare da nessu-
na parte.
Il pomeriggio dello stesso giorno aveva detto di essere
stanco e di voler tornare in albergo, e avevo deciso di stare
con lui. Era ancora presto, cosć, una volta arrivati, avevamo
preso un caffŠ al bar.
"Non ti senti bene?"
Quanto mi sarebbe piaciuto chiederglielo con pi non-
chalance... Sapevo che era stanco morto e coi nervi a pezzi.
Lo vedevo benissimo, lć davanti a me con una faccia da fu-
nerale. E proprio perch‚ capivo e vedevo tutto, non ero
riuscita a comportarmi come avrei voluto.
"No... sono distrutto psicologicamente, nient'altro.
Cerco di farmene una ragione, di accettare, di combattere,
di fregarmene... ormai Š da un pezzo che lo so, eppure
ogni giorno Si fa pi dura."
"E' normale!"
"Continuano a susseguirsi solo cose che non potranno
pi tornare e questo le rende tristi."
"Ma non sar che ti pesa non poter parlare davanti a
Yukiko?" gli avevo chiesto.
"No, no, assolutamente. Se non ci fosse stata lei, mi
sarei lasciato andare, non sarei riuscito a controllarmi.
Le propaggini della mia depressione sarebbero apparse
ciclicamente e avrebbero rovinato il panorama di questo
paese. Ringrazio il cielo che non sia successo," aveva ri-
sposto.
Non ero riuscita a dire niente, sopraffatta dall'eleganza
del suo comportamento. Ce l'avevo messa tutta per sorri-
dere e quando ero tornata in camera avevo pianto un po'.
Anche se Takashi non presentava alcun sintomo grave,
ma una semplice febbre, nel mio animo era emersa una
stanchezza unita a un'ombra di disperazione. Una tristezza
indicibile, una grande solitudine, la consapevolezza che
non ci sarebbe stato pi niente di bello, si erano fissate in-
sieme al piano del reale. E non c'era nessun modo di evi-
tarle. Avevo dovuto ricordare ci• che senza volere avevo
dimenticato, ci• che avevo voluto dimenticare.
Hideo, che era tornato insieme a noi, prima di sera era
andato in farmacia, aveva mangiato un boccone e preso
delle crocchette di ceci chiamate taCmiyyat per Takashi.
Yukiko invece aveva detto che avrebbe fatto quattro passi,
ed era uscita per conto suo.
La forza del sole che volgeva al tramonto era debole,
venata di tristezza. Forse perch‚ solo fino a pochi giorni
prima avevo vissuto immersa nella natura.
Quando tornai in camera dei ragazzi, Takashi era sve-
glio e stava leggendo un libro. Senza riuscire a pensare a
niente per la stanchezza e tutto il sole preso, mi appisolai
sul divano della loro stanza.
Mi trovavo nel piacevole luogo a met strada tra il son-
no e la veglia. Dalla finestra si vedeva la superficie splen-
dente del Nilo che tingeva la notte. In camera c'era acceso
solo l'abat-jour di Takashi, l'ambiente era offuscato da una
debole luce arancio.
Hideo e Takashi parlavano a voce bassa per non sve-
gliarmi:
"Ti Š scesa la febbre?".
"Sć, credo che l'antipiretico abbia fatto effetto."
"Bene. Cosć domani vieni a vedere le piramidi!"
"Beh, sarei venuto in ogni caso! Aaahhh, pensavo che
d'ora in poi, un poco alla volta, diventer• sempre pi de-
bole."
"Cosa dici!"
"Ormai non riesco pi a non pensare a niente, a dimen-
ticarmi di avere un corpo."
"Guarda che succede a tutti di metterci sempre pi
tempo a smaltire la fatica e di indebolirsi un po' alla volta.
E' perch‚ si invecchia, no? La malattia non fa altro che ac-
celerare le cose."
"Basta, non voglio pi saperne di accelerazioni."
"Bene, bravo! Dobbiamo prendercela con calma."
...gli esseri umani si lasciano attrarre dalle cose belle
perch‚ sono le pi lontane dalla morte e permettono loro
di scordarsene. Sono disgustati da quelle brutte invece,
perch‚ gliela ricordano. Perch‚ li fanno pensare alla lenta
degenerazione del corpo. La mummificazione, quella in-
credibile cosa, superava in un sol colpo il problema, tro-
vando la sua ragione d'essere come illusione, legata alla
bellezza futura.
Mentre ero assorta in simili pensieri, seppure in contra-
sto con il loro contenuto, percepivo quegli istanti come
momenti di felicit. Il mio animo, che sino a poco prima
aveva conosciuto l'arsura, grazie a quel briciolo di sonno e
all'eco della breve conversazione dei miei amati compagni,
aveva ripreso i suoi contenuti d'acqua. Una cosa meravi-
gliosa.
Con loro vicini, non sarei rimasta sola neppure quella
notte. Una cosa che giorno dopo giorno poteva diventare
opprimente, ma al tempo stesso era colma di nostalgia. Se
anche avessi dormito un po', al risveglio li avrei trovati a
parlare piano o a guardare la Tv. Non eravamo parenti,
tanto meno amanti, eppure ci succedeva di condividere in
silenzio un tramonto come quello.
Squill• il telefono e mi svegliai del tutto. Guardai l'oro-
logio: erano passati venti minuti da quando mi ero appiso-
lata.
Takashi rispose e s'illumin• di felicit. Capii al volo: era
Mimi. Mi alzai un po' intontita e me la feci passare dopo
Hideo.
"Mimi?"
"Tornate alla svelta! Sapessi che noia senza di voi! Non
ce la facevo pi, cosć ho deciso di telefonarvi. Per• pensa-
vo che foste fuori. Proprio non credevo di trovarvi tutti e
tre insieme."
Quando sentii la sua voce ebbi un imprevisto moto
d'affetto. Come se nel corpo affaticato dalla calura del sole
soffiasse una fresca brezza dal profumo di rosa.
Una sensazione di cui fui la prima a sorprendermi.
"Dove sei adesso?"
"Nella casa nuova! Non potevo stare via per sempre.
Quando tornate facciamo ancora una festa, eh?"
"Va bene."
E mi stupii pure della forte sensazione di sicurezza che
provai. Che fosse nostalgia di casa?
Mi era gi capitato di vedere questa reazione nelle cop-
pie ben affiatate. Nel momento in cui uno dei due stava
per crollare, l'altro senza farlo apposta metteva a segno
una piccola magia con un tempismo perfetto.
Dopo un po' torn• Yukiko. Con una montagna di frit-
telle.
"Ho pensato che vi andasse anche qualcosa di dolce.
Ormai sono diventata una cliente affezionata di quel nego-
zio. Intanto che aspettavo, ho preso un tŠ e mi sono messa
a parlare tutta concitata con il pasticciere."
La nostra cena a base di taCmiyyat e frittelle cominci•,
coinvolgendo anche Takashi ancora in pigiama.
Raccogliemmo i bicchieri e le tazze in giro per la came-
ra, lavammo le mele che avevamo gi, le sbucciammo e le
mettemmo sul tavolo insieme alle cose comprate. Curioso,
eppure era divertente.
Yukiko chiese a Hideo della sua famiglia.
Lui le rispose che non aveva pi nessuno, che erano
morti tutti. Quante volte avevo gi sentito quella storia?
Era strano, per•, che non gliel'avesse ancora chiesto sino
ad allora.
"Chiss che choc deve essere stato per te!" fece lei.
"Mi ha salvato il fatto che non fossero stati loro a to-
gliersi la vita."
Fu un'affermazione che non gli avevo mai sentito fare.
"Salvato? "
"Sć, ci ho pensato un sacco di volte. Non mi ha salvato
il pensiero di essere scampato all'incendio. La cosa che pi
di ogni altra mi Š stata d'aiuto era che tutti mi dicevano
che non si era trattato di un suicidio."
"Immagino, quelle sono le cose che si dicono al mo-
mento dell'incidente," comment• Yukiko. E lui continu• a
raccontare con un insolito tono serio:
"Quando perdi la famiglia lo capisci. Nella vita non ba-
sta l'amore per un unico partner. Sono convinto che le
persone non riuscirebbero a formarsi completamente se
dovesse mancare loro anche soltanto uno degli elementi
con cui sono in relazione, gli amici, il lavoro, i genitori, i
parenti, le persone in vita, quelle morte, o, che so, le pian-
te e gli animali. Io ho dovuto colmare il vuoto creatosi con
la perdita della famiglia dedicandomi a mille altre cose e ti
assicuro che non Š stato facile. Credo di essere riuscito a
conoscere l'amore 'al di sopra di un certo livello', proprio
perch‚ ho sperimentato tutta una serie di cose 'al di sopra
di un certo livello"'.
"Al di sopra di un certo livello?"
"Perdendo la testa per qualsiasi cosa! Non si accumula
stress, sai? Ci sono persone che come me se ne accorgono
dopo avere perso la famiglia, la maggior parte, per•, cro-
giolata com'Š nell'amore, non so se riesca a farlo. Non ne
sono sicuro, per•. E poi penso anche che per riuscire a
comprendere qualcosa fino in fondo e per scoprire le pro-
prie doti nascoste, Š necessario fare molti incontri. Credo.
Per appurare la radice dei sentimenti che si provano nei
confronti di ci• che si ama. Incomincia tutto lć, il tempo
passa non curandosi di niente e le persone vivono le loro
rispettive vite..."
"Che poeta, ragazzi!" gli dissi.
Ancora un po' rosso in viso, Takashi sembrava un bam-
bino circondato dai parenti riunitisi per il suo complean-
no. Un'esistenza delicata eppure disinvolta.
Se solo si fermasse il tempo, pensai. Se solo avessi potu-
to mantenere quello stato d'animo per sempre.
Un sentimento sincero fino a quel punto.
Che ci manifestavamo a vicenda. Irradiando qualcosa
che non poteva essere logorato n‚ dalla stanchezza, n‚ dal-
le preoccupazioni. Pensai addirittura che Takashi potesse
guarire. Un'emozione forte al punto da farmi abbracciare
una speranza fugace. Se fosse potuto restare cosć in eterno,
forse...






AI PIEDI DELLE PIRAMIDI.

La sensazione fu quella di trovarmi in un luogo in cui
non sarei mai dovuta andare.
Non appena entrammo nell'area dove le piramidi si
susseguivano, la percezione del tempo e dello spazio mi si
alter• leggermente e quelle strane costruzioni mi apparve-
ro normali. Quello era un lido di morte, uno spazio di
enormi tombe pensato non perch‚ degli esseri umani po-
tessero viverci o trascorrerci la notte. Cosć mi sembr•.
Hideo, che in taxi aveva continuato a dormire, aprć gli
occhi e alz• lo sguardo verso le piramidi svettanti.
"Siamo a Disneyland?"
"Hideo! Risparmiaci certe battute ! Guarda, guarda ! "
Lo presi per mano tutta eccitata.
Erano delle montagne. Montagne di bene.
Scesa dal taxi, misi i piedi sulla sabbia. Avevo davanti ai
miei occhi l'incredibile piramide di Cheope, ma non pote-
vo fare a meno di chiedermi ancora perch‚ mai mi trovassi
in quel posto.
Non riuscivo a sentire le tragedie di cui era stata testi-
mone. Certo, il lavoro di coloro che l'avevano costruita
doveva essere stato durissimo. Non per niente si diceva
che vi avessero lavorato centomila persone per ben ven-
t'anni. Eppure, mi sembrava impossibile pensare che fosse
solo il frutto della fatica degli schiavi. In quello spazio, ol-
tre ai segni di una storia opprimente, c'era anche l'ombra
di una sorta di gioia.
La grande piramide di Cheope era un colosso di 146
metri. E ognuna delle pietre che la formavano era pi o
meno della mia statura. Si dice che in passato ci fossero
molte persone che, scalandole, arrivavano sino in cima. Ma
altrettante che, spazzate via da forti raffiche di vento, era-
no precipitate e morte sul colpo.
Noi invece entrammo senza difficolt attraverso l'in-
gresso aperto dai tombaroli.
Procedemmo camminando tutti piegati per un tunnel
stretto e buio, sbucammo nella Grande Galleria, conti-
nuammo a salire e arrivammo nella Camera del Re.
Ebbi l'impressione, per•, che il sarcofago ormai vuo-
to fosse poco convincente e anche che le dimensioni in-
naturali della camera fossero in qualche modo approssi-
mative.
Non dipendeva dall'operato dei ladri che avevano sac-
cheggiato mummia e tesoro. Sentivo di essere d'accordo
con quanti sostenevano la teoria che quella non fosse la ve-
ra camera sepolcrale.
Il significato principale della costruzione stava nel pro-
cesso stesso di entrarvi e poi di uscirvi. Sulla via del ritor-
no ripercorremmo lo stretto passaggio tutti piegati e na-
scemmo di nuovo nel mondo di luce. Quel luogo era un
utero, un canale del parto.
Coloro che lo visitavano potevano rinascere pi di una
volta. Era uno spazio concepito esclusivamente in funzio-
ne del futuro.
Il proposito di raggiungere i cieli e di vedere la luce
nell'aldil, e la volont di dare una forma a quel desiderio.
Questo fu quello che sentii. Chi e quando l'aveva im-
messo in quello spazio? I faraoni o gli dŠi? Gli uni o gli al-
tri che fossero, la loro energia era qualcosa che un tempo
arrivava molto vicino agli uomini.
Salimmo sui cammelli. E, sballottati dai loro passi nella
sabbia, facemmo un giro delle piramidi.
Da qualunque angolazione le si guardasse, quei conglo-
merati di pietre erano enormi, pieni di dislivelli, assoluta-
mente innaturali, eppure dominavano il cielo con la loro
presenza schiacciante.
Erano protetti dalla sfinge avvolta nel silenzio. Anche
lei era molto pi grande di quanto ci si potesse aspettare.
Sembrava in procinto di alzarsi da un momento all'altro,
accovacciata sulla linea di demarcazione tra la citt e quel
cimitero.
Concluse le formalit alla reception dell'Hotel Oberoi,
prendemmo un cocktail alla frutta al bar.
Ottimo, scendeva per la gola fresco e dolce, sposandosi
con la luce della sera. Le piramidi al tramonto si erano tra-
sformate in sagome triangolari con il cielo rosa sullo sfon-
do e la luna crescente che risplendeva brillante.
Mai avrei pensato di vedere una cosa simile in questa
vita. Davvero. Certo, immaginavo che avrei conosciuto co-
se belle e imponenti, ma quelle erano diverse, avevano
qualcosa di speciale. Lć gli esseri umani avevano studiato
l'effetto visivo affidando il ruolo centrale alla natura. Co-
me se una mano enorme avesse appoggiato quelle costru-
zioni tenendo in considerazione gli altri elementi, il cielo,
il vento e la sabbia.
Era la nostra ultima notte in Egitto.
Cercammo di non parlarne. Ci trovavamo in un posto
che faceva provare una meraviglia continua perch‚ da ogni
suo angolo regalava la vista sulle piramidi. Dal giardino e
anche dalle stanze il panorama si apriva improvviso su di
loro. Andammo a comprare dei profumi e le ampolle per
contenerli. A Takashi la febbre era scesa completamente e
stava proprio bene.
E cosć riuscii a cadere di nuovo nel mio sogno opportu-
nista in cui lui sarebbe vissuto per l'eternit. Chiss se di lć
in avanti avrei continuato ad alternare quei due stati d'ani-
mo. Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarei potuta usci-
re in qualche modo da quel circolo vizioso?
Perch‚ quando vedevo che stava meglio, riuscivo a
tranquillizzarmi in modo cosć irrazionale? Tutto sommato,
neppure io sarei vissuta in eterno.
Il buio della notte e le varie fragranze dei profumi an-
nusati furono gli ultimi ricordi dell'Egitto. Il vento freddo
e i capelli di Yukiko che svolazzavano sprigionando
nell'aria una dolce essenza.
Nel ristorante dell'albergo facemmo la prima e anche l'ul-
tima cena di lusso del nostro viaggio bevendo fiumi di vino.
Il tempo trascorreva molto veloce, troppo, e anche se erava-
mo sazi da scoppiare, avevamo tutti un bellissimo aspetto.
L'avevamo sempre avuto, eppure lo percepivo con pi
intensit del solito. Percepivo anche che in vita mia non
sarei pi stata con loro in quel posto.
"Senti, volevo chiederti una cosa," fece Yukiko a Hideo.
"Dimmi ! "
"Com'Š stato il tuo primo amore?"
Era un soggetto di cui io e lei avevamo parlato durante
la crociera.
"Dunque, dunque. Quando facevo le medie mi sono in-
namorato di uno che il giorno prima me l'aveva messo in
bocca nel retro della palestra," incominci• a raccontare.
Una storia talmente realistica in confronto alle nostre
argomentazioni romantiche che scoppiammo a ridere a
crepapelle.
A notte fonda, nel buio e nel silenzio del sonno, qualcu-
no buss• alla porta. Io e Yukiko scattammo in piedi e an-
dammo a vedere tutte timorose.
"Chi Š?" chiedemmo. Erano Hideo e Takashi.
"Che c'Š? Una visita notturna?" fece Yukiko aprendo la
porta.
Hideo, pallido in viso, disse:
"Ci sono gli spiriti!".
Entr• anche Takashi, in silenzio.
Guardai l'orologio: erano quasi le quattro. Dopo poche
ore, all'alba, avevamo l'aereo per lasciare il paese.
"Davvero?" chiesi confusa, ancora mezza addormenta-
ta. Era come parlare in sogno.
"Sć, Š vero! Arrivano dei rumori dalla finestra e dal ba-
gno, e di vento non ce n'Š. E se cerchi di dormire, si sento-
no delle voci. Per un po' abbiamo tenuto duro, poi ci Š ve-
nuta paura e abbiamo deciso di trasferirci da voi."
"Non riuscivamo a chiudere occhio dalla strizza," dis-
sero in coro. Erano ridicoli.
"Ah, sć? Sono cose che succedono. D'altra parte in un
posto come questo non c'Š da stupirsi," abbozzai una ri-
sposta.
"Non saranno i vostri vicini?" chiese Yukiko.
Ma loro insistettero nel dire che non era cosć e che non
sarebbero pi tornati in camera loro.
I letti erano a una piazza e mezza, cosć io e Yukiko ci
mettemmo a dormire in uno e loro due nell'altro.
Nonostante tutto quel trambusto, una volta tranquilli,
si addormentarono in un baleno. Abbracciati come due
bambini. "Incredibile!" dissi e nello stesso istante li rag-
giunsi nel mondo dei sogni. Ricordo bene il tepore del
corpo di Yukiko e le dimensioni minute della mano che le
usciva dalle coperte.
La nostra camera era piena di calore, tanto che nessuno
spirito riuscć ad avvicinarsi. Le piramidi fuori dalla finestra si
erano nascoste. Forse insieme a molte altre cose non visibili.
Quell'ultima notte dormimmo stretti l'uno all'altro co-
me bambini, chiss se anche i nostri volti erano tornati
quelli di una volta. Chiss se sembravamo dei bambini che
dormono protetti da una forza intensa, delicata come il
profumo di un fiore, lontani dalla morte, senza nemmeno
immaginare i timori del futuro, e tanto meno conoscere il
gusto della vita che si esaurisce poco alla volta.






VACANZE ROMANE.

Sul fare del giorno, con l'arrivo dei primi raggi di luce,
il clamore degli spiriti divenne uno stupido ricordo.
"Perch‚ ci siamo spaventati cosć tanto?" si chiesero i ra-
gazzi.
"Siamo caduti nel pozzo delle paure. Cose che succe-
dono," analizz• Hideo con gli occhi gonfi di sonno. An-
cora mezzi addormentati, raccogliemmo i bagagli, ci diri-
gemmo all'aeroporto e senza neanche riuscire a emozio-
narci per il commiato dall'Egitto, arrivammo a Roma di-
strutti.
A Fiumicino c'era il fidanzato di Yukiko ad aspettarla.
Un ragazzone grande e grosso. Capii perch‚ mi aveva det-
to che lo vedeva sempre risaltare in mezzo agli altri.
Un tipo simpatico e di poche parole, con gli occhi sotti-
li sottili. Prendemmo un tŠ insieme al bar dell'aeroporto e
parlammo di un sacco di cose.
Dopo di che lui e Yukiko ci accompagnarono con la
macchina all'albergo e se ne andarono.
Io entrai nella mia stanza, mi buttai sul letto e schiacciai
un pisolino.
Quando mi svegliai, la vista oltre le finestre era pervasa
da una luce completamente diversa da quella egiziana. Ri-
splendeva delicata, dolce e pacata. Anche il blu del cielo
era differente. Era di un colore limpido, alto, con tutta una
serie di sfumature.
Trasportato da una brezza fresca, arriv• alle mie orec-
chie anche il brulichio tipico delle strade d'Europa che
mai avevo sentito nei giorni passati, in nessuno dei posti in
cui mi ero svegliata. In quel momento me ne resi conto
davvero. Non ero pi in Egitto! Non ero pi in quel paese
forte, semplice e intrattabile a modo suo.
Addio, Egitto!
Non c'era pi neanche Yukiko, che sino al giorno pri-
ma era sempre stata al mio fianco nel momento del risve-
glio.
Me ne rattristai un poco. Tuttavia il cielo era talmente
blu, la luce talmente delicata che credetti di trovarmi nel
mezzo di un piacevole sogno di mezzogiorno.
Mi alzai, presi dal frigobar un succo d'arancia carminio
made in Italy e lo bevvi a grandi sorsi.
Non faceva n‚ caldo n‚ freddo, non avevo mai fatto ca-
so a quanto fosse gradevole per il fisico la giusta tempera-
tura. Mi sentivo talmente a mio agio che credetti di esser-
mi trasformata in un corpo gassoso.
Da sola, mi dedicai al bucato.
Pensai che sarebbe stato piacevole stenderlo al sole,
sotto quel chiaro cielo blu. Cosć attaccai una corda alla fi-
nestra e in fila uno dopo l'altro, come bandiere, appesi gli
indumenti lavati.
L'avevo fatto anche in Egitto, ma avendo usato l'acqua
torbida degli alberghi, era stato pi che altro un palliativo.
Qui invece ero riuscita a lavare la roba nel vero senso della
parola. Dalla biancheria, da una giacca e da tutto il resto
uscć dell'acqua giallognola. Il colore della sabbia, il colore
del sole e del vento secco.
Dopo di che tirai fuori da un sacchetto di plastica le
pietre colorate che avevo comprato per quattro soldi a
Luxor e le osservai col sospetto che fossero false. Monta-
te su argento e con un buon disegno, avrei potuto farne
dei lussuosi bijoux all'egiziana, anche se di poco valore.
E decisi che li avrei regalati ai miei compagni di viaggio.
Al sole, quelle pietre viola, rosa e azzurre risplendevano
riflettendo la luce come fanno quelle sul fondo dei fiumi
dalle acque limpide.
I viaggi non finiscono all'aeroporto come succede negli
sceneggiati.
Nessuno ne parla, per• insieme alla gioia di tornare a
casa e alla vita di sempre, nella stessa misura si cela la triste
atmosfera della fine, una cosa minima, lieve, di cui quasi
non ci Si accorge.
In un'andatura, in un sorriso, nella luce del tramonto.
La sera uscii a fare una passeggiata con Yukiko che era
passata a prendermi in albergo. Il suo ragazzo le aveva det-
to di uscire con noi se voleva, e se n'era andato da un'altra
parte. Ah, se l'avessi saputo gli avrei parlato di molte pi
cose la mattina. La sua simpatia mi era rimasta impressa
come una traccia di profumo insieme ai segni della luce
mattutina. Disse che l'aveva lasciato ancora mezza addor-
mentata, e io ero spiacente di averli fatti separare cosć alla
svelta; lei rispose sorridendo: "Non preoccuparti, da domani
lo vedr• ogni giorno, oggi ci tenevo proprio a stare con te,
dai, andiamo a fare le turiste!".
Prima che facesse buio, andammo a vedere le vetrine in
via Condotti. Mi fece effetto: sia io che lei non indossava-
mo pi gli abiti leggeri di cotone che vestivamo in Egitto.
Non portavamo pi nemmeno le scarpe con la suola con-
sunta o i foulard per proteggerci dal sole.
Avevamo dei sandaletti con il tacco, eravamo ben truc-
cate e portavamo la giacca sulle spalle. Passammo il tempo
girando tra i negozi di Gucci, Prada e altri.
Eppure restava ancora, praticamente inviolato, tutto
quello che fra di noi c'era stato durante il viaggio, tutto il
sole dell'Egitto.
Andammo alla fontana di Trevi, ci mischiammo ai turi-
sti per toccare l'acqua e lanciare la monetina, poi man-
giammo un gelato. Dopo di che andammo a fare una pas-
seggiata nel parco di Villa Borghese e guardammo Roma
dall'alto.
In quel tramonto italiano il tempo pioveva dal cielo
senza fare rumore. Velando pian piano la citt di un colore
arancio trasparente. Di lć a poco sarebbe sceso il liquido
denso della notte.
"Certo che quando i viaggi finiscono, si Š belli stanchi,
eh?" disse Yukiko.
"Sć, proprio distrutti. Se penso che noi poi dobbiamo
arrivare fino in Giappone."
"Per• Š stato bellissimo, eh?"
"Sć, Š stato proprio bello."
Yukiko rimase per un po' in silenzio, poi disse:
"Lo penso tutte le volte che mi avventuro in un viaggio:
vivendo per qualche giorno in simbiosi con altra gente, fi-
nisci per affezionarti anche a quelli che all'inizio non ti
piacevano; una volta poi ti senti a pezzi, un'altra ti viene la
diarrea, ti credi al settimo cielo, pensi seriamente di man-
dare tutto all'aria e invece cambi idea e decidi di andare
avanti ancora un pochino, insomma succedono un sacco di
cose, no?".
"Certo! E chiss quante ne hai passate tu con tutti i po-
sti dove sei stata!"
"Sć, per• anche dopo le esperienze peggiori, quando ar-
rivo a casa e mi rimetto nei miei panni, dico sempre: 'Ah,
che bel viaggio! Un sogno!'."
Fece una breve pausa di riflessione e proseguć:
"Quando sar la mia ora, vorrei poter morire pensando
la stessa cosa".
Nel nostro caso, se il viaggio era una miniatura della vi-
ta, mi chiesi che cosa rappresentasse la casa.
Guardavo il verde del parco assorta nei miei pensieri,
quando nella penombra che cominciava a scendere vidi
dei giapponesi che camminavano per un sentiero: erano
Takashi e Hideo.
"Hai preso tutta quella roba? Beata te, noi ci siamo sve-
gliati tardissimo e io sono riuscito a comprare solo due co-
se," disse Hideo osservando i miei sacchetti.
Anche lui aveva una quantit spaventosa di borse di Ar-
mani, Gucci eccetera.
"Per fortuna che non hai avuto molto tempo..." com-
mentai e Takashi infierć:
"Mi sembrava di vedere quei programmi dove vince chi
riesce a comprare pi roba degli altri in un'ora".
"Se non hai fatto in tempo a prendere tutto, dimmelo
pure! Te lo porto io in Giappone," disse Yukiko.
"E vero, Yukiko! Tu domani non torni con noi. Che stra-
na impressione! " comment• Hideo. Non furono parole par-
ticolarmente tristi, eppure mi commossero nel profondo.
Di fronte a quella vista intrisa di sublimit umana, le
storie individuali si dissolvevano restando talmente prive
di forza da risultare disarmanti. Davanti a quel panorama
delicato e pieno di energia, non era possibile entrare in
contatto con gli dŠi utilizzando soltanto la propria forza vi-
tale come in Egitto. Per riuscire a incontrarli, bisognava ri-
porre la fiducia nei propri antenati, avi, genitori.
Era un altro degli aspetti umani.
Una torre, una costruzione di pietra e la cupola rotonda
del Vaticano sparivano nell'arancio e nel blu del cielo. E la
notte cominciava il suo lungo sogno.
Noi ci avviammo taciturni, diretti verso la citt in movi-
mento, in cerca di un ristorante dove cenare.






L'AURORA, LA BARCA DI RA.

In aereo, sulla via del ritorno, vedemmo l'aurora. Il pri-
mo ad accorgersene fu Hideo. Fece un gran fracasso e
chiese conferma alla hostess, cosć che tutta la gente che
dormiva al buio si svegli• e si mise a guardarla.
"Dai fastidio, cerca di emozionarti in silenzio!" gli dissi,
e lui imperterrito nella sua agitazione:
"Ma come!? E' bene che tutti la vedano, guarda!".
L'aurora, ondeggiando leggermente lontana nel cielo,
era una bianca tenda di pizzo. Fluttuava tranquilla nelle
tenebre che proseguivano all'infinito con un curioso aspet-
to artefatto.
Takashi, senza proferire parola, stava con il viso incolla-
to al finestrino. Vi si riflettevano i grandi occhi colmi di
delizia, supplicanti che il tempo si fermasse.
E il vetro era appannato dal suo alito. Una vista impor-
tante.
Per un istante, mi sentii soffocare dalla nostalgia del
viaggio.
Avevo potuto vedere spesso durante quelle vacanze
l'aspetto felice di Takashi, attraverso immagini fresche.
Erano dei regali per me, e in quei momenti non riuscivo a
pensare al significato della cosa.
Pi di una volta avevo goduto delle sue espressioni
nuove, di quelle mai mostrate a nessuno. Erano sia d'una
seriet smisurata da avere paura a toccarlo, sia d'una alle-
gria da illuminare l'animo. Quelle nuove espressioni spen-
sierate, n‚ belle n‚ brutte, venivano in superficie indican-
do anche che da lć in avanti ce ne sarebbero state altre, si-
no al giorno in cui mi sarei separata da lui.
Nel cielo comparvero dei colori che non si fondevano
per niente tra di loro, l'arancio, il blu e il nero, esibendo-
si in una combinazione impossibile da vedere sulla terra.
Le tinte del mondo sopra le nubi erano pi tristi, pi
profonde.
Osservata da laggi, dediti alle attivit umane, quella vi-
sta nell'alto dei cieli si sovrapponeva ai motivi dell'animo
che coloravano la quotidianit e si trasformava in un mi-
stero della natura.
Ricordai le storie felici che Yukiko mi aveva raccontato
nelle notti insonni.
Insieme a quelle, emerse il suo profilo esotico di quan-
do, ogni volta che ne aveva l'opportunit, raccontava con
grande partecipazione dell'oltretomba egizio.
La prova che dentro di me era cresciuto qualcosa.
A mia insaputa, senza che ne potessi assaporare il gu-
sto, accumulandosi nel silenzio.
Il sapore soave della magia di quella minima opposizio-
ne che gli esseri umani potevano esercitare nei confronti
della precisione e dell'irragionevolezza di un destino che ti
fa stringere i denti.
"Gli spiriti a cui era concesso di viaggiare per il grande
cielo sulla barca di Ra, si dirigevano verso oriente e vede-
vano gli albori spettacolari del mondo. La musica suonava
e tutto era avvolto da una luce inspiegabile a parole; da
lass la terra appariva bella e chiara. La superficie del lago
risplendeva, tutto il verde stormiva rivolto al cielo manife-
stando la sua gratitudine. E gli altri spiriti guardavano dal
basso la barca di Ra con i volti pieni di gioia.
Quelli a bordo pensavano di avere creato loro stessi il
mondo intero. Si trattava di una vista talmente beata che
era quasi inevitabile non pensarlo, mentre la luce della gra-
titudine che arrivava dalla terra illuminava la loro barca
con amore. Tutto era bellezza, pace, eternit che si ripete-
vano all'infinito. Un'estasi che soltanto gli spiriti liberi da
ogni cosa, dal corpo e dal tempo, riuscivano a conoscere.
E' per questo che le genti d'Egitto agognavano quella feli-
cit sin dalla vita terrena. Io, da quando sono venuta la
prima volta in questo paese, anche se al momento non me
ne rendevo conto, ho avuto delle allucinazioni momenta-
nee in cui vedevo dalle sponde del Nilo quello splendido
panorama," aveva detto Yukiko.
...chiss perch‚. Dopo avere ascoltato quella storia mi
ero sentita felice neanche fosse stata una cosa che avevo
vissuto in prima persona. Di certo era il simbolo della feli-
cit di tutti coloro che si rivolgevano al sole. L'immagine
delle emozioni, quelle che diventano il fondamento di ogni
felicit.
Non avevo mai provato niente del genere nella mia vita,
n‚ in Egitto n‚ a Roma, eppure in quei frangenti, diretta
verso il Giappone, osservai l'alba e credetti di conoscere
con certezza quel sentimento.
Pensai che mi fosse entrato dentro un po' alla volta du-
rante il viaggio, ma allo stesso tempo di averlo sempre por-
tato con me. Per spiegarmi meglio, avevo l'impressione di
conoscerlo da prima della nascita e che avrei continuato a
conservarlo anche dopo la morte.
I nostri corpi erano sfiniti, mi guardai intorno e vidi Hi-
deo e Takashi che dormivano con una brutta cera. Anch'io,
con la pelle rovinata dall'abbronzatura, ero sul punto di
addormentarmi, era questione di secondi. Il sonno mi
avrebbe avvolta tanto da non potere pi reggere il capo,
da non sentire pi la rigidit del sedile o l'oppressione del-
la diversa pressione atmosferica, un'aria greve mi stava
schiacciando con tutta la sua forza.
Avrei aperto gli occhi e sarebbe stato in Giappone.
Mi aspettavano il lavoro arretrato, le condizioni di
Takashi che non sarebbero migliorate se non con un mira-
colo e il risultato del test che ancora dovevo andare a riti-
rare.
L'ammasso nero e pesante che mi si creava nel profon-
do ogni volta che guardavo Takashi non si sarebbe pi dis-
solto. Altro non restava che imparare a conviverci per
sempre. Di lć in avanti molte sarebbero state le cose orribi-
li e forse pochissime quelle che avrebbero reso allegra la
mia vita e quella dei miei amici.
Tuttavia, nei momenti di difficolt si sarebbe diffuso nel-
l'aria il lieve profumo della speranza per cui niente sareb-
be stato cosć terribile, come quello dei fiori freschi che
avevo odorato nella bottega del profumiere. Un palliativo,
forse. Eppure, io l'avevo respirato davvero.






Postscriptum.

Sono stata in Egitto nella primavera del 1995 con Ishi-
hara Masayasu della casa editrice Gentosha, il pittore Hara
Masumi, il fotografo Yamaguchi Masahiro, il traduttore
Alessandro Giovanni Gerevini, l'allora assistente di Yama-
guchi Kamoshita Akiko, la mia segretaria Nata de Hi-
rokok• e la guida Akram Mostafa.
Prima di recarmici, pensavo di pubblicare soltanto un
diario sullo splendido viaggio che avrei fatto, non ero per
niente sicura di riuscire a trovare l'ispirazione per un ro-
manzo. E invece sono rimasta talmente colpita dal fascino
di quel paese, che ho sentito la necessit quasi impellente
di raccontare una storia. E inutile, accada quel che accada,
io sono una scrittrice di romanzi.
Sć, la vista di quei luoghi dove ha avuto origine l'umanit possiede una
carica che non permette di avere dubbi.
Forse perch‚ io stessa non sono abbastanza forte, proprio non ce l'ho fatta a
descrivere personaggi forti che cercano di contrapporsi a tutti i costi al
panorama. Non mi Š restato che dare una veste narrativa alle sensazioni di
coloro che, invece, si lasciano da esso trasportare, con tristezza e astuzia.
I luoghi citati sono tutti reali, per cui se mai dovesse venirvi voglia di
visitarli, andateci pure.
Vi consiglio in particolare di provare il pancake egiziano. Ancora adesso, nei
giorni di sole, a volte penso a quanto era bello guardare il mercato mangiando
quelle dolci frittelle e bevendo il tŠ con dentro le foglie di menta fresca.
I viaggi prendono vita da cose cosć, minuzie che si imprimono nella mente, no?
L'evento pi misterioso di questa spedizione, che per• non ho inserito nella
trama del romanzo, Š stato aver sognato, prima di esserci stata, la cappella
di Thutmosis III del tempio di Luxor.
Nel sogno ero seduta su un prato con degli amici a contemplare l'alba, quando
dal fondo del cielo rosa intravidi un tempio grandissimo fatto di nuvole rosse
che cambiavano colore di momento in momento. Una vista sontuosa.
D'una bellezza equiparabile a quella del paradiso.
Al risveglio, ricordavo molto bene la forma particolare
delle colonne e dell'edificio stesso, fin troppo essenziale
per un tempio, e avevo creduto fosse una costruzione egizia.
Poi, arrivata in Egitto, ero rimasta sorpresa dall'incredi-
bile numero di templi enormi (ero partita sapendo soltan-
to qualcosa sulla Valle dei Re); dappertutto per• le colonne
erano diverse da quelle del sogno, tanto che mi ero quasi
convinta che si trattasse di un altro posto, della Grecia for-
se. Ma subito dopo ho visitato la cappella di Thutmosis III
le cui colonne, uniche nel loro genere, avevano una strut-
tura differente da tutto il resto ed erano assolutamente
identiche a quelle che avevo sognato. Questo tipo di cose
esiste, ne ho avuto la riprova. Ancora oggi se penso alla
bellezza di quella vista sublime e a quell'aria limpida, fre-
sca e pura, non so perch‚, ma acquisto fiducia in me stes-
sa. E penso a quanto sarebbe bello riuscire un giorno a
scrivere un romanzo fortunato con la stessa magnanimit e
gradevolezza, cosć da infondere coraggio nelle persone nel-
la misura in CUi quel sogno lo infonde a me.
Ma veniamo ai ringraziamenti:
"~ukran" ad Akram Mostafa e Tarek el Sayed della
Naggar Tours of Egypt che, durante il viaggio, si sono dati
da fare senza risparmiarsi fatica.
"Grazie" ai cari Giorgio Amitrano e Ohara Takuji, che
a Roma ci hanno riservato un'accoglienza calorosa.
"Arigato" dal profondo del cuore anche ai numerosi
amici e lettori che in Giappone sostengono il mio lavoro.
Infine, ringrazio pi di chiunque altro le divinit del-
l'Egitto per avermi amata e accolta nella loro terra facen-
domi vedere, senza alcuna parsimonia, cose a dir poco
spettacolari.

Setagaya, febbraio 1996.
Banana Yoshimoto.

Postscriptum all'edizione italiana.
Nell'edizione giapponese, questo libro si componeva delle splendide
illustrazioni di Hara Masumi, delle foto esclusive di Yamaguchi Masahiro e
della mia storia.
Mi preoccupa un po' fare uscire il romanzo da solo, anche se per la prima
volta sono riuscita a descrivere Roma, una citt che adoro. Un capitolo
brevissimo, eppure, innamorata dell'Italia come sono, mi riempie di gioia
sapere che lo leggiate voi italiani. Un giorno, vorrei scrivere qualcosa in
cui il vostro paese abbia un ruolo un po' pi speciale.
Ad Alessandro, grazie mille! Considero una vera fortuna essere tradotta da
lui, compagno di ventura in terra egiziana.
Banana Yoshimoto.

GLOSSARIO.
arigato: grazie.
baqsis (arabo): mancia.
futon: l'insieme di materassino e trapunta che costituisce il "letto" giap-
ponese. Si stende direttamente sul pavimento e di giorno viene
piegato e riposto in appositi armadi a muro.
haniwa: antica statuina funeraria in terracotta raffigurante uomini o ani-
mali.
Morinaga Love: catena di fast food giapponesi.
ramen: tagliatelle cinesi di farina di frumento servite in brodo.
senbei: cracker croccante di riso soffiato alla salsa di soia, talvolta rico-
perto di alghe essiccate.
Setagaya: quartiere residenziale di Tokyo.
Shinjuku: grande quartiere centrale di Tokyo.
sukran (arabo): grazie.
Yatsugatake: vulcano spento (2899 m) situato nella regione centrale
dello Honshu, l'isola principale del Giappone.

FINE.


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