Alex Kava La Perfezione Del Male


ALEX KAVA

LA PERFEZIONE DEL MALE

(A Perfect Evil, 2000)

Alla cara memoria

di Robert (Bob) Shoemaker

(1922-1998)

e a quella perfezione del bene

che continua a ispirare

NOTA DELL'AUTRICE

Anche se La perfezione del male è un'opera di fantasia,

desidero esprimere la mia più profonda partecipazione

al dolore di tutti quei genitori che hanno perso un figlio

a causa di un insensato atto di violenza.

PROLOGO

Penitenziario di Lincoln, Nebraska

Mercoledì 17 luglio

«Mi benedica, Padre, perché ho peccato.» Il tono di Ronald Jef­freys rendeva la frase una sfida più che una confessione.

Padre Stephen Francis guardò le grosse mani del dete­nuto, le unghie rosicchiate a sangue. Quelle mani stringeva­no - no, strangolavano - la falda della camicia blu dell'uni­forme. Padre Francis le immaginò intorno al collo del piccolo Bobby Wilson ed ebbe un brivido.

«È così che si comincia, vero?»

«Sì» disse il prete. La piccola stanza era soffocante. Padre Francis diede un'occhiata ai resti dell'ultima cena di Jeffreys, pizza e una bibita in lattina. L'odore di peperoni e cipolle gli diede la nausea.

«E poi cosa devo dire?»

Fuori della prigione, la folla, esasperata dall'attesa e dal­l'alcol, si faceva sempre più rumorosa. «Friggi, Jeffreys, frig­gi» scandivano in coro. Voci monotone, raggelanti.

Jeffreys pareva non badarci. «Non mi ricordo come fun­ziona» riprese. «Cosa dico adesso?»

Già, che cosa doveva dire? Per un attimo Padre Francis sentì la testa completamente vuota. «I tuoi peccati» balbettò. «Dimmi i tuoi peccati.»

Jeffreys esitò. Visto così, con la barba e la testa rasate, sem­brava più giovane dei suoi ventisei anni. Padre Francis fu at­traversato dal pensiero che quella faccia infantile non sareb­be mai invecchiata. Poi Jeffreys alzò gli occhi e lo guardò. Occhi gelidi, trasparenti, vuoti. Lo sguardo del male, si disse il prete.

«Devi confessarmi i tuoi peccati» ripeté con un filo di voce. «Quelli di cui sei veramente pentito.»

Jeffreys continuò a fissarlo, poi scoppiò a ridere. Padre Francis sobbalzò.

Perché aveva insistito con le guardie per fargli togliere le manette? pensò fissando le grosse mani. Gocce di sudore presero a scorrergli lungo la schiena. Fu tentato di abbando­nare la sua missione, di scappare via, prima che Jeffreys si rendesse conto che un altro delitto non gli sarebbe costato nulla di più. Ma gli venne in mente che la porta era chiusa dall'esterno.

La risata del detenuto cessò di colpo, come era comin­ciata.

«Sei come tutti gli altri, prete» disse con un ringhio. Poi sorrise mettendo in mostra i canini aguzzi. «Anche tu vuoi che confessi cose che non ho mai fatto.» E prese a lacerare l'orlo della camicia in tante piccole strisce.

«Non capisco cosa vuoi dire» sussurrò Padre Francis al­largandosi il colletto. «Credevo che avessi chiesto un prete per­ché volevi confessarti.»

«Sì, è così» disse l'altro con la sua voce bassa e imperso­nale. «Ho ucciso io Bobby Wilson. Gli ho messo le mani in­torno al collo e ho stretto. Prima ha fatto uno strano gorgoglio, poi più niente.» La voce adesso era calma e distaccata, come se stesse ordinando qualcosa al bar.

«Ha soltanto scalciato un po'. Credo che sapesse che sta­va per morire. Ma non ha lottato molto, nemmeno mentre lo stavo violentando.» Si interruppe per controllare se ave­va spaventato Padre Francis, e sorrise quando si rese conto di sì.

«Ho aspettato che fosse morto prima di cominciare a ta­gliarlo. Non sentiva più niente, così l'ho tagliato e l'ho taglia­to ancora. Poi l'ho violentato di nuovo.» Chinò la testa di la­to, come se si accorgesse per la prima volta dei cori fuori del­la prigione. O forse, pensò il prete, quello che sentiva era il battito cupo del suo cuore.

«Ho già confessato tutto una volta, alla polizia» riprese il condannato. «Ma adesso lo confesso a Dio, capisci? Confesso di avere ucciso Bobby Wilson. Ma gli altri due no, quelli non li ho uccisi io. Mi senti, prete? Non ho ucciso il piccolo Harper e nemmeno quel Paltrow.» Fece un ghigno. «Ma questo Dio lo sa già, non è così?»

«Dio conosce tutte le verità» replicò Padre Francis.

«Vogliono giustiziarmi perché credono che io sia un se­rial killer che ammazza i ragazzini» disse Jeffreys a denti stret­ti. «È vero, ho ucciso Bobby Wilson e mi è piaciuto farlo, e for­se merito di morire per questo. Ma Dio sa che non ho ucciso gli altri due. Da qualche parte là fuori, Padre, c'è ancora un mostro in libertà. Ed è molto peggiore di me.»

Nel corridoio si sentirono dei passi. Padre Francis sob­balzò di nuovo facendo cadere la Bibbia sul pavimento. Sta­vano già venendo a prendere il condannato? Così presto?

«Sei pentito dei tuoi peccati?» domandò sottovoce.

Jeffreys non rispose. Ascoltava i passi nel corridoio, sem­pre più vicini.

«Sei pentito dei tuoi peccati?» ripeté Padre Francis. Or­mai respirava a stento. I canti e le grida della folla, sempre più alti, penetravano nella stanza attaverso la finestrella sigillata.

Jeffreys si alzò in piedi e fissò la porta che si apriva cigo­lando. Era spaventato? si chiese il prete.

«Sei pentito dei tuoi peccati?» ripeté per la terza volta, in­capace di dargli l'assoluzione senza una risposta.

Il battente si spalancò del tutto. «È ora» disse una guar­dia.

«È il momento dello spettacolo, Padre» disse Jeffreys. Poi si voltò verso le guardie e allungò i polsi.

Allo scatto delle manette Padre Francis ebbe un picco­lo sussulto, poi seguì con il fiato sospeso il rumore dei pas­si che si allontanavano lungo il corridoio. Dalla porta aper­ta entrò una folata di aria fresca che gli asciugò il sudore dal­la fronte. Si calmò, ma gli rimase un dolore sordo al centro del petto.

«Dio aiuti Ronald Jeffreys» sussurrò tra sé. Se non altro, all'ultimo aveva detto la verità. E lui lo sapeva che era la verità, perché tre giorni prima il mostro senza volto che aveva ucciso Aaron Harper e Eric Paltrow glielo aveva detto attra­verso la grata del confessionale, a St. Margaret.

Ma il segreto del confessionale impediva a Padre Francis di riferirlo ad anima viva. Ronald Jeffreys compreso.

1

Cinque miglia da Platte City, Nebraska

Venerdì 24 ottobre

Nick Morrelli guardò la donna e pensò che il suo ombretto az­zurro era troppo pesante. La ragazza gemeva e si strofinava contro di lui, più che pronta. Ma tutto quello che lui riusciva a pensare era che quel trucco esagerato lo disturbava.

«Oh, tesoro, sei così forte...» sussurrò lei accarezzandogli le braccia e la schiena.

Lui scivolò via. Che diavolo gli stava succedendo? Forse doveva soltanto concentrarsi di più... Le mordicchiò l'orec­chio, poi scese a cercare i seni. Lei fece un sospiro.

Gemiti e sospiri di solito lo eccitavano subito. Ma quella sera, niente. Stava perdendo il suo tocco magico? Era troppo giovane per avere simili problemi... aveva solo trentasei anni!

E da quando aveva cominciato a badare all'età?

«Oh, amore, non fermarti!» implorò la ragazza.

Nick non si era reso conto di essersi fermato, e lei stava diventando impaziente. Cominciò a muovere le anche su e giù. Sì, era decisamente pronta... e lui decisamente non lo era. Come avrebbe voluto che le donne lo chiamassero per nome invece di dolcezza, tesoro, amore. Anche loro si preoccupa­vano di gridare il nome sbagliato?

Le mani della ragazza afferrarono i capelli di Nick, ri­portandogli la bocca verso i seni. Ma tutto quello che lui no­tò fu che i segni dell'abbronzatura non erano uniformi.

Che diavolo gli prendeva? Aveva una bionda nel letto, più che disposta a fare l'amore con lui. Perché non reagiva? Forse perché gli sembrava tutto così meccanico, così privo di significato? Aveva una reputazione da difendere, che diami­ne. Gli sarebbe toccato supplire in qualche modo, con le dita e con la lingua...

Scese lungo il corpo di lei, mordicchiando e baciando, poi raggiunse le mutandine di seta e prese l'orlo tra i denti. Un suono lo fermò di nuovo. Tese l'orecchio, ma lei afferrò la sua testa e la spinse verso il punto che le interessava. «Vai avanti, ti prego» gemette.

Il suono si ripeté. Qualcuno bussava alla porta.

«Torno subito» disse Nick sciogliendosi gentilmente dal­la stretta. Infilò i jeans e gettò un'occhiata alla sveglia sul ta­volino da notte. Le dieci e trentasei.

Cominciò a scendere le scale in punta di piedi, per abitu­dine, poi ricordò che i suoi non abitavano più lì da cinque an­ni. Il suono alla porta si fece insistente.

«Un attimo... arrivo!» disse infastidito, ma in fondo gra­to per l'interruzione.

Aprì la porta e riconobbe il figlio di Hank Ashford, di cui non ricordava il nome. Aveva sedici anni, faceva parte della squadra di football del liceo ed era più alto e robusto della me­dia. Ma in quel momento, con la faccia bianca come un len­zuolo e le mani in tasca, sembrava un bambino.

«Sceriffo Morrelli, deve venire subito in Old Church Road» balbettò.

«Qualcuno si è fatto male?» domandò Nick.

«No, è molto peggio... è una cosa terribile...» Il giovane guardò verso la sua macchina, e solo allora Nick vide la ra­gazza che piangeva con il viso affondato tra le mani.

«Che diavolo succede?» sbottò aspro.

Il ragazzo fece una serie di gesti convulsi, come se non ri­uscisse a trovare la voce.

Che altra stupidaggine avevano combinato? pensò Nick. La settimana prima un gruppetto di liceali aveva fatto una ga­ra con due trattori rubati a Jake Turner, e uno era finito a mu­so in giù in un torrente. Se l'era cavata con tre costole rotte e l'esclusione da due partite di football, il che secondo Nick era una punizione troppo clemente.

«Si può sapere che accidenti avete fatto questa volta?» gridò.

Il ragazzo lo guardò tremando. «Lo abbiamo trovato nel­l'erba alta... oh, Dio... abbiamo trovato un corpo» riuscì final­mente a dire.

«Un corpo? Vuoi dire un cadavere?» Era ubriaco o dro­gato? si chiese Nick.

Il ragazzo annuì con gli occhi pieni di lacrime, poi si pas­sò la manica del giubbotto sulla faccia.

«Aspetta un momento» disse Nick. Rientrò sbattendosi la porta alle spalle, infilò gli stivali senza calzini e recuperò la camicia, allacciandola in fretta. Probabilmente i due avevano bevuto qualche birra di troppo e si erano immaginati tutto quanto. Ò magari si trattava di uno scherzo di Halloween un po' in anticipo.

«Che succede?» gridò una voce.

Diavolo, pensò Nick, come aveva fatto a dimenticarsi di Angie? Vedendola sulle scale, con i lunghi capelli arruffati e una maglietta che le arrivava a malapena alle cosce, non ri­usciva a capire perché era stato così contento di allontanarsi da lei.

«Devo andare a controllare una cosa» rispose vago.

«Quale cosa?» domandò Angie.

Sembrava più incuriosita che preoccupata. Forse voleva solo un succoso pettegolezzo da servire ai clienti di Wanda con il caffè del mattino.

«Non lo so ancora» rispose Nick.

«Hanno trovato il piccolo Alverez?» insisté lei.

A questo Nick non aveva nemmeno pensato. Alverez era scomparso la domenica precedente, mentre stava facendo il giro di consegna dei giornali.

«No, non credo» disse. Anche l'FBI riteneva che fosse sta­to rapito dal padre, che nessuno era riuscito a rintracciare. Un litigio tra divorziati per la custodia del figlio.

«Può darsi che ci metta un po', ma se vuoi resta pure» concluse.

Prese le chiavi della jeep e uscì. Il ragazzo era seduto sui gradini. Nick gli toccò una spalla e lo fece alzare. «Voi due ve­nite con me» disse.

Old Church Road era piena di buche e di pozzanghere dopo la pioggia della settimana precedente, e Nick aveva il suo daffare a evitarle. «Che ci facevate qui, si può sapere?» chiese. Ma si rese subito conto che la risposa era ovvia. Non c'era bisogno di avere sedici anni per sapere che cosa si fa in una strada deserta e fuori mano.

«Lasciamo perdere» disse. «Ditemi solo se vado nella di­rezione giusta.»

«Sì, è a circa un miglio da qui» rispose il ragazzo, «subi­to dopo il ponte. C'è un sentiero che segue la riva del fiume.»

Non balbettava più, notò Nick. Forse gli stava passando la sbornia? La ragazza, seduta tra loro, non aveva ancora det­to una parola.

Nick passò sul ponte di assi, rallentando un po', poi im­boccò il sentiero fangoso. «Vado avanti fino al folto degli al­beri?» domandò.

Il giovane Ashford annuì. La ragazza nascose il viso nel­la sua spalla.

Nick si fermò senza spegnere i fari e si chinò a prendere una pila nel cassetto del cruscotto. Nessuno dei due giovani pareva intenzionato a scendere dalla jeep. «Non mi hai detto che dovevamo vederlo di nuovo» sussurrò la ragazza al suo compagno.

Nick scese e aspettò accanto all'auto, ma i due non si mos­sero. Senza insistere, puntò la torcia verso il fiume e guardò il ragazzo per avere conferma. Il giovane Ashford annuì di nuo­vo e Nick si incamminò.

L'erba alta gli intralciava i passi e i suoi stivali affonda­vano nel fango. La luna era nascosta da un banco di nuvole e la notte era molto buia. Un vento leggero muoveva le fo­glie dietro di lui. Nick si fermò un paio di volte ad ascolta­re. Gli sembrava di vedere un'ombra tra gli alberi... No, si disse, era solo la sua immaginazione. Non doveva farsi in­fluenzare da quello che molto probabilmente era soltanto uno scherzo idiota.

Continuò a camminare a fatica, affondando sempre di più. Ormai aveva decisamente freddo, senza calze, senza bian­cheria e senza giacca com'era. Se quei due imbecilli gli ave­vano fatto uno scherzo, l'avrebbero pagata cara...

Proseguì a testa bassa finché il raggio della pila non col­se qualcosa di luccicante. Nick si diresse verso quel punto, ma inciampò in una radice, perse l'equilibrio e cadde. La pila gli sfuggì di mano e finì in acqua.

Si rialzò sulle ginocchia. Sentiva un odore nauseabondo, più forte di quello che veniva dall'acqua putrida delle poz­zanghere. Nonostante il buio, adesso riusciva a vedere che l'oggetto luccicante era una croce appesa a una catenina, strap­pata e aggrovigliata nel fango.

Si voltò per capire che cosa l'avesse fatto inciampare. Ave­va pensato a una radice o a un ramo. Invece era un corpicino bianco, seminascosto dalle foglie marce.

Nick balzò in piedi. L'odore nauseabondo adesso riem­piva l'aria.

Si avvicinò lentamente, come per non svegliare il ragaz­zo, che sembrava dormisse anche se aveva gli occhi spalan­cati. Poi vide la gola squarciata e il petto aperto da un orribi­le taglio, con i lembi della pelle ripiegati all'indietro. Allora il suo stomaco si ribellò.

2

«Fate molta attenzione a usare solo mele perfettamente sa­ne...» digitò Christine Hamilton sulla tastiera. Poi cancellò tut­to. Non avrebbe mai finito quell'articolo, pensò. Diede un'oc­chiata all'orologio sulla parete e vide che erano quasi le un­dici. Grazie a Dio Timmy dormiva da un amico.

Il custode aveva spento tutte le luci del corridoio, il che dimostrava quanto la rubrica Living today venisse considera­ta importante. Dalla redazione arrivavano gli squilli dei tele­foni e il ronzio dei fax. In quella stanza i giornalisti della cro­naca ingollavano caffè e correggevano gli ultimi pezzi. E lei si dannava l'anima sulla torta di mele!

Christine aprì una cartellina e sfogliò appunti e ritagli su almeno un centinaio di modi di affettare, tritare, frullare e cuo­cere le mele, senza ricavarne una scintilla di ispirazione. For­se l'aveva esaurita del tutto la settimana prima, arrovellan­dosi a inventare sani e appetitosi piatti di verdura per i bam­bini.

Tutta colpa dell'atteggiamento sciovinista di Bruce, se­condo il quale una moglie non doveva lavorare perché in ca­sa era il marito a portare i pantaloni. Peccato che i pantaloni lui li togliesse troppo volentieri.

Christine chiuse la cartellina di scatto e la gettò sulla scri­vania. Per quanto tempo avrebbe continuato a soffrire così? pensò amara. Perché il punto era quello, soffriva ancora come un cane, dopo quasi un anno di separazione.

Si scostò dalla scrivania e si ravviò i capelli biondi. Il co­lore chiaro era un regalo che si era fatta dopo il divorzio, e il risultato era stato soddisfacente. Far voltare gli uomini per strada era un'esperienza nuova, però doveva ricordarsi di an­dare dal parrucchiere prima che rispuntassero le radici scure.

Trascurando il divieto di fumare, pescò una sigaretta dal­la borsa, l'accese e aspirò profondamente. Ma proprio in quel momento sentì una porta sbattere e poi dei passi in corridoio. Spense in fretta la sigaretta in un posacenere colmo di mozzi­coni - era così che cercava di smettere! - e lo gettò nel cestino della carta, agitando l'aria per disperdere il fumo.

Pete Dunlap entrò nella stanza.

«Hamilton» disse. «Sei ancora qui.»

Dunlap lavorava all'Omaha Journal da quasi cinquant'anni. Aveva cominciato come fattorino ed era uno dei pochi in grado di far uscire un'edizione tutto da solo. Christine gli sorrise, contenta di vedere lui anziché Charles Schneider, il ca­poredattore che abbaiava ordini come un colonnello nazista. «Blocco dello scrittore» disse ironica per spiegare come mai lavorava a quell'ora.

«Bene» commentò Pete seguendo i suoi pensieri. «Bailey è malato, Russell sta ancora occupandosi dello scandalo del senatore Neale e ho appena mandato Sanchez sulla Super­strada 50 a seguire un maxi-tamponamento. E sta succeden­do qualcosa vicino al fiume, in Old Church Road. Ernie non ha capito molto dai messaggi radio, ma pare che due o tre mac­chine di pattuglia stiano andando là di gran carriera. Potreb­bero essere di nuovo dei liceali ubriachi che giocano con i trat­tori, e so che non è il tuo lavoro, Hamilton, ma non andresti a dare un'occhiata?»

Christine cercò di contenere l'eccitazione. Finalmente qualcosa di serio, da vera giornalista. «Ti copro io con Schnei­der per quello che stavi facendo» continuò Pete, fraintenden­do la sua esitazione.

«E va bene, ci vado» rispose lei, come se gli facesse un fa­vore.

«Prendi la statale, perché la superstrada sarà sicuramen­te bloccata dall'incidente» suggerì lui. «Esci allo svincolo per la 66 e vai avanti circa sei miglia. Old Church Road è a sud, lungo il fiume.»

Lei stava per dirgli che lo sapeva bene, perché da ra­gazzina c'era andata a flirtare più di una volta. Ma così gli avrebbe rivelato di essere una ragazza di campagna, e que­sto voleva evitarlo. Si limitò ad annotare le istruzioni e pre­se la borsa.

«Cerca di tornare prima dell'una. Magari facciamo in tempo a mettere qualcosa nell'edizione del mattino» con­cluse Pete.

«Sarà fatto.» Christine si allontanò in fretta e appena fu al sicuro nel parcheggio deserto fece un salto di gioia. L'occa­sione di passare dall'altra parte era arrivata. Di passare alle notizie mollando le ricette di cucina e i trucchi per casalinghe indaffarate. Qualsiasi cosa stesse succedendo giù al fiume, lei ne avrebbe tratto un articolo sufficientemente drammatico da inchiodare i lettori. E se non era successo niente, be', si sareb­be inventata qualcosa.

3

L'uomo correva rapido, scostando i rami e calpestando le fo­glie secche, senza osare guardarsi alle spalle. Lo stavano se­guendo? Gli erano addosso? Possibile che nessuno sentisse il rumore dei rami spezzati?

Poi, d'improvviso, scivolò nel fango e finì nell'acqua ge­lida, annaspando. Cercò di restare in piedi, ma cadde in gi­nocchio e allora si rannicchiò, sperando di rendersi invisibile. La corrente era forte e minacciava di riportarlo indietro, nel punto da cui era appena fuggito.

L'acqua fredda placò le sue paure. Doveva respirare con calma, si disse. Con calma. Tirò il fiato, ma un sorso di acqua fetida gli entrò in bocca, dandogli il vomito.

Non vedeva più i fari. Forse era riuscito ad allontanarsi quanto bastava per mettersi in salvo. Allungò il collo per co­gliere qualche suono, ma non sentì passi affrettati né guaiti di cani o il rombo di qualche motore. Aveva rischiato grosso, pen­sò. Il tizio con la torcia lo aveva quasi scoperto. Strano che non lo avesse visto acquattato nell'erba.

Non doveva più tornare in quel posto. Stava diventando un'abitudine stupida e pericolosa. Era come una droga, per lui. Lo eccitava, gli dava una specie di orgasmo mentale... No, non doveva tornarci più. Per fortuna nessuno lo aveva visto, nessuno lo aveva seguito. Era al sicuro. E anche il ragazzino, finalmente, era al sicuro.

4

L'odore nauseabondo era penetrato non solo nella pelle, ma nella mente di Nick. Si strappò di dosso la camicia infangata e accettò una giacca a vento da Bob Weston dell'FBI. Le ma­niche gli arrivavano a metà avambraccio e la cerniera non si chiudeva del tutto, ma se non altro stava un po' più al caldo.

Però continuava a puzzare terribilmente, e ne ebbe con­ferma quando Eddie Gillick, uno dei suoi uomini, con una smorfia gli porse un asciugamano perché si ripulisse.

Intorno a lui la scena era apocalittica. Le lampade foto­elettriche illuminavano i rami degli alberi su cui era stato fis­sato il nastro giallo. Nel mezzo giaceva il piccolo fantasma bianco e un orribile odore di morte aleggiava su tutto.

Nick lavorava come sceriffo da un paio di anni. Aveva estratto tre vittime da altrettante macchine accartocciate, ave­va visto qualche ferita da arma da fuoco ed era intervenuto a sedare alcune risse beccandosi la sua parte di pugni. Ma a que­sto non era preparato.

«Sta arrivando Canale Nove» fece Gillick indicando un furgoncino che sobbalzava verso di loro.

«Diavolo» esclamò Nick. «Come hanno fatto a scoprir­lo?»

«Avranno ascoltato la radio della polizia. Probabilmente non sanno nemmeno di che cosa si tratta, ma vengono a ve­dere se c'è qualche notizia interessante.»

«Di' a Lloyd e ad Adam di tenerli lontani. Niente ripre­se, niente interviste e niente sbirciate. E questo vale anche per tutti gli sciacalli che dovessero arrivare.» L'ultima cosa di cui aveva bisogno era un servizio televisivo che lo ritraesse con quella giacca troppo piccola e i jeans infangati, rendendolo ri­dicolo davanti a tutta la contea.

«Altre maledette impronte di pneumatici» borbottò Weston gettando un'occhiata a Nick in modo da fargli capire che parlava di lui.

Nick arrossì di rabbia, ma non replicò. Weston lo consi­derava un dilettante e non ne faceva mistero. Si erano presi in antipatia fin dalla domenica precedente, quando Danny Alverez era scomparso lasciando a terra la bicicletta e un pac­co di giornali non consegnati. Nick avrebbe voluto frugare tutti i campi e i parchi della zona; ma l'altro, dall'alto della sua esperienza ventennale, aveva insistito per aspettare una richiesta di riscatto che non era mai arrivata. E lui si era do­vuto arrendere.

La versione che l'FBI dava dei fatti continuava a non con­vincerlo. Certo, le cronache erano piene di padri divorziati che si vendicavano delle ex mogli perché non potevano ve­dere i figli. Tuttavia Nick sentiva che qualcosa non quadra­va. E il fatto che Weston, piccolo e mingherlino, cercasse di compensare la bassa statura con l'arroganza, non gli faceva accettare più facilmente il suo punto di vista. In questo caso, però, l'uomo dell'FBI aveva ragione: lui era piombato sulla scena del delitto confondendo gli indizi, e aveva fatto inter­venire troppi uomini, aumentando la confusione. Chissà, for­se Weston gli aveva dato di proposito una giacca troppo pic­cola, per umiliarlo.

In quel momento George Tillie si fece strada tra la folla e Nick si sentì sollevato. Finalmente una faccia amica. L'anzia­no medico legale era stato evidentemente tirato giù dal letto: aveva i capelli scarmigliati e la barba mal rasata, e indossava un paio di pantofole di peluche a forma di cane.

«Da questa parte, George» disse Nick. Un agente scattò un'ultima foto della scena e poi si fece da parte. Non appena vide il piccolo cadavere liyido, il vecchio medico impallidì. «Dio mio, no» gemette. «Di nuovo!»

5

Da lontano, la scena era illuminata come uno stadio la sera di una partita importante. Christine premette sull'acceleratore, pensando che doveva essere successo qualcosa di grosso. Sen­tì montare l'eccitazione.

Il messaggio radio della polizia - Si richiedono rinforzi im­mediati - non era molto esplicito. Ma mentre avanzava sul sen­tiero fangoso Christine avvertiva che la faccenda era seria. Nu­merose macchine della polizia, due furgoncini di stazioni te­levisive e un nugolo di agenti: decisamente non si trattava di qualche adolescente ubriaco.

Le venne in mente il rapimento, le foto del ragazzino tra­smesse centinaia di volte da tutti i notiziari e riprodotte su tut­ti i giornali. Che fosse arrivata una richiesta di riscatto? O for­se era addirittura in atto la liberazione del piccolo Alverez?

Saltò giù dalla macchina, scivolò e rischiò di cadere. «Non fare la scema» si ordinò. «Sta' calma e non perdere la testa.»

Con il taccuino in mano, si incamminò verso gli alberi. Le sue assurde scarpe col tacco furono immediatamente inghiot­tite dal fango. Christine le scalciò verso la macchina e prose­guì senza scarpe, raggiungendo il gruppo di giornalisti che l'avevano preceduta.

Gli agenti sostenevano impassibili il fuoco di fila delle do­mande. Oltre gli alberi si intravedeva soltanto un cordone di uomini in divisa, che impediva completamente la visuale.

Canale Cinque aveva mandato sul posto Darcy McManus, una delle conduttrici del notiziario serale. Appariva per­fetta nel suo tailleur rosso, senza un capello fuori posto e con il trucco impeccabile. Ma doveva essere troppo tardi per una ripresa in diretta, perché la telecamera non era accesa e la don­na se ne stava muta in disparte.

Christine riconobbe l'agente Eddie Gillick nel cordone di poliziotti e si avvicinò con cautela.

«Agente Gillick, si ricorda di me? Sono Christine Hamil­ton.»

L'altro la guardò severo, poi un sorriso gli illuminò la fac­cia. «Certo che mi ricordo, signora Hamilton. Lei è la figlia di Tony. Che ci fa qui?»

«Lavoro per l'Omaha Journal.»

«Ah.» La sua espressione si indurì di colpo.

Doveva pensare rapidamente al modo di agganciarlo, si disse Christine, o l'avrebbe mandata via. Guardò i baffi sotti­li dell'agente, i capelli lisciati all'indietro, l'uniforme stirata. E ricordò che Gillick si piccava di essere un dongiovanni.

«Incredibile com'è fangoso, qui. Mi sono addirittura per­sa le scarpe» ridacchiò indicando i piedi nudi. Le unghie di­pinte di rosso si intravvedevano sotto le calze di nylon. Gil­lick lanciò un'occhiata alle gambe di Christine e lei pensò che la sua gonna corta e stretta finalmente le serviva a qualcosa.

«Sì, in effetti è un bel pasticcio... stia attenta a non pren­dersi un raffreddore» fece l'agente. E le diede un'altra occhiata, fermandosi sui seni. Christine inarcò la schiena per metterli in evidenza.

«Tutta la faccenda mi sembra un bel pasticcio, Eddie» sus­surrò. «Si chiama Eddie, vero?»

«Infatti» rispose lui compiaciuto. «Ma non sono autoriz­zato a rivelare niente.»

«Oh, certo.» Christine si chinò in avanti cercando di igno­rare il penetrante odore di brillantina e azzardò: «È chiaro che lei non può parlare con nessuno del ragazzo Alverez».

«Come lo sa?» esclamò Gillick cadendo nella trappola.

Centro! esultò Christine. «Lei capirà che non posso rive­larle le mie fonti...» continuò con voce bassa e seducente.

«Oh, sì, certo» fece lui.

«E probabilmente non è nemmeno riuscito a vedere la sce­na... voglio dire, l'hanno messa qui a fare il lavoro più pesante!»

Gillick gonfiò il petto. «Oh, no, ho visto tutto benissimo» esclamò tronfio.

«Il ragazzo è conciato male, eh?» insisté lei.

«Già. Quel figlio di puttana l'ha sgozzato.»

Christine si sentì girare la testa.

«Ehi» gridò l'agente, «metti via quell'arnese! Mi scusi, si­gnora Hamilton...»

Mentre Gillick afferrava la telecamera dell'operatore di Canale Nove, Christine tornò verso la macchina e si sedette al volante, facendosi aria. Nonostante il freddo, era stranamen­te sudata.

Così Danny Alverez era morto. Sgozzato, per citare Gil­lick. E lei aveva il suo primo scoop. Ma nel suo stomaco le far­falle di pochi minuti prima si erano tramutate in scarafaggi.

6

Sabato 25 ottobre

Nick ingollò un sorso di caffè ormai freddo, pensando ai ri­cordi sgradevoli che la bevanda gli evocava: le nottate inson­ni passate a studiare, e il terribile viaggio in macchina per an­dare al capezzale del nonno morente che suo padre si era ri­fiutato di assistere. Nick si chiedeva spesso che cosa avrebbe provato il grande Tony Morrelli se lui, suo figlio, avesse ri­fiutato di stargli accanto nel momento finale.

Adesso il sapore del caffè gli avrebbe ricordato anche le grida laceranti di una madre che aveva riconosciuto il cada­vere straziato del figlio. Non un gran miglioramento.

Nick aveva incontrato Laura Alverez la settimana pre­cedente, dodici ore dopo la scomparsa di Danny. Era una donna alta e statuaria, e per tutta la durata del loro collo­quio aveva lavato e asciugato ossessivamente tazze e piat­tini, come una condanna senza fine. Nick aveva anche no­tato le scarpe spaiate e il cardigan infilato a rovescio, e ave­va capito che la sua calma innaturale era dovuta allo stato di shock.

Laura aveva conservato la stessa calma per l'intera set­timana, preparando caffè e panini per tutti i poliziotti che le affollavano la casa. Forse per questo le grida laceranti che echeggiavano fra le pareti asettiche dell'obitorio gli erano parse ancora più tremende. Nessuno avrebbe dovuto af­frontare da solo un dolore così atroce, pensò Nick. E si ram­maricò di non aver rintracciato l'ex marito, magari per pic­chiarlo a sangue.

«Monelli» disse Bob Weston entrando nell'ufficio di Nick. «Vai a casa, fatti una doccia, cambiati. Puzzi come un caprone.»

Non voleva insultarlo, stava semplicemente enunciando i fatti.

«E se fosse l'ex marito?» domandò Nick.

L'altro scosse la testa. «Sono padre anch'io. Per quanto uno possa avercela con l'ex moglie, non credo che arrivi a fa­re una cosa del genere al proprio figlio.»

«E allora da dove cominciamo?»

«Io partirei da un elenco di pedofili e pornografi infantili.»

In quel momento Lucy Burton si affacciò alla porta. «Scu­sa, Nick, volevo dirti che i reporter dei quattro canali televisi­vi di Omaha e dei due di Lincoln sono giù nell'atrio che aspet­tano una dichiarazione. E ci sono anche dei giornalisti della carta stampata.»

«Merda» imprecò lui. «Grazie, Lucy.»

La ragazza si allontanò e Weston si girò a guardarla. For­se era il caso che Lucy smettesse di portare quei vestiti ade­renti, adesso che erano destinati ad apparire spesso in televi­sione. Peccato, però, si disse Nick. Lucy aveva un corpo stre­pitoso e le piaceva metterlo in mostra.

«Bisognerà pure che gli diciamo qualcosa» sospirò rivol­to a Weston. «Li abbiamo evitati per tutta la settimana.»

«Sono d'accordo. Devi fare una dichiarazione.»

«Perché io? Credevo fossi tu l'esperto.»

«Lo ero finché pensavamo a un rapimento. Ma adesso si tratta di omicidio, e quindi è roba tua. Spiacente.»

Nick si abbandonò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Doveva essere un incubo, pensò. Tra poco si sareb­be svegliato nel suo letto, con Angie accanto.

«Senti, Morrelli...» La voce di Weston era insolitamen­te gentile, e lui riaprì gli occhi insospettito. «Stavo pensan­do, visto che si tratta di un bambino... Forse potremmo far venire qualcuno che ti aiuti a tracciare un profilo del colpe­vole.»

«Che vuoi dire?»

«Finora nessuno ha ancora notato la somiglianza con i de­litti di Jeffreys, ma quando se ne accorgeranno sarà il caos.»

Diavolo, pensò Nick, un altro bel problema da risolvere. Sentì di nuovo l'odore di decomposizione e gli venne la nau­sea.

«Ci sono degli esperti in grado di mettere insieme un pro­filo di questo individuo. Giusto per darti un'idea un po' più precisa di chi può essere quel figlio di puttana.»

«Certo, sarebbe un aiuto» fece lui cercando di mostrarsi padrone della situazione. Non era il momento di rivelare la propria debolezza, anche se Weston si stava dimostrando com­prensivo.

«Ho sentito parlare bene dell'agente speciale O'Dell. A quanto pare è in grado di tracciare il profilo di un assassino in tutti i dettagli, misura di scarpe compresa. Potrei chiamare Quantico e vedere se è disponibile.»

«Quanto pensi che ci vorrà?»

«Di' al medico legale di rinviare l'autopsia. Se chiamo su­bito può darsi che ci mandino qualcuno entro domani.»

Weston si alzò e Nick lo imitò, stupito di constatare che le ginocchia reggevano, malgrado tutto.

L'agente Hal Langston li aspettava sulla porta. «Ho pen­sato che magari vi interessava vedere questo» disse. E sven­tolò una copia dell'Omaha Journal. Il titolo diceva a grandi let­tere: LO STILE DI JEFFREYS NELL'ASSASSINIO DEL RA­GAZZO.

«Chi accidenti...?» grugnì Weston afferrando il giornale e cominciando a leggere ad alta voce.

Ieri sera il cadavere di un ragazzino è stato rinvenuto in Old Church Road, nella zona che costeggia Platte River. Secondo il pa­rere di un agente che era sul posto, e che desidera mantenere l'a­nonimato, "qualche bastardo lo ha sgozzato". Sgozzare era il se­gno distintivo di Ronald Jeffreys, un serial killer giustiziato nel lu­glio di quest'anno. La polizia non ha ancora rivelato l'identità del­la vittima.

«Gesù» esclamò Nick sempre più nauseato.

«Bisognerà che tu metta un bavaglio ai tuoi uomini» com­mentò Weston.

«C'è di peggio» fece Hal. «Il pezzo è firmato Christine Ha­milton.»

«E chi accidenti è?» ringhiò Weston rivolto a Nick. «Una delle squinzie che ti sbatti?»

Come aveva potuto Christine fargli questo? Senza dirgli niente, senza metterlo sull'avviso?

«No» sospirò lui. «È mia sorella.»

7

Per evitare i rimproveri di Greg, Maggie O'Dell sfilò le scar­pe impolverate prima di entrare in casa. Da quando avevano comperato lo spazioso appartamento nella zona residenziale di Crest Ridge, suo marito era diventato un maniaco dell'or­dine e della pulizia, e a volte lei aveva la sensazione che quel­la casa - che tra l'altro le costava quasi l'intero stipendio men­sile - fosse senza vita e senza carattere come una camera d'al­bergo.

Sfilò la blusa di felpa, la gettò verso la lavanderia man­cando il cesto, e andò ad aprire il frigorifero in cucina.

La vista era desolante. Un contenitore con i resti di una cena cinese, un croissant stantio avvolto nella pellicola, una scodella colma di una poltiglia misteriosa. Maggie prese una bottiglia d'acqua e richiuse il frigo. Altro che ordine e pulizia.

In quel momento squillò il telefono.

«Sono Cunningham.»

Lei si ravviò i capelli corti, umidi di sudore, immediata­mente all'erta. «Ciao. Ci sono novità?»

«Ho appena ricevuto una chiamata dall'ufficio di Oma­ha. Hanno trovato il cadavere di un ragazzino. Le ferite sono tipiche di un serial killer che operava nella zona circa sei an­ni fa.»

«Vuoi dire che il killer è di nuovo in giro?»

«No, si trattava di Ronald Jeffreys. Non so se ricordi il ca­so, aveva ucciso tre bambini e...»

«Sì, mi ricordo. Non è stato giustiziato in giugno?»

«In luglio, mi pare.» Maggie sentì un fruscio di carte e, conoscendo Kyle Cunningham, immaginò che avesse il dossier di Jeffreys davanti a sé, sul tavolo dell'ufficio, anche se era sabato pomeriggio.

«Perciò questo potrebbe essere un imitatore» disse apren­do uno dopo l'altro i cassetti della cucina alla ricerca di carta e penna. Trovò solo tovaglioli meticolosamente ripiegati e fi­le di utensili e posate allineati come soldatini. D'impulso, pre­se un cucchiaino e lo mise di traverso, sopra tutti gli altri, poi richiuse il cassetto con un colpo secco.

«Sì, potrebbe essere un imitatore» ammise Cunningham. «Ma il fatto è che hanno richiesto uno psicologo, anzi, Bob Weston ha chiesto espressamente di te.»

«Così sono una celebrità perfino in Nebraska» fece lei ignorando il tono irritato del suo capo. Un mese prima, Cun­ningham sarebbe stato fiero che una sua protetta fosse tanto famosa. «Quando devo partire?»

«Calma, calma, O'Dell.»

Maggie strinse il ricevitore in attesa della predica. «For­se i rapporti lusinghieri che Weston ha su di te non compren­dono il tuo ultimo caso.»

Lei si appoggiò alla credenza e si premette la mano sullo stomaco. «Spero che non mi butterai in faccia il caso Stucky tutte le volte che mi darai un incarico» disse aggressiva.

«Sai bene che non si tratta di questo, Maggie.»

Strano, l'aveva chiamata per nome. La predica promette­va di essere severa.

«È che mi preoccupo per te. Non ti sei presa un giorno di pausa dopo Stucky, e non sei voluta andare dal nostro psico­logo.»

«Sto benissimo» mentì lei. «Non era la prima volta che vedevo sangue e interiora, in otto anni. Ormai non c'è più nien­te che possa traumatizzarmi.»

«Senti, per quanto tu voglia fare la dura, quando il san­gue e le interiora ti finiscono addosso fa una bella differenza.»

Non c'era bisogno che glielo ricordasse, pensò Maggie. Era anche troppo facile per lei rivedere la scena di Albert Stucky che faceva a pezzi quelle donne, e risentire la sua voce che di­ceva: Voglio che tu guardi, Maggie. Se chiudi gli occhi ne ammaz­zerò un'altra, e poi un'altra ancora...

Lei era laureata in psicologia e non le serviva un altro psicologo che le spiegasse perché non dormiva la notte. Non ave­va parlato di Stucky neppure con Greg, come avrebbe potuto confidarsi con un estraneo?

Greg era lontano, quando lei era tornata nella sua stanza d'albergo a Miami, si era tolta dai capelli i brandelli del cer­vello di Lydia Barnett e aveva strofinato via dai vestiti e dal­la pelle il sangue di Melissa Stonekey. Greg non c'era quando si era medicata la ferita che le attraversava l'addome. Del re­sto non erano cose di cui si poteva parlare al telefono. «Com'è andata la tua giornata, caro? Oh, io non ho fatto niente di spe­ciale, ho solo visto due donne sgozzate e fatte a pezzi sotto i miei occhi.»

Ma la vera ragione per cui non ne aveva parlato con Greg era un'altra. Maggie temeva la sua reazione. Lui avrebbe ri­cominciato a tormentarla perché lasciasse il lavoro, o, peggio, perché si trasformasse in una funzionarla da scrivania. Ci ave­va provato l'unica volta che si era confidata con lui, e questo le era bastato. E poi Greg non sembrava troppo in ansia per la mancanza di dialogo tra loro, non si accorgeva nemmeno che la notte lei non dormiva e passeggiava su e giù per la casa.

«Maggie? Sei sempre lì?»

«Ho bisogno del mio lavoro, Kyle. Per favore, non to­gliermelo.» La sua voce era ferma, solo le mani tremavano.

Ci fu un attimo di silenzio, poi Cunningham concluse: «Ti mando i dettagli per fax. Il tuo volo parte domani mattina al­le sei. Chiamami se hai delle domande».

La porta d'ingresso sbatté e lei ebbe un sussulto.

«Maggie?»

«Sono in cucina» rispose inghiottendo in fretta un sorso d'acqua. Aveva bisogno di questo incarico, pensò. Doveva di­mostrare a Cunningham che il sadico gioco di Albert Stucky non aveva segnato la sua psiche, né l'aveva privata della sua professionalità.

«Ehi, piccola» disse Greg abbracciandola. Poi notò che era sudata e si ritrasse, sorridendo per mascherare il disgusto.

«Abbiamo prenotato per le sei e mezza» disse. «Ce la fai a prepararti in tempo?»

Lei guardò l'orologio sulla parete. Erano solo le quattro. Era davvero ridotta così male?

«Oh, sicuro» replicò continuando a bere dalla bottiglia e lasciando di proposito che l'acqua le gocciolasse sul mento.

Lui strinse la mascella, guardandola con disapprovazio­ne. Aveva cercato di dissuaderla dal fare jogging nel quartie­re. All'inizio lei aveva pensato che si preoccupasse per la sua sicurezza. «Sono cintura nera di karate, Greg» lo aveva rassi­curato. «So difendermi.»

Lui però pensava ad altro. «Non è questo» le aveva det­to. «Quando corri ti riduci in un modo... Non ci tieni a fare buona impressione sui vicini?»

Il telefono squillò di nuovo e lui allungò la mano verso la cornetta.

«Lascia, è un fax di Cunningham» disse Maggie. E andò in soggiorno per commutare il telefono.

«Perché diavolo ti manda un fax di sabato?» brontolò lui seguendola.

«Sono i dettagli di un caso che mi ha chiesto di seguire» spiegò lei evitando di guardarlo. Di solito era Greg che an­nullava i loro impegni nei week end, ma le sembrava infanti­le ricordarglielo adesso.

«Dovevamo fare una cenetta tranquilla, noi due soli» fe­ce lui seccato.

«E la faremo» replicò Maggie. «Devo solo cercare di non fare troppo tardi perché il mio aereo parte domani mattina al­le sei.»

Silenzio.

«Accidenti, Maggie, è il nostro anniversario... dovevamo passare il week end insieme!»

«No, il nostro anniversario era sabato scorso, solo che tu te ne sei dimenticato e ti sei iscritto al torneo di golf.»

«Quindi è una ripicca!»

«No, non è una ripicca» disse Maggie cercando di man­tenere la calma.

«E che cosa sarebbe secondo te?»

«Il mio lavoro.»

«Certo, come no. Chiamalo come vuoi, per me è il tuo mo­do di vendicarti.»

«Un ragazzino è stato assassinato, e forse posso aiutarli a trovare il bastardo che lo ha ucciso» spiegò lei alzando la voce. «Mi dispiace, Greg. Cercherò di farmi perdonare la pros­sima volta.» Staccò il foglio dal fax e si diresse verso la porta per uscire dalla stanza, ma lui l'afferrò per un braccio.

«Digli di mandare qualcun altro» esclamò.

Lei lo guardò negli occhi, cercando invano le tracce del­l'intelligenza e del calore umano che l'avevano conquistata nove anni prima, quando entrambi erano all'università e pro­gettavano di salvare il mondo, lei rintracciando i criminali e lui prendendo le parti delle vittime. Poi Greg aveva accettato di entrare in un famoso studio legale di Washington, e le vit­time da difendere erano diventate multinazionali plurimiliardarie.

Eppure, per un attimo, le era parso quasi di ritrovare in quegli occhi una scintilla di sincerità... Poi Greg accentuò la stretta sul suo braccio e sibilò: «Digli di mandare qualcun al­tro, o fra noi è finita».

Maggie si liberò con uno strattone, e quando lui cercò di riafferrarla gli mollò un pugno nello stomaco.

Gli occhi di Greg si spalancarono per la sorpresa.

«Non azzardarti mai più a maltrattarmi» urlò Maggie. «E se usi questo incarico per decidere che è finita, vuol dire che tra noi non c'era più niente da un pezzo.»

Dopo di che girò sui tacchi e se ne andò, sperando di riu­scire a trattenere le lacrime.

8

Domenica 26 ottobre

Così si comincia, pensò l'uomo sorseggiando il tè bollente. Il titolo sembrava più adatto a un foglio scandalistico che a un giornale rispettabile come l'Omaha Journal. IL SERIAL KILLER TERRORIZZA LA CITTÀ ANCHE DALLA TOMBA. Natural­mente, una frase del genere sull'edizione domenicale era de­stinata ad attrarre un gran numero di lettori.

L'articolo era firmato da Christine Hamilton, un nome che ricordava di avere visto nelle pagine del tempo libero. Perché mai avevano affidato la storia a una novellina?

Aprì il giornale per leggere il seguito a pagina dieci. Ac­canto a una foto del ragazzo, l'articolo raccontava come la ma­dre e l'FBI avessero aspettato una richiesta di riscatto che non era mai arrivata, finché lo sceriffo Morrelli aveva ritrovato il cadavere lungo il fiume.

Morrelli? pensò lui. No, questo non era il famoso Tony, ma suo figlio Nick. Non male che padre e figlio facessero la stessa esperienza.

L'articolo sottolineava la somiglianza del caso con gli omi­cidi di tre ragazzini avvenuti nella stessa città sei anni prima, e ricordava che i corpi delle vittime, strangolate e accoltella­te, erano stati ritrovati in zone boscose qualche giorno dopo la scomparsa. Non forniva però dettagli sulla meccanica del­l'ultimo assassinio, né sulle ferite al torace della vittima. Che la polizia sperasse di nuovo di tenere sotto silenzio quei par­ticolari? pensò scuotendo la testa.

L'uomo chiuse il giornale e con il suo coltello da macellaio perfettamente affilato spalmò un po' di marmellata sul pane bruciacchiato. Il tostapane funzionava male, ma lui pre­feriva fare colazione da solo piuttosto che in cucina con gli altri.

La camera era semplice, con pareti bianche e un anonimo pavimento di legno. Il letto era troppo corto per il suo metro e ottantacinque e spesso la notte si ritrovava con i piedi sco­perti. In un angolo, su un tavolo ricoperto di formica, c'erano il fornello elettrico e il bollitore che usava per il tè, oltre al to­stapane difettoso regalato da un parrocchiano. Il comodino ospitava l'unico pezzo un po' prezioso, una lampada dalla ba­se in bronzo scolpito che rappresentava una danza di ninfe e cherubini. Se l'era concessa benché fosse troppo costosa per il suo magro stipendio, quella lampada e le tre riproduzioni ap­pese sulla parete di fronte al letto. Guardava sempre i tre qua­dri prima di addormentarsi, ma in questi giorni stentava pa­recchio a prendere sonno. Era sempre così quando quel dolo­re pulsante alla testa lo assaliva, alterando la sua vita tran­quilla e riportando in superficie tutti gli orribili ricordi. Quan­do accadeva, la sua vita smetteva di appartenergli.

Diede un'occhiata all'orologio e si passò una mano sul­le guance. Erano ancora lisce, non avrebbe avuto bisogno di radersi. Così aveva il tempo di finire la lettura del giornale, saltando a piè pari gli articoli dedicati a Ronald Jeffreys. Jeffreys non aveva mai meritato l'attenzione che gli avevano ri­servato in vita, eppure era agli onori della cronaca anche do­po morto.

Finita la colazione, ripulì meticolosamente il tavolo con una spugna umida, poi prese le Nike dal piccolo lavabo. Avreb­be dovuto toglierle prima, pensò, ma per fortuna erano di nuo­vo pulitissime, senza la minima traccia di fango. Scosse le ul­time gocce d'acqua e le mise da parte, poi lavò con cura il piat­to di porcellana dipinto a mano che aveva trovato nella cre­denza della comunità. Strizzò la bustina del tè usata e lavò an­che la tazza.

Il rituale del mattino era completato. Si mise a quattro zampe sul pavimento e prese una scatola di legno, che tene­va nascosta sotto il letto, deponendola sul tavolo. Ritagliò dal giornale gli articoli che lo interessavano, aprì la scatola e li unì a un mucchio di ritagli simili. I più vecchi cominciavano a in­giallire. Controllò gli altri oggetti: un fazzoletto di lino candi­do, due candele, un piccolo contenitore di olio. Infine leccò i resti di marmellata dal coltello e lo rimise delicatamente nel­la scatola, sopra un paio di mutandine da ragazzo.

9

Timmy Hamilton scostò la mano di sua madre che gli ravvia­va i capelli. Era già abbastanza imbarazzante essere in ritar­do, ma farsi trattare come un bambinetto era anche peggio. «Dai, mamma, ci guardano tutti!»

«Cos'è questo livido?»

«Ho urtato contro Chad in allenamento. Non è niente.» E si mise la mano sul fianco, come per nascondere un livido mol­to più grande.

«Devi stare più attento, Timmy. Ti fai male troppo facil­mente. Quando ti ho dato il permesso di giocare a calcio do­vevo essere fuori di testa.»

«Devo andare» fece lui impaziente. «La messa comincia tra dieci minuti.»

Christine frugò nella borsa. «Aspetta, volevo darti il mo­dulo e i soldi per il campeggio... ma non importa, di' a Padre Keller che glieli faccio avere domani.»

«Allora posso andare? Non vuoi controllare se ho messo la biancheria a rovescio o roba simile?»

«Vai, spiritoso!» rise lei dandogli una pacca sul fondo­schiena.

A Timmy piaceva quando sua madre rideva, cosa che non faceva spesso da quando il papà se n'era andato. Se rideva di­ventava bella, la donna più bella che lui avesse mai conosciu­to, specialmente con quei nuovi capelli biondi. Perfino più bel­la di Miss Roberts, la sua insegnante di quarta. Adesso era in quinta e come insegnante aveva il signor Stedman, che non gli piaceva per niente. Era soltanto il mese di ottobre, ma Timmy aveva già deciso che essere in quinta era orribile. Le sue uniche soddisfazioni erano gli allenamenti di calcio e ser­vire messa con Padre Keller.

In luglio, quando sua madre lo aveva mandato in cam­peggio, lui si era arrabbiato. Ma con Padre Keller si era di­vertito, e al ritorno lui gli aveva chiesto di fargli da chieri­chetto. I chierichetti di Padre Keller erano un'elite, scelti con cura e ricompensati con premi speciali, come il breve cam­peggio che era in programma tra qualche giorno.

Timmy bussò alla porta della sacrestia, ma nessuno gli aprì. Allora entrò, prese dall'armadio una cotta della sua mi­sura e la infilò in fretta. Stava gettando il giubbotto sull'ingi­nocchiatoio quando vide il prete assorto in preghiera. Padre Keller non si mosse. Finì di pregare, si fece il segno della cro­ce e si alzò, raccogliendo il giubbotto che era caduto a terra. «Tua madre lo sa che butti in giro i vestiti in questo modo?» sorrise mettendo in mostra i denti bianchissimi.

«Mi scusi, Padre. Non l'ho vista quando sono entrato, e avevo paura di essere in ritardo...»

«Non preoccuparti, Timmy abbiamo tempo.» E gli arruf­fò i capelli come faceva sempre.

All'inizio Timmy non era a suo agio quando Padre Kel­ler lo toccava, ma adesso le sue mani lo facevano sentire al sicuro. Non lo avrebbe mai ammesso, ma Padre Keller gli piaceva quasi più di suo padre. Quando gli parlava, Timmy si sentiva la persona più importante del mondo. In cambio si sforzava di fargli piacere e di servire messa come si deve, anche se faceva ancora degli errori. La domenica prima, per esempio, aveva portato all'altare l'ampolla dell'acqua ma non quella del vino. Invece di arrabbiarsi, Padre Keller gli aveva sorriso e gli aveva sussurrato quello che mancava. De­cisamente Padre Keller non era severo come il papà: sem­brava più un amico che un prete. Giocava a football con i ragazzi, raccontava storie di fantasmi e a volte, dopo la mes­sa, scambiava con loro le figurine dei giocatori di baseball. Ne aveva di preziosissime, come Babe Ruth e Joe Di Mag­gio. No, Padre Keller era troppo in gamba per somigliare al papà.

Timmy finì di vestirsi e aspettò che il prete indossasse i paramenti.

«Pronto?» disse Padre Keller.

«Sì, prontissimo» rispose Timmy.

E guardando l'alta figura che camminava davanti a lui non poté trattenere un sorriso. Dalla tonaca nera spuntavano un paio di Nike candide come la neve.

10

Maggie non aveva mai apprezzato il fascino delle cittadine di provincia, quei piccoli centri che venivano definiti raccolti e amichevoli quando in realtà erano noiosi e pettegoli. Gli in­carichi nelle piccole città la innervosivano. Sentiva la man­canza del traffico, dei clacson, dello smog, del cibo a cui era abituata, ma doveva ammettere che il tragitto da Omaha a Platte City era piuttosto suggestivo. Gli alberi erano un tri­pudio di arancio, rosso e oro, e l'aria profumava di resina e di pioggia.

Mentre guidava, un jet passò rombando sulla sua testa e Maggie ricordò che a circa quindici miglia da lì si trovava una base aeronautica. Dunque anche a Platte City avrebbe potuto sentire qualche rumore familiare.

Percorse di proposito la strada più lunga per attraversa­re il centro e farsi un'idea del luogo in cui avrebbe lavorato. Vide una pizzeria, un piccolo supermercato e un nuovissimo McDonald con il caratteristico arco doppio che superava in al­tezza il campanile della chiesa. La croce di ferro battuto spic­cava sulle nuvole nere che si erano ammassata in cielo. I fe­deli che uscivano dalla messa stavano svuotando a poco a po­co il parcheggio e lei riuscì a infilare la Ford presa a noleggio in uno spazio appena liberato.

Le informazioni che aveva raccolto su Internet descrive­vano Platte City come una sorta di quartiere residenziale per i pendolari che lavoravano a Omaha (venti miglia a nordest) o a Lincoln (trenta miglia a sudovest), il che spiegava le belle case e i giardini curati.

Affacciati sulla piazza principale c'erano alcuni negozi, un ufficio postale, un cinema, un ristorante chiamato Da Wan­da e un bar con un distributore di bibite accanto alla porta d'in­gresso. Molti negozi avevano dei tendoni a strisce bianche e rosse e alcune vetrine erano decorate da cassette di gerani an­cora fioriti. L'edificio del tribunale, in mattoni rossi, domina­va la piazza. L'intero isolato era circondato da una cancellata di ferro dipinta di bianco, che racchiudeva statue di bronzo, piccole aiuole, qualche panchina e dei lampioni in stile anti­co. La cosa che più impressionò Maggie fu l'assoluta assenza di rifiuti: né un sacchetto vuoto né un bicchiere di carta de­turpavano il terreno ombreggiato da aceri e sicomori.

I tacchi di Maggie echeggiarono nell'atrio di marmo del tribunale. Non c'erano uomini di guardia, ma secondo le in­dicazioni di un pannello alla parete l'aula del tribunale, il car­cere e l'ufficio dello sceriffo si trovavano al terzo piano.

Maggie evitò l'ascensore e salì a piedi la sontuosa scali­nata di marmo bianco e grigio, notando i rivestimenti di quer­cia alle pareti e le finiture in ottone lucido. L'insieme era così imponente che d'istinto camminava in punta di piedi.

L'ufficio dello sceriffo era deserto, ma odorava di caffè appena fatto. Si sentiva una fotocopiatrice ronzare in una stan­za vicina. Maggie vide che l'orologio sulla parete segnava le undici e mezzo e risistemò il suo, ancora regolato sull'ora di Washington.

Non era nemmeno mezzogiorno e lei si sentiva già esau­sta, dopo il litigio con Greg, l'ennesima notte insonne e il vo­lo piuttosto turbolento. Detestava volare e non ci si era mai abituata.

«Devi imparare a rilassarti, Maggie» le diceva sua madre. «Non puoi mantenere l'autocontrollo ventiquattr'ore su ven­tiquattro.»

Parlare di autocontrollo era alquanto ironico da parte di una donna che aveva annegato il dolore per la morte del ma­rito ubriacandosi ogni venerdì sera e portandosi a casa chiun­que le offrisse da bere. Solo quando uno dei suoi amici aveva suggerito un giochetto a tre sua madre si era decisa a usare le stanze dei motel: non tanto per il disgusto di cedere all'uomo la figlia dodicenne, pensava a volte Maggie, quanto perché il confronto la intimidiva.

Maggie si massaggiò la nuca rigida per la tensione. For­se aveva fatto male a venire subito in tribunale invece di pas­sare in albergo e magari mangiare qualcosa. Ma era impaziente di cominciare e per tutta la durata del volo non aveva fatto al­tro che ripassare nei dettagli i delitti di Ronald Jeffreys. L'ul­timo omicidio era identico agli altri, perfino nella ferita a for­ma di X incisa sul petto della vittima. Gli imitatori, spesso me­ticolosi in modo maniacale, erano spesso più crudeli del mo­dello originale.

«Posso aiutarla?» disse una voce alle sue spalle.

Maggie si voltò e guardò la donna che aveva parlato, sor­presa. Non sembrava affatto la tipica segretaria di uno scerif­fo. Aveva i capelli cotonati e rigidi di lacca, e i vestiti troppo corti e stretti. Faceva piuttosto pensare a una ragazzina pron­ta per un appuntamento.

«Vorrei vedere lo sceriffo Nicholas Morrelli» disse Mag­gie in tono deciso.

La segretaria la squadrò sospettosa. Con il suo metro e sessantacinque e i cinquantacinque chili di peso, Maggie non era certo una donna imponente, ma aveva adottato da anni un atteggiamento autoritario che richiamava immediatamen­te all'ordine gli interlocutori.

«Al momento Nick non c'è» disse la donna senza ulteriori spiegazioni. «Aveva un appuntamento?»

Maggie ignorò la domanda e insisté: «Come posso rin­tracciarlo?»

La donna raddrizzò le spalle, come se volesse sfidarla. «Senta, signora, non voglio essere scortese. Ma per quale ra­gione vuole vedere Nick... lo sceriffo Morrelli?» Adesso non sembrava più così giovane, e barcollava un po' sui tacchi a spillo.

Maggie mise la mano in tasca per prendere il distintivo, e in quel momento due uomini varcarono la porta d'ingresso. Il più vecchio indossava un'uniforme marrone impeccabil­mente stirata, con la cravatta stretta al collo. Aveva i capelli li­sci e spazzolati all'indietro: un perfetto agente di polizia. L'al­tro era in felpa grigia macchiata di sudore, short e scarpe da jogging: decisamente anomalo ma anche molto attraente, con quel lungo corpo muscoloso e i capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte. Maggie si affrettò a distogliere lo sguardo.

«Salve, Lucy. Tutto bene?» domandò il più giovane dei due. Poi squadrò Maggie da capo a piedi.

«Stavo solo cercando di capire che cosa vuole questa si­gnora...»

«Voglio vedere lo sceriffo Morrelli» fece Maggie impa­ziente.

«E per cosa?» intervenne l'agente.

Lei sistemò i capelli dietro l'orecchio per calmare l'irrita­zione, poi estrasse il distintivo. «Sono dell'FBI» disse.

L'uomo più giovane la guardò imbarazzato. «Lei è l'a­gente speciale O'Dell?» chiese.

«Esatto.»

«Ci scusi per il terzo grado. Io sono lo sceriffo Morrelli.» E si asciugò la mano sulla felpa prima di tendergliela.

Maggie lo guardò stupefatta. Nessuno degli sceriffi di provincia con cui le era capitato di lavorare aveva l'aspetto di Nick Morrelli. Quest'uomo sembrava piuttosto un atleta pro­fessionista, uno di quegli individui che sanno di essere at­traenti e perciò credono di potersi permettere ogni arroganza. Gli occhi azzurri risaltavano sul viso abbronzato, e la sua stret­ta di mano era ferma e decisa. Lo sguardo fisso nel suo era senza dubbio un trucchetto che riservava alle donne, pensò Maggie infastidita.

«Questo è l'agente Eddie Gillick, e ha già conosciuto Lucy Burton» continuò Morrelli. «Mi scuso ancora, ma siamo tutti un po' nervosi. Abbiamo avuto un paio di giornate difficili, e un mucchio di reporter a ficcare il naso dappertutto.»

«Devo dire che ha trovato un travestimento molto efficace» replicò Maggie squadrandolo da capo a piedi come lui aveva fatto poco prima con lei. Quando lo guardò di nuovo negli oc­chi, l'arroganza era scomparsa e Morrelli sembrava a disagio.

«Sono appena tornato da Omaha dove ho partecipato al­la Maratona» si giustificò. «È per raccogliere fondi destinati all'Associazione per la cura delle malattie polmonari, o forse delle malattie cardiache, non ricordo bene. Ma comunque per una buona causa.»

«Non mi deve nessuna spiegazione, sceriffo» replicò lei, soddisfatta di averlo intimidito.

Ci fu un attimo di silenzio, poi Gillick si schiarì la gola. «Io devo tornare al lavoro. Lieto di averla conosciuta, signo­rina O'Dell.»

«Agente O'Dell» corresse Morrelli.

«Sì, certo, mi scusi...»

«Sono sicura che ci vedremo ancora» disse Maggie con un sorriso.

L'altro batté in ritirata e Morrelli cercò di riprendere in mano la situazione. «Lucy, è odore di caffè quello che sento?»

«L'ho appena fatto» rispose la ragazza facendosi avanti. «Te ne porto subito una tazza.»

«Che ne dici di portarne una anche all'agente O'Dell?» disse lo sceriffo guardando Maggie.

«Niente caffè per me, grazie» rispose lei.

«Le va una Pepsi?» Morrelli sembrava ansioso di com­piacerla.

«Sì, grazie.» Forse un po' di zucchero avrebbe giovato al suo stomaco vuoto.

«Allora lascia perdere il caffè, Lucy, e portaci due lattine di Pepsi.»

La ragazza fissò Maggie con antipatia, poi voltò le spalle e si allontanò lungo il corridoio.

Nick e Maggie rimasero soli e lui si massaggiò le braccia come se avesse improvvisamente freddo. Ma lei sapeva be­nissimo di essere la causa del suo imbarazzo. Forse avrebbe dovuto avvertirlo del proprio arrivo.

«Dopo quasi quarantotto ore ininterrotte di lavoro ab­biamo deciso di prenderci una pausa» spiegò lui. «E poi oggi è domenica...»

«Sì, lo so, è domenica, ma da quello che ho capito il caso è piuttosto urgente» replicò Maggie. «Ha tenuto il corpo a mia disposizione, vero?»

«Sì, certo. È nell'obitorio dell'ospedale.» Morrelli chiuse gli occhi e si passò la mano sulla faccia, e solo allora lei notò una piccola cicatrice che rovinava la perfezione della mascel­la ben scolpita. Era stanco, pensò, o voleva scacciare le im­magini che dovevano perseguitarlo ancora, visto che era sta­to lui a trovare il cadavere?

«Se vuole la accompagno» aggiunse lui.

«Sì, grazie. Ma prima c'è un altro posto dove vorrei an­dare.»

«Oh, certo, vorrà disfare le valigie... in che albergo è?»

«Quello può aspettare, mi interessa di più la scena del de­litto.» Morrelli impallidì e lei precisò: «Vorrei che mi portasse nel punto esatto in cui ha scoperto il corpo».

11

Sul terreno fangoso, tra pozzanghere e radici affioranti, si in­crociavano parecchie tracce di pneumatici.

«Nessuno si è reso conto che tutto questo traffico poteva distruggere delle prove?»

Nick guardò di traverso l'agente O'Dell. Cominciava a non poterne più che tutti gli ricordassero la sua incompeten­za. «Quando abbiamo scoperto il corpo, di qui erano già pas­sati almeno due veicoli. Ci siamo resi conto che potevamo aver confuso le tracce dell'assassino, ma ormai non c'era più nien­te da fare.»

Anche se si dava un tono da donna matura, pensava in­tanto Nick, Maggie O'Dell non poteva avere più di trent'anni. Troppo giovane per essere un'esperta. Ma l'età non era la sola cosa che lo sconcertava. A dispetto dei suoi modi bruschi, era molto bella, e gli abiti severi non nascondevano del tutto quello che aveva l'aria di essere un corpo da favola. In altre circostanze Nick avrebbe messo in moto tutto il suo fascino, ma in quella donna c'era qualcosa che lo bloccava. Agiva con troppa sicurezza, con troppa calma. Dava l'impressione di sa­pere sempre quello che stava facendo, il che gli dava un tre­mendo fastidio, perché lo faceva sentire ancora più inadeguato al compito.

Frenò di colpo davanti al folto degli alberi. La nausea lo assalì di nuovo. Sentì l'agente O'Dell che trafficava con la ma­niglia della portiera e senza riflettere si chinò su di lei per aiu­tarla. «Lasci, faccio io.»

Lei arretrò premendo la schiena contro il sedile per evi­tare ogni contatto.

«Forse è meglio che apra da fuori.»

«Buona idea.»

Appena sceso, Nick si diede dell'idiota per quel com­portamento così poco professionale. In ufficio aveva fatto una doccia rapida e si era cambiato, ma indossava ancora gli sti­vali incrostati del fango di quella notte, e che adesso si sareb­bero sporcati di più.

Dall'esterno la portiera si aprì facilmente. L'agente O'Dell avrebbe pensato che la sua era stata una scusa meschina per farle delle avance? Comunque sembrava del tutto immune al suo fascino, o per lo meno a quel poco che gli era rimasto.

«Aspetti» la fermò. «Devo avere degli stivali di gomma sotto il sedile.» Fece per arrampicarsi nella jeep, ma preferì aspettare che lei si spostasse a distanza di sicurezza. Grazie a Dio gli stivali erano a portata di mano.

«Sono proprio necessari?» domandò l'agente O'Dell guar­dandoli come se si trattasse di un paio di manette.

«Assolutamente» rispose Nick sicuro. «Giù al fiume il fan­go è ancora più alto.»

E la osservò mentre sfilava i mocassini e infilava gli enor­mi stivali sui piedi snelli.

Cominciarono la discesa verso il fiume e Nick notò che O'Dell manteneva il passo benché fosse molto più piccola di lui. La zona era ancora circondata dal nastro giallo, ormai strap­pato in diversi punti. Soffiava un'aria gelida e il cielo era ca­rico di nuvole nere. Nick alzò il bavero del giubbotto. O'Dell aveva solo una leggera giacca di lana sui pantaloni uguali, ma non mostrava di sentire il freddo.

Si abbassò a esaminare l'impronta del piccolo corpo, tastò i fili d'erba schiacciati, raccolse una manciata di fango e lo an­nusò. Ricordando quell'orribile odore, Nick ebbe un brivido.

«Dove ha trovato la croce?» gli chiese fissando il fiume.

Nick si avvicinò al paletto bianco che uno dei suoi uomi­ni aveva conficcato nel terreno. «Qui» disse indicandolo.

O'Dell guardò di nuovo l'impronta del corpo, a mezzo metro di distanza dal paletto.

«Apparteneva sicuramente al ragazzo» disse Nick. «La madre l'ha riconosciuta. La catenella si deve essere spezzata durante la lotta.»

«Solo che non c'è stata nessuna lotta...»

«Come?» Nick la guardò in attesa di una spiegazione, ma lei era di nuovo chinata e misurava con un metro pieghevole la distanza tra l'impronta del corpo e il paletto di plastica.

«Non c'è stata nessuna lotta» ripeté alzandosi e ripulen­dosi i pantaloni alla meglio.

«Come fa a dirlo?» Era lì solo da pochi minuti e aveva già capito tutto?

«Lei è caduto qui quando ha inciampato, giusto?» do­mandò lei indicando l'erba strappata poco più avanti.

Nick fece una smorfia irritata. «Sì.»

«E le orme qui intorno sono ovviamente quelle dei suoi uomini.»

«E dell'FBI» precisò lui sulla difensiva. «Si sono occupa­ti del caso finché non abbiamo scoperto che non si trattava di un rapimento.»

«A parte questo punto e quello in cui giaceva il corpo, non c'è erba strappata o schiacciata. La vittima aveva mani e pie­di legati?»

«Sì, dietro la schiena.»

«Io penso che li avesse già legati quando è stato portato qui. Il medico legale ha stabilito l'ora approssimativa della morte?»

«È stato ucciso meno di ventiquattr'ore prima che io lo trovassi» disse Nick. La nausea era sempre più forte. Chissà se sarebbe mai riuscito a dimenticare quegli occhi innocenti che fissavano il cielo.

«Quando è scomparso il ragazzo?»

«Domenica mattina. Abbiamo trovato la bicicletta e il pac­co dei giornali appoggiato contro uno steccato. Non aveva an­cora cominciato il suo solito giro di consegna.»

«Perciò l'assassino lo ha tenuto prigioniero per almeno tre giorni.»

«Gesù» borbottò Nick. Non aveva pensato al tempo tra­scorso tra la scomparsa di Danny e la sua morte. Tutti rite­nevano che fosse stato rapito dal padre, che fosse in buona salute, non prigioniero e sottoposto a chissà quali torture. «E allora come si è spezzata la catena?» chiese per cambiare di­scorso.

«Non lo so, forse l'assassino gliel'ha strappata. Era una crocetta d'argento, vero?»

Nick annuì, colpito dal fatto che lei avesse letto così at­tentamente il suo rapporto.

«Forse l'assassino non voleva vederla» continuò Maggie, come pensando ad alta voce. «Forse non poteva fare quello che aveva intenzione di fare finché la vittima la portava ad­dosso. La croce è un simbolo che assicura protezione, e l'as­sassino potrebbe essere abbastanza religioso da saperlo e pro­vare disagio.»

«Un omicida fanatico» fece lui. «Ci mancava anche que­sta.»

«Che cos'altro avete in mano?» domandò lei.

«Mi scusi?»

«Avete altre prove, oggetti, brandelli di stoffa o di corda? Siete riusciti a identificare qualche impronta di pneumatico?»

Di nuovo con quella storia. Quante volte gli avrebbero ri­cordato la sua inesperienza?

«Be', sì, abbiamo trovato l'impronta di un piede.»

Lei lo guardò scettica. «Mi scusi, sceriffo, ma come avete fatto a isolarne una sola? Da quanto posso vedere, qui ci de­ve essere stata almeno una dozzina di persone. Come fate a sapere che l'impronta non era di uno di voi, o di un agente dell'FBI?»

«Nessuno di noi era a piedi nudi» replicò Nick. E senza aspettare una risposta si calò verso la riva del fiume, aggrap­pandosi a un ramo per non scivolare.

Lei lo imitò e guardò le impronte ancora cosparse di pol­vere bianca. «Non c'è nessuna garanzia che siano dell'assas­sino» osservò.

«Chi altro poteva essere tanto pazzo da andarsene in gi­ro a piedi nudi con questo freddo?»

Maggie si aggrappò allo stesso ramo e si sporse in avan­ti. «Le spiace darmi una mano?».

Nick obbedì cercando di non guardare la giacca aperta che rivelava il morbido seno di lei. Dio santo, sembrava tutto tranne un'agente speciale.

Assicurati i piedi sul terreno, Maggie gli lasciò immedia­tamente la mano. Poi prese un appunto sul taccuino.

Nick sospirò. Si sentiva spossato. Le ultime quarantot­tore lo avevano privato di ogni forza. I muscoli gli facevano male per la maratona a cui si era imposto di partecipare e la nausea era diventata insopportabile. Uno stormo di oche sel­vatiche passò gracchiando sopra le loro teste e lui si sorprese a domandarsi quale fosse stata l'ultima cosa che Danny ave­va visto. Si augurò che fosse qualcosa di tranquillo e familia­re come quelle oche selvatiche.

«I segni delle pugnalate e la ferita sul petto erano esatta­mente le stesse degli altri omicidi di Jeffreys» disse. «Com'è possibile che l'assassino abbia avuto quelle informazioni?»

«Jeffreys è stato giustiziato da poco, vero?»

«Infatti. In luglio.»

«Spesso, quando c'è un'esecuzione capitale i giornali pub­blicano una storia dettagliata del condannato. Chiunque può avere tratto le sue informazioni da lì.»

«Già, i giornali» borbottò lui pensando agli articoli di Chri­stine.

«O dagli atti del processo» continuò Maggie. «Di solito vengono resi pubblici quando il processo è finito.»

«Così lei pensa che l'assassino sia un imitatore.»

«Sì. I dettagli riprodotti con tanta cura non possono es­sere una coincidenza.»

«Ma perché qualcuno dovrebbe mettersi a imitare dei de­litti tanto orribili?»

«Questo non lo so» disse Maggie sollevando gli occhi dal taccuino. «Ma le posso dire una cosa: lo rifarà. E molto presto, temo.»

12

L'obitorio era nel seminterrato e forse per questo ogni rumo­re riecheggiava sordamente contro le pareti di piastrelle bian­che. Si sentiva l'acqua scorrere nelle tubature, il ronzare di un ventilatore, lo scricchiolio dell'ascensore che tornava al pian­terreno.

Maggie lanciò un'occhiata a Morrelli: cercava di darsi un contegno come se per lui la cosa fosse di ordinaria ammini­strazione, ma camminava in punta di piedi ed era chiaramente sottosopra. Giù al fiume lo aveva visto trattenere il fiato un paio di volte come se stesse per svenire.

Eppure aveva insistito per accompagnarla all'obitorio, specie dopo aver scoperto che il medico legale era andato a caccia e non era rintracciabile. Maggie aveva pensato che lei non avrebbe mai scelto come diversivo uno sport che comportava altre forme di morte.

Morrelli armeggiò con un mazzo di chiavi, poi scoprì che la porta non era chiusa e si appoggiò al battente per aprire a Maggie. Che fosse intenzionale o no, notò lei, era la terza vol­ta che lo sceriffo faceva in modo che i loro corpi si trovassero quasi a contatto.

Di solito il suo atteggiamento freddo e autoritario mette­va fine alle avance indesiderate, ma Morrelli sembrava non capire. Probabilmente trattava tutte le donne come potenzia­li avventure di una notte, e dato il suo innegabile fascino era probabile che riuscisse a ottenere quello che voleva. Ma lei non si sarebbe lasciata impressionare per così poco.

Era abituata ai commenti degli uomini che si sentivano sminuiti dalla sua autorità. Aveva sperimentato di tutto, dalle semplici battute ironiche a vere e proprie aggressioni fisi­che, ma aveva imparato che l'indifferenza era la difesa mi­gliore.

Morrelli trovò il pulsante della luce e i tubi al neon si ac­cesero in successione, uno dopo l'altro. La stanza era più gran­de di quanto Maggie si aspettava, ordinata e disinfettata con ammoniaca. Al centro troneggiava un tavolo di acciaio inos­sidabile e su un ripiano lungo una parete erano allineati stru­menti, bisturi, fiale e microscopi. Sulla parete opposta c'era­no cinque cassetti frigoriferi.

Maggie tolse la giacca e la appoggiò su una sedia, poi rim­boccò le maniche della blusa e si guardò intorno alla ricerca di un camice o di un grembiule da laboratorio. La costosa ca­micetta di seta era un regalo di Greg e se l'avesse macchiata l'avrebbe accusata di essere trasandata e irresponsabile, come aveva fatto quando aveva perso la fede nuziale, che adesso giaceva da qualche parte sul fondo del fiume Charles.

Maggie aprì la borsa che aveva con sé. Estrasse un flaconcino di Vicks VapoRub e ne spalmò un po' intorno alle na­rici. Aveva imparato anni prima che i cadaveri, anche se re­frigerati, emanavano un odore che era meglio evitare. Fece per richiudere il flacone, poi diede un'occhiata a Morrelli e glielo porse. «Se ha intenzione di rimanere, è meglio che lo usi.»

Lui guardò perplesso il flacone, poi eseguì.

Maggie infilò i guanti chirurgici e ne offrì un paio a Nick, ma lui scosse la testa.

«Guardi che non è obbligato a restare se non se la sente» gli disse lei. Era di nuovo pallidissimo, e non avevano nem­meno tirato fuori il corpo.

«No, no, rimango. Solo che... non voglio starle tra i piedi, ecco.»

Maggie avrebbe preferito esaminare il cadavere da sola, ma visto che si trovava nella giurisdizione di Morrelli tollerò la sua presenza, mettendosi al lavoro come se lui non ci fos­se. Estrasse dalla borsa un piccolo registratore e una Polaroid.

«Che cassetto?» domandò a Morrelli, voltandosi verso le celle frigorifere. Lui si fece forza, aprì il gancio del cassetto di mezzo e tirò. Il pesante carrello uscì dal suo alloggiamento. Maggie vi spinse sotto il tavolo, poi insieme sistemarono il tutto sotto la lampada centrale. Ma non appena lei cominciò ad aprire il sacco di plastica nera che conteneva il cadavere, Morrelli indietreggiò in un angolo.

Il corpo sembrava molto piccolo e fragile, il che faceva ap­parire le ferite ancora più pronunciate. Era stato un bel ra­gazzino, pensò Maggie. Capelli biondo-rossi tagliati corti, un visetto spruzzato di lentiggini che adesso spiccavano vivide sulla pelle grigia. Sotto il collo aveva un grosso livido blua­stro e la fune che lo aveva strangolato aveva lasciato delle la­cerazioni sopra lo squarcio che gli attraversava il collo.

Maggie cominciò a scattare fotografie delle pugnalate e della X slabbrata sul petto, poi dei lividi sul collo e sui polsi e della ferita alla gola. Aspettava che ogni Polaroid si svilup­passe prima di scattare la successiva, cercando la luce e l'an­golazione più adatte, e intanto dettava le sue osservazioni al registratore.

«La vittima ha intorno al collo dei lividi prodotti da quel­la che potrebbe essere una fune robusta. Sotto l'orecchio sini­stro c'è un'abrasione forse causata dal nodo del cappio.» Sol­levò delicatamente la testa per esaminare la nuca e continuò: «I lividi corrono tutt'intorno al collo, il che sta a indicare che la vittima potrebbe essere stata strangolata prima che l'omi­cida le tagliasse la gola. La ferita si estende da un orecchio al­l'altro. I lividi sui polsi e sulle caviglie sono simili a quelli del collo, forse prodotti dallo stesso tipo di fune».

Le mani del ragazzo erano sottili come piume. Maggie le controllò con cura e continuò a dettare: «Nei palmi si notano profonde incisioni prodotte dalle unghie, il che potrebbe indi­care che la vittima era viva quando alcune delle ferite sono sta­te inferte. Tuttavia le unghie sono assolutamente pulite». De­pose le mani lungo il corpo e si concentrò sulle ferite. «Ci sono otto, no, nove tagli sul petto.» Li tastò con l'indice guantato e aggiunse: «Sembrano prodotti da un coltello a taglio singolo, tre sono superficiali ma gli altri sei sono molto profondi e po­trebbero essere arrivati fino all'osso. Uno potrebbe avere rag­giunto il cuore, anche se non è presente una goccia di sangue. Sceriffo Morrelli, ha piovuto mentre il corpo era all'aperto?».

Nick Morrelli non rispose. Fissava il tavolo come ipno­tizzato.

«Sceriffo?»

Questa volta Nick reagì e si scostò dalla parete. «Mi scu­si, come ha detto?» domandò a bassa voce.

«Ricorda se ha piovuto mentre il corpo si trovava presu­mibilmente all'aperto?»

«No, mai. Ha piovuto la settimana scorsa.»

«Il medico legale ha ripulito il cadavere?»

«No, gli abbiamo chiesto di sospendere tutto fino al suo arrivo. Perché?»

Maggie sfilò un guanto e sistemò una ciocca di capelli die­tro l'orecchio. Qualcosa non quadrava. «Alcune di queste fe­rite sono molto profonde, e anche se fossero state inferte do­po la morte, dovrebbe esserci del sangue.» Sollevò di nuovo la piccola mano. Le unghie erano perfettamente pulite, senza tracce di fango o brandelli di pelle, benché a un certo punto il ragazzino le avesse affondate nel palmo. E anche i piedi era­no pulitissimi. Il poverino non poteva avere lottato molto con mani e piedi legati, ma sul corpo avrebbe dovuto esserci qual­che segno.

«Sembra quasi che sia stato lavato» disse tra sé. Poi alzò lo sguardo verso Morrelli, che si era avvicinato.

«Sta dicendo che l'omicida ha lavato il corpo una volta fi­nito?» domandò lui.

«Guardi il taglio sul petto» disse Maggie infilando di nuo­vo il guanto. «Qui ha usato un coltello con la lama seghetta­ta, che ha lacerato la pelle in più punti. E guardi questi tagli» continuò inserendo il dito in uno dei più profondi. «Da un ta­glio di questa dimensione sgorga molto sangue. Questo è ar­rivato al cuore, quindi ha reciso un'arteria, il che deve avere provocato un fiotto. E anche nella gola... sceriffo?»

Morrelli si era accasciato contro il tavolo. Prima che po­tesse aiutarlo le crollò addosso, ma era troppo pesante e lei non riuscì a sorreggerlo. Finì a terra insieme a lui e con fatica lo appoggiò a una gamba del tavolo. Morrelli sembrava in sé, ma aveva gli occhi velati e la faccia contratta. Maggie si rial­zò e cercò inutilmente un asciugamano, per inumidirlo e met­terglielo sulla fronte. Il laboratorio era ben attrezzato, ma non c'era nemmeno uno straccio. Maggie ricordò di aver visto un distributore di bibite in corridoio, tirò fuori dalla tasca qualche monetina e andò a prendere una Pepsi ghiacciata.

Quando tornò, Morrelli si era ripreso. Maggie gli si ingi­nocchiò accanto e gli porse la lattina. «Tenga.»

«No, non ho sete...»

«Non deve berla. Ecco, lasci che l'aiuti.» Gli appoggiò la lattina fredda sulla nuca e lui si abbandonò contro di lei. An­cora qualche centimetro e la testa le sarebbe finita tra i seni, ma Morrelli sembrava non accorgersene. E se dietro quell'a­ria da macho fosse nascosta una natura sensibile? Maggie sta­va per ritirare la mano quando Nick le afferrò il polso fissan­dola negli occhi. «Grazie» le disse piano. Le sue iridi azzurre adesso erano perfettamente a fuoco.

«Non riesco a credere di essere quasi svenuto» ridacchiò. «Sono molto imbarazzato.»

«Non deve. Prima di farci l'abitudine sono caduta per ter­ra un sacco di volte.»

«Ma come ci si abitua?».

«Non saprei... ci si distacca, si cerca di non pensare a quel­lo che si sta facendo.»

Maggie si alzò rapida in piedi, turbata dal modo in cui quegli occhi incredibilmente azzurri parevano leggere dentro di lei. Con ogni probabilità era soltanto un altro dei trucchetti da dongiovanni di Morrelli, ma sembrava davvero che po­tesse distinguere la debolezza che lei teneva accuratamente nascosta. Albert Stucky aveva messo a nudo il suo lato vul­nerabile, e in questo momento sentiva che era pericolosamente vicino alla superficie.

Anche Morrelli si alzò, senza sforzo apparente. Si passò la lattina fredda sulla fronte, poi azzardò un sorrisetto. «Le spiace se l'aspetto nella caffetteria?» disse.

«No, vada pure» rispose Maggie. «Io ho quasi finito.»

Nick alzò la lattina in una specie di brindisi e uscì. Lo sto­maco di Maggie brontolò, e lei rimpianse di non aver man­giato in aereo. La stanza era fredda, ma quel breve contatto con Morrelli l'aveva fatta sudare.

Tornò a concentrarsi sul corpicino di Danny e vide sulla fronte qualcosa che prima non aveva notato.

Si chinò ed esaminò meglio lo sbaffo traslucido, poi ci pas­sò sopra un dito e sfregò insieme pollice e indice. Se il corpo era stato lavato, quella sostanza oleosa doveva essere stata ap­plicata dopo. Maggie osservò le labbra bluastre e trovò un'al­tra traccia oleosa. Senza nemmeno controllare, sapeva che ne avrebbe trovata una terza sul petto, poco sopra il cuore.

Tanti anni di catechismo finalmente le tornavano utili, pensò. Altrimenti non avrebbe mai capito che qualcuno, for­se lo stesso assassino, aveva impartito alla sua vittima l'estre­ma unzione.

13

Con un occhio al campo di football e uno al taccuino, Christi­ne cercò di correggere l'articolo che aveva buttato giù. Non ri­usciva a seguire del tutto il gioco, ma quando sentì grida e ap­plausi alzò la testa in tempo per vedere la squadra di suo fi­glio che si scambiava pacche sulle spalle. Tìmmy la guardò e lei gli fece un gran sorriso e un segno con i pollici alzati come se avesse visto tutto.

Com'era piccolo in confronto agli altri, pensò. Eppure ave­va già dieci anni... e cresceva anche troppo in fretta, somigliava a suo padre ogni giorno di più. Sospirò e si spinse gli occhia­li sulla fronte. Ormai il sole stava calando e l'aria si era rin­frescata, ma per fortuna le nuvole erano scomparse e i ragaz­zi avevano potuto giocare indisturbati la loro partita.

Christine si era seduta di proposito in uno dei posti più isolati, lontana dagli altri genitori che incoraggiavano i figli e insultavano l'allenatore. Mentre stava per tornare al suo taccuino sentì dei bisbigli provenire dalla panchina dove se­devano tre o quattro mamme divorziate che conosceva di vi­sta. Seguì il loro sguardo e vide l'oggetto della loro atten­zione. Alto, bruno e molto attraente, l'uomo indossava un paio di jeans e una felpa con la scritta dell'università del Ne­braska, e sembrava ancora il difensore che era stato al colle­ge. Christine lo guardò camminare lungo la corsia laterale, consapevole dell'attenzione che suscitava, e quando lui sol­levò lo sguardo gli fece un cenno di saluto. Le altre donne le lanciarono occhiate piene di invidia mentre lui saliva a se­derle accanto.

«Quanto sono?» domandò Nick.

«Credo cinque a tre. Ti rendi conto di come mi invidiano le altre mamme? Stavano tutte sbavando per te.»

«Ecco, vedi i favori che ti faccio? E tu mi ricambi con dei colpi bassi.»

«Ma se non ti ho mai sfiorato nemmeno con un dito» re­plicò Christine.

«Sai bene di che cosa parlo» fece Nick serissimo.

Lei raddrizzò le spalle, pronta a difendersi. Certo, avreb­be dovuto chiamarlo prima di mandare in stampa l'articolo; ma se lui l'avesse pregata di non farne niente? Quell'articolo l'aveva fatta passare dall'altra parte della barricata e le aveva fatto guadagnare due prime pagine con la sua firma. Ormai non poteva - e non voleva - tornare indietro.

«Posso farmi perdonare invitandoti a cena domani sera? Ti preparo gli spaghetti con la salsa speciale della mamma.»

«Proprio non vuoi capire, eh?»

«Andiamo, Nick, lo sai quanto ho aspettato questa occa­sione. Se non avessi scritto io quell'articolo l'avrebbe fatto qual­cun altro.»

«Ah, davvero? E questo qualcuno avrebbe citato le paro­le di un agente che gli aveva detto qualcosa di strettamente ri­servato?»

«Gillick non mi ha mai detto che era un'informazione ri­servata. Se a te ha detto il contrario, mente.»

«Non sapevo nemmeno che fosse stato Eddie. Ragazza mia, ti sei appena tradita.»

Lei arrossì. «Vai al diavolo» sbottò. «Sarò anche un po' ar­rugginita, ma posso essere una giornalista maledettamente brava.»

«A me sei sembrata solo irresponsabile.»

«Santo Dio, Nick. Il fatto che non ti sia piaciuto quello che ho scritto non fa di me un'irresponsabile.»

«E che mi dici dei titoli?» disse lui a denti stretti. Christi­ne non lo aveva mai visto così arrabbiato. «Che cosa ti è sal­tato in mente di paragonare questo delitto a quelli di Jeffreys?»

«Le somiglianze ci sono.»

«Jeffreys è morto» esclamò lui, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno li sentisse.

«Cerca di ragionare, Nick. Chiunque abbia un po' di cervello paragonerà questo caso agli omicidi di Jeffreys. Io ho so­lo scritto quello che pensano tutti. Mi stai dicendo che sba­glio?»

«Ti sto dicendo che non abbiamo bisogno di gettare di nuovo nel panico una città che stava ricominciando a sentirsi al sicuro.» Incrociò le braccia e continuò: «Mi hai fatto fare la figura dell'imbecille, lo capisci?».

«Ah, ecco qual è il problema. Non ti importa un acciden­te del panico, ti importa solo della figura che fai. C'era da im­maginarlo.»

Lui la fissò furibondo, ma non rispose e girò la testa ver­so il campo. Era sempre stato così, anche quando erano bam­bini. Nick non reagiva mai agli insulti della sorella maggiore, e adesso a Christine dispiaceva di averlo trattato male.

Però il suo modo di affrontare i problemi era davvero ir­ritante. Nick sceglieva sempre la via più facile, d'altra parte la vita gli offriva tutto su un piatto d'argento, dal lavoro alle don­ne. Quando il loro padre era andato in pensione e aveva insi­stito perché Nick si candidasse al suo posto, lui aveva lascia­to l'incarico all'università senza rimpianti, anche se gli piace­va insegnare e ancora di più essere una leggenda vivente con stuoli di ragazze ai suoi piedi. Naturalmente era stato subito eletto, ma solo grazie al nome che portava; eppure non sem­brava badarci troppo. Prendeva le cose come venivano, ecco tutto.

Christine, invece, aveva sempre dovuto lottare con le un­ghie e con i denti per ogni cosa, specialmente dopo che Bruce se n'era andato. E non aveva intenzione di scusarsi per il pri­mo, meritatissimo colpo di fortuna che le era capitato.

«Se questo omicida è un imitatore, non pensi che la gen­te vada messa sull'avviso?» domandò.

Lui rimase in silenzio e si chinò in avanti, appoggiando le braccia sulle ginocchia. Sembrava insolitamente scosso.

«Danny Alverez aveva solo un anno più di Timmy» dis­se dopo una lunga pausa.

Christine guardò suo figlio che saltava e correva in mez­zo agli altri ragazzi. Erano tutti più alti di lui, ma lui dalla bas­sa statura traeva vantaggio. Anche lei aveva notato la somi­glianza tra i due ragazzini: Danny aveva i capelli rossicci e gli occhi azzurri come Timmy, e come lui era piuttosto basso per la sua età.

«Ho passato il pomeriggio in obitorio» riprese Nick.

«Come mai?» Non aveva mai visto il fratello così serio.

«Bob Weston ha chiamato un'esperta per aiutarci a trac­ciare un profilo dell'assassino, l'agente speciale O'Dell. È ar­rivata stamattina da Quantico e non vedeva l'ora di mettersi al lavoro.» Guardò la sorella e vide che scarabocchiava qual­cosa sul taccuino. «Dio santo, Christine, possibile che non ci sia più niente di riservato per te?»

«Se era una notizia riservata dovevi dirmelo» replicò lei. «E poi entro domani tutti sapranno del suo arrivo. Perché ti preoccupi tanto, Nick? Avere un'esperta è una buona cosa, no?»

«Mi farà solo apparire un idiota che non sa che pesci pren­dere» borbottò lui. «E non azzardarti a stampare anche que­sto.»

«Rilassati, fratellino. Io non sono il nemico.» La partita era finita e i vincitori ballavano sul campo per festeggiare. Le luci si stavano già accendendo. «Se ben ricordi papà collabo­rava con la stampa.»

«Be', io non sono papà» ribatté lui secco. Adesso lo ave­va davvero fatto arrabbiare, ma non sopportava che la trat­tasse come uno sciacallo a caccia di titoli sensazionali. «Sto so­lo dicendo che sapeva farsi aiutare dai giornalisti.»

«Aiutare, dici? Papà usava la stampa perché adorava es­sere alla ribalta. Con tutte le indiscrezioni che ci sono state, è un miracolo che abbiano preso Jeffreys.»

«Quali indiscrezioni? Di cosa stai parlando?»

«Lasciamo perdere» sospirò Nick.

Christine inarcò le sopracciglia. «Però alla fine Jeffreys lo hanno preso e papà ha risolto il caso, no?» insisté.

«Certo. L'hanno preso e il vecchio si è aggiudicato tutto il merito.»

«Nick, nessuno ti ha chiesto di prendere il posto di papà. L'hai deciso tu.» Ecco, l'aveva detto. Lo guardò, in attesa di una reazione, ma lui si limitò a una smorfia.

«Ti sei mai chiesta... voglio dire, non ti è mai sembrato che accadesse tutto troppo in fretta, che fosse troppo facile?»

Christine fissò il fratello, perplessa. Stava cominciando a preoccuparla con quell'atteggiamento insolito. E non solo per­ché aveva tirato fuori la storia del padre, c'era dell'altro. Che cosa sapeva? Che cosa l'aveva spaventato?

«Nick, che vuoi dire?» tentò ancora.

«Zio Nick, mi hai visto segnare?» strillò Timmy avven­tandosi su per gli scalini.

«Certo» mentì lui. «Sei stato grande.» E aprì le braccia per stringere il nipote, sorridendo con la solita allegria.

Ma Christine non si lasciò ingannare. Suo fratello na­scondeva qualcosa, e lei aveva tutte le intenzioni di scoprire che cosa.

14

La partita era finita. L'uomo fece un giro con l'auto intorno al campo, lentamente, e si fermò in un angolo del parcheggio lontano dalle altre macchine. Poi spense i fari e rimase ad ascol­tare una cassetta con musiche di Vivaldi, sperando che gli cal­masse il dolore alle tempie.

Stava succedendo di nuovo e lui non riusciva a control­larsi. Peggio, non voleva. Era mortalmente stanco, non ricor­dava l'ultima volta che aveva dormito una notte intera inve­ce di camminare avanti e indietro o di uscire a vagabondare per le strade. Si strofinò gli occhi, poi si interruppe notando che le sue mani tremavano convulsamente.

«Ti prego, Dio, fa' che smetta» sussurrò premendosi la fronte. Il dolore martellante si era fatto insopportabile.

I ragazzi uscivano a gruppetti, con le magliette sporche di erba e le facce sudate. Sembravano felici dopo la vittoria, e si gettavano le braccia al collo con tanta naturalezza...

Il ricordo riaffiorò improvviso, inchiodandolo contro il sedile della macchina. Aveva undici anni e il suo patrigno ave­va insistito per iscriverlo nella squadra della scuola, accor­dandosi con l'allenatore perché lo tenesse impegnato il saba­to mattina. Lui sapeva benissimo che lo aveva fatto solo per­ché voleva scoparsi sua madre in santa pace. E una volta, per caso, li aveva sorpresi.

La scena era ancora dolorosamente vivida nella sua me­moria. Si era fermato sulla soglia della camera da letto, para­lizzato alla vista delle natiche bianche di sua madre e della croce d'argento che le ballava tra i grossi seni. Sua madre si puntellava sulle mani e sulle ginocchia, mentre il suo patri­gno la montava come una cagna in calore.

Era stato lui a vederlo per primo e gli aveva urlato di an­darsene, ansimando, mentre sua madre cercava affannosa­mente di coprirsi con il lenzuolo. E allora lui si era voltato e si era messo a correre verso la sua stanza. Proprio mentre stava per chiudere la porta, il patrigno lo aveva raggiunto.

Era nudo e il suo pene, rigido in mezzo ai peli neri, a lui era sembrato mostruoso. Il patrigno lo aveva afferrato per la nuca e gli aveva sbattuto la faccia contro la parete. «Sei un guardone, eh? O vuoi assaggiarne un po' anche tu?» La voce era roca e lui non l'avrebbe più dimenticata.

Era rimasto perfettamente immobile mentre il patrigno gli strappava i pantaloni del pigiama. Dietro la porta chiusa a chiave sua madre urlava e picchiava i pugni. Poi lui aveva sen­tito la pressione, il dolore lacerante, così orribile che gli era parso di esplodere. Ma non si era mosso e non aveva emesso fiato, benché avesse voglia di urlare come un pazzo. La pare­te ruvida gli graffiava la guancia, ma lui aveva continuato a fissare il crocifisso appeso poco sopra la sua testa, in silenzio, finché quella tortura ebbe fine.

Un clacson suonò e lui sobbalzò stringendo con forza il volante. Aveva le mani sudate, ancora tremanti. Guardò i bam­bini salire sulle macchine dei genitori. Quanti di loro nascon­devano segreti simili al suo? Quanti di loro avevano lividi e cicatrici, quanti sognavano di essere salvati dalla stessa infe­licità, dalle stesse torture?

Fu allora che vide il ragazzino. Dopo un cenno ai com­pagni si allontanava da solo. Aspettò per controllare se qual­cuno fosse venuto a prenderlo, ma osservò che si incammi­nava verso casa per conto suo, come sempre.

Stava calando la notte e i lampioni erano accesi. Le mac­chine lasciavano il parcheggio una dopo l'altra, accecandolo con i fari, ma nessuno fece particolarmente caso a lui. Non c'e­ra niente di strano se voleva assistere a una partita di calcio, e infatti alcuni lo riconobbero e lo salutarono.

Un isolato più avanti, il ragazzino camminava ancora da solo, con un pallone stretto sotto il braccio. Era piccolo e vul­nerabile nella sua divisa troppo grande, ma pareva abituato alla solitudine, e non sembrava badare troppo al fatto che nes­suno fosse venuto a vederlo giocare.

Quando anche l'ultima macchina se ne fu andata, lui spen­se lo stereo, interrompendo bruscamente Vivaldi. Le sue dita presero la fialetta nel cassetto del cruscotto e la spezzarono con sicurezza, intridendo con il contenuto il fazzoletto candi­do. Non avrebbe voluto usare quella precauzione, ma con Danny era stato imprudente e non poteva ripetere lo stesso errore. Indossò il passamontagna e scese dalla macchina, ri­chiudendo cautamente la portiera. Ecco, pensò. Le sue mani non tremavano più. Stava riprendendo il controllo della si­tuazione.

Con passo leggero, si incamminò sul marciapiede.

15

Lunedì 27 ottobre

Maggie versò nel bicchiere il resto della bottiglietta e bevve un sorso, poi chiuse gli occhi sentendo il calore scendere nel­la gola. Forse stava prendendo anche lei il gusto di sua madre per l'alcol, pensò. O, peggio, si stava abituando al piacevole intontimento procurato dal whisky.

Si strofinò gli occhi e guardò la sveglia sul comodino. Le due di notte, e non riusciva a dormire. Sul tavolo, in ordine cronologico, erano disposte le Polaroid scattate in mattinata. L'assassino era metodico, faceva le cose con calma, tagliava e incideva con spaventosa precisione. Persino la X sul torace se­guiva un percorso preciso, dalle spalle all'ombelico.

Maggie raccolse i piedi nudi sotto di sé, cercando una po­sizione più comoda. La maglietta che portava come camicia da notte era slabbrata e scolorita per il troppo uso, ma per lei era una coperta di Linus che la faceva sentire a casa dovun­que fosse. Perciò rifiutava di buttarla via, nonostante le pres­sioni di Greg.

Greg. Avrebbe dovuto chiamarlo tornando in albergo, ma ormai era troppo tardi. E forse era meglio così, avevano biso­gno entrambi di calmarsi un po' prima di parlarsi di nuovo.

Esaminò gli appunti, una serie di annotazioni che sareb­bero parse insignificanti a chiunque, ma che alla fine le avreb­bero permesso di tracciare un ritratto del colpevole. Spesso ri­usciva a descrivere un assassino nei minimi dettagli fisici, l'al­tezza, il colore dei capelli, il dopobarba preferito. Ma questo caso era insolitamente difficile, in parte perché il sospettato più ovvio era già morto e in parte perché non era semplice in­sinuarsi nella mente malata e disgustosa di chi uccideva dei bambini.

Maggie osservò la crocetta d'argento sul comodino, si­mile a quella di Danny Alverez. Finché la porterai Dio ti proteg­gerà da ogni male, le aveva detto suo padre regalandogliela per la prima comunione. Ma quella identica che anche lui porta­va al collo non era bastata a salvarlo dalle fiamme.

Negli anni successivi Maggie aveva risolutamente mes­so da parte la sua educazione cattolica, ma aveva continuato a portare la crocetta, per abitudine e per rispetto alla memo­ria del padre. Poi, quando era entrata a Quantico otto anni pri­ma, le illustrazioni del suo vecchio catechismo, piene di de­moni con le corna e gli occhi scintillanti, avevano assunto un nuovo significato. Il male esisteva, ne aveva sperimentato gli effetti sulle vittime, lo aveva visto negli occhi degli assassini. Stranamente, la scoperta del male l'aveva riportata a credere in Dio. Ma Albert Stucky le aveva fatto un'altra volta dubita­re che a Dio importasse qualcosa delle sue creature. Dopo es­sere stata costretta a guardare quel mostro mentre faceva a pezzi due donne, era tornata in albergo e si era strappata la crocetta dal collo. La portava ancora con sé, ma non riusciva più a indossarla.

Prese la crocetta dal comodino e lisciò la superficie luci­da, domandandosi che cosa avesse provato Danny Alverez quando l'assassino gli aveva strappato via quell'ultima pro­tezione simbolica. Poi la strinse nel pugno e alzò la mano per scagliarla irosamente a terra. Ma un tocco leggero contro la porta la fermò.

Balzò in piedi e andò a prendere la Smith & Wesson, poi si avvicinò alla porta in punta di piedi, sentendosi più vulne­rabile che mai con addosso la sola maglietta e gli slip. Guar­dò dallo spioncino, vide lo sceriffo Morrelli e si rilassò un po­co, ma aprì soltanto un piccolo spiraglio.

«Che succede, sceriffo?»

«Le chiedo scusa, ho cercato di chiamarla, ma era sempre oc­cupato. Il portiere di notte si deve essere attaccato al telefono.»

Sembrava sfinito, aveva gli occhi arrossati e la barba ispi­da. «È scomparso un altro ragazzino» sussurrò deglutendo.

«Non è possibile!» esclamò lei. Ma in realtà sapeva che era possibilissimo. Stucky aveva ucciso la quarta vittima me­no di un'ora dopo che la terza era stata scoperta: l'aveva fat­ta a pezzi, poi aveva messo i brandelli nei contenitori per la consegna del cibo a domicilio e li aveva buttati in un bidone della spazzatura, di fronte al ristorante dove aveva appena ce­nato.

«I miei uomini hanno passato al setaccio tutta la zona. Viali, parchi, campi» disse Morrelli. «Il ragazzino si chiama Matthew Tanner e stava tornando a casa dopo una partita di calcio. Doveva fare solo cinque isolati.»

«Sarà meglio che entri» sospirò lei aprendo la porta. Mor­relli fece qualche passo, ma si fermò sulla soglia. I suoi occhi corsero alle gambe nude di Maggie.

«Mi scusi... l'ho svegliata» disse guardando il soffitto.

Maggie arrossì e si diresse verso il cassettone. Posò la pi­stola e cercò un paio di jeans. Mentre li infilava, Nick doman­dò: «Le ho detto che ho cercato di chiamarla, vero?».

«Sì, me l'ha detto. Non si preoccupi, ero sveglia e stavo rivedendo i miei appunti.»

«C'ero anch'io alla partita» mormorò lui.

«Che partita?»

«Quella che il ragazzo aveva appena finito di giocare. Mio nipote fa parte della stessa squadra. Gesù, se penso che Timmy lo conosce...»

«È sicuro che non sia andato a casa di un amico?»

Morrelli fece segno di no. «Abbiamo telefonato agli altri genitori. I compagni ricordano di averlo visto allontanarsi da solo, e abbiamo anche trovato il suo pallone, con gli autogra­fi di giocatori famosi. Sua madre dice che è una delle cose più preziose che ha, e che non lo avrebbe mai lasciato in giro.»

Morrelli si passò una mano sulla faccia e lei riconobbe il panico nella sua espressione.

«Forse dovrebbe sedersi» gli disse.

«Bob Weston mi ha suggerito di fare un elenco di pedo­fili e assassini a sfondo sessuale. Ma che devo fare, trascinar­li tutti in cella per interrogarli? E poi, dove cazzo li vado a cer­care?»

«Sceriffo, perché non si siede?» gli ripeté lei.

«Sto bene in piedi.»

«Mi dia retta.» Maggie lo afferrò per un braccio e lo spin­se gentilmente su una sedia. Lui si arrese distendendo le lun­ghe gambe.

«Avevate dei sospetti quando il piccolo Alverez è scom­parso?» domandò Maggie.

«Solo uno, il padre, che è un maggiore dell'aeronautica in servizio alla base qui vicino. I genitori sono divorziati e al padre erano state negate la custodia e i diritti di visita perché beveva e maltrattava moglie e figlio. Noi non siamo riusciti a rintracciarlo e nemmeno i suoi superiori hanno potuto darci indicazioni. A quanto pare è sparito senza permesso due me­si fa. Pare sia scappato con una ragazza di sedici anni che ave­va conosciuto in Internet.»

«E a che punto sono le ricerche?» si informò ancora Mag­gie. Anche lei cominciava a sentirsi sfinita. Quanto tempo po­teva andare avanti dormendo due o tre ore per notte?

«Le abbiamo sospese.»

«Come, sospese?»

«Dopo che abbiamo trovato il corpo di Danny, Weston ha detto che non poteva essere stato il padre. Che nessun padre avrebbe potuto fare una cosa del genere a suo figlio.»

«Ho visto cose spaventose fatte dai padri» replicò lei. «Mi ricordo un caso di quattro anni fa. Un uomo aveva rinchiuso il figlio di sei anni in uno scatolone e poi lo aveva seppellito in giardino, lasciandogli solo una piccola presa d'aria colle­gata a un tubo di gomma. Era la punizione per una sciocchezza che il bambino aveva fatto, non so nemmeno più quale. Do­po qualche giorno di pioggia il padre non riuscì più a trovare il punto in cui aveva sepolto il figlio, e invece di scavare cer­cò di far passare la cosa per un rapimento. E la madre lo aiu­tò, forse perché temeva di fare la stessa fine. Perciò credo che dovreste continuare a cercarlo, il maggiore Alverez. Lei stes­so mi ha detto che maltrattava i suoi, vero?»

«Sì, la moglie lo aveva fatto diffidare un paio di volte dal­la polizia. Ma non vedo che collegamento ci sia con questo ra­gazzino... non credo neppure che Matthew Tanner e Danny si conoscessero.»

«Può darsi che non ci siano collegamenti, ma non siamo sicuri che sia stato rapito. Potrebbe essere scappato di casa.»

«Sì, certo» sospirò Nick appoggiando la testa alla spal­liera della sedia. «Ma lei crede veramente che sia scappato?»

Maggie decise di dirgli la verità. «No, non lo credo. Sa­pevo che l'assassino avrebbe colpito di nuovo, ma non im­maginavo che lo facesse così presto.»

«E allora mi dica da dove comincio. Ha avuto il tempo di capire qualcosa di questo tizio?»

«È meticoloso e molto controllato. Agisce con calma, e do­po aver ucciso ripulisce tutto con cura. Non lo fa per nascon­dere le prove, ma perché è parte del suo rituale. Credo che ab­bia già commesso altri crimini simili.» Maggie sfogliò i suoi appunti e riprese: «È giovane, ma non immaturo. Sulla scena del delitto non c'erano segni di lotta, perciò la vittima era sta­ta legata in precedenza. Questo significa che l'uomo è abba­stanza forte da trasportare un ragazzino sui trenta chili. Im­magino che sia sulla trentina, alto almeno un metro e ottanta e sui novanta chili di peso. Ed è bianco, intelligente e colto».

Morrelli ascoltava con interesse crescente.

«Ricorda che all'obitorio, dopo aver esaminato il corpo di Danny, le ho detto che l'assassino poteva avergli dato l'estre­ma unzione?» continuò lei. «Questo potrebbe significare che è cattolico, forse non praticante ma con un forte senso di col­pa. Tanto da essere infastidito da un ciondolo a forma di cro­ce e da doverlo strappare via. Un timorato di Dio che dà l'e­strema unzione alla sua vittima per espiare il suo peccato. Po­trebbe controllare se questo ragazzo, Matthew Tanner, fre­quentava la stessa parrocchia di Danny Alverez?»

«Direi che è improbabile. Danny frequentava la scuola e la chiesa della base militare, mentre i Tanner - sempre che sia­no cattolici - abitano a pochi isolati dalla chiesa di St. Marga­ret.»

«Può anche darsi che l'assassino non conosca affatto le sue vittime, e che cerchi semplicemente degli obiettivi facili come i ragazzini che vanno in giro da soli. Però credo che ab­bia dei legami con una chiesa cattolica, probabilmente in que­sta zona. Potrà sembrarle strano, ma di solito quelli come lui non si allontanano troppo dal territorio familiare.»

«Insomma, un vero psicopatico. Se ha già commesso altri delitti simili, potrebbe essere stato schedato per molestie ai minori, o magari per maltrattamenti a un amante gay?»

«Lei pensa che sia gay o pedofilo?» replicò Maggie.

«Un uomo adulto che fa una cosa del genere a un ragaz­zino... è una deduzione logica, direi.»

«Non necessariamente. Può darsi che quest'uomo tema di essere gay, o che abbia delle tendenze omosessuali. Ma io non credo che sia gay né pedofilo.»

«E l'ha capito dalle prove che abbiamo?»

«L'ho capito da quelle che non abbiamo. La vittima non sembra aver subito violenza sessuale, anche se l'assassino po­trebbe aver lavato le tracce di seme. Non c'erano abrasioni né segni di penetrazione. E anche tra le vittime di Jeffreys solo una, Bobby Wilson mi pare, mostrava segni di violenza ses­suale. Segni molto chiari.»

«Un momento. Se questo tale è solo un imitatore di Jef­freys, come possiamo essere sicuri che le prove che lascia sia­no significative?»

«Gli imitatori spesso scelgono come modelli gli omicidi che soddisfano le loro fantasie, e poi aggiungono tocchi per­sonali. Nei rapporti su Jeffreys non ho trovato cenni al fatto che somministrasse alle sue vittime l'estrema unzione, ma que­sto è un dettaglio che potrebbe essere sfuggito agli investiga­tori.»

«Comunque ha chiesto di parlare con un prete prima di essere giustiziato» disse Nick.

«Come lo sa?» domandò lei.

«Forse le hanno detto che mio padre è stato lo sceriffo che ha catturato Jeffreys. Ovvio che avesse un posto in prima fila il giorno dell'esecuzione.»

«Potrei fargli qualche domanda?»

«Credo di sì, ma rintracciarlo non sarà facile. I miei si sono comprati un camper quando mio padre è andato in pen­sione, e viaggiano molto. Ogni tanto passano di qui, e pen­so che non appena mio padre saprà quello che è successo si metterà in contatto con me. Ma potrebbe volerci un po' di tempo.»

«Ed è possibile rintracciare il prete che ha parlato con Jef­freys?»

«Questo sì, perché Padre Francis è ancora qui a St. Mar­garet. Però non so quanto ci sarà di aiuto, perché è improba­bile che riveli quello che ha saputo in confessione.»

«Vorrei parlargli comunque, e poi vorrei incontrare i Tanner. Lei li avrà già visti, naturalmente.»

«La madre. I genitori di Matthew sono divorziati.»

Maggie aggrottò la fronte, poi cominciò a frugare tra i suoi appunti. «Ecco» disse quando trovò quello che cercava. «Tut­te e tre le vittime di Jeffreys venivano da famiglie di divorziati e vivevano con la madre.»

«E questo che cosa significa?»

«Significa che forse l'assassino non sceglie le sue vittime a caso. Mi ha detto che Danny aveva lasciato la bicicletta e il pacco dei giornali appoggiati da qualche parte?»

«Sì. Non aveva ancora cominciato il suo giro di conse­gna.»

«E non c'erano segni di lotta.»

«No, nessuno. Era come se avesse parcheggiato la bici­cletta prima di andare via con qualcuno che conosceva. Que­sta è una piccola città, ma i ragazzini sanno badare a se stes­si. Non credo che Danny sarebbe mai salito in macchina con un estraneo.»

«A meno che non fosse qualcuno di cui pensava di po­tersi fidare. Qualcuno che diceva di conoscere sua madre o suo padre, o magari qualcuno che portava una divisa. Succe­de, sa. Nessuno si chiede se una persona in divisa è davvero quello che sembra.»

«Magari era qualcuno che indossava un'uniforme mili­tare, come quella di suo padre» disse Nick.

«Già» assentì Maggie. «O un camice. O anche... una divi­sa della polizia.»

16

Timmy si appoggiò alla parete, poi scivolò a sedere sul pavi­mento. Doveva fare pipì, ma se avesse bussato alla porta sua madre avrebbe insistito perché sbrigasse la faccenda mentre lei finiva di truccarsi, e lui era troppo grande per fare pipì in pubblico.

Per distrarsi allacciò la scarpa da tennis e notò che il bu­co nella suola si stava allargando. Tra poco avrebbe avuto bi­sogno di un paio di scarpe nuove, e sapeva che la mamma non poteva permetterselo, perché l'aveva sentita protestare al te­lefono con suo padre che non aveva mandato nemmeno un centesimo della somma stabilita dal tribunale.

Mentre sua madre cominciava a canticchiare un motivo della Sirenetta squillò il telefono, e lui corse a rispondere.

«Timmy, sono Ann Calloway, la mamma di Chad. Tua ma­dre è in casa?»

Lui avrebbe voluto dire che era stato Chad a cominciare, invece disse soltanto: «Vado a chiamarla».

Chad Calloway era un bullo, ma se Timmy avesse detto a sua madre che era stato lui a gonfiarlo di botte lei lo avreb­be ritirato dalla squadra. E comunque anche Chad aveva qual­che livido, pensò soddisfatto.

Bussò alla porta del bagno e sua madre aprì, uscendo in una scia di profumo. «Chi era al telefono?»

«La signora Calloway, la madre di Chad. Non so che co­sa vuole.»

Lei prese la cornetta. «Sono Christine Hamilton. Sì, cer­to.» Poi sussurrò a Timmy: «Chi hai detto che è?».

«La madre di Chad» ripeté lui. Perché non lo stava mai a sentire?

Guardò sua madre che passeggiava come sempre quan­do era al telefono, annuendo e dicendo «Hmmm...» oppure «Oh, sì, naturalmente.» Chissà che cosa stava blaterando la madre di quello sbruffone. Il fatto era che Chad ce l'aveva con lui e si divertiva a gonfiarlo come un otre senza ragione.

«Grazie della telefonata» concluse sua madre. «Arrive­derci.» E dopo aver riagganciato, rimase a guardare per un at­timo fuori della finestra.

Timmy era pronto a lanciarsi in un'autodifesa appassio­nata quando lei si voltò e parlò, prendendolo in contropiede. «Timmy, è scomparso uno dei tuoi compagni» disse.

«Cosa?»

«Matthew Tanner non è tornato a casa ieri sera dopo la partita.»

Così la telefonata non aveva niente a che vedere con Chad, pensò lui sollevato.

«Gli altri genitori dei tuoi compagni di squadra si trova­no stamattina a casa Tanner per vedere se possono essere d'aiu­to.»

«Ma cosa gli è successo?» si allarmò Timmy. «Perché non è tornato a casa?»

«Senti, tesoro, non voglio che ti preoccupi, ma ti ricordi gli articoli che ho scritto su Danny Alverez?»

Lui annuì. Come poteva non ricordarseli? Sua madre lo aveva mandato a comperare decine di giornali, anche se po­teva avere tutte le copie che voleva in ufficio.

«Non siamo sicuri e perciò non devi spaventarti, ma l'uo­mo che ha rapito Danny potrebbe avere rapito anche Mat­thew.»

Timmy la guardò. Aveva intorno alla bocca le rughe che le comparivano sempre quando era preoccupata.

«Va' in bagno e preparati» disse Christine. «Ti accompa­gno a scuola in macchina. Non voglio che tu vada in giro da solo.»

«Va bene» rispose Timmy, e corse finalmente in bagno. Povero Matthew, pensò. Poi, vergognandosene un po', si dis­se che era un peccato che non fosse toccato a Chad.

17

Mentre Tìmmy era in bagno Christine aveva telefonato al ca­poredattore della cronaca, Taylor Corby, e adesso stentava a contenere l'emozione. Al giornale Corby veniva considerato un tipo bizzarro. Portava occhiali rotondi cerchiati di nero, una camicia immancabilmente bianca e cravatte coloratissime con i personaggi dei cartoni animati, e andava al lavoro in bicicletta anche d'inverno. Non perché non potesse permettersi una mac­china, ma perché la bicicletta lo divertiva di più. Tutti però ri­conoscevano che era un giornalista di prim'ordine.

«Sai che significa?» le aveva detto quando aveva finito di raccontargli di Matthew Tanner. «Che se prepari un articolo per l'edizione della sera, battiamo i concorrenti per il terzo giorno di fila.»

«Devo ancora convincere la signora Tanner a concedermi un'intervista...»

«Intervista o no hai già il materiale per un bell'articolo. Sta' solo attenta a fornire le prove di quello che scrivi.»

«Naturalmente.»

Adesso, in macchina, Christine guardava il figlio insoli­tamente tranquillo. Si era lasciato accompagnare senza far sto­rie, e lei sapeva che stava pensando al suo amico ed era preoc­cupato.

Girò l'angolo e dovette frenare di colpo. Davanti alla scuo­la c'era una lunga fila di auto, a ogni angolo si vedeva un ge­nitore che accompagnava il figlio.

«Mamma, che succede?» esclamò Timmy.

«I genitori dei tuoi compagni vogliono essere sicuri che i figli arrivino a scuola sani e salvi» rispose lei.

«Per via di Matthew?»

«Non sappiamo ancora che cosa gli è successo. Può an­che darsi che abbia avuto una discussione con sua madre e ab­bia deciso di scappare di casa. Forse è meglio se per il mo­mento non ne parli a nessuno.»

Non avrebbe dovuto dirgli niente, si rimproverò. Lo ave­va spaventato senza ragione. Ma come si spiegava quel traf­fico? Dovevano essere ancora in pochi a sapere della scom­parsa di Matthew: il panico era stato certamente causato dai suoi articoli. Il solo nome di Ronald Jeffreys aveva scatenato una reazione iperprotettiva, come era già successo anni pri­ma, quando Jeffreys aveva colpito per la prima volta.

Nella folla di genitori Christine riconobbe Richard Melzer, della radio locale. Doveva sbrigarsi a intervistare Michelle Tanner prima che qualcuno la battesse sul tempo.

«Mamma...»

«Sì?»

«Sai, riguardo a quello che hai detto prima... be', non cre­do che Matthew sarebbe mai scappato di casa.»

Lei gettò un'occhiata a Timmy, che inginocchiato sul se­dile osservava l'insolita processione. La spruzzata di lentig­gini sul naso lo faceva apparire ancora più pallido. Da dove gli veniva tanta saggezza? pensò. O era cresciuto senza che lei se ne accorgesse?

Christine sospirò. Avrebbe dovuto essere fiera di suo fi­glio, e invece era rattristata perché non poteva più protegge­re la sua innocenza.

18

Chissà perché, pensò Maggie, appena entrava in una chie­sa cattolica si sentiva come se avesse di nuovo dodici anni. Respirò l'odore di incenso e candele e tastò la pistola sotto l'ascella. Forse non avrebbe dovuto entrare con una pisto­la.

Non essere ridicola, si disse. Morrelli, che l'aspettava più avanti, domandò: «Tutto bene?».

Aveva lasciato la stanza d'albergo di Maggie alle cinque del mattino per andare a casa a cambiarsi, e quando era tor­nato a prenderla due ore più tardi sembrava trasformato. Ave­va i capelli lavati di fresco, la faccia perfettamente rasata, una camicia bianca con cravatta sotto il completo di jeans. Anche se non portava la divisa marrone come i suoi collaboratori, ri­usciva ugualmente ad avere un'aria ufficiale, forse perché cam­minava dritto e a grandi passi decisi.

«Ehi, O'Dell, tutto bene?» domandò Morrelli di nuovo.

«Sì, benissimo» rispose lei finalmente. «Stavo guardando la chiesa. Sembra fin troppo grande per una cittadina come Platte City.»

«È stata costruita abbastanza di recente. La vecchia par­rocchia si trovava nella zona lungo il fiume ed era poco più di una chiesetta di campagna. Ma la città si è ingrandita quasi del doppio negli ultimi dieci anni, in gran parte grazie a per­sone che erano stanche di vivere in città. Molti fanno i pen­dolari tra Platte City, Omaha e Lincoln. Buffo, eh?» Sulla sua bocca comparve una piega amara. «Probabilmente sono ve­nuti qui per allontanarsi dalla criminalità e far crescere i figli in un ambiente sicuro...»

In quel momento un uomo sbucò dalla tenda dietro l'al­tare. «Vi serve qualcosa?» chiese.

«Stiamo cercando Padre Francis» disse Morrelli.

L'uomo li fissò sospettoso, brandendo la scopa che tene­va in mano. Sembrava giovane, anche se i capelli scuri erano brizzolati sulle tempie. Portava abiti scrupolosamente puliti, addirittura la cravatta, e un paio di scarpe da tennis candide. Mentre si avvicinava, Maggie notò che zoppicava leggermente.

«Che cosa volete da Padre Francis?» insisté l'uomo. Poi cambiò espressione. «Aspetti un momento... io so chi è lei! Non giocava quarterback con i Cornhuskers? Nick Morrelli, cam­pionato 1982-83.»

«Era un tifoso dei Cornhuskers?» fece Morrelli lusingato.

Quarterback, pensò Maggie, l'avrebbe giurato.

«Tifoso sfegatato. Mi chiamo Ray Howard, sono arrivato qui da pochi mesi. Ho giocato un po' anch'io, sa, al liceo. Poi mi sono rovinato un ginocchio durante l'ultima partita di cam­pionato e da allora ho dovuto smettere.»

«Un vero peccato» disse Nick.

«Già, le vie del Signore sono misteriose. Questa è sua mo­glie?» si informò l'uomo, squadrando Maggie da capo a pie­di. Lei cercò di resistere all'impulso di allacciarsi la giacca.

«Non siamo sposati» fece Morrelli imbarazzato.

«La sua fidanzata, allora. È per questo che volete Padre. Francis? Ha celebrato centinaia di matrimoni, sapete.»

«No, non è per questo.»

«È una faccenda ufficiale» tagliò corto Maggie. «Padre Francis c'è?»

Howard guardò Morrelli, ma quando capì che nessuno dei due intendeva dargli ulteriori spiegazioni rispose: «Cre­do si stia cambiando... la messa è finita pochi minuti fa».

«Le dispiace andarlo a chiamare?» disse Morrelli gentile.

«Sicuro. Chi devo dire?»

Maggie si stava innervosendo: «Dica solo Nick Morrelli.»

Finalmente Howard sparì dietro la tenda e lei guardò in­curiosita il suo accompagnatore. «Quarterback, eh?»

«È stato tanto tempo fa» disse lui. «Secoli.»

«Ed era bravo?»

«A un certo punto mi avevano chiamato i Dolphins, ma mio padre voleva che mi laureassi in legge, così ho lasciato perdere.»

«Naturalmente lei fa sempre tutto quello che vuole suo padre» commentò lei ironica.

Era una battuta, ma dallo sguardo di lui capì di avere toc­cato un tasto dolente. «A quanto pare sì» ribatté Nick asciut­to.

«Nicholas» esclamò una voce dietro le loro spalle. Mag­gie si voltò e vide un prete anziano, di statura piuttosto bas­sa, con una lunga tonaca nera. «Il signor Howard mi ha detto che devi parlarmi di una faccenda ufficiale.»

«Buongiorno, Padre Francis. Mi scusi se non l'ho avver­tita prima di venire.»

«Ma figurati. Sai che sei sempre il benvenuto.»

«Le presento l'agente speciale Maggie O'Dell. Lavora con l'FBI ed è venuta ad aiutarmi per il caso Alverez.»

Maggie tese la mano e il vecchio sacerdote la prese tra le sue, tenendola stretta. Tremava un po', ma lo sguardo che la scrutava sembrava attento e vivissimo.

«È un piacere conoscerla» disse. Poi, rivolgendosi a Nick: «Sai che tuo nipote mi ricorda molto te?» Sorrise a Maggie e spiegò: «Timmy è uno dei chierichetti di Padre Keller a St. Mar­garet e Nicholas è stato mio chierichetto nella vecchia parroc­chia anni fa».

«Davvero?» Maggie lanciò un'occhiata a Nick e vide che la tenda dietro l'altare si muoveva. Poi notò un paio di scar­pe bianche fare capolino sotto l'orlo, ma decise di non sma­scherare il ficcanaso e si girò di nuovo verso il prete.

«Padre Francis, volevamo farle alcune domande...» co­minciò Morrelli.

«Ma certo.»

«So che ha raccolto l'ultima confessione di Jeffreys e...»

«Sì, ma non posso rivelare quello che mi ha detto» lo in­terruppe subito il prete. «Spero che tu capisca.» La sua voce si era fatta più grave, come se l'argomento lo turbasse. Mag­gie pensò che Padre Francis fosse malato. Questo avrebbe spie­gato il colore grigiastro della pelle e il respiro affannoso che gli sollevava le spalle ossute.

«Naturalmente, capiamo benissimo» disse cercando di nascondere l'impazienza. «Ma se ci fosse qualcosa capace di gettare luce sul caso Alverez, lei dovrebbe parlarcene.»

«O'Dell» fece il prete. «È un cognome cattolico irlandese, vero?»

«Sì» rispose lei, un po' seccata della divagazione.

«E Maggie sta per Margaret, come la patrona della nostra chiesa.»

«Credo di sì, ma... Padre Francis, lei si rende conto che se Jeffreys le ha confessato qualcosa in grado di condurci all'as­sassino di Danny Alverez, lei ha il dovere di dircelo, vero?»

«Il segreto della confessione deve essere rispettato anche nel caso di assassini confessi, agente O'Dell» ribadì il prete.

Maggie guardò Morrelli e anche lui le sembrò sul punto di perdere la pazienza.

«Padre, c'è un'altra cosa che potrebbe dirci» riprese Nick mantenendo il controllo. «Chi, oltre a un prete, è autorizzato a impartire l'estrema unzione?»

«È un sacramento, e come tale dovrebbe essere ammini­strato da un sacerdote, ma in circostanze particolari la pre­senza di un ministro di Dio non è necessaria.»

«Chi altro può saperlo?»

«Prima del Concilio Vaticano II veniva insegnato nel ca­techismo, ma voi forse siete troppo giovani per averlo stu­diato. Adesso si insegna solo in seminario, però può essere parte dell'istruzione dei diaconi.»

«E quali sono i requisiti per diventare diaconi?» si infor­mò Maggie. La lista dei sospetti aumentava.

«Esistonocondizioni molto precise. Bisogna essere in buo­ni contatti con la chiesa, naturalmente. E solo i maschi posso­no diventare diaconi. Ma non capisco che cosa c'entra questo con Ronald Jeffreys...»

«Mi dispiace, Padre, ma non possiamo dirglielo» replicò Nick. «Senza offesa.» Guardò Maggie per vedere se aveva al­tre domande, poi aggiunse: «Grazie per l'aiuto, Padre. Ci è sta­to molto utile».

Dopo un attimo di esitazione anche Maggie si congedò e uscì con Nick, ma appena misero piede fuori della chiesa si fermò. «Padre Francis sa qualcosa» disse. «C'è qualcosa di Jef­freys che non ci ha detto.»

«Che non poteva dirci.»

D'improvviso Maggie si voltò e ritornò sui suoi passi.

«O'Dell, che sta facendo?» esclamò Nick.

Lei non rispose e spalancò il pesante portone di legno in­tagliato. Padre Francis stava sparendo dietro la tenda alle spal­le dell'altare. Maggie lo bloccò chiamandolo ad alta voce. Il vecchio prete fece un sobbalzo e si voltò.

«Se lei sa qualcosa, se Jeffreys le ha detto qualcosa che po­trebbe impedire un altro omicidio... non pensa che varrebbe la pena di violare il segreto della confessione?» lo aggredì Mag­gie. «Di infrangerlo per salvare una vita innocente?» E scrutò nel fondo di quegli occhi che sapevano più di quanto voleva­no rivelare.

«Posso dirle soltanto che Ronald Jeffreys ha detto la ve­rità» sospirò il sacerdote.

«Che intende dire?»

«Dal giorno in cui ha confessato il suo delitto fino al gior­no dell'esecuzione, ha detto solo la verità.» Padre Francis fis­sò Maggie intensamente. «E adesso, se vuole scusarmi, devo andare.»

«Che significa?» domandò Nick, che intanto li aveva rag­giunti.

«Che dobbiamo andare a rivedere la confessione origi­nale di Jeffreys» disse Maggie, fingendo una sicurezza che non provava.

Poi si incamminò lungo la navata in punta di piedi.

19

Mentre usciva in fretta dal parcheggio davanti alla chiesa, il sacchetto delle provviste si rovesciò e alcune arance rotolaro­no sotto il sedile della macchina.

Doveva calmarsi, pensò. Quella gente era venuta in chie­sa a fare domande su Jeffreys, perciò non sapeva niente. An­che la giornalista, nei suoi articoli, aveva insinuato che l'omi­cidio di Danny era un'imitazione di quelli di Jeffreys. Ma nes­suno aveva pensato che l'imitatore poteva essere Jeffreys.

Intorno alla scuola c'erano cortei di genitori che accom­pagnavano i figli e controllavano che entrassero senza pro­blemi. E pensare che fino a pochi giorni prima non li vedeva­no neanche, li lasciavano soli per ore, fingendo che concede­re le chiavi di casa fosse un segno di affetto. In quei ragazzini il trauma della solitudine sarebbe durato una vita. Ma adesso certi genitori stavano imparando la lezione. In effetti, lui gli stava facendo un favore.

Soffiava un vento freddo, che faceva presagire la neve. Tra poco ci sarebbe stato bisogno di vestiti più pesanti e di al­tre coperte sui letti. A proposito, doveva controllare se la co­perta nel bagagliaio era ancora macchiata di sangue. Non ri­usciva a ricordarlo e, mentre era fermo a un semaforo, cercò di frugare nella memoria. I genitori continuavano la loro pro­cessione. Qualcuno lo riconobbe e gli fece un cenno di saluto. Lui sorrise ricambiando.

Sì, certo, adesso era sicuro, la coperta l'aveva lavata ed era perfettamente pulita. Il detersivo speciale aveva fatto mi­racoli. E se fosse arrivato il freddo gli sarebbe tornata utile.

Quando arrivò in periferia, notò uno stormo di oche selvatiche in volo verso sud e abbassò il finestrino per guardar­lo. L'aria sapeva davvero di neve, lo sentiva nelle ossa.

Lui odiava il freddo e la neve. Gli ricordavano quei Na­tali solitari, quando si alzava prestissimo la mattina, secondo le istruzioni di sua madre, e apriva in silenzio i regali. Faceva così poco rumore che poteva sentire distintamente i grugniti del patrigno mentre la mamma lo teneva occupato in camera.

Il patrigno non aveva mai sospettato nulla, appagato di ricevere il suo regalo in natura. Se avesse scoperto i pacchet­ti, lui e sua madre le avrebbero prese di santa ragione per aver sprecato in regali inutili il denaro che lui faticava a guada­gnare. Era stata la reazione del patrigno, il primo Natale che avevano passato insieme, a far nascere quella consuetudine segreta.

Svoltò in Old Church Road e proseguì lungo il fiume. Non era lontano dalla sua meta. Il folto degli alberi era un trionfo di gialli e rossi autunnali: peccato che la neve fosse destinata a co­prire quei colori così vivi con il sudario bianco della morte.

D'improvviso ricordò le figurine dei giocatori di baseball e si tastò le tasche, ansioso, perdendo per un attimo il controllo della macchina. Poi sentì il rigonfio nella tasca posteriore dei jeans e sospirò sollevato. Parcheggiò tra gli alberi bassi, che erano un ottimo nascondiglio, quindi raccolse le arance e le rimise nel sacchetto. Infine scese dalla macchina e aprì il ba­gagliaio per prendere la coperta di lana, ripiegata e legata con una fune.

Quando richiuse, l'eco risuonò nella boscaglia. Il vento adesso portava un odore di erba marcia e di pesce decompo­sto.

Le foglie ammucchiate nascondevano così bene la botola di legno che dovette cercare prima di trovarla. Tirò con forza il gancio di ferro e aprì. Scese gli scalini e appena ebbe rag­giunto il fondo prese da una tasca la maschera di gomma. Era meglio del passamontagna, meno spaventosa e più adatta al periodo dell'anno, anche se un po' scomoda. Gli vennero in mente gli occhi di Danny, che prima lo avevano riconosciuto e guardato fiduciosi e poi erano diventati accusatori. Se solo avesse capito che voleva salvarlo. Quegli occhi, e quella ma­ledetta crocetta che portava al collo lo avevano sconvolto. No, non poteva rischiare un'altra volta. Infilò la maschera e co­minciò immediatamente a sudare.

Procedette a tentoni fino allo scaffale di legno su cui ave­va lasciato la lanterna e i fiammiferi. Mentre allungava la ma­no, qualcosa di peloso lo sfiorò. Lui si ritrasse di scatto, fa­cendo quasi cadere la lanterna. «Maledetti topi schifosi» bor­bottò.

Riuscì ad accendere lo stoppino al primo tentativo e il sot­terraneo si illuminò di una luce giallastra. Aspettò che i topi scappassero a cercare un altro rifugio, poi spinse con forza lo scaffale appoggiandosi con tutto il peso. Infine lo spostò libe­rando il passaggio segreto e vi si insinuò carponi, trascinando­si dietro il sacchetto delle provvise e la coperta. La maschera lo faceva sudare sempre di più, ma si concesse un sorriso soddi­sfatto. Matthew avrebbe sicuramente apprezzato le figurine.

20

Casa Tanner era sull'angolo di un isolato, dietro il quale sta­vano costruendo un enorme complesso di appartamenti. Il ra­pido sviluppo di Platte City era una delle cose che Nick tro­vava più sgradevoli. Un bel giorno arrivavano le ruspe e un'al­tra zona verde, con prati e cespugli di rose selvatiche, veniva coperta dal cemento.

Di fronte alla casa era parcheggiata una lunga fila di mac­chine.

«Dio santo» borbottò Nick.

«C'è qualcuno qui in grado di tenere a bada questa gen­te?» domandò Maggie.

Lui le gettò un'occhiataccia.

«Non era una critica» fece lei. «Era solo una domanda.»

Aveva ragione, pensò Nick. Doveva ricordarsi che O'Dell era dalla sua parte. Così le raccontò i provvedimenti che aveva preso fino a quel momento, mettendo a frutto gli insegnamen­ti di Bob Weston. Pochi minuti dopo la frenetica telefonata di Michelle Tanner, aveva mandato uno dei suoi uomini a mette­re sotto controllo il telefono e a organizzare la sorveglianza del­la casa. Entro la mezzanotte Lucy Burton aveva trasformato la sala riunioni in una unità di crisi, con mappe alle pareti, foto di Matthew e un telefono speciale per gli eventuali informatori. Nick aveva subito chiesto dei rinforzi dalle città vicine e gli agenti erano andati di porta in porta a fare domande con mol­ta cautela. Ma il panico si era diffuso rapidamente, lo si era vi­sto dal numero di genitori che quella mattina avevano voluto accompagnare i figli a scuola: e di questo Nick doveva ringra­ziare sua sorella e i suoi maledetti articoli.

La porta di casa Tanner era aperta e dall'interno prove­niva un brusio di voci. O'Dell bussò sullo stipite e aspettò. Stando accanto a lei, Nick notò che gli arrivava a stento alle spalle. Il vento le scompigliò i capelli e lei li ricacciò dietro l'o­recchio con impazienza. Quella mattina indossava un tailleur pantalone bordeaux scuro, che rendeva la sua pelle più chia­ra e luminosa.

La zanzariera cigolò sui vecchi cardini. Un uomo li squa­drò domandando senza complimenti: «Chi diavolo siete?»

«Li conosco, stia tranquillo» disse Hal Langston rag­giungendolo. L'uomo si mise da parte e Langston li fece en­trare.

Alto e robusto come Nick, Hal aveva giocato nella sua stessa squadra di football al liceo. Da allora aveva messo su un po' di chili, e quando Nick lo prendeva in giro per la pan­cetta spiegava che erano i vantaggi della vita matrimoniale. «Dovresti provare anche tu» aggiungeva di solito.

Hal poteva ritenersi soddisfatto, perché era riuscito a con­quistare una delle donne più belle e desiderate di Platte City, un'insegnante che era arrivata in città dieci anni prima e con la sua intelligenza e i suoi modi decisi aveva intimidito e af­fascinato tutti gli scapoli.

Tutti compreso Hal, che aveva dovuto farsi aiutare dal migliore esperto nelle strategie di corteggiamento. All'epoca Nick frequentava la facoltà di legge a Boston e Hal gli telefo­nava quasi tutte le sere per chiedere consigli. Nick scriveva per Tess piccole poesie, suggeriva quali fiori comperarle, in­dicava perfino all'amico quali punti toccare quando l'abbrac­ciava: un piccolo bacio sull'orecchio, uno sulla gola, niente pa­role volgari e tantomeno assalti. A poco a poco, benché l'a­vesse vista solo una volta, Nick si era quasi innamorato di lei.

I due si erano sposati dopo sei mesi. Nick non sapeva se Hal le avesse mai rivelato il loro segreto, ma ogni tanto Tess lo guardava con un'espressione strana, come se sapesse tutto e gliene fosse grata.

Il soggiorno di casa Tanner era pieno di agenti e ufficia­li di polizia che bevevano caffè e prendevano appunti, me­scolati a una piccola folla di sconosciuti. Michelle Tanner non c'era e Nick si domandò se si fosse ripresa. La notte prima, con i capelli rossi scarmigliati e gli occhi gonfi di pianto, ubriaca e disorientata, gli era parsa poco affidabile e incline all'isterismo.

«Chi accidenti è tutta questa gente?» domandò all'amico.

«Persone che ha chiamato lei» rispose Hal. «I vicini, sua madre, i genitori dei compagni di squadra del ragazzo.»

«Dio santo, ma sono tantissimi.»

Nick passò in cucina, e lì, seduta al tavolo a bere caffè, c'e­ra Michelle Tanner. Non appena riconobbe la donna che le se­deva accanto, Nick si fece largo tra la gente a gomitate.

«Che diavolo ci fai qui?» urlò.

E d'improvviso tutti smisero di parlare.

21

Prima che Christine potesse aprire bocca, suo fratello puntò un dito contro di lei: «Signora Tanner, si rende conto che que­sta donna è una giornalista?».

Michelle Tanner era pallida, minuta, e sembrava un tipo che si lascia intimidire facilmente. Alzò su Nick gli occhi sbar­rati, poi guardò Christine: «Sì, sceriffo, lo so. Ma ho pensato che poteva servire se usciva qualcosa sul giornale... riguardo a Matthew, voglio dire». La sua voce tremò e gli occhi si riem­pirono di lacrime.

Christine vide Nick calmarsi all'istante. Se c'era una co­sa che suo fratello non sapeva come affrontare era una donna che piangeva. Lei stessa aveva fatto ricorso alle lacrime in più di un'occasione, ma al contrario delle sue, quelle di Michelle Tanner erano sincere.

«Le chiedo scusa, signora, ma non mi pare che sia una buona idea.»

«Al contrario, è un'ottima idea» disse una voce femmini­le alle spalle di Nick. Christine guardò incuriosita la donna che aveva parlato. Con quella pelle liscia, gli zigomi alti, le labbra piene e i magnifici capelli neri avrebbe potuto essere una ragazza copertina. Per di più aveva una figura snella e at­letica, dotata di curve sufficienti a risvegliare l'attenzione di tutti gli uomini presenti. Ma la donna sembrava non curarsi dell'effetto che produceva, e aveva l'aria decisa di chi non si fa sviare facilmente dal suo obiettivo. A Christine piacque a prima vista, ma Nick sembrava molto irritato dal suo inter­vento.

«Come dice?» esclamò.

«Dico che è meglio coinvolgere i mezzi di comunicazio­ne fin dall'inizio.»

«Posso parlarle un momento in privato?» fece lui pren­dendola per un braccio.

La donna si liberò subito dalla stretta, ma lo seguì fuori della cucina.

«Mi scusi» disse Christine con un colpetto sulla mano di Michelle. Era ansiosa di conoscere la donna che aveva messo Nick al suo posto con tanta disinvoltura, e che sicuramente era l'agente speciale Maggie O'Dell, l'esperta inviata dall'FBI.

Nick e l'agente O'Dell si erano rifugiati in un angolo del soggiorno e Christine cercò di origliare quello che si stavano dicendo. Ma Hal glielo impedì.

«Te l'avevo detto che la tua presenza lo avrebbe fatto in­furiare.»

Christine gli gettò un'occhiata. «Comunque pare ci sia qualcuno che gli sta facendo cambiare idea.»

«Già, il nostro Nick ha trovato pane per i suoi denti. Va­do fuori a fumare una sigaretta. Mi tieni compagnia?»

«Grazie, no, sto cercando di smettere.»

«Come vuoi.»

Hal uscì facendo cigolare la zanzariera e Christine si ri­mise in ascolto.

Nick parlava a voce bassa, ma non riusciva a nasconde­re la rabbia. L'agente O'Dell sembrava imperturbabile. Chri­stine decise di avvicinarsi.

«Scusate se vi interrompo» disse evitando di guardare il fratello. «Lei è l'agente speciale dell'FBI, vero? Io sono Chri­stine Hamilton.» Tese la mano e Maggie la prese senza esita­zione.

«Buongiorno, signora Hamilton» disse con una stretta energica.

«Nick è così arrabbiato che sicuramente non le ha detto che sono sua sorella.»

O'Dell guardò Nick con un sorrisetto. «Infatti, mi do­mandavo se tra voi due ci fosse una relazione...»

«E siccome ce l'ha tanto con me» continuò Christine, «non capisce che in realtà sono venuta per essere d'aiuto.»

«Oh, ne sono certa.»

«Dunque non le dispiacerebbe rispondere a qualche do­manda?»

«Vede, signora Hamilton...»

«Mi chiami Christine.»

«Va bene, Christine. Vede, io posso avere delle opinioni personali, ma questo caso non è mio. Sono qui solo per trac­ciare un profilo dell'assassino.»

Con la coda dell'occhio, Christine si accorse che Nick sor­rideva gongolante e lo aggredì: «Che cosa significa, che ci sa­rà di nuovo il silenzio stampa come nel caso Alverez? Non ca­pisci che così peggiori le cose?».

«A dire la verità credo che lo sceriffo Monelli abbia cam­biato idea» intervenne calma O'Dell.

Lui esitò, si schiarì la gola e finalmente disse: «Ci sarà una conferenza stampa domani mattina alle otto e mezzo, nell'a­trio del tribunale».

«Posso scriverlo nell'articolo che uscirà stasera?» do­mandò lei.

«Sì» concesse lui con un grugnito.

«E non c'è nient'altro che posso usare?»

«No.»

«Sceriffo Morrelli, non ha detto che aveva già le foto del ragazzo?» intervenne di nuovo O'Dell. «Se Christine ne pub­blica una con l'articolo può darsi che qualcuno ricordi qual­cosa di interessante.»

Lui cacciò le mani in tasca come se volesse trattenersi dal­lo strangolarla. «Passa in ufficio a ritirarle» sibilò a Christine. «Dirò a Lucy di fartele trovare all'ingresso. Hai capito bene? All'ingresso. Non voglio che cominci a curiosare in giro.»

«Rilassati, Nick. Te l'ho già detto, non sono il nemico.» Christine fece per allontanarsi, poi si fermò. «Vieni lo stesso a cena stasera, vero?»

«Può darsi che sia troppo occupato.»

«Le farebbe piacere cenare con noi, agente O'Dell? Nien­te di speciale, solo spaghetti con un fiasco di Chianti.»

«Grazie, volentieri.»

Vedendo la sorpresa sulla faccia del fratello, Christine trat­tenne a stento una risata. «Molto bene. Allora vi aspetto ver­so le sette.» E questa volta se ne andò.

22

Nell'ufficio dello sceriffo si lavorava a ritmo frenetico. I tele­foni squillavano, le tastiere dei computer crepitavano, gli agen­ti si gridavano richieste e ordini da una stanza all'altra.

E c'era un mucchio di gente che lui non conosceva, os­servò con fastidio Nick. Il fatto di dipendere da estranei nel­la gestione di un caso che lo coglieva impreparato lo rendeva ogni ora più nervoso.

Lucy sembrò sollevata di vederlo e gli fece un caloroso cenno di saluto dall'altra estremità della stanza, poi lanciò a Maggie uno sguardo sprezzante, che lei non notò.

«Nick, abbiamo controllato ogni centimetro quadrato del­la città» disse Lloyd Benjamin. Si tolse gli occhiali e si strofi­nò le palpebre. «Gli uomini di Richfield stanno ancora pas­sando al setaccio la zona lungo il fiume, dov'è stato trovato Danny Alverez. E ho mandato quelli di Staton alla vecchia ca­va, su a nord, vicino al lago.»

«Ben fatto, Lloyd» disse Nick. Benjamin era uno dei suoi collaboratori più anziani e Nick si fidava ciecamente di lui.

«C'è ancora una cosa» aggiunse l'altro abbassando la vo­ce. «Sai, ne parlavamo poco fa. Stan Lubrick si è ricordato che Jeffreys aveva un amico quando fu arrestato... una specie di amante. Se non sbaglio, lo avevamo anche interrogato, ma poi non fu chiamato a testimoniare. Un certo Mark Rydell» disse consultando un taccuino consunto. «Ci chiedevamo se non fosse il caso di cercare questo tizio.»

Nick e Lloyd guardarono Maggie, che sembrava intenta a osservare il movimento degli altri agenti. Lei capì che stavano aspettando il suo parere e arrossì leggermente. «Non sa­pevo che Jeffreys fosse gay» commentò.

Lloyd si allentò la cravatta. Era chiaro che l'argomento lo metteva a diagio. «All'epoca vivevano insieme...»

«E non potevano essere semplicemente coinquilini?» re­plicò lei.

Lloyd gettò un'occhiata implorante a Nick, ma lui non in­tervenne.

«Si può controllare se Rydell si mantenne in contatto con Jeffreys dopo la condanna» suggerì O'Dell. «Al penitenziario lo sapranno di sicuro. E si potrebbe anche vedere se c'era qual­che prigioniero oppure una guardia di cui Jeffreys era diven­tato amico. Nel braccio della morte non ci sono molti rappor­ti tra i condannati, ma è una possibilità.»

Nick la guardò ammirato. Un'idea che a lui era parsa in­verosimile diventava di colpo possibile, e persino Lloyd, che aveva un'opinione molto antiquata delle donne, sembrava soddisfatto. Scrisse un paio di annotazioni sul taccuino e si al­lontanò in cerca di un telefono.

«Ehi, Nick, ha di nuovo chiamato quella donna» gridò Eddie Gillick dalla scrivania.

Un altro agente diede a Maggie un lungo rotolo di carta. «Agente O'Dell, è arrivato questo fax da Quantico per lei.»

«Che donna?» chiese Nick.

«Sophie Krichek, quella che diceva di aver visto un fur­goncino blu nella zona in cui era stato rapito Danny Alverez.»

«Fammi indovinare... questa volta ha visto il furgoncino con a bordo un ragazzino che somigliava a Matthew Tanner?» fece Nick.

Maggie sollevò lo sguardo dal suo fax. «E che cosa le fa pensare che non sia attendibile?»

«È una che telefona tutti i momenti.»

«Nick, ecco i tuoi messaggi» disse Lucy avvicinandosi con un mucchietto di fogli. Portava il solito golfino attillato e la solita gonna troppo stretta, ma bisognava ammettere che ve­derla era un piacere, pensò Nick.

«Mi faccia capire. Non vuole controllare questa informa­zione perché la donna ha oltrepassato la sua quota di telefo­nate?» protestò O'Dell.

«Senta, tre settimane fa ha chiamato per dirci che nel suo cortile c'era Gesù che spingeva sull'altalena una bambina con le trecce. E non ha nemmeno un cortile, abita in un apparta­mento al quarto piano» disse Nick seccato. «Lucy, abbiamo le trascrizioni della confessione e del processo di Jeffreys?»

«Le ho chieste a Max, come mi avevi detto, e lei ha pro­messo di portarle al più presto. Ma devono fare le copie, per­ché gli originali non possono uscire dalla cancelleria.» Lucy si allontanò muovendo i fianchi a puro beneficio di Nick, poi si voltò e aggiunse: «Oh, agente O'Dell, ha telefonato un certo Gregory Stewart per lei, tre volte. Ha detto che era importan­te e di richiamarlo appena possibile».

«Il suo capo che la controlla, eh?» sorrise Nick.

«No, mio marito» ribatté lei. «Che telefono posso usare?»

Il sorriso di Nick svanì. Eppure aveva controllato la sua mano sinistra, per abitudine, e non aveva visto anelli... «Può usare quello della mia stanza» disse. «L'ultima porta a destra in fondo al corridoio.»

«Grazie.»

Non appena si fu allontanata, Eddie si avvicinò a Nick con un sogghigno. «Perché ti stupisci tanto, capo? Una bella donna come lei doveva per forza avere un marito.»

Ridicolo, pensò Nick senza rispondere. Poco prima, in ca­sa Tanner, aveva voglia di strozzarla. E adesso si sentiva co­me se qualcuno gli avesse dato un pugno nello stomaco.

23

La stanza di Nick era piccola e spartana: scrivania di metallo grigio, due sedie, un classificatore a cassetti e uno scaffale con trofei e coppe. Maggie si sedette sulla poltrona di pelle - l'u­nico lusso dell'ufficio - e diede un'occhiata alle fotografie al­lineate sulla parete. In quasi tutte c'erano ragazzi in divisa da football, tra cui un Nick Morrelli più giovane. In un'altra si vedeva Nick da solo, accanto a un allenatore dall'aria trion­fante. E in un angolo, un po' nascosti, erano appesi due di­plomi: uno dell'università del Nebraska e l'altro... Per poco Maggie non lasciò cadere il telefono. L'altro era un diploma di laurea della facoltà di legge di Harvard, che a un esame rav­vicinato appariva autentico.

Lo sceriffo Nick Morrelli era un uomo pieno di sorprese, e più lei ne scopriva, più diventava curiosa. Cosa che trovava molto seccante, anche perché tra loro sembrava ci fosse una corrente elettrica che faceva scintille ogni volta che si trova­vano vicini.

La sua relazione con Greg, invece, era sempre stata mol­to tranquilla. Non li aveva messi insieme la passione, ma l'a­micizia e gli interessi comuni. E purtroppo gli interessi erano molto cambiati nel corso degli anni, mentre l'amicizia era di­ventata poco più di una distratta tolleranza. A volte Maggie si chiedeva che cosa li aveva spinti a sposarsi.

Ma era anche fermamente convinta che il matrimonio fosse qualcosa cui bisognava lavorare con determinazione - altrimenti il loro non sarebbe durato tanto - e considerò un buon segno che Greg le avesse telefonato facendo il pri­mo passo.

Chiamò l'ufficio del marito e aspettò che la segretaria si degnasse di rispondere.

«L'avvocato Stewart è in riunione» disse la ragazza. «Vuo­le lasciare un messaggio?»

«No, vorrei parlargli subito. Sono sua moglie e lui mi ha cercata tutta la mattina.»

Ci fu una pausa, poi la segretaria decise che la richiesta non era del tutto irragionevole e finalmente le passò Greg.

«Maggie, grazie a Dio riesco a parlarti» esclamò lui. Il to­no era del tutto privo di rimorsi e lei si allarmò.

«Perché non tieni il cellulare acceso?» aggiunse Greg, che evidentemente non poteva fare a meno di rimproverarla.

«Ho dimenticato di metterlo sotto carica» si giustificò lei.

«Va bene, non importa» fece Greg. «Si tratta di tua ma­dre.» La sua voce assunse il tono comprensivo che adottava con i clienti quando perdeva una causa. «È in ospedale.»

Maggie appoggiò la testa allo schienale della poltrona. «Che cos'ha combinato questa volta?»

«Ho paura che abbia fatto sul serio. Ha usato un rasoio.»

24

Maggie riappese la cornetta e si massaggiò le tempie. Aveva appena finito di discutere con il dottore che aveva preso in cu­ra sua madre, un arrogante neolaureato che credeva di sape­re tutto. Quando alla fine Maggie gli aveva spiegato come sta­vano le cose e gli aveva dato il numero di uno psichiatra a cui rivolgersi, era parso sollevato, e aveva confermato che non era necessario che lei piantasse in asso il suo lavoro e saltasse sul primo aereo per Richmond. Certo, quell'ennesimo tentativo di suicidio era una disperata richiesta di affetto, ma se lei l'a­vesse preso troppo sul serio non avrebbe fatto altro che ag­gravare la situazione. E benché il passaggio al rasoio fosse un peggioramento - in questo Greg aveva ragione - il dottorino le aveva assicurato che i tagli non erano profondi.

Maggie sospirò e chiuse gli occhi. Badava a sua madre da quando aveva dodici anni, subito dopo la morte di suo padre. A volte, ripensando agli anni passati, si diceva che non le era stata abbastanza vicina. Ma poi ricordava che era stata sua ma­dre ad abbandonarla, rifugiandosi nell'alcol, e capiva di non avere nulla da rimproverarsi.

Sentì un piccolo colpo sulla porta e Nick fece capolino. «O'Dell, tutto bene?»

Lei annuì, ma gli occhi azzurri di lui la guardarono in­terrogativi. Nick avanzò verso la scrivania e le porse una lat­tina di Pepsi.

«Grazie» disse Maggie.

Nick si cacciò le mani in tasca, imbarazzato. «Ha un aspet­to orribile» disse dopo un po'.

«Grazie tante, sceriffo» fece lei con un sorrisetto.

«Senti, fammi un favore» sbottò lui. «Dammi del tu e chia­mami Nick. Tutte le volte che mi chiami sceriffo mi volto a cer­care mio padre.»

«Va bene, ci proverò.»

«Lucy sta ordinando dei panini. Che cosa preferisci? Il piatto del giorno di Wanda è il polpettone, ma anche il pollo fritto non è male.»

«Non ho fame.»

«Ma non hai mangiato niente da stamattina. Devi man­tenerti in forze, sai. Non vorrei che ti rovinassi quelle belle cur...» Nick si fermò in tempo, ma ormai la gaffe era fatta. Ar­rossendo, si girò in fretta verso la porta e concluse: «Ti ordino un sandwich al prosciutto e formaggio».

«Con pane di segale, per favore» precisò lei.

«D'accordo.»

«E con senape.»

«Va bene» fece lui voltandosi a guardarla. «Lo sai di es­sere una gran rompiscatole, O'Dell?»

«Ehi, Nick» disse ancora lei mentre Nick stava uscendo.

«Che altro c'è?»

«A questo punto puoi chiamarmi Maggie.»

25

«Ti piacciono le figurine?» domandò l'uomo. La maschera al­terava la sua voce, come se venisse da una piscina. E lui su­dava talmente che gli sembrava davvero di essere sott'acqua.

Matthew lo guardò dal lettino. Stringeva il cuscino al pet­to e aveva gli occhi rossi e gonfi. La maglietta da calcio era tut­ta spiegazzata, e non si era nemmeno tolto le scarpe.

Il vento entrava fischiando dalle assi inchiodate sulla fi­nestra, ma era l'unico suono nella stanza. Il ragazzino non di­ceva una parola.

«Stai abbastanza comodo?» gli chiese ancora l'uomo av­vicinandosi alla brandina.

Matthew si ritrasse nell'angolo più lontano e la catena che lo legava al letto tintinnò. Era abbastanza lunga da permet­tergli di raggiungere il centro della stanza, eppure il cheeseburger con patatine che l'uomo gli aveva portato la sera pri­ma era intatto sul tavolino di metallo. Nemmeno il frullato era stato bevuto.

«Non ti è piaciuta la tua cena? Preferisci un hot dog? Puoi chiedermi quello che vuoi.»

«Voglio andare a casa» sussurrò Matthew mangiandosi le unghie. Le aveva rosicchiate fino a farsi male e delle goc­cioline di sangue avevano macchiato la federa. Sarebbe stato difficile farle scomparire, pensò l'uomo.

«Forse preferisci i fumetti alle figurine? Ho dei vecchi al­bum di Flash Gordon, la prossima volta te li porto.»

Mise le provviste sulla cassetta della frutta che fungeva da comodino: arance, tavolette di cioccolata alle nocciole, lat­tine di aranciata, due barattoli di spaghetti al pomodoro e due budini al cioccolato. Si era dato un gran daffare per procurar­si i cibi preferiti di Matthew.

«Stanotte farà freddo, questa ti servirà» aggiunse posan­do sul letto la coperta di lana. «Mi dispiace di non poterti la­sciare la luce. C'è qualcos'altro che vorresti?»

«Voglio andare a casa.»

«A casa non c'è nessuno che bada a te, Matthew...»

«C'è la mia mamma. Voglio la mamma!»

«Tua madre non ha tempo di pensare a te. E scommetto che si porta a casa degli sconosciuti. Lo fa da quando ha man­dato via tuo padre, vero?»

«Mi lasci andare a casa.»

«Sei sempre da solo perché lei lavora fino tardi e sta fuo­ri perfino nei week end» continuò l'uomo. «E non puoi vive­re con tuo padre perché ti picchia, non è così?»

«Mi lasci andare a casa» ripeté Matthew cominciando a piangere. «Voglio andare a casa!»

Doveva restare calmo. Calmo. Anche se sentiva la colle­ra montare a poco a poco. «Io ti aiuterò, Matthew. Ti salverò, ma devi avere pazienza. Guarda, ti ho portato tutte le cose che ti piacciono di più.»

Il ragazzino però continuava a piangere, un pianto la­mentoso che gli limava i nervi. Doveva restare calmo, pensò di nuovo. Perché non ci riusciva? Calmo e controllato!

«Voglio andare a casa» gemette Matthew.

Qualcosa esplose nel suo cervello e l'uomo urlò: «Stai zit­to, maledetto piagnone! Stai zitto, zitto, zitto!».

26

L'articolo di Christine sull'Omaha Journal uscì nelle edicole di Omaha alle tre e trenta. Entro le quattro i fattorini avevano re­capitato a domicilio tutte le copie di Platte City. Alle quattro e dieci i telefoni nell'ufficio dello sceriffo cominciarono a squil­lare freneticamente.

Nick diede a Phillip Van Dorn l'incarico di potenziare le linee e se necessario di requisire l'ufficio del cancelliere. Sta­va succedendo esattamente quello che aveva sperato di evi­tare: la città era in preda al panico e lui sentiva l'ansia cresce­re sempre di più.

I cittadini esigevano di sapere quali misure erano state pre­se. Il consiglio comunale voleva chiarimenti su quanto sarebbe­ro costati il personale e le attrezzature aggiuntive. I giornalisti e i reporter televisivi volevano un'intervista personalizzata sen­za dover aspettare la conferenza stampa del mattino - e alcuni si erano già accampati davanti all'ingresso del tribunale.

Però arrivavano anche delle informazioni, in questo Mag­gie aveva avuto ragione. La fotografia di Matthew aveva ri­svegliato parecchie memorie. Il problema adesso era separa­re le informazioni utili da quelle immaginarie. Maggie insi­steva perché fossero controllate anche le più inattendibili, e al­la fine Nick aveva mandato qualcuno a verificare la storia di Sophie Krichek riguardo al furgoncino blu.

«Nick, ti ha cercato quattro volte Angie Clark» disse Lucy con una smorfia. Era chiaro che non le andava la parte di mes­saggera della vita amorosa del suo capo.

«Se richiama dille che mi dispiace molto ma non ho tem­po di parlarle.»

Lei parve soddisfatta e si allontanò ancheggiando, poi tor­nò indietro. «Ah, dimenticavo. Max sta arrivando con i docu­menti che hai chiesto. Dove vuoi che li metta?»

«Dalli all'agente O'Dell.»

«Tutte e cinque le scatole?»

Nick la guardò incredulo. «Cinque scatole, hai detto?».

«Sai quanto è pignola, Max. Ha etichettato e catalogato tutto. Dice che ci sono anche gli elenchi delle prove e le di­chiarazioni di quelli che non sono andati a testimoniare in tri­bunale.»

«Cinque scatole... allora falle mettere nella mia stanza. E per favore avvisa l'agente O'Dell.»

Lucy fece un'altra smorfia, poi aggiunse: «E c'è il sinda­co che aspetta di parlarti sulla linea tre».

«Insomma, Lucy, lo sai che non possiamo tenere occupa­ti i telefoni.»

«Lo so, ma lui ha insistito. Non potevo mica sbattergli il telefono in faccia.»

Logico che Brian Rutledge, da quell'ansioso che era, aves­se insistito.

Nick si rifugiò nel suo ufficio, allentò la cravatta e il col­letto della camicia e prese il telefono.

«Ciao, Brian.»

«Nick, che diavolo succede lì? Sono rimasto in attesa ven­ti minuti.»

«Mi dispiace, Brian, ma come capirai siamo parecchio oc­cupati.»

«Cosa credi, ho anch'io i miei problemi. Il consiglio co­munale vuole che annulli la festa di Halloween. Ma se la an­nullo faccio la figura dell'orco cattivo.»

«Capisco che per te la faccenda è seria, Brian, ma sai che ti dico? Ho delle questioni molto più gravi a cui pensare.»

In quel momento Lucy si affacciò alla porta e lui le fece cenno di entrare con i tre uomini che portavano le scatole dei documenti. Indicò un posto sotto la finestra, quelli deposita­rono le scatole e se ne andarono.

«Halloween è un faccenda serissima, Nick» insisté il sin­daco. «E se quel pazzo decide di agire mentre tutti i ragazzi­ni sono in giro per le strade di notte?»

La voce stridula di Rutledge gli dava sui nervi, ma Nick cer­cò di non badarci mentre sussurrava un grazie a Maxine Cramer, la responsabile della cancelleria, che aveva trasportato nella stan­za l'ultima scatola. La donna, impeccabile nel tailleur blu e sen­za uno solo dei riccioli grigi fuori posto, sorrise e uscì.

«Brian» sospirò Nick, «dimmi che cosa vuoi da me.»

«Voglio sapere se questa faccenda è veramente grave co­me sembra. Hai dei sospetti? Hai intezione di arrestare qual­cuno? Che misure stai prendendo?»

«Con un ragazzo morto e un altro scomparso direi che la faccenda è grave, non credi?» replicò Nick. «Quanto al modo in cui conduco le indagini, non sono affari tuoi. Abbiamo bi­sogno che le linee siano libere per ricevere altre informazioni, non per rassicurare te. Perciò non chiamare più.» E sbatté la cornetta sul gancio.

O'Dell aveva assistito alla scena ferma sulla soglia.

«Scusami...» fece imbarazzata. Era la seconda volta che lo vedeva perdere le staffe, pensò Nick. Probabilmente lo rite­neva un incompetente fragile di nervi.

«Ho saputo da Lucy che i documenti di Jeffreys sono qui» continuò Maggie.

«Infatti. Vieni dentro e chiudi la porta. Quello al telefono era il sindaco» spiegò Nick. «Voleva sapere se ho intenzione di arrestare qualcuno entro venerdì, in modo che lui non deb­ba annullare la festa di Halloween.»

«E tu che gli hai detto?»

«Più o meno quello che hai sentito. Le scatole con i do­cumenti sono lì sotto il davanzale.»

Nick si avvicinò alla finestra facendo scorrere le rotelle della sua poltrona, ma non si alzò e rimase a fissare il cielo nu­voloso. Non ne poteva più di brutto tempo: non ricordava da quanto non vedeva una giornata di sole.

Maggie si era messa subito al lavoro e aveva sparso dei documenti sul pavimento. «Vuoi una sedia?» domandò lui.

«No, grazie, ho più spazio così.»

A quanto pareva, Maggie aveva già trovato quello che cercava, perché aveva aperto una cartellina e cominciato a sfo­gliare il contenuto. Poi si era fatta molto seria, ritornando a una delle prime pagine.

«Trovato qualcosa?» domandò Nick.

«Sì, la confessione originale di Jeffreys» rispose lei. «È molto particolareggiata, c'è perfino la descrizione precisa del nastro adesivo che usò per legare mani e piedi della vittima, e il numero di incisioni sul manico del coltello da caccia di cui si era servito.»

«Quindi, dal momento che secondo Padre Francis aveva detto la verità, questi dettagli sono esatti. E allora?»

«Jeffreys confessò di aver ucciso solo Bobby Wilson» dis­se lei sfogliando di nuovo i documenti. «Anzi, ripeté più vol­te di non avere niente a che vedere con l'omicidio degli altri due ragazzini.»

«Non ricordo di aver mai sentito niente del genere. Pro­babilmente gli investigatori pensarono che mentisse.»

«Ma se non mentiva?» insisté lei fissandolo.

«Se non mentiva e se davvero aveva ucciso solo Bobby Wilson...» Nick si interruppe di colpo, con una stretta alla boc­ca dello stomaco.

Fu Maggie a terminare la frase. «Vuol dire che il vero col­pevole l'ha fatta franca, e adesso è tornato a colpire.»

27

Christine si sentì sollevata quando Nick chiamò per annulla­re la cena. Se la traccia che aveva risultava buona, avrebbe do­vuto lavorare fino a tardi per scrivere un altro articolo da pri­ma pagina.

«Possiamo rimandare a domani sera?» fece lui scusan­dosi.

«Certo, non è un problema. Qualcosa di grosso?» aggiunse rapida, per vedere se riusciva a strappargli qualche notizia.

«Il successo non ti dona affatto» disse lui. «Il numero che mi hanno dato al giornale sembra quello di un cellula­re, è così?»

«Sì. È uno dei vantaggi del successo» ribatté lei. Poi si af­frettò a cambiare argomento, prima che lui le chiedesse dove era diretta. «Nick, puoi portare il tuo sacco a pelo domani se­ra quando vieni a cena? Serve a Timmy per il campeggio...»

«Vanno in campeggio per Halloween?»

«Sì, e tornano venerdì sera perché Padre Keller deve di­re messa per Ognissanti. Allora, te lo ricordi?»

«Sì, certo.»

«E non dimenticare di portare l'agente O'Dell.»

«Non me lo dimenticherò.»

Christine chiuse il cellulare e lo cacciò nella borsa mentre svoltava nel parcheggio.

L'edificio era piuttosto malconcio, con i muri scrostati e qualche vetro rotto, e in quel quartiere popolato di villette con giardino sembrava decisamente fuori posto. Questa era la zo­na in cui abitava Danny Alverez, pensò Christine prendendo qualche appunto. La sua bicicletta rossa era stata trovata contro lo steccato che divideva il parcheggio dell'edificio dal giar­dino adiacente.

L'ascensore puzzava di fumo e pipì di gatto e la moquet­te sul pavimento aveva un colore indefinibile. Christine do­vette premere tre volte il pulsante del quarto piano prima che la cabina si decidesse a partire con un cigolio sospetto. Quan­do finalmente l'ascensore arrivò a destinazione, lei scivolò fuo­ri svelta.

Nel corridoio il puzzo era ancora più forte. Come si po­teva vivere in un buco fetido come quello? pensò arricciando il naso. Fu sorpresa di notare che lo zerbino all'uncinetto di fronte al numero 410 fosse scrupolosamente pulito. Christine bussò e aspettò cercando di trattenere il respiro. Finalmente sentì scattare una serie di chiavistelli, poi nella porta si aprì uno spiraglio.

«La signora Krichek?» domandò Christine.

«Lei è la giornalista?» rispose la donna.

«Sì, sono Christine Hamilton.»

La porta si aprì un po' di più. «È parente di Ned Hamil­ton, del supermercato all'angolo?»

«Non credo. Hamilton è il cognome del mio ex marito, che non era di qui.»

«Ah.»

La donna si fece da parte. Appena entrata Christine fu assa­lita da tre grossi gatti che vennero a strofinarsi sulle sue gambe.

«Ho appena fatto della cioccolata calda» disse la donna. «Ne vuole una tazza?»

Lei stava per accettare, poi vide il bricco sul tavolo e un quarto gatto che leccava avidamente il contenuto. «No, gra­zie» disse mettendo a tacere il disgusto.

A parte i gatti, l'appartamento sapeva di pulito. Plaid co­lorati erano gettati su divani e poltrone, e sui davanzali c'e­rano parecchie piante verdi. Sulla credenza e su un tavolino, disposte sopra centrini lavorati all'uncinetto, c'erano parec­chie fotografie di un uomo in divisa, di una giovane coppia e di una bimbetta bionda.

«Si sieda» disse la donna scegliendo per sé una sedia a dondolo. «Oh, il dolore che ho alla spalla... L'artrite, sa. Non lo augurerei al mio peggior nemico.»

«Mi dispiace» disse Christine. In effetti le ossa della si­gnora Krichek sembravano contorte e nodose come vecchi ra­mi, e forse per questo la sua faccia, a dispetto dei modi genti­li, aveva un'espressione truce. Gli occhi azzurri erano in­granditi a dismisura da un paio di occhiali cerchiati di metal­lo, e i capelli bianchi erano raccolti in una crocchia e fermati da due pettini ornati di turchesi.

«Che brutta cosa invecchiare... se non fosse per i miei gat­ti l'avrei già fatta finita.»

Christine si sedette cauta sul divano ricoperto di peli di gatto. Uno di loro saltò sulla spalliera per esaminarla più da vicino.

«Rummy, vieni via di lì!» gridò la donna. Ma naturalmente il gatto non le badò.

«Lo lasci stare, signora Krichek. Non importa» mentì Chri­stine. «Vorrei sentire che cos'ha visto esattamente la mattina in cui Danny Alverez è scomparso. Non le dispiace, vero?»

«No, niente affatto. Anzi sono contenta che finalmente qualcuno mi dia retta.»

«Vuol dire che l'ufficio dello sceriffo non ha mai manda­to nessuno a interrogarla?»

«Li ho chiamati due volte, e poi un'altra volta stamattina appena ho letto il suo articolo. Loro mi hanno trattata come se mi fossi inventata tutto, e allora ho chiamato lei. La gente può dire quello che vuole, io ho visto le cose che ho visto.»

«Me le racconti.»

«Ho visto il ragazzino appoggiare la bicicletta allo stec­cato e salire su un vecchio furgoncino blu.»

«Ed è sicura che fosse Danny Alverez?»

«Oh, sì, l'avevo visto decine di volte. Era un bravo fatto­rino, veniva a posarmi il giornale sullo zerbino, non come il ragazzo che c'è adesso, che si affaccia alla porta dell'ascenso­re e butta il giornale come capita, a volte vicino alla mia por­ta e a volte no, e allora devo uscire e andarmelo a prendere, e per me non è facile camminare... Il suo giornale dovrebbe di­re ai fattorini di fare il loro lavoro come si deve.»

«Lo farò presente, signora Krichek. Mi dica del furgonci­no... è riuscita a vedere chi lo guidava?»

«No, era ancora buio. Io ero a quella finestra lì». La indicò. «E il sole stava appena spuntando. Il furgoncino è entrato nel parcheggio, ma era girato dalla parte del passeggero. Chi c'era al volante deve aver detto qualcosa a Danny, perché lui ha appoggiato la bicicletta ed è salito.»

«È salito spontaneamente? È sicura che l'uomo non lo ab­bia forzato?»

«No, no, è stato tutto molto normale, altrimenti avrei chia­mato subito la polizia. È stato dopo, quando ho sentito che Danny era scomparso, che ho fatto due più due e ho telefo­nato.»

Christine trovava incredibile che nessuno avesse con­trollato il racconto di questa donna. Era vecchia, ma la sua sto­ria sembrava attendibile... Si alzò e andò a guardare dalla fi­nestra che Sophie Krichek le aveva indicato. Si vedevano per­fettamente il parcheggio e lo steccato, ed era molto probabile che avesse visto davvero quello che aveva riferito.

«Che tipo di furgoncino era?»

«Sa, io mi intendo poco di macchine» disse la donna rag­giungendo faticosamente Christine accanto alla finestra. «Ma quel furgoncino era vecchio come me, con la vernice blu scro­stata e un po' di ruggine. E aveva il predellino, me lo ricordo perché ho visto Danny che ci appoggiava il piede per salire. Oh, e uno dei fari anteriori non funzionava.»

Se questa donna era una pazza, di certo aveva una gran­de fantasia. Christine annotò i particolari e domandò: «È per caso riuscita a vedere i numeri sulla targa?».

«No, la mia vista non è più così buona.»

In quel momento in basso si sentì sbattere una porta, poi una bambina corse nel giardino confinante e saltò su un'alta­lena, chiamando a gran voce. Poco dopo un uomo la raggiunse. Aveva barba e capelli molto lunghi, e portava una tunica bian­ca sui jeans.

«Si sono trasferiti qui il mese scorso» osservò Sophie Kri­chek accennando all'uomo che spingeva l'altalena mentre la piccola strillava divertita. «La prima volta che l'ho visto le as­sicuro che mi è parso di trovarmi di fronte a Gesù in persona. Gli somiglia, non le pare?»

Christine sorrise e annuì.

28

Nick scavalcò una pila di fogli sul pavimento, liberò un trat­to e vi depose la pizza bollente e due lattine di Pepsi. Poi se­dette a terra accanto a Maggie distendendo le gambe e con un piede quasi le sfiorò la coscia.

Anche se era troppo stanca per badarci, Maggie aveva av­vertito acutamente la sua presenza per tutto il giorno. Scosse la testa per cacciare quel pensiero e ricominciò a esaminare il rapporto del medico legale sui cadaveri di Aaron Harper ed Eric Paltrow, i due ragazzini per la morte dei quali Jeffreys po­teva essere stato condannato ingiustamente.

Dalla pizza si alzava un profumo invitante, che contra­stava con i dettagli raccapriccianti che stava leggendo. Ma que­sta volta era davvero affamata. Aveva mangiato solo due boc­coni del sandwich al formaggio e prosciutto che Nick le ave­va ordinato a mezzogiorno, e ormai fuori era buio.

I telefoni avevano smesso di squillare, parte del perso­nale se n'era andato, mentre altri erano tornati in strada a cer­care un ragazzino che sembrava essersi volatilizzato.

Nick prese una fetta di pizza, la mise su un piatto di car­ta e la porse a Maggie. Era ricoperta di peperoni, salsiccia e mozzarella, e lei la addentò con una tale foga che salsa e for­maggio fuso le colarono sul mento.

«Attenta, O'Dell, ti stai sporcando come un bambinetta.»

Lei si leccò un lato della bocca.

«No, dall'altra parte. E anche sul mento.»

Maggie si guardò le mani, occupate con la pizza e il muc­chio di documenti.

«Lascia, faccio io» disse Nick. Il suo pollice sfiorò le labbra attardandosi sul mento, dove non c'era traccia di salsa.

Maggie si sorprese a fissarlo negli occhi, e capì che anche lui avvertiva la stessa elettricità. Le dita di Nick risalirono a carezzarle la guancia, poi tornarono alla bocca. Maggie si sco­stò.

«Grazie» disse a voce bassa. Afferrò un tovagliolo di car­ta e si strofinò il mento.

«Vado a prendere altri tovaglioli» annunciò lui balzando in piedi. Prese anche altre due lattine di Pepsi dal frigobar nel­l'angolo e quando tornò a sedersi si mantenne a distanza di sicurezza.

«Ci sono tantissime discrepanze» disse Maggie cercando di concentrarsi sui fogli. «Non capisco come abbiano potuto credere che Jeffreys fosse il responsabile di tutti e tre gli omi­cidi.»

«Anche i serial killer cambiano tecnica ogni tanto, non è così?»

«Sì, aggiungono dei dettagli, a volte fanno degli esperi­menti. Prendi Jeffrey Dahmer, per esempio. Ha sperimentato parecchi modi diversi per mantenere in vita le sue vittime, è persino arrivato a trapanare il cranio per paralizzarle senza ucciderle.»

«Forse anche Jeffreys si divertiva a fare esperimenti.»

«Può darsi, ma la cosa strana è che gli altri due omicidi, quelli di Harper e Paltrow, sono identici tra loro. Entrambi avevano le mani legate dietro la schiena, entrambi sono stati strangolati e poi sgozzati. Le ferite al petto erano identiche, anche nel numero, e il taglio a forma di X era stato fatto con lo stesso coltello. Nessuno dei due ragazzini aveva subito vio­lenza sessuale e tutti e due i corpi sono stati trovati in zone si­mili, lungo il fiume.»

Maggie esaminò di nuovo i documenti sul pavimento, stando bene attenta a non macchiarli di salsa. Nell'ultima mez­z'ora aveva cominciato a sentire tutto il peso della stanchez­za e faticava a interpretare le annotazioni scarabocchiate dal medico legale. George Tillie non era stato troppo accurato e solo il rapporto su Eric Paltrow riferiva che il corpo era stato ripulito dopo la morte. Nessuno dei due rapporti parlava di tracce oleose sulla fronte dei cadaveri o altrove.

«Il ragazzo Wilson invece...»

«Lo so» sospirò lui. «Aveva le mani legate davanti, con nastro adesivo e non con una corda. Ed era stato pugnalato a morte, non strangolato. Non c'erano ferite alla gola, ma mol­ti tagli in tutto il corpo.»

«Ventidue.»

«Già, ventidue. Ma nessuno a forma di X.»

«Ed era stato violentato ripetutamente.»

«Il cadavere fu trovato in un bidone della spazzatura e non nei boschi lungo il fiume.» Nick allontanò il piatto con la pizza e ingoiò il contenuto della lattina di Pepsi. «Dio santo, mi è passato l'appetito» esclamò pulendosi la bocca con il dor­so della mano. «E va bene, ci sono un sacco di discrepanze. Ma Jeffreys non potrebbe aver cambiato metodo? Anche la violenza, per esempio, non potrebbe essere una specie di esca­lation?»

«Sì, potrebbe, ma ricordati che la sequenza è stata Harper, Wilson, Paltrow. Ed è strano che un killer faccia degli espe­rimenti, aggiunga qualcosa alla sua tecnica e poi torni indie­tro. Prima usa un coltello affilato, da macellaio, poi passa a un coltello da caccia e torna di nuovo al coltello da macellaio? Molto improbabile. E anche lo stile è diverso. Gli omicidi Harper e Paltrow sono molto meticolosi. Tutti e due i ragazzini sono stati uccisi da qualcuno che non aveva fretta e che si di­vertiva a far soffrire le vittime. Come nel caso di Danny Alverez. Invece l'omicidio di Bobby Wilson sembra commesso in un accesso di furia, senza il tempo di badare ai dettagli.»

«Sai, se devo essere sincero fino in fondo, il caso Jeffreys mi è sempre parso troppo facile» sospirò Nick. «E mi sono do­mandato spesso se mio padre non fosse talmente preso dal cir­co dei mezzi di informazione da trascurare qualche aspetto.»

«Cosa vuoi dire?»

«A mio padre è sempre piaciuto essere al centro dell'at­tenzione. L'anno in cui cominciai a giocare come quarterback nel campionato universitario, veniva a vedere tutte le partite. La mamma diceva che lo faceva perché era fiero di me, ma il più delle volte per farsi inquadrare dalle telecamere dimenti­cava di parlarmi.»

Maggie ascoltò senza commentare.

«Non fraintendermi» continuò lui. «Non sto dicendo che mio padre abbia deliberatamente trascurato delle prove. Di­co solo che la soluzione del caso Jeffreys mi è sempre sembrata un po' troppo rapida. Un giorno c'è stata una soffiata anoni­ma e il giorno dopo Jeffreys confessava tutto quanto. Troppo semplice, no?»

«Che soffiata?»

«Fu una telefonata, mi pare. Non ne sono sicuro, perché all'epoca non vivevo qui. Nei rapporti non c'è niente?»

«Non ho trovato nessun accenno a una soffiata» disse Maggie passandogli la cartellina etichettata Arresto di Jeffreys. «Sono rapporti molto dettagliati, come vedi, e c'è anche l'e­lenco delle prove trovate nel bagagliaio della Chevrolet di Jef­freys: un rotolo di nastro adesivo, un coltello da caccia, un pez­zo di corda... ehi, aspetta un momento.» Controllò meglio. «E un paio di mutandine da ragazzo che più tardi vennero iden­tificate come appartenenti a Eric Paltrow.» Maggie fissò Nick. «Ma Eric Paltrow fu trovato con le mutandine addosso.»

Nick scosse la testa. «Scommetto che perfino Jeffreys fu stupito di trovare quella roba nella sua macchina.»

Rimasero a guardarsi in silenzio. Ormai era chiaro: Ro­nald Jeffreys era stato incolpato per due omicidi che non ave­va commesso. Probabilmente da qualcuno che lavorava nel­l'ufficio dello sceriffo.

29

Martedì 28 ottobre

Le due ore di sonno sulla poltrona dell'ufficio avevano lasciato il segno. Nick era indolenzito e di cattivo umore, anche per­ché non riusciva a togliersi dalla testa Maggie e il breve con­tatto che avevano avuto.

Fortunatamente, dalla doccia dell'ufficio usciva solo ac­qua fredda. Anche se era un inguaribile dongiovanni, Nick aveva delle regole ferree riguardo alle donne sposate. Pecca­to che il suo corpo continuasse a dirgli che quelle regole si po­tevano infrangere.

Maggie era tornata in albergo alle tre di notte per ripo­sarsi un po', fare una doccia e cambiarsi. Lui aveva ormai usa­to tutti gli abiti di ricambio che teneva in ufficio e aveva do­vuto ripiegare sull'uniforme, che per la verità era più adatta alla conferenza stampa del mattino.

Aveva parlato con determinazione, ma la conferenza si era presto tramutata in un linciaggio, grazie soprattutto al ti­tolo dell'articolo di Christine, L'UFFICIO DELLO SCERIFFO TRASCURA UNA TRACCIA NEL CASO ALVEREZ.

Eppure Nick aveva mandato Eddie a parlare con la Krichek dopo la prima telefonata. Perché diavolo non si era reso conto che dall'appartamento della donna si vedeva perfetta­mente il parcheggio dove Danny era stato rapito? Aveva vo­glia di strozzarlo, quell'idiota. O meglio, di offrirlo in pasto ai giornalisti come capro espiatorio.

E invece aveva dovuto esibire tutta la calma che era ri­uscito a trovare. Non era il momento di perdere le staffe, cosa che aveva rischiato un paio di volte durante la conferenza. Per fortuna O'Dell, con i suoi modi autoritari, aveva zittito gli interlocutori più accaniti, sfidandoli a rintracciare il furgonci­no blu, e spingendoli a dare la caccia al killer, anziché mette­re sotto accusa lo sceriffo per le sue mancanze. Nick comin­ciava a chiedersi che cosa avrebbe fatto senza di lei.

Svoltò nella strada in cui abitava Christine proprio quan­do il sole, apparso alla fine del pomeriggio, scendeva lenta­mente all'orizzonte. Accanto a lui, Maggie era immersa nei documenti del caso Alverez. In grembo aveva le Polaroid scat­tate all'obitorio e le confrontava con quelle fatte dal medico legale. Sembrava ossessionata dal suo incarico, come se trac­ciare il profilo dell'assassino fosse essenziale per la salvezza di Matthew Tanner. Ma dopo un intero pomeriggio di piste dubbie e di interrogatori inutili, Nick cominciava a temere che fosse troppo tardi. Non avevano trovato niente, nonostante le ricerche accurate. Forse il ragazzino era salito su un furgonci­no blu ed era sparito chissà dove, com'era successo a Danny secondo Sophie Krichek. E se era così, voleva dire che l'as­sassino era qualcuno di cui Matthew si fidava. Magari qual­cuno che lo stesso Nick conosceva... Quel pensiero gli dava i brividi.

Frenò un po' troppo bruscamente e le foto di Maggie cad­dero a terra.

«Scusa» disse chinandosi a raccoglierle. Le loro braccia si incrociarono, le teste si sfiorarono. Nick le porse le foto, lei lo ringraziò senza guardarlo. Era tutto il giorno che si compor­tavano con cautela, ma Nick non avrebbe saputo dire se era perché volevano evitare di parlare di quanto avevano scoperto sul caso Jeffreys, o semplicemente perché avevano paura di toccarsi.

Mentre erano quasi sulla porta della casa di Christine, il cellulare di Maggie squillò.

«Agente O'Dell» rispose.

Christine li fece entrare, prese Nick sottobraccio e lo por­tò in soggiorno, in modo che Maggie potesse fare tranquilla­mente la sua telefonata.

«Credevo che avresti annullato di nuovo» disse al fra­tello.

«Per via del tuo articolo?»

«No, perché sei oberato di lavoro» rispose lei. «Allora non sei arrabbiato?»

«La Krichek è matta come un cavallo.»

«A me è parsa perfettamente in sé, e quello che mi ha det­to era molto convincente. Dovreste cercare quel furgoncino blu.»

Nick non rispose e diede un'occhiata a Maggie, che cam­minava avanti e indietro nervosa.

«Sai che ti dico, Greg?» esclamò a un certo punto alzan­do la voce. «Vai al diavolo.» Poi chiuse il cellulare e se lo cac­ciò in tasca.

«Chi è Greg?» sussurrò Christine.

«Suo marito.»

«Non sapevo che fosse sposata. Ecco perché ti sei com­portato così bene con lei.»

«E questo che diavolo significa?»

«In caso non lo avessi notato, fratellino, quella donna è uno schianto.»

«Ma è anche un'agente dell'FBI, e i nostri rapporti sono strettamente professionali.»

«Anche con la bella avvocatessa dello studio del procu­ratore dovevi avere dei rapporti strettamente professionali, se ben ricordo.»

«Ma lei non era sposata.»

In quel momento Maggie entrò in soggiorno con la fron­te corrugata. «Scusatemi» disse. «Ultimamente mio marito ha la tendenza a farmi innervosire.»

«Questa è la ragione per cui mi sono liberata del mio» fe­ce Christine con un sorrisetto. «Nick, dai un bicchiere di vino a Maggie mentre io vado in cucina a controllare la pasta.»

E si allontanò lasciandoli soli. Nick riempì due bicchieri e si avvicinò a Maggie, che si era fermata accanto alla finestra.

«Nick, sei mai stato sposato?» domandò lei prendendo il bicchiere.

«No, ho fatto di tutto per evitarlo» rispose lui. E rimase accanto a Maggie, godendo della loro vicinanza e auguran­dosi che lei gli dicesse che il suo matrimonio stava andando a rotoli. Poi, per cancellare il senso di colpa, aggiunse: «Ho no­tato che non porti la fede».

Lei si guardò la mano e la mise in tasca. «Già, è in fondo al fiume Charles. Circa un anno fa stavamo recuperando un cadavere. L'acqua era gelida e la fede mi è scivolata.»

Tacque per un momento, mentre lui si domandava che ti­po fosse l'uomo che aveva conquistato il cuore di Maggie O'Dell. Un intellettuale snob, sicuramente. Uno che non guar­dava mai le partite di football in TV. «E non l'hai mai sosti­tuita?»

«No. Forse perché mi sono resa conto che tutto ciò che do­veva rappresentare aveva perso valore da tempo.»

«Zio Nick!» strillò Timmy saltandogli al collo. Nick sen­tì una fitta alla schiena, ma afferrò il nipote e fece un giro in­torno alla stanza, mentre le gambe penzoloni di Timmy mi­nacciavano di buttare all'aria i soprammobili.

«Smettetela, voi due» li rimproverò Christine dalla porta.

Nick mise il nipote a terra e sogghignò, cercando di igno­rare il dolore alle reni. Dio, come odiava questi segni dell'età.

«Maggie, ecco mio figlio Timmy. Timmy, ti presento l'a­gente speciale O'Dell.»

«Un agente dell'FBI come Mulder e Scully di X-Files esclamò il ragazzino.

«Sì, solo che non mi occupo di alieni. Anche se alcuni dei tipi a cui do la caccia sono piuttosto strani.»

Adesso Maggie sorrideva e sembrava più rilassata. Co­me mai i ragazzini avevano quell'effetto sulle donne? pensò Nick.

«Ho dei poster di X-Files nella mia camera, vuoi veder­li?» disse Timmy.

«Stiamo per andare a tavola» ammonì Christine.

«Ma qualche minuto l'abbiamo, vero?» intervenne Mag­gie. E si lasciò prendere per mano da Timmy e condurre via.

«È bello vedere che il nipote segue gli insegnamenti del­lo zio» commentò Nick ironico.

Christine alzò gli occhi al cielo e gli gettò uno strofinac­cio. «Piantala, e vieni piuttosto ad aiutarmi in cucina.»

30

Maggie non aveva tempo per la televisione e non aveva mai visto una puntata di X-Files, ma Timmy non sembrò preoccu­parsene troppo e una volta in camera prese a mostrarle tutti i suoi tesori, dai modellini di Guerre Stellari alla collezione di fossili che comprendeva un autentico dente di dinosauro. Il copriletto era decorato con immagini di Jurassic Park. Su uno scaffale della libreria c'erano I cavalieri della Tavola Rotonda e l'Enciclopedia del collezionista. Le pareti della stanza erano co­perte da un assortimento di poster, tra cui spiccavano X-Files, la squadra dei Cornhuske, Star Trek e Batman. Lei osservò tut­to, non da agente dell'FBI ma con la curiosità di una dodicenne derubata di una parte dell'infanzia.

Per un attimo ripensò alla telefonata con Greg, che ades­so l'accusava di trascurare sua madre. Inutile che Maggie gli ricordasse che era lei quella laureata in psicologia. Greg era arrabbiato perché non avevano potuto festeggiare il loro an­niversario e cercava di rifarsi in tutti i modi. Com'erano arri­vati a quel punto? si domandò Maggie.

La mano di Timmy che la trascinava verso il cassettone le tolse dalla testa i cattivi pensieri. «Guarda, mio nonno me l'ha portata dalla Florida» disse indicando una grossa con­chiglia. «Lui e la nonna viaggiano sempre. Puoi toccarla, se vuoi.»

Maggie lisciò la conchiglia e così facendo notò una foto appoggiata contro lo specchio. Una ventina di ragazzini in ma­gliette uguali stava in piedi accanto a una canoa. Lei riconob­be subito il primo a sinistra: era Danny Alverez.

«Da dove viene questa foto?» domandò.

«Oh, quella è del campeggio della parrocchia. La mam­ma mi ci ha fatto andare l'estate scorsa. Io credevo che fosse una barba e invece è stato molto divertente.»

«Questo non è Danny Alverez?» continuò lei. «Lo cono­scevi bene?»

«Non tanto. Lui era nella camerata dei Pettirossi, io in quella delle Ginestre.»

«Ma veniva nella tua chiesa?»

«No, credo che andasse nella chiesa della base aeronau­tica. Ehi, vuoi vedere la mia collezione di giocatori di base­ball?» chiese Timmy frugando in un cassetto. Lei però voleva saperne di più di quel campeggio. «In quanti eravate?» insi­sté.

«Non lo so. Tanti, perché venivamo da tante chiese di­verse.» Timmy aprì una scatola di legno. «Ne ho anche una di Darryl Strawberry da giovane.»

Maggie continuava a guardare la foto, che oltre ai ragaz­zini ritraeva due adulti. Uno era Ray Howard, il sacrestano di St. Margaret. L'altro era un uomo alto e attraente con i capel­li neri ondulati e una faccia da ragazzo.

«E questo chi è?» domandò Maggie.

«È Padre Keller. Un tipo proprio in gamba. Quest'anno sono uno dei suoi chierichetti. Non sono in tanti a riuscirci, perché lui è molto esigente.»

Maggie badò bene a non apparire preoccupata, ma solo blandamente interessata. «Ah, sì? E cosa pretende da voi?»

«Vuole che siamo affidabili e altre cose del genere, ma in cambio ci fa dei favori speciali.»

«Che tipo di favori?»

«Per esempio ci porta in campeggio questo giovedì e ve­nerdì, e poi a volte gioca a football con noi, e scambia delle fi­gurine dei giocatori di baseball. Una volta mi ha dato un Joe DiMaggio per un Bob Gibson, che vale molto meno.»

Maggie fece per rimettere a posto la foto, ma un'altra fac­cia attirò la sua attenzione e il suo cuore cominciò a battere forte. In seconda fila, nascosta in parte da un ragazzo più al­to, c'era la faccetta lentigginosa di Matthew Tanner. «Timmy, ti dispiace se prendo in prestito questa foto per qualche gior­no? Prometto di ridartela appena possibile.»

«Va bene. Porti la pistola?»

«Sì» fece lei sfilando la foto dalla cornice. Le sue mani tre­mavano leggermente.

«E ce l'hai anche adesso? Posso vederla?»

«Timmy, è pronto» li interruppe Christine. «Vai a lavarti le mani.»

Mentre lui usciva dalla stanza, Maggie si infilò in tasca la foto senza farsi vedere da Christine.

31

Dopo cena Nick insisté per lavare i piatti con Timmy. Christi­ne sapeva benissimo che era a puro beneficio di Maggie, ma accettò e portò in soggiorno le tazze di caffè, posandole sul ta­volino davanti al divano.

Maggie era parsa inquieta durante la cena e adesso cam­minava di nuovo avanti e indietro. Sembrava carica di ener­gia nervosa, nonostante l'evidente stanchezza.

«Si sieda» disse Christine. «Credevo di essere un tipo agi­tato, ma lei mi batte.»

«Mi scusi... devo aver passato troppo tempo con assassi­ni e cadaveri, e le mie buone maniere sono andate a farsi be­nedire.»

«Sciocchezze, ha solo passato troppo tempo con Nick.»

Maggie sorrise. «La cena era deliziosa. Era da tempo che non mangiavo così bene.»

«Grazie, ma è solo frutto di una lunga pratica. Ho fatto la casalinga e la moglie per anni, finché mio marito non ha de­ciso che preferiva le ventenni.» Christine si rese conto che sta­va rivelando troppi dettagli privati e metteva in imbarazzo l'ospite.

Quando finalmente Maggie decise di sedersi, preferì una poltrona al divano. Christine riconobbe il suo stesso deside­rio di evitare ogni forma di intimità. Si comportava così an­che lei, tranne che con suo figlio.

«Quanto si fermerà a Platte City?» domandò.

«Fino a quando sarà necessario.»

Non c'era da stupirsi che il suo matrimonio fosse in cri­si, pensò Christine. Come se leggesse nei suoi pensieri, Maggie si difese: «Tracciare il profilo di un criminale è una cosa che prende molto tempo, ed è meglio se si rimane nel suo am­biente».

«Spero che non le dispiaccia» disse Christine, «ma ho fat­to un po' di ricerche su di lei, e sono molto colpita. Lei ha una laurea in psicologia criminale, una specializzazione in psico­logia comportamentale e dopo otto anni a Quantico con l'FBI è già una delle loro migliori esperte. E ha solo trentadue an­ni. Deve essere una bella soddisfazione aver fatto tanto in co­sì poco tempo.»

Si aspettava che Maggie si schermisse, che fosse imba­razzata, ma invece aveva solo uno sguardo un po' fisso, come se i pazzi che aveva contribuito a catturare avessero lasciato un segno sulla sua psiche.

«Sì, forse dovrei sentirmi soddisfatta» ammise Maggie dopo un po'.

Non aggiunse altro, e allora Christine proseguì: «Nick non lo ammetterà mai, ma so che è molto contento di averla qui. Questa è un'esperienza nuova per lui. Sono sicura che non si aspettava niente del genere quando mio padre lo convinse a candidarsi per l'incarico di sceriffo».

«È stata un'idea di suo padre?»

«Era vicino alla pensione, ma era stato sceriffo così a lun­go che non sopportava l'idea di cedere il posto a qualcuno che non fosse un Morrelli.»

«Ma Nick era d'accordo?»

«Insegnava alla facoltà di legge, credo che fosse contento del suo lavoro...» Christine si interruppe. I rapporti tra suo pa­dre e suo fratello erano così complessi che lei stessa non li capi­va del tutto, e meno ancora poteva spiegarli a un'estranea.

«Suo padre deve essere un tipo notevole» commentò Mag­gie.

«Perché lo pensa?» Christine la guardò perplessa, do­mandandosi che cosa le avesse detto Nick.

«Tanto per cominciare, ha praticamente catturato Ronald Jeffreys da solo.»

«Sì, è stato un vero eroe.»

«E pare abbia una grande influenza sulle decisioni di Nick.»

Dunque sapeva qualcosa. A disagio, Christine si versò dell'altro caffè.

«Sa, credo che nostro padre voglia per Nick tutte le op­portunità che lui non ha potuto avere, tutte le cose che non ha potuto fare.»

«E lei?»

«Che vuol dire?»

«Suo padre vuole le stesse opportunità e le stesse cose an­che per lei?»

Accidenti, era brava. Se ne stava lì a bere caffè e intanto la metteva sotto torchio. «Io adoro mio padre, ma so benissi­mo che è un maschilista. Siccome ero una ragazza, qualsiasi cosa facessi gli è sempre andata bene. Per Nick è stata più du­ra, perché ha sempre dovuto dimostrare di essere il migliore, che gli piacesse o no. Per questo ce l'ha tanto con me.»

«No, ce l'ho con te per la tua lingua lunga» intervenne lui entrando nella stanza. Dietro le sue spalle, Timmy sogghi­gnava.

Lo squillo del telefono la salvò da una predica.

«Christine, sono Hal. Nick è ancora lì?»

«Sì. E la tua chiamata arriva giusto in tempo...» Fece una smorfia a Nick. «Ti sento malissimo» aggiunse. «Sei in mac­china?»

«Sì... posso parlare con Nick, per favore?» Hal sembrava piuttosto agitato e quando Nick le strappò la cornetta di ma­no lei rimase nelle vicinanze con la speranza di carpire qual­cosa, finché suo fratello non le gettò un'occhiataccia.

«Pronto, Hal, che succede?» Una pausa. «Non far avvici­nare nessuno.» Adesso la voce di Nick tradiva il panico. Mag­gie si alzò di scatto dalla poltrona.

Christine mise le mani sulle spalle di suo figlio. «Timmy, sali a prepararti per andare a letto.»

«Ma mamma, è prestissimo...»

«Ubbidisci, Timmy.»

Il ragazzino eseguì l'ordine a malincuore, mentre Nick continuava a parlare al telefono. «Circonda la zona e, te lo ri­peto, non lasciare avvicinare nessuno. L'agente O'Dell è qui con me. Arriviamo lì tra una ventina di minuti al massimo.» E riappese.

«Hanno trovato il cadavere di Matthew, vero?» doman­dò Christine.

Nick si voltò verso di lei come una furia. «Giuro che se scrivi una sola parola...»

«La gente ha il diritto di sapere.»

«Non prima della madre. Puoi avere la decenza di aspet­tare almeno questo?»

«Sì, ma a una condizione.»

«Gesù, Christine, ma ti rendi conto di quello che dici?» ruggì lui.

«Prometti di chiamarmi quando si può dare la notizia. È chiedere troppo?»

Nick scosse la testa e Christine cercò con lo sguardo Mag­gie, che se ne stava vicino alla porta senza intromettersi.

«Su, Nick» aggiunse con un sorriso per riportare la cal­ma. «Non è una richiesta così irragionevole. Non vorrai che mi accampi davanti alla porta di casa Tanner, no?»

Nick sembrava ammansito.

«Non azzardarti a parlare con qualcuno o a scrivere una riga prima di avere il mio permesso» esclamò. «E stai lontana da Michelle Tanner.»

Dopo di che uscì in fretta, seguito da Maggie.

Christine aspettò che le luci della jeep sparissero dietro l'angolo, poi afferrò il telefono.

«Agente Langston» rispose la voce all'altro capo.

«Hal, sono Christine. Nick e Maggie sono appena anda­ti via, ma Nick non è riuscito ad avvertire George Tillie e mi ha pregata di farlo al posto suo... Sai, il vecchio George po­trebbe dormire mentre gli sparano delle cannonate in casa.»

«E allora?» La domanda era sospettosa.

«Allora non mi ricordo che posto devo dirgli.»

Silenzio. L'aveva smascherata? Christine fece un tentati­vo. «So che è dalle parti di Old Church Road, ma...»

Hal cadde in trappola.

«Infatti. Di' a George di proseguire per circa un miglio ol­tre il cartello della strada statale. Può lasciare la macchina nel pascolo di Ron Woodson, da lì vedrà le nostre fotoelettriche vicino al fiume.»

«Grazie, Hal. So che sembra brutto dirlo, ma continuo a sperare che sia un ragazzino sconosciuto e non Matthew. Per amore della povera Michelle.»

«Capisco cosa vuoi dire, però non ci sono dubbi. È pro­prio Matthew. Be', devo andare.» E riappese.

Christine aspettò lo scatto del cellulare, poi fece il nume­ro di casa del suo caporedattore.

32

Aveva cominciato a nevicare e i fiocchi volteggiavano illumi­nati dai fari della jeep. In fondo alla discesa che portava al fiu­me le fotoelettriche creavano ombre spettrali fra gli alberi.

Nelle ultime due ore la temperatura era scesa rapidamente e il gelo penetrava attraverso la giacca di Maggie, che non ave­va pensato di mettere un cappotto in valigia e adesso rabbri­vidiva.

Presto la neve le si attaccò alle ciglia e ai capelli, aggiun­gendo al freddo l'umidità. Come se non bastasse, per arriva­re al luogo del ritrovamento dovevano camminare un bel po'. Dopo aver confuso le tracce del primo delitto, Nick aveva rad­doppiato le precauzioni e aveva ordinato ai suoi uomini di isolare una zona molto ampia.

Il sentiero tra gli alberi era ghiacciato. Nell'ultimo tratto, ancora più ripido, Nick scivolò atterrando sul fondoschiena. Imbarazzatissimo, si rialzò all'istante e rifiutò la mano tesa di Maggie.

Hal venne verso di loro a grandi falcate. Maggie notò che la sua faccia abbronzata aveva perso ogni colore. Anche gli oc­chi sembravano spenti. Era come se la scoperta del piccolo ca­davere avesse prosciugato in lui ogni scintilla di vita.

«Bob Weston sta mandando qui un'equipe della scienti­fica. Non far passare nessun altro, intesi?» gli disse Nick.

Hal si limitò ad annuire, poi li precedette fino a una ra­dura e si fermò. Un treno fischiò in lontananza. La neve con­tinuava a cadere sempre più fitta.

Il corpicino bianco era disteso sull'erba, nudo. Il torace era così piccolo che la ferita a forma di X arrivava fino alla vita. Le braccia erano allargate lungo i fianchi, i pugni chiusi. Non c'era stato bisogno di legargli i polsi: un bambino tanto minuto non avrebbe potuto opporre resistenza.

Maggie lasciò indietro i due uomini e si avvicinò lenta­mente a Matthew, quasi con reverenza. Il corpo era stato la­vato, come sospettava. Si inginocchiò e spazzò via la neve dal­la fronte. Sulle labbra bluastre e sul petto c'era una striscia di liquido oleoso.

Il cadavere era così magro e indifeso che Maggie provò l'impulso di coprirlo, per ripararlo dal freddo e per nascon­dere le ferite.

Questa volta non c'erano solo i tagli. C'erano anche dei segni all'interno della coscia, forse il morso di un animale: e doveva essere accaduto dopo la morte, perché non si vedeva­no tracce di sangue.

Maggie prese una pila ed esaminò meglio quei segni. Era­no stati lasciati da denti umani, sovrapposti gli uni agli altri come in un accesso di furia. Un fatto nuovo, pensò. L'assassi­no aggiungeva particolari e stava diventando meno pruden­te. Aveva rapito il ragazzo soltanto due giorni prima. Forse gli articoli sul giornale lo innervosivano?

Sentì un'insolita fitta allo stomaco. Aveva smesso di sta­re male sulla scena di un delitto da molti anni e aveva consi­derato quel distacco come il passaggio a un livello superiore. Ma forse Albert Stucky aveva davvero smantellato il suo si­stema di difesa.

Stava per rialzarsi in piedi quando notò un pezzetto di carta fra le piccole dita. Matthew aveva qualcosa stretto in pu­gno. Si guardò alle spalle. Nick e Hal erano ancora dove li ave­va lasciati e stavano aspettando cinque uomini con le giacche a vento blu dell'FBI che scendevano verso di loro.

Aprì cautamente il pugno ormai irrigidito e prese il pez­zetto di carta. Era poco più di un angolo strappato, ma lei non aveva bisogno di esaminarlo per sapere che cos'era. Un'ora prima aveva visto decine di quei rettangolini colorati sparsi sul letto di Timmy.

Matthew Tanner era morto stringendo il brandello di una figurina di baseball, e Maggie era sicura di sapere a chi ap­parteneva.

33

L'équipe della scientifica prese a lavorare in fretta, perché or­mai la neve cadeva sempre più fitta e minacciava di seppelli­re le prove.

Maggie e Nick stavano rannicchiati al riparo degli albe­ri. Lei teneva le mani in tasca, badando a non spiegazzare la foto che aveva preso in prestito da Timmy. Hal aveva pro­messo di portare delle giacche a vento e dei maglioni, ma tar­dava ad arrivare e Maggie si sentiva paralizzata dal freddo.

«Forse faremmo meglio ad andarcene» disse Nick. Il fia­to si condensava in nuvolette bianche mentre parlava. «Qui non possiamo fare molto.»

«Vuoi che venga con te da Michelle Tanner?» domandò lei.

«Non so che fare... vorrei evitare di svegliarla nel mezzo della notte, e può anche darsi che ci voglia un po' prima che portino il corpo all'obitorio. Ma d'altra parte lei vorrà veder­lo. Laura Alverez ha insistito per identificare Danny. Si rifiu­tava di credermi finché non l'ha visto con i suoi occhi. Che ne dici se aspettiamo fino a domattina?»

«Non è un cattiva idea. Domani avrà intorno qualche per­sona in più a cui appoggiarsi.»

«Va bene. Dico a quelli della scientifica che ce ne andia­mo.»

Nick si alzò per allontanarsi, ma Maggie lo afferrò per un braccio. Qualche metro dietro di loro si vedevano delle im­pronte di piedi nudi sulla neve. Fresche, appena fatte.

«Aspetta» gli sussurrò. «È qui.» Ma certo, si disse, come mai non ci aveva pensato? Era perfettamente logico.

«Di che stai parlando?»

«Dell'assassino. È qui.» E continuò a stringere il braccio di Nick per trattenerlo.

«Lo vedi?» bisbigliò lui.

Maggie si guardò intorno, cauta. «No, ma sono sicura che è qui. Stai calmo e parla a bassa voce. Forse ci sta osservan­do.»

«Secondo me ti si è congelato il cervello» fece Nick, pur continuando a bisbigliare. «Qui attorno c'è almeno una tren­tina di agenti.»

«Dietro di te, vicino a quell'albero con il nodo nel tronco, ci sono delle impronte di piedi nudi. Guardale senza farti no­tare.»

Nick si voltò piano. «Gesù» esclamò. «Con la neve che ca­de così fitta devono essere molto recenti. Quel figlio di putta­na era proprio dietro di noi. E adesso che accidenti facciamo?»

«Tu stai qui e aspetta Hal, io torno su per il sentiero co­me se stessi andando alla macchina. Deve essere ancora nel perimetro degli agenti e non può battersela senza passare vi­cino a uno di loro. Da lassù forse riesco a vederlo.»

«Vengo con te.»

«No, se ci sta guardando c'è il rischio che se ne accorga. Aspetta Hal, mi servite tutti e due qui come copertura.»

«E come facciamo a sapere dove sei?»

«Te lo segnalo in qualche modo... magari sparo un colpo in aria. Fai solo in modo che i tuoi uomini non sparino a me.»

«Come se potessi controllarli a uno a uno...»

«Guarda che non sto scherzando, Morrelli.»

«Nemmeno io» rispose Nick serissimo.

Vagabondare in un bosco pieno di poliziotti forse era una stupidaggine. Ma se l'assassino era ancora là, Maggie non do­veva lasciarselo scappare. Ed era là, se lo sentiva. Li stava os­servando. Non poteva farne a meno perché faceva parte del suo rituale.

Maggie cominciò a risalire il sentiero ghiacciato, cammi­nando a fatica nei mocassini incrostati di neve. Sentiva l'a­drenalina pompare nelle vene, ma dopo qualche minuto si ri­trovò senza fiato.

Si aggrappò a un ramo, però quello si spezzò e lei scivolò per un tratto sbattendo il fianco contro un albero. Si rad­drizzò artigliando il tronco con le mani intorpidite dal fred­do. Sentiva delle voci sopra di sé, segno che ormai stava arri­vando sul crinale della collinetta.

In basso vedeva Nick e Hal che parlottavano, e al di là de­gli alberi gli agenti della scientifica che raccoglievano prove, chinati sul corpicino livido di Matthew. Poco oltre, le acque nere del fiume scorrevano veloci.

A metà della salita, qualcosa si mosse. Maggie si immo­bilizzò. L'aria era così gelida che faticava a respirare. Che aves­se immaginato tutto?

Un ramoscello cadde poco sotto di lei, e allora lo vide. L'uomo si premeva contro un albero come se volesse pene­trare nel tronco, e in effetti quasi si confondeva con il legno, alto, sottile, vestito di scuro tranne i piedi nudi. Era venuto a osservare il lavoro della scientifica e adesso, strisciando da un albero all'altro, cercava di aggirare la zona delimitata dalla po­lizia per andarsene.

Maggie iniziò a scendere e la neve scricchiolò sotto i suoi piedi. Il rumore le sembrò assordante, ma nessuno lo sentì, nemmeno l'ombra che si stava rapidamente avvicinando alla riva del fiume.

Con il cuore che batteva sordo contro le costole, Maggie estrasse la pistola. Le sue mani tremavano, ma lei preferì pen­sare che era colpa del freddo.

Continuò a seguire l'uomo nella boscaglia, fermandosi quando lui si fermava e appiattendosi come poteva contro gli alberi per non farsi vedere. Ormai erano su un tratto di terre­no piano, gli agenti della scientifica erano parecchio dietro di loro.

D'improvviso l'uomo si voltò a guardare nella sua dire­zione. Maggie si bloccò. Il vento fischiava intorno alla sua te­sta e il fiume che scorreva poco oltre portava con sé un odore putrido di decomposizione.

Maggie aspettò qualche istante, poi si sporse dal suo ri­fugio, ma non riuscì a vedere nulla. L'uomo era sparito. Si sen­tivano solo le voci confuse dei poliziotti lontani e nient'altro. Il resto era silenzio.

Come poteva essersi volatilizzato così, in pochi secondi? Maggie fece due passi avanti e cercò di vedere qualcosa nel buio fitto. Avvertì un movimento e puntò la pistola, ma era un ramo che oscillava nel vento.

Nonostante il freddo aveva le mani sudate. Strinse la pi­stola e continuò a camminare con prudenza. Ormai il fiume era molto vicino, non c'erano argini, solo alberi che sembra­vano sorgere direttamente dall'acqua.

Sì sentì lo schioccare di un altro ramoscello spezzato, poi dei passi affrettati. Maggie si voltò di scatto e lo vide di nuo­vo, una grossa ombra scura che correva dritta verso di lei.

Sparò un colpo in aria come avvertimento, poi abbassò la pistola e prese la mira, ma prima che potesse premere il gril­letto l'ombra le balzò addosso ed entrambi finirono nel fiume.

L'acqua gelida le tolse il fiato. Maggie strinse la pistola e cercò di puntarla sull'ombra che riaffiorava poco lontana da lei. Avvertì una fitta alla spalla, cercò di scostarsi per prende­re di nuovo la mira, ma sentì il dolore acuto di una punta me­tallica che le penetrava nella carne. Allora capì di essere fini­ta in un groviglio di assi e chiodi.

Poi sentì delle voci e le fotoelettriche la accecarono. In quelle luci lei cercò ancora di vedere l'ombra scura, ma ormai non c'era più. L'uomo era scomparso.

34

L'acqua gelida lo tramortiva, i muscoli gli facevano male per lo sforzo, i polmoni minacciavano di scoppiare, ma lui conti­nuava a restare sott'acqua mentre la corrente lo trasportava lontano. Non lottava, anzi, si lasciava cullare, e salvare una volta di più.

I poliziotti erano ancora vicini, troppo vicini. Lui vedeva le luci saettare sulla superficie, ai lati e sopra di lui. Sentiva le loro voci. Ma nessuno si era tuffato in acqua, nessuno tranne l'agente O'Dell, che però era rimasta imprigionata per bene nel piccolo regalo che lui le aveva preparato. Così le sarebbe servito di lezione. Credeva di potergli scivolare alle spalle e di intrappolarlo, quella stupida? Aveva solo avuto quel che si meritava.

Finalmente le luci si puntarono su di lei e l'uomo emerse per prendere fiato. Il passamontagna nero gli si era incollato alla faccia, ma non osò toglierlo, e dopo un momento si ab­bandonò di nuovo alla corrente. Gli agenti si stavano affan­nando per ripescare la donna. Lui sorrise compiaciuto. Alla coraggiosa e astutissima agente O'Dell non sarebbe affatto pia­ciuto trovarsi in quella situazione. Fradicia, impotente e biso­gnosa di aiuto.

Le stava bene, a quella maledetta che credeva di poter pe­netrare nella sua mente senza che lui le rendesse la pariglia. Però doveva ammetterlo: in fondo era contento di avere fi­nalmente un'avversaria di classe, invece di quei poveri pro­vinciali che non sapevano da che parte cominciare.

Qualcosa galleggiò accanto a lui, un piccolo oggetto nero. Non sembrava qualcosa di vivo e allungò il braccio per prenderlo. Mentre lo toccava un coperchio si aprì e una lucetta verde si accese, spaventandolo. Era un cellulare. Peccato la­sciarlo andare perso, pensò ficcandoselo in tasca.

Riuscì ad avvicinarsi alla riva e poco dopo trovò il pun­to che si era segnato, afferrò il ramo che pendeva sopra l'ac­qua e vi si aggrappò.

L'acqua spingeva e tirava con violenza e le dita congela­te gli dolevano, ma lui non mollò la presa. Ancora un breve tratto e finalmente i suoi piedi, ormai resi insensibili dal fred­do, incontrarono la terraferma.

Corse sull'erba ghiacciata. I fiocchi di neve gli cadevano tutt'intorno come piccoli angeli custodi nella notte scura.

Trovò il suo nascondiglio in una macchia di rovi: i rami coperti di neve facevano un piccolo tetto. Si accucciò per ri­prendere fiato, ma uno squillo lo fece sobbalzare.

Era il cellulare nella sua tasca. Lo prese e lo fissò senza sapere che cosa fare, mentre quello squillava altre due, tre, quattro volte. Finalmente aprì il coperchio e gli squilli cessa­rono. Una voce concitata disse: «Pronto? Pronto?»

«Pronto» rispose lui.

«È il telefono di Maggie O'Dell?»

«Sì. Le è caduto poco fa.»

«Posso parlarle, per favore?»

«Al momento è impegnata» disse lui trattenendo a sten­to una risata.

«Allora le riferisca che ha chiamato suo marito per dirle che sua madre sta molto male e che deve mettersi in contatto con l'ospedale. Ha capito?»

«Sì.»

«Non se ne dimentichi» abbaiò la voce. E chiuse.

Lui tenne il cellulare all'orecchio per un attimo, ma ave­va troppo freddo per perdere tempo con il nuovo giocatto­lo. Si sfilò la tuta da ginnastica nera e il passamontagna: la peluria delle braccia e delle gambe subito si gelò. Si asciu­gò in fretta, indossò un paio di jeans e un pesante pullover di lana, poi gettò gli indumenti bagnati in un sacco di pla­stica.

Infine si sedette su un predellino per allacciarsi le scarpe da tennis, salì sul vecchio furgoncino e girò la chiavetta. Il mo­tore sputacchiò un paio di volte, poi partì. Guidò verso casa tremando di freddo, mentre l'unico faro illuminava la neve che continuava a cadere.

35

Al momento gli era parsa una buona idea. Nick abitava poco lontano e Maggie era fradicia, ferita e sanguinante. Ma ades­so, mentre stendeva gli abiti di lei ad asciugare nella lavan­deria, cominciava a domandarsi se non era stato un errore. Ta­stò la biancheria di Maggie, respirò il suo profumo ed ebbe un piccolo brivido. Ridicolo. Nonostante la fatica delle ultime ore si sentiva eccitato.

Aveva lasciato Maggie nella stanza da letto, poi era an­dato a farsi una doccia nel bagno al pianterreno e aveva ac­ceso il fuoco nel camino. Al piano di sopra, lei si stava an­cora lavando. Nick si domandò se era tutto a posto. Maggie ostentava calma, ma era visibilmente sotto shock, e le feri­te dovevano farle un male d'inferno. Quel bastardo era ri­uscito ad attirarla in un groviglio di chiodi e fil di ferro ar­rugginito.

Nick aprì l'armadietto del pronto soccorso e si armò di cotone, alcol, garze e cerotti, poi portò il tutto davanti al ca­mino, insieme con alcuni cuscini e una coperta. I ceppi che aveva accatastato poco prima bruciavano a tutta forza, riem­piendo la stanza di calore. Per una volta, si disse, avrebbe igno­rato le sue reazioni fisiche e si sarebbe comportato da genti­luomo.

Si girò sentendo i passi di Maggie che scendeva la scala, con i capelli ancora bagnati e il suo vecchio accappatoio ad­dosso. Avanzava a passi incerti, come se la doccia avesse la­vato le sue difese residue. Ma non appena vide le bende e i ce­rotti scosse la testa e fece un cenno negativo con la mano. «Mi sono ripulita quanto basta» disse. «Non c'è proprio bisogno di altro.»

«Se non ti lasci medicare dovrò portarti all'ospedale» re­plicò Nick. «Quel fil di ferro era arrugginito. Quando hai fat­to l'ultima antitetanica?»

«Non lo so, ma sono sicura che è ancora valida. Ci fanno tutte le vaccinazioni ogni tre anni, anche quando non sono ne­cessarie.»

Lui non le diede retta e aprì il flacone di disinfettante. «Siediti» le ordinò.

Troppo stanca per protestare, Maggie ubbidì. Allentò la cintura dell'accappatoio e lo lasciò scivolare sulla spalla fe­rita.

Nick trattenne il respiro. Come avrebbe potuto toccarla senza desiderare di andare oltre? pensò. Eppure doveva far­lo. Doveva concentrarsi e ignorare il desiderio con tutte le sue forze.

Sei tagli triangolari deturpavano la spalla e l'avam­braccio. Un paio di ferite sanguinavano ancora, da una pen­deva un brandello di pelle. Nick picchiettò il primo taglio con il cotone intriso di alcol. Lei sobbalzò senza emettere suono.

«Ti ho fatto male?» si preoccupò lui.

«Un po'. Fa' in fretta, se puoi.»

Lui continuò, veloce e delicato. Ripulì le ferite, applicò garze e cerotti, e alla fine, incapace di trattenersi, diede una lunga carezza alla spalla e al braccio.

Lei esitò un istante, poi si coprì la spalla e strinse la cin­tura dell'accappatoio. «Grazie» disse evitando di guardare Nick.

«Abbiamo ancora un bel po' di ore prima che faccia gior­no» osservò lui. «Potremmo riposarci qui davanti al fuoco. Vuoi qualcosa da bere? Un brandy, una tazza di cioccolata cal­da?»

«Un brandy mi farebbe piacere.»

«E qualcosa da mangiare? Una minestra, o magari un sandwich?»

«No, grazie.»

«Sei sicura?»

Lei sorrise. «Com'è che cerchi sempre di nutrirmi, Morrelli?»

«Forse perché non posso fare le cose che vorrei.»

Il sorriso di lei scomparve. Davvero non provava niente? si chiese Nick.

Si alzò e andò a rifugiarsi in cucina.

36

La fotografia recuperata dalla tasca della giacca era accartoc­ciata, ma ancora visibile. Maggie pensò che avrebbe dovuto trovare il modo di fare una copia nuova per Timmy, anche se non sapeva a chi rivolgersi. Per fortuna non era caduta in fon­do al fiume come il cellulare... Evidentemente era destinata a perdere le cose nell'acqua.

Nick era ancora in cucina e Maggie si domandò se stesse per caso preparandole un sandwich. La sua ultima frase ave­va risvegliato in lei un pericoloso turbamento e trovarsi se­duta davanti a un camino acceso, e con il solo accapatoio ad­dosso, non l'aiutava. Doveva però ammettere che Nick si sta­va comportando da perfetto gentiluomo.

Era di se stessa che non si fidava. Poco prima, mentre Nick la medicava, era persino arrivata ad apprezzare il bruciore del­l'alcol perché la distraeva dal tocco di lui. E quando alla fine Nick le aveva accarezzato il braccio, lei aveva sperato che continuasse, che non smettesse più. Come sarebbe stato sentire le mani di Nick sul collo, sulla gola, sui seni?

Nick ritornò dalla cucina e lei si coprì il viso con le mani. Il calore del fuoco avrebbe giustificato il suo rossore, pensò.

«È questa la foto di cui mi parlavi?» domandò Nick se­dendole accanto. Le porse il bicchiere di brandy, poi prese un plaid dal divano e lo gettò sulle loro gambe, come se fosse del tutto naturale che stessero accoccolati davanti al fuoco sotto la stessa coperta.

«La caldaia non funziona» spiegò, con un lieve imbaraz­zo. «Avrei dovuto farla riparare, ma non immaginavo che in ottobre facesse così freddo.»

Maggie gli diede la foto, poi bevve un sorso di brandy e appoggiò la testa all'indietro, chiudendo gli occhi. Sapeva che con qualche sorso in più ogni tensione sarebbe scomparsa: purtroppo in quei momenti capiva anche troppo bene la fuga di sua madre nell'alcol. Non c'era dolore, se non potevi sen­tirlo. Non c'era pena, se eri troppo intontita per provarla.

«Sono d'accordo» disse Nick, interrompendo i pensieri di Maggie e riprendendo il filo di un discorso che avevano co­minciato mentre venivano a casa. «L'estrema unzione, le cro­ci strappate sono coincidenze troppo strane. Ma non posso fer­mare Ray Howard e interrogarlo senza ragione, ti pare?»

Maggie riaprì gli occhi. «Non Howard. Padre Keller.»

«Cosa dici? Sei impazzita? Non crederai che un prete cat­tolico, e per di più come Padre Keller, possa ammazzare dei ragazzini.»

«Corrisponde esattamente al profilo. Dovrei scoprire del­l'altro sulla sua infanzia, sulla sua vita, ma in effetti sì, credo che un prete cattolico sia capacissimo di ammazzare dei ra­gazzini.»

«Io no. E in città mi appenderebbero per i pollici se fer­massi Padre Keller, che per tutti è una specie di Superman in tonaca. Sei fuori strada, O'Dell.»

«Pensaci bene. Hai detto tu stesso che Danny Alverez non aveva lottato, e questo perché Padre Keller era qualcuno di cui si fidava. E Padre Francis ci ha detto che è improbabile che un laico sotto i trentacinque anni - cioè dopo il concilio Vati­cano II - sappia come amministrare l'estrema unzione.»

«Ma Keller è l'eroe dei ragazzini di Platte City. Come puoi pensare che faccia una cosa del genere senza che loro avver­tano qualcosa di strano?»

«Può succedere. E poi ho trovato l'angolo di una figuri­na di baseball stretta nel pugno di Matthew, e stasera Timmy mi ha detto che Padre Keller scambia sempre le figurine con loro.»

Nick si ravviò il ciuffo sulla fronte. «E va bene» disse do­po un po', «controlla i suoi precedenti. Ma prima di interro­garlo ho bisogno di qualcosa di più che una fotografia accar­tocciata e l'angolo strappato di una figurina. Nel frattempo io controllerò Howard, perché devi ammettere che anche lui è un tipo strano. A chi mai verrebbe in mente di indossare ca­micia bianca e cravatta per far le pulizie in chiesa?»

«Vestirsi in modo inadatto al proprio lavoro non è un rea­to. Altrimenti ti avrebbero arrestato da tempo.»

Nick non poté impedirsi di sorridere. «Senti, è molto tar­di e siamo tutti e due sfiniti. Perché non cerchiamo di dormi­re un po'?» disse. Distese le gambe sotto il plaid, prese un te­lecomando dal tavolino e premette alcuni pulsanti. Le luci nel­la stanza si abbassarono. Un'organizzazione perfetta per le se­rate romantiche davanti al caminetto, pensò Maggie. Si ab­bandonò per un istante, poi, di colpo, reagì: «È meglio che tor­ni al mio albergo».

«Non dire sciocchezze, O'Dell» replicò rapido Nick. «I tuoi vestiti sono ancora bagnati, non puoi andartene. E se è questo che ti preoccupa, sono troppo stanco per farti delle avances.»

«No, non è questo» disse altrettanto rapida Maggie. E si domandò perché lei invece non fosse affatto stanca, perché ogni suo muscolo e ogni suo nervo sembrassero tesi a coglie­re la vicinanza di lui. Che diavolo le stava succedendo? Non le importava più niente di Greg?

«Il fatto è che di solito non dormo, e non vorrei tenerti sveglio.»

«Che vuol dire che non dormi?» domandò Nick corican­dosi. Aveva gli occhi chiusi e lei notò le sue ciglia lunghissi­me.

«È da circa un mese che non riesco a dormire. E se mi ad­dormento ho dei terribili incubi.»

«Già, immagino che con tutte le cose che sei costretta a vedere sia difficile non avere degli incubi. O ti è successo qual­cosa?»

Lei lo guardò. Nonostante l'ombra di barba c'era un che di fanciullesco nella bella faccia di lui, smentito dai muscoli possenti che si intravvedevano sotto il tessuto leggero della camicia. Era pazzesco, pensò Maggie. Doveva smetterla di os­servarlo in quel modo.

Poi si rese conto che lui la fissava preoccupato, in attesa di una risposta. «Ti è successo qualcosa?» le domandò di nuo­vo.

«Non mi va di parlarne.»

Nick si rizzò a sedere. «Io conosco un rimedio per gli in­cubi. Con Timmy, quando si ferma a dormire qui, funziona be­nissimo.»

«Allora non può essere il brandy» sorrise lei.

«No. Si tratta di tenersi abbracciati stretti a qualcuno men­tre ci si addormenta.»

Lei abbassò gli occhi. «Non credo che sia una buona idea.»

«Maggie» fece lui serissimo, «questo non è un trucchetto per starti vicino. Voglio solo aiutarti. Che cos'hai da perdere se provi?»

Lei non rispose, e allora Nick si avvicinò con gentilezza, la cinse con un braccio e le fece appoggiare la testa sul suo petto.

Maggie sentiva il cuore di lui battere contro l'orecchio, e il suo batteva così forte che le era difficile distinguere tra i due. La peluria era meravigliosamente ruvida contro la guancia.

Nick posò il mento sui capelli di lei. «Adesso rilassati» disse. «E pensa che niente può colpirti senza prima passare at­traverso di me. Fidati, vedrai che funziona...»

Lei ne dubitava, ma chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. E poco dopo, incredibilmente, il sonno arrivò.

37

Maggie si svegliò con la testa pesante e le ossa indolenzite. Aveva freddo, il fuoco si era spento e Nick non era più accanto a lei. Si guardò intorno nella stanza buia e lo vide addormen­tato sul divano.

Poi, un lampo di luce passò davanti alla finestra. Lei si gi­rò di scatto e vide un'ombra scura che passava all'esterno, con una torcia elettrica. L'assassino li aveva seguiti dal fiume?

Con il cuore in gola chiamò Nick, ma lui non rispose. Do­ve aveva lasciato la pistola? pensò. Su un tavolino ai piedi del­le scale, l'aveva tolta e appoggiata lì appena entrata in casa. Stando curva sulle ginocchia andò fino alla scala. Il tavolino non c'era più. Era stato spostato da qualche parte, ma nella stanza buia lei non riusciva a scorgerlo.

Senza il fuoco acceso faceva così freddo che le sue mani tremavano. Nel silenzio si sentì il lieve scatto della serratura. Maggie vide il pomolo che girava. Allora cercò un'arma qual­siasi, qualcosa di pesante o di tagliente. Alla fine prese una lampada con la base di metallo e strappò via l'abat-jour. La serratura scattò di nuovo, ma non si aprì, perché la porta era stata chiusa a chiave dall'interno.

Maggie tornò in punta di piedi accanto al divano. «Nick» sussurrò scuotendolo. «Nick, svegliati.»

Il corpo di lui rotolò sul pavimento. Lei guardò i suoi oc­chi azzurri che la fissavano, poi la gola squarciata da un ta­glio che sanguinava ancora e a stento soffocò un grido.

La stanza fu di nuovo attraversata da un lampo di luce. Alzando gli occhi, Maggie vide l'ombra che la fissava dalla finestra, sorridendo beffarda. Era una faccia che conosceva. La faccia di Albert Stucky.

Si svegliò agitando braccia e gambe e ansimando terro­rizzata. Nick le afferrò i polsi. «Maggie, stai calma» disse ras­sicurante. «Stai tranquilla, Maggie. Ci sono io con te.»

Lei si calmò e lo guardò. Gli occhi azzurri erano preoc­cupati, ma vivi. La stanza era illuminata dalle fiamme del ca­mino, ed era molto calda. Fuori della finestra la neve cadeva fitta. Niente lampi di luce, niente Albert Stucky.

«Stai meglio?» domandò lui accarezzandole i capelli.

Maggie sospirò. «Mi hai mentito, non ha funzionato.»

Lui sorrise. «Mi dispiace. Hai dormito tranquilla per un po', ma forse non ti tenevo abbastanza stretta.»

Lei si rilassò e Nick continuò ad accarezzarla, le mani, poi i polsi e le braccia, risalendo dentro le maniche dell'accappa­toio e scaldandola con il suo tocco lieve.

Ma il gelo che Maggie sentiva le veniva da dentro, si era insinuato sotto la sua pelle, scorreva come ghiaccio nelle sue vene. Si appoggiò al petto di Nick e slacciò a uno a uno i bot­toni della camicia. Sentì che il corpo di lui si irrigidiva. Senza lasciarsi intimidire, scostò i lembi della camicia e rimase ad ascoltare il battito del suo cuore, assorbendo il suo calore e sperando che lui capisse.

Nick le cinse la vita tenendola stretta. Molto stretta.

38

Christine cliccò sul pulsante INVIA. Tra pochi minuti il suo articolo sarebbe uscito dalla stampante della redazione, per poi passare alle presse che erano ferme in attesa. Nemmeno nei suoi sogni più audaci aveva mai immaginato niente del genere.

Era stanchissima, ma l'adrenalina l'aveva aiutata a pen­sare e a scrivere l'articolo. Asciugò le mani sudate sui panta­loni, poi chiuse il computer portatile e staccò la spina. Non ca­piva un accidente della tecnologia moderna, ma era contenta che permettesse a suo figlio di dormire tranquillamente nella stanza accanto alla sua, mentre lei digitava il suo quinto arti­colo da prima pagina. Chissà qual era il record dell'Omaha Journal in materia?

Diede un'occhiata all'orologio. Il giornale sarebbe usci­to con circa un'ora di ritardo, ma il caporedattore Corby le aveva dato carta bianca senza battere ciglio. Christine bev­ve il resto del caffè ormai freddo e sollevò il computer dal­la scrivania, facendo cadere un mucchietto di lettere. Men­tre le raccoglieva il suo buon umore svanì. Alcune erano bol­lette che lei non poteva permettersi di pagare, e una, anco­ra da aprire, conteneva formulari in triplice copia separati da fogli di carta carbone. Come si poteva rispettare uno sta­to che usava ancora la carta carbone? Come si poteva spe­rare che un sistema così obsoleto riuscisse a rintracciare un ex marito e lo costringesse a pagare gli alimenti per Timmy? Era già abbastanza brutto che Bruce facesse del male a lei, ma fare del male a suo figlio e rifiutare di pagare quello che gli era dovuto...

Christine cacciò le buste dietro una lampada, cercando di dimenticarle almeno per il momento. La sua nuova posi­zione al giornale le aveva fruttato solo un piccolo aumento, e ci sarebbero voluti mesi prima che facesse una qualche dif­ferenza.

Certo, poteva vendere la casa, pensò sedendo sul divano e osservando le pareti che aveva tappezzato lei stessa con tan­ta fatica. Aveva anche staccato la vecchia moquette ammuffi­ta e scartavetrato il pavimento di legno fino a specchiarsi. Fuo­ri, aveva tagliato, potato e sradicato piante nel vecchio corti­le, mettendo cespugli di rose e costruendo con le sue mani un muro di mattoni che lo trasformasse in un rifugio fiorito. Con che coraggio si sarebbe disfatta di tutto questo? Aparte Timmy, la casa era l'unico bene che aveva.

Nick non poteva capire. Lei non godeva del suo inaspet­tato successo per stupido narcisismo, ma perché rappresenta­va la salvezza, in ogni senso. Per una volta faceva qualcosa per se stessa. Non come figlia di Tony Morrelli, o come mo­glie di Bruce Hamilton, o come madre di Timmy, ma come Christine Hamilton. Ed era una bella sensazione.

Per anni aveva recitato una parte, facendo la brava mo­glie e la brava madre, cercando di far felice quel bastardo di suo marito. Sapeva della relazione con la ventenne da più di un anno, perché era difficile ignorare i conti della carta di cre­dito per alberghi in cui lei non aveva mai messo piede e per fiori che non aveva mai ricevuto. Ma si diceva che se suo ma­rito aveva una relazione con una donna più giovane era col­pa sua, lo faceva perché gli mancava qualcosa che lei non era capace di dargli...

Arrossiva ancora pensando alla costosa biancheria di piz­zo che si era comprata nel tentativo di risvegliare il suo inte­resse. I loro amplessi, che non erano mai stati niente di straor­dinario, erano diventati rapidi e deludenti. Bruce la prende­va brutalmente, come se volesse punirla dei peccati che lui commetteva, poi si girava e si addormentava di colpo. E spes­so lei aspettava di sentirlo russare, poi si alzava e andava in bagno, si toglieva la biancheria macchiata e piangeva sotto la doccia, pensando che se suo marito non l'amava più il torto era solo suo.

Christine si accoccolò sul divano e si coprì con un plaid. Ormai non era più quella povera donnetta debole e ossessi­va. Era una giornalista di successo e si sarebbe concentrata solo ed esclusivamente su quello, il successo. Finalmente, do­po tanti fallimenti.

39

Mercoledì 29 ottobre

Maggie si era offerta di accompagnare Nick da Michelle Tanner, ma lui aveva preferito andarci da solo e lasciarla al suo albergo. Nonostante la loro intimità notturna - o forse proprio per questo - durante il tragitto lei gli riservò un silenzio osti­nato.

Un agente dell'FBI non poteva lasciarsi coinvolgere emo­tivamente da una persona o da un ambiente. E poi lei era pur sempre una donna sposata, anche se non felicemente, ed era oltremodo inopportuno, oltre che idiota, cadere nella trappo­la di un dongiovanni di provincia che si riempiva la casa di giochetti elettronici.

Ripetendosi il predicozzo, Maggie entrò nella hall del­l'albergo. L'impiegato guardò con occhi sbarrati gli abiti spor­chi, la manica strappata, le macchie di sangue. «Santo cielo, agente O'Dell, sta bene?»

«Sì, grazie. Ci sono messaggi per me?»

Lui si voltò rischiando di rovesciare la sua tazza di cap­puccino e prese dalla casella un mucchietto di fogli e una bu­sta chiusa con l'indirizzo AGENTE O'DELL scritto in stampa­tello.

«E questa com'è arrivata?» domandò lei.

«Qualcuno deve averla messa tra la posta durante la not­te. L'ho trovata stamattina.»

Maggie finse che non fosse importante e domandò: «C'è un negozio qui in città dove posso comprare un cappotto e de­gli stivali?»

«Poco fuori città c'è un emporio di abbigliamento sporti­vo, ma vendono solo cose da uomo.»

Lei estrasse una banconota da cinque dollari dallo scom­parto di emergenza dietro il distintivo. «Mi farebbe un favo­re? Chiami il negozio e chieda di mandare qui un giaccone. Non mi importa del colore o com'è fatto, basta che sia di una misura abbastanza piccola, e soprattutto caldo.»

Il ragazzo annotò la sua richiesta. «E gli stivali?»

«Chieda se hanno qualcosa che si avvicina al numero tren­totto. Li vorrei di cuoio con la gomma, per andare in giro nel­la neve.»

«Però non credo che aprano prima delle nove.»

«Va benissimo, perché io resterò in camera tutta la matti­na. Appena arriva il fattorino mi chiami, così posso pagarlo.»

«D'accordo» disse il ragazzo. «Non desidera nient'altro?»

«Avete il servizio in camera?»

«No, ma posso ordinarle quello che vuole da Wanda e met­terlo sul conto dell'albergo.»

«Ottimo. Vorrei una colazione completa, con uova stra­pazzate, salsicce, toast e succo d'arancia. E un cappuccino, se possibile.»

«Sarà fatto» assicurò il ragazzo.

Lei si avviò verso l'ascensore, poi si fermò e domandò: «Come si chiama?».

«Calvin Tate» fece lui un po' sorpreso.

«Grazie, Calvin.»

Una volta in camera, Maggie scalciò via le scarpe incro­state di neve, sfilò gli abiti sporchi e strappati, poi alzò il ter­mostato al massimo. Tutti i muscoli le facevano male e la fe­rita sulla spalla bruciava.

Aprì la doccia e aspettando che arrivasse l'acqua calda esa­minò i messaggi. Uno era di Cunningham. Non aveva lasciato detto niente, solo che aveva chiamato. Maggie si domandò per­ché non l'avesse cercata sul cellulare, poi ricordò di averlo per­so e si ripromise di chiedere la sostituzione al più presto.

Tre messaggi erano di Darcy McManus di Canale Cinque, e ognuno dava diverse istruzioni su come contattarla, com­presi i numeri dello studio televisivo e del cellulare, e un in­dirizzo e-mail.

Due messaggi erano del dottor Avery, lo psichiatra di sua madre. Entrambe le telefonate erano arrivate la sera prima, piuttosto tardi.

Probabilmente la busta chiusa conteneva un altro mes­saggio dell'insistente McManus, pensò Maggie. Il vapore si stava alzando dietro la tenda della doccia e lei si chinò a os­servare la propria immagine riflessa nello specchio appan­nato. Si contorse per vedere meglio la spalla ferita, poi strap­pò il cerotto applicato da Nick. Sotto c'era un taglio di circa sei centimetri, gonfio e sporco di sangue rappreso. Sarebbe rimasta la cicatrice. Magnifico. Avrebbe fatto pendant con l'altra.

Sollevò il reggiseno e guardò il regalo lasciatole da Albert Stucky. Era un taglio appena cicatrizzato, che andava dal se­no sinistro a metà dell'addome. «Ringrazia Dio che non ti sgoz­zo» le aveva sussurrato mentre il coltello le tagliava la pelle, abbastanza in profondità da lasciare il segno senza ucciderla. Maggie non aveva nemmeno sentito il dolore, forse perché era troppo esausta, o forse perché era già rassegnata a morire. «Sa­rai ancora viva quando comincerò a mangiare le tue budella» aveva promesso Stucky. Completamente paralizzata, lei l'a­veva guardato tagliare a pezzetti le due donne, recidere ca­pezzoli e altri brandelli di carne, aveva ascoltato le loro urla terrificanti. Poi Stucky le aveva sventrate e alla fine aveva spac­cato i crani contro la parete. No, non c'era più niente che Stucky potesse fare per traumatizzarla. Le aveva lasciato un ricordo permanente.

Maggie si passò le mani sulla faccia e tra i capelli. In quel­lo specchio appannato si vide terribilmente piccola, minuta, vulnerabile. Poi, senza una ragione apparente, agli occhi de­gli altri rimaneva sempre la stessa donna coraggiosa di un tempo, la dura che era entrata in accademia otto anni prima. E anche lei, nonostante tutto, si sentiva determinata come al­lora.

Sganciò il reggiseno, sfilò le mutandine e mise un piede sotto la doccia. Ma le venne in mente la busta ancora chiusa e tornò a prenderla. Diede un'occhiata alla scritta sul cartonci­no e il suo cuore cominciò a battere furiosamente. Si aggrap­pò a un ripiano per non cadere, ma poi cedette e si lasciò scivolare sul pavimento. Non poteva essere, pensò. Non poteva accadere di nuovo.

Raccolse le ginocchia contro il petto cercando di soffoca­re il panico, poi lesse di nuovo il cartoncino. CREDI CHE TUA MADRE AVRÀ BISOGNO DELL'ESTREMA UNZIONE?

40

Era ancora presto e il traffico quasi inesistente. Il cielo era co­perto di nuvole grigie, continuava a nevicare e i lampioni stra­dali erano ancora accesi. Il parabrezza della jeep era di nuovo gelato, così Nick accese l'aria calda benché fosse già sudato al­l'idea di parlare con Michelle Tanner.

Doveva liberare la mente dalle immagini dei due piccoli cadaveri, altrimenti non sarebbe stato di nessun aiuto a quel­la poveretta. Per distrarsi, concentrò i suoi pensieri su Mag­gie. Non si era mai sentito così piacevolmente a disagio con una donna, nonostante la sua vasta esperienza. Quella donna lo aveva davvero colpito, e per di più lui era certo che non lo avesse fatto intenzionalmente. Si aggrappò al ricordo di lei con la guancia premuta sul suo petto e richiamò alla mente tutti i particolari, il profumo dei capelli, la grana fine della pel­le, il battito del cuore. Era incredibile, ironico, addirittura cri­minale che l'unica donna che gli faceva quell'effetto fosse an­che l'unica che non poteva avere.

Svoltò nel vialetto di casa Tanner proprio nel momento in cui la radio annunciava che il sindaco Rutledge aveva an­nullato la festa di Halloween per via della neve.

Guarda che fortuna, pensò Nick. Parcheggiò dietro a un furgoncino e solo quando fu sulla porta lesse il nome della ra­dio sulla fiancata, KRAP News. Era troppo presto per un'in­tervista generica, pensò. La notizia doveva già essere filtrata.

Bussò con forza. Ad aprire venne una donna anziana, che lo fece passare in soggiorno andando poi a sedersi accanto a Michelle Tanner sul divano. Un uomo alto e quasi calvo se­deva di fronte a loro reggendo un microfono collegato a un registratore. Sulla porta che dava in cucina torreggiava un uo­mo robusto con i capelli cortissimi. Dopo un attimo Nick ca­pì che si trattava dell'ex marito.

«Allora è vero?» domandò Michelle alzando gli occhi ros­si e gonfi su Nick. «Avete trovato un corpo ieri notte?»

Nick si allentò il colletto della camicia. «Chi gliel'ha det­to?»

«Che accidenti importa?» ringhiò il padre di Matthew.

«Douglas, per favore» lo rimproverò la donna anziana. Poi accennò all'uomo calvo. «Il signor Melzer della radio di­ce che era sull'Omaha Journal stamattina.»

Melzer alzò il giornale e Nick vide il titolo: TROVATO UN SECONDO CADAVERE. Christine lo aveva fatto di nuovo. Lo aveva pugnalato alle spalle. Inghiottì la rabbia e disse: «Sì, è vero. Mi dispiace di non essere arrivato a dirglielo per primo».

«Siete sempre un passo indietro, eh, sceriffo?»

«Douglas» ammonì di nuovo la donna anziana.

«È lui?» domandò Michelle.

Nick pensava che ormai fosse ovvio, ma era comprensi­bile che la madre volesse sentirglielo dire. Cacciò le mani in tasca e si costrinse a guardarla negli occhi. «Sì. È Matthew.»

Si aspettava le grida, i pianti, eppure quando vennero si scoprì impreparato. La donna anziana abbracciò Michelle e insieme si misero a dondolare avanti e indietro, gemendo. Al­tre due donne arrivarono dalla cucina e si unirono a loro, pian­gendo disperate.

Melzer diede un'occhiata a Nick, poi raccolse la sua at­trezzatura e se ne andò.

Nick avrebbe tanto voluto seguirlo. Invece restò lì, incer­to sul da farsi, quasi annichilito. Il padre di Matthew lo fissò con odio, poi in due passi gli fu addosso e lo colpì con un gan­cio sinistro. Nick urtò una libreria e i volumi crollarono sul pa­vimento. Prima che potesse riaversi Tanner lo colpì di nuovo, questa volta allo stomaco. Nick cadde sulle ginocchia. La don­na anziana gridò a Douglas di smetterla, le altre tacquero fis­sando la scena con gli occhi sbarrati.

Nick si rialzò scrollando la testa, e quando vide Douglas alzare di nuovo il braccio riuscì ad allontanarlo con uno strat­tone.

Ma non era finita lì. Tanner lo caricò di nuovo e allora Nick estrasse la pistola. Finalmente l'altro si immobilizzò, ab­bandonando lungo il fianco la mano che stringeva un coltel­lo da caccia.

La donna anziana si alzò, si avvicinò con tutta calma a Douglas e gli tolse il coltello di mano. Poi, con sorpresa di tut­ti, gli appioppò un ceffone.

«Diavolo, ma'. Che accidenti ti prende?» fece l'uomo. Ma non si mosse né reagì.

«Sono stufa marcia di vederti menare le mani. Non puoi trattare la gente in questo modo, che siano i tuoi familiari o gli estranei. Adesso chiedi scusa allo sceriffo.»

«Manco per sogno. Se avesse fatto il suo lavoro, Matthew sarebbe ancora vivo.»

Nick si passò le mani sulla faccia e si rese conto che il lab­bro sanguinava. Lo asciugò con la manica, poi rimise la pi­stola nella fondina.

«Fagli le tue scuse» insisté la donna. «Vuoi essere arre­stato per aggressione a un pubblico ufficiale?»

«Non ce n'è bisogno» disse Nick. Era come se quei pugni gli avessero ridato un po' di coraggio. Aspettò che la testa smettesse di girare, poi si avvicinò a Michelle. «Signora Tan­ner, sono davvero addolorato. E sono io che mi scuso di non essere venuto ad avvertirla prima. Non è stato per mancanza di rispetto, le assicuro... pensavo solo che sarebbe stato me­glio dirglielo quando aveva intorno i parenti e gli amici, piut­tosto che bussare alla sua porta nel mezzo della notte. Le pro­metto che troveremo chi ha fatto questo a Matthew.»

«Ne sono sicuro, sceriffo» fece la voce sarcastica di Dou­glas alle sue spalle. «Ma quanti altri ragazzini dovrà massa­crare prima che lo prendiate?»

41

Senza che nessuno glielo dicesse, Timmy aveva capito che Mat­thew era morto, proprio come Danny Alverez. Ecco perché zio Nick e l'agente O'Dell erano andati via in tutta fretta, la sera prima, e sua madre lo aveva mandato a letto e poi era stata sveglia metà della notte a scrivere per il giornale sul nuovo computer portatile.

Quella mattina lui si era svegliato presto e aveva acceso la radio, proprio mentre stavano dicendo che le scuole erano chiuse a causa della neve. Tempo ideale per andare in slitta, pensò, anche se lui avrebbe preferito usare una di quelle che i suoi amici si costruivano da soli anziché quella di plastica arancione che gli avevano regalato, una cosa ridicola, da lat­tanti, che spiccava in mezzo alle altre come un camion dei pompieri.

Trovò sua madre addormentata sul divano sotto il plaid della nonna. Sembrava esausta e così andò a prepararsi la co­lazione in punta di piedi per non svegliarla.

Accese subito la radio della cucina per sentire le altre no­tizie. L'annunciatore parlava ancora delle scuole chiuse, e lui aumentò il volume.

Usò i due cassetti inferiori come scaletta per prendere una ciotola nel pensile. Dio, com'era stufo di essere così basso. Era il più piccolo della sua classe, addirittura più di certe ragaz­ze. Zio Nick gli diceva sempre che un bel giorno sarebbe cre­sciuto di colpo e li avrebbe superati tutti, ma lui per ora non vedeva segnali.

Aprì una scatola di cereali, riempì la ciotola, poi comin­ciò a versare il latte mentre la radio trasmetteva una pubblicità. «E vai!» disse ad alta voce. «Niente scuola». Poi ricordò il campeggio e la sua gioia sfumò. E se Padre Keller avesse an­nullato anche quello per via della neve?

«Timmy» disse sua madre arrivando in cucina. Aveva i capelli arruffati e gli occhi ancora impastati di sonno. «Han­no chiuso le scuole?»

«Sì, per la neve.» Ingollò una cucchiaiata di cereali e do­mandò: «Credi che il campeggio si farà?».

Christine riempì la caffettiera, rischiò di inciampare nei cassetti che Timmy aveva lasciato aperti e li richiuse con un piede senza sgridarlo. «Non lo so» rispose. «Siamo solo in ot­tobre, può darsi che domani ci siano dieci gradi e che la neve si sciolga. Che cos'ha detto la radio del tempo?»

«Per ora hanno parlato solo delle scuole. Certo che sa­rebbe bello fare campeggio nella neve.»

«Sarebbe una stupidaggine. Vi prendereste tutti un ma­lanno.»

«Ma dai, mamma, non hai il senso dell'avventura.»

«No, se questo significa che mi torni a casa con la pol­monite. Ti ammali già abbastanza per conto tuo, senza aiuti esterni.»

Timmy avrebbe voluto dirle che non si prendeva un raf­freddore dall'anno prima, ma poi pensò che lei avrebbe tira­to fuori la storia dei lividi e del calcio e lasciò perdere.

«Posso andare in slitta con i miei amici?» chiese invece.

«Sì, purché ti copra bene e usi la tua slitta e non quei mez­zi tubi di cemento così pericolosi.»

Intanto la radio passò alle ultime notizie di cronaca. Se­condo un articolo dell'Omaha Journal, la scorsa notte lungo Platte River è stato trovato il corpo di un altro ragazzino. L'ufficio del­lo sceriffo ha confermato poco fa che si tratta di Matthew Tanner, che era stato...

Christine spense la radio e l'improvviso silenzio le sem­brò insopportabile. La caffettiera gorgogliò, il cucchiaio di Timmy risuonò contro la ciotola. Lei si sedette al tavolo di fron­te a suo figlio. «Quell'uomo alla radio ha detto la verità. La notte scorsa hanno trovato Matthew.»

«Lo so» fece lui continuando a mangiare. Ma i cereali non erano più così buoni.

«Come lo sai?»

«Ho capito che era per questo che zio Nick e l'agente O'Dell sono andati via così in fretta ieri sera. E tu sei stata su tutta la notte a scrivere.»

Lei gli ravviò i capelli sulla fronte, poi gli accarezzò una guancia. «Dio, come stai crescendo in fretta.» E si alzò a pren­dere il caffè lasciando il plaid sulla spalliera della sedia.

«Mamma, che cosa si prova da morti?» domandò lui.

Christine rovesciò il caffè sulla credenza e si affrettò a pu­lire con un tovagliolo di carta. Timmy capì che era stata la sua domanda a provocare il disastro. Chissà perché gli adulti si agitavano tanto per argomenti del genere.

«Non lo so, Timmy» rispose lei dopo un po'. «Forse è una cosa che dovresti chiedere a Padre Keller.»

42

La colazione era ancora intatta sul tavolino. Le uova, le sal­sicce e i toast imburrati avevano un aspetto invitante e un ot­timo profumo, ma dopo aver aperto la busta con l'indirizzo in stampatello, Maggie aveva perso l'appetito.

Collegò il computer portatile al sito di Quantico e men­tre aspettava che il programma si caricasse si distese un mo­mento sul letto. Le ci era voluta tutta la sua forza d'animo per ricomporsi, e questo la spaventava. Come poteva un sempli­ce biglietto provocarle tanto terrore? Non era la prima volta che riceveva lettere da un killer, e sapeva bene che era uno dei rischi del suo lavoro. Se lei cercava in tutti i modi di entrare nel cervello di un assassino per vedere come ragionava, do­veva aspettarsi che lui ricambiasse.

E per fortuna il biglietto non era accompagnato da dita o capezzoli tagliati, come nel caso di Albert Stucky... Dio santo, doveva dimenticarsi di quell'uomo. Stucky era al sicuro die­tro le sbarre e ci sarebbe rimasto fino al giorno dell'esecuzio­ne capitale. Questo biglietto era di origine diversa, e lei ave­va già provveduto a sigillarlo in una busta apposita e a spe­dirlo al labortatorio di Quantico. Forse c'erano delle impron­te sulla carta o qualche traccia di saliva sul lembo della busta.

E poi quella sera stessa sarebbe stata su un aereo diretto a casa. Ormai aveva concluso il suo lavoro, aveva fatto assai più di quanto le era richiesto. Però si sentiva come se stesse scappando... forse perché era esattamente quel che stava fa­cendo. Ma doveva farlo, doveva andarsene da Platte City pri­ma che questo ennesimo pazzo mandasse in rovina la sua psi­che già così provata. Sentiva di essere al limite, lo aveva capito quando era scivolata a sedere sul pavimento perché le gam­be non la reggevano.

Sì, doveva andarsene e alla svelta. Andarsene prima di crollare del tutto.

Decise di fare una telefonata mentre aspettava il collega­mento. Dopo alcuni squilli, una profonda voce maschile ri­spose: «Chiesa di St. Margaret».

«Padre Francis, per favore.»

«Chi parla?»

«Sono l'agente O'Dell. Lei è il signor Howard?»

Invece di rispondere, l'uomo disse solo: «Un attimo, prego».

Gli attimi furono parecchi. Intanto, sullo schermo del com­puter apparve la scritta blu di Quantico.

«Maggie O'Dell, che piacere sentirla» disse la voce acuta di Padre Francis.

«Mi chiedevo se poteva rispondere a qualche altra do­manda» disse lei. Mentre parlava sentì un lieve scatto. Qual­cuno stava ascoltando la telefonata. Bene, pensò Maggie, che ascoltasse pure: lo avrebbe fatto sudare un po'. «Che mi può dire del campeggio estivo?» domandò.

«Oh, quella è una cosa di cui si interessa Padre Keller. Do­vrebbe domandare a lui.»

«Lo farò. Ma mi dica, è una stata una sua iniziativa o St. Margaret lo organizzava già prima?»

«No, è stata un'idea di Padre Keller. Ha iniziato a orga­nizzarlo nel millenovecentonovanta, appena arrivato qui, e ha avuto subito un grande successo. Forse perché lo aveva già fatto nella parrocchia precedente.»

«Davvero? E dove?»

«Oh, nel Maine... un posto chiamato Wood qualcosa. Di solito ho un'ottima memoria... ecco, sì, Wood River. Abbiamo avuto un colpo di fortuna quando Padre Keller è venuto qui.»

«Oh, ne sono certa. Bene, gli parlerò quanto prima. Gra­zie del suo aiuto, Padre.»

«Agente O'Dell» la fermò il prete, «è tutto qui quello che voleva chiedermi?»

«Sì. E lei mi è stato molto utile.»

«Ecco, io mi domandavo... ha trovato le risposte alle al­tre domande? Voglio dire, su Ronald Jeffreys?»

Maggie non voleva discutere la cosa con qualcun altro in ascolto. «Sì, credo di aver trovato quello che volevo. Grazie di nuovo.»

«Perché vede, agente... potrei avere qualche altra infor­mazione, non so quanto importante, ma...»

«Mi scusi, Padre, aspetto una telefonata. Non possiamo vederci più tardi?»

«Sì, forse è meglio. Stamattina sono impegnato con le con­fessioni e poi ho il mio giro in ospedale, ma verso le quattro sarò libero.»

«Anch'io sarò in ospedale oggi pomeriggio. Possiamo ve­derci nella caffetteria verso le quattro?»

«Ottima idea. A presto, Maggie.»

Padre Francis riappese, poi lei sentì un secondo scatto. Non c'erano dubbi, qualcuno aveva ascoltato la loro conver­sazione.

43

Nick sbatté la porta con tanta violenza che il vetro tremò e tut­ti lo fissarono.

«Statemi bene a sentire» ruggì lui. «Se c'è un'altra fuga di notizie da questo ufficio, prenderò personalmente il respon­sabile a calci nel sedere e farò in modo che non possa mai più lavorare!»

Poi si asciugò il labbro che aveva ripreso a sanguinare e continuò: «Lloyd, voglio che tu metta insieme un gruppetto di uomini e controlli tutte le baracche abbandonate nel raggio di dieci miglia da Old Church Road. Quel bastardo deve pur tenere i ragazzini da qualche parte. Hal, trova tutto quel che puoi su un certo Ray Howard che fa il sacrestano a St. Mar­garet. Non solo da dove viene e così via, voglio sapere tutto, dagli hobby fino alla misura delle scarpe. In particolare se col­leziona figurine di giocatori di baseball. Eddie, tu vai a trova­re Sophie Krichek».

«Non dirai sul serio... quella è fuori di testa!»

«Mai stato così serio.» Nick vide una piccola smorfia sot­to i baffetti sottili di Eddie e aggiunse: «Voglio che tu ci vada subito. E ricorda che il tuo posto di lavoro dipende da come annoterai i dettagli».

Poi si rivolse a un altro agente: «Adam, telefona a Geor­ge Tillie e digli che l'agente O'Dell lo assisterà oggi pomerig­gio durante l'autopsia di Matthew. Poi chiama l'agente Weston e fatti dare quello che hanno raccolto gli uomini della scientifica. Voglio foto e rapporti sulla mia scrivania entro l'una di oggi».

«Lucy» tuonò subito dopo, «trova tutto quel che puoi sui campeggi estivi organizzati a St. Margaret, e vedi se riesci a collegare Aaron Harper ed Eric Paltrow con i campeggi.»

«E Bobby Wilson?» domandò lei alzando gli occhi dal tac­cuino.

Nick non rispose e fissò le facce dei suoi uomini, do­mandandosi se sarebbe riuscito a trovare il giuda che aveva imbrogliato le carte, sempre che facesse ancora parte della loro squadra. Sei anni prima qualcuno si era dato la pena di far sì che Ronald Jeffreys apparisse l'assassino di tutti e tre i ragazzi. Qualcuno aveva sottratto le mutandine di Eric Pal­trow dall'obitorio e le aveva messe nel bagagliaio di Jeffreys con le altre prove destinate a incriminarlo. E poteva essere stato qualcuno che lavorava con lui. Se era così, lo avrebbe fatto sudare.

«Se leggo qualcosa di quello che sto per dirvi sul giorna­le di domani, vi licenzio in tronco» urlò. Poi si ricompose. «Sembra che Ronald Jeffreys abbia ucciso solo Bobby Wilson» disse d'un fiato. «Ed è probabile che il bastardo che ha ucciso Danny e Matthew sia lo stesso che anni fa ha ucciso anche Eric e Aaron.»

«Che diavolo stai dicendo?» esclamò Lloyd Benjamin, che era stato uno dei collaboratori di suo padre nell'arresto di Jef­freys. «Sostieni che la prima volta ci siamo sbagliati?»

«No, Lloyd, non vi siete sbagliati perché avete preso Jef­freys, che era un assassino. Ma pare che non abbia ucciso tut­ti e tre i ragazzi.»

«Dici quello che pensi tu, Nick, o ti ha influenzato l'agente O'Dell?» disse Eddie sarcastico.

Nick fece un grande sforzo per non mollargli un pugno. Non era il momento di lanciarsi in una difesa del suo rappor­to con Maggie, o peggio ancora di lasciar trasparire i suoi sen­timenti per lei. E non voleva nemmeno rivelare altri dettagli su Jeffreys, specialmente adesso che non era più sicuro della lealtà dei suoi uomini.

«Dico che c'è una probabilità. Ma che sia vero o no, non possiamo permettere che questo bastardo la passi liscia, ma­gari per la seconda volta.» Dopo di che scostò bruscamente Eddie e marciò verso la sua stanza.

Lloyd lo raggiunse in corridoio, tenendogli dietro a fatica sulle gambe corte. «Nick, aspetta. Non volevo dire niente di offensivo, poco fa. E sono sicuro che nemmeno Eddie lo vo­leva. È solo che questa cosa ci ha sconvolto tutti... proprio co­me sei anni fa.»

«Va bene, Lloyd, non preoccuparti.»

«Quanto alle baracche, non c'è molto che non abbiamo già controllato. C'è un vecchio granaio mezzo crollato sul terreno di Woodson, e un riparo per il fieno poco oltre, ma è tutto. A parte la vecchia chiesa, che però è coperta di assi inchiodate e quindi è inaccessibile come una vergine novantenne.»

Nick inarcò un sopracciglio per il paragone.

«Chiedo scusa... stai diventando molto sensibile, Nick. E non c'è nemmeno O'Dell.»

«Controlla di nuovo la chiesa, Lloyd. Cerca delle finestre rotte, delle impronte, qualsiasi cosa che indichi l'ingresso di qualcuno negli ultimi giorni.»

«Che impronte vuoi che troviamo con questa neve?»

«Tu cerca comunque.»

Nick si chiuse la porta dietro le spalle, già esausto benché la giornata fosse solo agli inizi. Due secondi dopo qualcuno bussò e Lucy si affacciò reggendo una borsa del ghiaccio. «Che diavolo ti è successo?» domandò.

«Non me lo chiedere.»

Lucy girò attorno alla scrivania e si appoggiò al ripiano. La minigonna salì sulle cosce, lei vide che lui lo aveva notato, e non si diede la pena di riassestarla. Si chinò invece sulla fac­cia di Nick, applicandogli il ghiaccio sulla mascella gonfia. Lui sussultò e ne approfittò per scostarsi.

«Povero Nick... deve farti un male terribile» sussurrò lei sensuale. Quella mattina portava un pullover rosa a maglia larga, talmente aderente che tra una maglia e l'altra si intra­vedeva il reggiseno di pizzo nero. Si chinò ancora di più su Nick e lui si alzò di scatto. «Senti, Lucy non ho tempo di far­mi gli impacchi di ghiaccio» disse. «Grazie del pensiero.»

Lei parve delusa. «Ti metto la borsa nel frigorifero, caso­mai ti servisse più tardi.»

E si avvicinò al frigobar, sporgendosi di proposito in avan­ti per fargli vedere che cosa si perdeva. Poi si raddrizzò, die­de un'ultima occhiata a Nick e uscì ancheggiando.

«Gesù» borbottò lui lasciandosi cadere nella poltrona. Che reparto aveva messo in piedi? Il violento marito di Michelle Tanner aveva ragione. Non c'era da meravigliarsi se con quella squadra di sbandati non riusciva a catturare l'as­sassino.

44

Padre Francis raccolse i ritagli di giornale e li mise in una car­tellina, poi si fermò a osservare le sue mani, le chiazze scure, le vene bluastre, il tremito che ormai era abituale.

Erano passati solo tre mesi dall'esecuzione di Ronald Jeffreys, tre mesi da quando aveva ascoltato la confessione del ve­ro assassino, ma adesso non poteva più tacere. Non poteva più invocare il segreto della confessione. Sentiva che non era giusto.

Entrò in chiesa e vide che non c'era nessuno in attesa di lui, ansioso di liberarsi di qualche segreto. Sarebbe stata una mattinata tranquilla, si disse entrando nel confessionale.

Ma di lì a poco sentì avvicinarsi qualcuno. Si accostò al­la grata e vide un'ombra scura.

«Mi benedica, Padre, perché ho peccato» sussurrò l'om­bra. «Ho ucciso di nuovo.»

Oh, mio Dio, pensò il vecchio prete, e il cuore prese a bat­tergli disordinatamente. Si sforzò di vedere oltre la fitta rete metallica che divideva in due il cubicolo, ma non distinse nes­suna figura.

«Ho ucciso Danny Alverez e Matthew Tanner, e chiedo perdono e assoluzione per questi peccati.» La voce era con­traffatta, come se la persona parlasse attraverso una masche­ra. Padre Francis cercò invano di cogliere un'inflessione, un accento particolare che lo aiutasse a riconoscere il peccatore.

«Qual è la mia penitenza?»

Il vecchio prete aveva nel petto un dolore acuto che qua­si gli impediva di parlare. «Come posso... come posso assol­verti dai tuoi orrendi peccati, se hai intenzione di commetter­ne altri?»

«No, no, lei non capisce» balbettò l'uomo. «Io do loro la pace...» Dunque non si pentiva, pensò sgomento Padre Fran­cis. Era venuto per avere a tutti i costi il perdono.

«Non posso assolverti» ripeté con voce ferma. «L'ho già fatto una volta, e tu ti sei preso gioco del sacramento peccan­do di nuovo.»

«Ma io sono pentito dei miei peccati e chiedo il perdono di Dio» insisté l'altro.

«Devi provarmi di essere davvero pentito» disse Padre Francis. Forse poteva influenzare questo peccatore, fargli af­frontare i suoi demoni e fermarlo una volta per sempre. «De­vi dimostrare il tuo rimorso.»

«Lo farò. Mi dica qual è la mia penitenza.»

«Prova che sei pentito e torna da me tra un mese.»

«Dunque non mi assolve?»

«No. Torna tra un mese.»

L'ombra non si mosse e Padre Francis si chinò di nuovo per cercare di vedere chi fosse. Poi sentì uno schiocco e un fiot­to di saliva lo colpì in piena faccia.

«Ci vedremo all'inferno, Padre» sibilò l'ombra. Il vecchio prete sentì un brivido lungo la schiena. L'ombra si alzò dal­l'inginocchiatoio e si allontanò. Padre Francis rimase paraliz­zato, incapace perfino di asciugare lo sputo che gli colava sul mento.

Restò nel confessionale per un'eternità, ma per fortuna non arrivò nessun altro. Forse la neve aveva trattenuto in ca­sa i fedeli, però questo significava che nessuno aveva visto l'ombra entrare o uscire.

Ci volle del tempo prima che il cuore di Padre Francis ri­acquistasse un ritmo normale. Ma alla fine il respiro si calmò, e lui prese un fazzoletto dalla tasca per ripulirsi la faccia. Le sue mani tremavano ancora più del solito. Reggendosi alla mensola e poi allo stipite della porticina, uscì nella chiesa de­serta. Fuori si sentivano le risate dei bambini che si avviava­no verso la collina con le loro slitte. Meno male che erano in gruppo, pensò il prete.

In quel momento Padre Francis decise che avrebbe rife­rito a Maggie O'Dell anche la visita appena ricevuta. Sì, era la cosa migliore da fare. Una volta presa questa risoluzione si sentì più leggero e si avviò rassicurato verso la sacrestia.

Qualcuno aveva lasciato aperta la porta della cantina e Padre Francis si affacciò a guardare gli scalini avvolti nel buio. Si sentiva un odore di muffa e di umidità, e dal fondo veniva un soffio di aria fredda. Era la sua immaginazione o c'era un'ombra nascosta in un angolo?

Il prete scese il primo gradino, reggendosi al corrimano, e così non vide la figura che sopraggiungeva alle sue spalle e lo spingeva violentemente. Il suo corpo debole e malfermo ro­tolò giù per la scala. Padre Francis aprì la bocca per gridare, ma riuscì a emettere solo un rantolo.

In preda al panico, si guardò la gamba destra che doleva terribilmente e la vide piegata in un angolo innaturale.

Un gradino scricchiolò proprio sopra la sua testa. Lui al­zò gli occhi in tempo per accorgersi di un fazzoletto bianco che gli veniva premuto sulla faccia. Poi fu il buio.

45

Christine si concesse i tagliolini in brodo di Wanda, accom­pagnati da panini al burro. Corby le aveva dato la mattinata libera, ma lei si era portata il taccuino per buttare giù qualche idea per l'articolo del giorno dopo. Era ancora presto e aveva trovato un tavolo tranquillo accanto alla finestra.

Timmy le aveva telefonato per chiedere se poteva restare a pranzo con i suoi amici da Padre Keller a St. Margaret. Il giova­ne sacerdote era andato in slitta con loro a Cutty's Hill, e per ri­compensarli della delusione per il campeggio mancato li aveva invitati ad arrostire hot dog sul grande camino del rettorato.

«Hai scritto dei magnifici articoli, Christine» disse Angie venendo a riempirle la tazza di caffè.

«Grazie» sorrise lei inghiottendo un pezzo di panino cal­do. «Tua madre è una cuoca eccezionale.»

«Già. Continuo a dirle che dovrebbe decidersi a vendere le sue torte, ma lei sostiene che se la gente può comprarsele poi non viene più a mangiare qui.»

Angie aveva il bernoccolo degli affari. Era stata lei a sug­gerire a sua madre il servizio di consegna a domicilio, e dopo soli sei mesi Wanda aveva già dovuto assumere un aiuto cuo­ca e noleggiare due furgoncini, pur continuando a servire i clienti abituali. A volte Christine si domandava perché Angie, con la sua mente sveglia e la sua intraprendenza, fosse rima­sta a Platte City. Ma dopo due anni di università e una storia finita male con un uomo sposato, la ragazza aveva preferito tornare a casa per dare una mano alla madre vedova.

«Come sta Nick?» domandò Angie fingendo di sistema­re le posate sul tavolo vicino.

«Al momento ce l'ha a morte con me per via dei miei ar­ticoli» rispose Christine. Non era quello che l'altra voleva sa­pere, ma lei aveva imparato a tenersi fuori dalla vita senti­mentale del fratello.

«Salutalo, quando lo vedi.»

Povera Angie. Probabilmente Nick non si faceva vivo con lei da quando era stato scoperto il primo cadavere, e Christi­ne era sicura che ormai il suo interesse fosse tutto per la bella e irraggiungibile agente O'Dell. Forse quella donna gli avreb­be finalmente spezzato il cuore, così avrebbe imparato che co­sa significava.

Chissà perché le donne continuavano a cadergli ai piedi, pensò. Lo aveva visto passare da una all'altra senza badarci più di tanto, ma tutte gli restavano attaccate come sanguisughe.

Bevve un sorso di caffè e scrisse sul taccuino medico lega­le. George Tillie era un vecchio amico di famiglia, forse le avreb­be dato qualche informazione.

D'improvviso Wanda alzò il volume della televisione e le fece un cenno. «Ehi, Christine, senti un po' qui.»

Un reporter della CNN aveva appena nominato Platte City e stava facendo vedere dove si trovava su una piantina alle sue spalle. Subito dopo comparve la prima pagina dell'Omaha Journal della domenica precedente con l'articolo di Christine. Il conduttore descrisse gli omicidi recenti e quelli commessi da Jeffreys sei anni prima. A quanto pare lo sceriffo della cittadina non ha ancora alcun indizio. Il suo unico sospetto è l'assassino giustiziato tre mesi fa, concluse ironico.

Per la prima volta, Christine si sentì solidale con suo fra­tello. Ma i clienti del locale scoppiarono in un applauso. Per loro contava solo che Platte City fosse assurta agli onori del­la cronaca.

Qualcuno abbassò di nuovo il volume e lei tornò ai suoi appunti e al pranzo. Poi il cellulare squillò e lei dovette ripe­scarlo sul fondo della borsa, frugando tra portafoglio, rosset­to e pettine.

«Christine Hamilton.»

«Signora Hamilton, sono William Ramsey di Canale Cin­que. Spero di non disturbarla... ho avuto il suo numero al gior­nale.»

«Sto pranzando, signor Ramsey, ma dica pure.» Negli ul­timi giorni i notiziari di Canale Cinque si erano basati so­prattutto sui suoi articoli, e sembravano aver perso la grinta di un tempo.

«Potremmo incontrarci domani?» disse Ramsey.

«Sono molto occupata.»

«Allora verrò subito al punto. Vorrei che lei venisse a la­vorare da noi come reporter, con un suo notiziario settimana­le.»

«Come ha detto, scusi?» disse lei incredula, rischiando di soffocarsi con un pezzo di pane.

«I suoi articoli sono ben fatti, brillanti, e hanno lo stile che ci interessa.»

«Signor Ramsey, io scrivo per un giornale. Non credo che...»

«Naturalmente possiamo insegnarle a stare davanti alla telecamera. Tra l'altro mi hanno detto che il suo aspetto è mol­to gradevole.»

Il complimento la lusingò. Ma Corby e l'Omaha Journal le avevano offerto un'occasione... non poteva piantarli in asso.

«La ringrazio, ma non posso accettare» disse a malincuore.

«Sono disposto a offrirle sessantamila dollari l'anno, se comincia subito» rilanciò l'altro.

Il cucchiaio le cadde nel piatto, schizzandola di brodo. «Come, scusi?»

Ramsey scambiò la sua esitazione per un altro rifiuto e si affrettò a dire: «Va bene, posso arrivare a sessantacinquemila. Con un extra di duemila dollari se comincia questo weekend».

Sessantacinquemila dollari erano più del doppio di quel che guadagnava adesso. Poteva saldare tutti i debiti e smet­tere di correre dietro a Bruce per farsi pagare gli alimenti.

«Devo pensarci un po' prima di darle una risposta» dis­se.

«Certo, capisco che voglia rifletterci. Facciamo così, ci dorma su e mi chiami domani.»

«D'accordo. Lo farò.»

Christine chiuse il telefono, ed era ancora sottosopra quan­do Eddie Gillick scivolò sulla panca accanto a lei, spingendo­la contro la finestra.

«Ehi, che diavolo fa?» esclamò Christine.

«È stato abbastanza grave che tu mi abbia ingannato fa­cendoti dare delle informazioni per i tuoi articoli» fece Gillick sprezzante. «Ma adesso tuo fratello mi costringe a fare i lavo­retti più sporchi e immagino che sia perché tu gli hai fatto il mio nome...»

«Senta, agente Gillick...»

«Mi chiamavi Eddie, ricordi?» la interruppe lui impa­dronendosi della sua tazza di caffè.

«A Nick non ho detto niente» protestò Christine. «L'avrà capito da solo...»

«Comunque sia, da come la vedo io adesso mi devi un fa­vore.» E Gillick posò la mano sul ginocchio di lei, facendola scivolare su per la coscia sotto la gonna. Lei l'allontanò dis­gustata.

«Posso portarti qualcosa, Eddie?» intervenne Angie in soccorso.

«No, grazie, adesso devo andare» fece lui con un sorrisetto. «Ci vediamo, Christine.» Si alzò lisciandosi i capelli un­ti di brillantina e si avviò verso la porta.

«Tutto bene?» si informò Angie.

«Sì, tutto bene» mentì Christine. Ebbe un tremito e na­scose in grembo le mani.

46

Maggie aprì la porta e tornò di corsa al tavolo.

«Entra» disse digitando qualcosa sulla tastiera del com­puter. «Ho chiesto qualche informazioni al database di Quan­tico e sto scoprendo cose molto interessanti.»

Nick avanzò nella piccola stanza d'albergo passando ac­canto alla porta del bagno, e sentì il profumo dello shampoo di lei. Maggie portava un paio di jeans e la maglietta sbiadita dell'altra volta, ormai così slabbrata che le scendeva su una spalla. Nick guardò la porzione di pelle nuda e deglutì, cer­cando di pensare ad altro.

«Che ti è successo?» esclamò Maggie notando i lividi sul­la sua faccia di Nick.

«Ricordi che avevamo deciso di aspettare? Christine non l'ha fatto. C'era un articolo sul giornale di stamattina.»

«E Michelle Tanner l'ha letto prima che tu arrivassi» in­dovinò Maggie. «È lei che ti ha picchiato?»

«No, il suo ex marito. Il padre di Matthew.»

«Gesù, Morrelli, non potevi scansarti?» Maggie vide un lampo di rabbia negli occhi di Nick e si affrettò a scusarsi: «Mi dispiace» disse, «cercavo di sdrammatizzare». Aggiunse: «For­se dovresti metterci un po' di ghiaccio». E tornò al computer.

«Come va la tua spalla?» si informò lui, ricambiando la cortesia.

I loro occhi si incontrarono e si addolcirono per un atti­mo, poi lei distolse lo sguardo. «Oh, è quasi a posto» fece ruo­tandola un po'. «Fa ancora male, ma passerà.»

La maglietta scivolò un po' più in giù e lui deglutì di nuo­vo. Il desiderio di toccarla era così forte che dovette cercare, per l'ennesima volta, di distrarsi. «E così sei tifosa dei Packers» disse accennando alla scritta stampata sulla maglietta.

«Sì, ma solo perché lo era mio padre» precisò lei senza sollevare gli occhi dallo schermo. «Mio marito ha cercato più volte di convincermi a buttarla via, ma questa maglia è una delle poche cose che mi restano di lui. La metteva sempre quan­do andavamo a vedere le partite.»

«Da quanto tempo non c'è più?»

Maggie si cacciò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, come faceva sempre quando era nervosa o imbarazzata.

«È morto quando avevo dodici anni.»

«Era anche lui un agente dell'FBI?»

«No, era un vigile del fuoco ed è morto da eroe in un in­cendio.» Maggie si interruppe. «È una cosa che tu e io abbia­mo in comune, ma almeno tuo padre è riuscito a non lasciar­ci la pelle.»

«È stato molto aiutato» disse amaro Nick.

Maggie lo guardò sorpresa, e questa volta fu lui ad ab­bassare gli occhi. «Non crederai davvero che abbia avuto qual­cosa a che fare con la faccenda di Jeffreys?»

«Da quella cattura ha ricavato enormi vantaggi» sospirò lui. «E io non so più che cosa credere.»

«Ecco» fece lei indicando lo schermo, su cui stavano com­parendo delle pagine di giornale.

Nick si chinò sopra la sua spalla per leggere. «Wood River Gazette, novembre ottantanove. Dov'è Wood River?»

«Nel Maine.» Lei fece scorrere il testo sullo schermo e si fermò su un titolo. TROVATO IN RIVA AL FIUME IL CADA­VERE MUTILATO DI UN RAGAZZINO.

«Suona familiare» commentò Nick. E cominciò a leggere le tre colonne dell'articolo.

«Indovina chi era il vice parroco nella chiesa cattolica di Wood River?»

Nick si massaggiò la mascella. «Non hai alcuna prova con­creta» disse. «Ma com'è che questa cosa non è saltata fuori du­rante il processo a Jeffreys?»

«Non ce ne fu bisogno, perché a quanto ho potuto sco­prire, del delitto fu incolpato un assistente temporaneo a St. Mary.»

«Che forse era davvero colpevole» insisté Nick. «Come l'hai scoperto?»

«Un'ispirazione. Mi è venuta dopo aver parlato al telefo­no con Padre Francis stamattina. Mi ha detto che Padre Kel­ler aveva organizzato un campeggio estivo anche nella par­rocchia in cui lavorava prima, a Wood River nel Maine.»

«E così hai controllato se c'erano stati degli omicidi in quella zona e in quel periodo.»

«Già. E questo omicidio è identico ai nostri, compresa la ferita a forma di X. Io dico che Padre Keller deve essere con­siderato un sospetto.»

Maggie chiuse il computer. «Devo vedere George Tillie tra un'ora» aggiunse. «E poi ho appuntamento con Padre Fran­cis.» Aprì l'armadio e cominciò ad appoggiare sul letto gli in­dumenti da mettere in valigia. «E stasera devo andare a Rich­mond perché mia madre è in ospedale.»

«Niente di grave, spero.»

«No, si rimetterà presto. Ti lascerò un dischetto con alcu­ne informazioni.»

«Bene.» La calma di Maggie lo confondeva.

«Darò a George i miei appunti sull'autopsia, e se scopro qualcosa da Padre Francis ti chiamo prima di partire.»

«Non tornerai, vero?» Quel pensiero colpì Nick come un secondo pugno alla mascella.

Lei si fermò, lo guardò per un attimo, poi tornò ai vestiti sul letto. «Tecnicamente il mio lavoro qui è finito. Avete un profilo dell'assassino e addirittura un sospetto.»

«E dunque te ne vai.» Nick si cacciò le mani in tasca, scon­volto all'idea di non rivederla più.

«Sono certa che il mio ufficio vi manderà qualcun altro se sarà necessario.»

«Ma non sarai tu.»

Maggie non rispose e cominciò a fare la valigia.

«La tua partenza ha qualcosa a che vedere con quel che è successo stanotte?»

«Stanotte non è successo niente» ribatté lei secca. «Se ti ho dato un'impressione sbagliata ti chiedo scusa.» E continuò a mettere meccanicamente le sue cose in valigia.

Non gli aveva dato nessuna impressione sbagliata, pensò Nick. Era lui che aveva fatto tutto da solo. Eppure non ri­usciva ancora a credere che lei non provasse la stessa attra­zione.

«Mi mancherai molto» le disse, meravigliando anche se stesso. Maggie lo guardò dritto negli occhi e lui si sentì cede­re le ginocchia. «Sei stata una vera rompiscatole, O'Dell, ma mi mancherà la tua severità.» Ecco, aveva corretto il tiro.

Lei sorrise e si scostò i capelli dietro l'orecchio. Allora un po' nervosa lo era.

«Hai bisogno di un passaggio per l'aeroporto?»

«No, ho una macchina a noleggio che devo restituire.»

«Bene, allora buon viaggio» disse lui. Cercò di non pensa­re che voleva prenderla tra le braccia e supplicarla di restare.

Attraversò la stanza in tre lunghi passi, ma quando fu al­la porta lei lo chiamò.

«Nick.»

Lui si bloccò con la mano sulla maniglia.

«Buona fortuna» disse Maggie.

Nick non si voltò.

47

Maggie rimase accanto al letto a fissare la porta che si richiu­deva, spiegazzando una blusa di seta.

Perché non gli aveva detto del biglietto? Quando lei gli aveva parlato dei suoi incubi, Nick aveva capito, e probabil­mente sarebbe stato solidale con lei anche questa volta. Avreb­be capito perché non poteva restare, perché non poteva la­sciarsi coinvolgere psicologicamente da un altro maniaco. Era troppo rischioso: le sue facoltà di giudizio stavano per ab­bandonarla.

Anzi, forse era già successo. La notte precedente, nel bo­sco, lei non aveva visto l'assassino finché non era stato trop­po tardi. L'uomo avrebbe potuto ucciderla. Ma evidentemen­te anche lui, come Albert Stucky, la voleva viva, e lei non era in grado di sopportarlo.

No, non poteva restare, doveva andarsene. Ed era meglio che lo facesse senza spiegare la ragione vera, lasciando che Nick e tutti gli altri pensassero che se ne andava a causa di sua madre.

Finì in fretta la valigia. Cunningham aveva ragione, era arrivato il momento di prendersi una pausa. Forse lei e Greg si sarebbero finalmente concessi la vacanza che non avevano mai fatto, in un paese caldo, con tramonti dorati e notti piene di stelle.

Squillò il telefono e Maggie sobbalzò. Aveva già parlato con il dottor Avery, sapeva che sua madre si era ripresa ed era in via di guarigione, ma sollevò ugualmente la cornetta con ansia.

«Agente speciale O'Dell.»

«Come mai sei ancora lì? Pensavo che tornassi a casa.»

Lei si lasciò cadere sul letto. «Ciao, Greg. Prendo un ae­reo stasera.»

Maggie sentì il fruscio di qualche documento, poi Greg disse: «Quell'imbecille non ti ha riferito il mio messaggio di ieri?».

«Quale imbecille?»

«Quello che ha risposto al cellulare. Mi ha detto che lo avevi fatto cadere, e che in quel momento eri occupata e non potevi venire al telefono.»

Il cuore di lei accelerò i battiti. «Che ora era?»

«Non lo so, circa mezzanotte. Perché?»

«Che cosa gli hai detto esattamente?»

«Allora non ti ha proprio riferito una parola...»

«Greg, che cosa gli hai detto?»

«Con che razza di idioti incompetenti lavori?»

«Greg» disse lei cercando di non alzare la voce, «ho per­so il cellulare ieri sera mentre inseguivo l'assassino. È molto probabile che sia lui quello con cui hai parlato.»

Silenzio. Anche il fruscio di carte cessò. «Dio santo... co­me facevo a saperlo?»

«Infatti non potevi, non ti sto rimproverando. Ma cerca di ricordare che cosa gli hai detto.»

«Niente di particolare... solo di chiamarmi perché tua ma­dre non stava bene.»

Lei affondò la testa nel cuscino e chiuse gli occhi.

«Maggie, quando torni a casa dobbiamo parlare.»

Sì, pensò lei. Ma su una spiaggia assolata, bevendo suc­chi di frutta. Lì avrebbero riscoperto quello che era davvero importante, e forse avrebbero imparato di nuovo ad amarsi.

«Voglio che tu lasci l'FBI» disse lui con un tono che non ammetteva repliche.

In quell'istante lei capì che per loro non ci sarebbe più sta­to un futuro.

48

Camminava in fretta e la neve gli entrava dentro le scarpe, ge­landogli i piedi.

Scese di corsa la collina, finché non sentì i ragazzini stril­lare e ridere, e allora si fermò nascondendosi tra i cespugli.

Presto sarebbe calato il buio. Perché non se n'erano an­dati? Perché non erano rientrati a casa quando ancora il suo cervello taceva? Già, ma a casa che cosa avrebbero trovato? Una tavola apparecchiata, il calore di una famiglia, o solo un biglietto con le istruzioni per scaldarsi la cena nel forno? Ad aspettarli ci sarebbero stati dei genitori amorevoli che li aiu­tavano a togliersi i vestiti bagnati? Qualcuno che rimboccas­se loro le coperte?

Ormai non riusciva ad arginare la piena dei ricordi, non ci provava nemmeno più. Affondò la faccia nella neve, spe­rando che il freddo arrestasse il battito del sangue nelle tem­pie, ma non servì a niente.

Si rivide a dodici anni, con un giubbotto militare troppo leggero per ripararlo e i jeans rattoppati che lasciavano pas­sare gli spifferi. Non possedeva nemmeno un paio di stivali. La neve era arrivata a venti centimetri di altezza, l'intera cit­tà si era bloccata, e il suo patrigno non poteva andare da nes­suna parte se non in camera da letto con sua madre.

Gli aveva ordinato di uscire di casa, di andare a giocare con i suoi amici, ma lui non aveva amici. Le uniche volte che qual­che compagno gli rivolgeva la parola era per schernirlo, per ridere dei suoi vestiti e della sua magrezza impressionante.

Dopo ore e ore seduto in cortile, al freddo, lui aveva cer­cato di rientrare, ma aveva trovato la porta chiusa a chiave. Attraverso le pareti sottili aveva sentito le grida e i gemiti di sua madre, piacere e dolore mescolati insieme. Perché il ses­so doveva fare così male? aveva pensato. Ma allo stesso tem­po era sollevato: finché il suo patrigno era occupato con sua madre, lui non aveva niente da temere.

Era stato allora, immobile nel freddo pungente, che ave­va fatto un piano. Un piano così semplice che sarebbe basta­to un gomitolo di spago per metterlo in atto. La mattina do­po, quando il patrigno si fosse ritirato nel laboratorio che si era costruito in cantina, ne sarebbe uscito su una barella. Co­sì lui e sua madre non avrebbero più sofferto, non si sarebbe­ro più dovuti vergognare.

Non poteva sapere che quella mattina sua madre sareb­be scesa in cantina per prima. Da quel momento lui non ave­va più avuto una vita: era finita con la morte di sua madre, per mano sua.

D'improvviso avvertì una presenza sopra di sé, qualcu­no o qualcosa che ansimava e annusava. Alzando la testa, vi­de un grosso cane nero che ringhiava mostrandogli i denti. D'istinto la sua mano scattò in avanti: afferrò il cane alla gola e il ringhio si tramutò in un mugolio, in un gorgoglio soffo­cato. Poi tornò il silenzio.

Finalmente i ragazzi, nelle loro pesanti giacche a vento, raccolsero le slitte e si salutarono. Uno di loro chiamò il cane un paio di volte, poi rinunciò, come se la cosa fosse normale.

Il gruppetto si separò, due andarono in una direzione, tre in un'altra. Il più piccolo attraversò il parcheggio da solo.

Il cielo diventò nero, i lampioni si accesero, un aereo pas­sò sopra la loro testa. Nel parcheggio deserto nessuno vide l'uomo salire in macchina.

Calzò il passamontagna, poi prese la fialetta dalla tasca, la spezzò e intrise il fazzoletto pulito. E ripetendo il suo ma­cabro rituale, con i fari spenti e il motore al minimo, cominciò a seguire il ragazzino che andava verso casa, trascinandosi dietro le spalle la sua slitta di plastica arancione.

49

Il dipartimento di polizia disponeva di cinque macchine di pattuglia, ma quando Nick tornò in ufficio ne trovò ben quat­tro parcheggiate davanti all'ingresso. Che cosa doveva fare perché questa gente gli desse retta ed eseguisse i suoi ordini? pensò furioso. Ma in fondo era colpa sua. Aveva assunto l'in­carico di sceriffo con la stessa leggerezza con cui viveva la sua vita, senza mai prendere niente sul serio.

Negli ultimi giorni, dopo aver visto il cadavere marto­riato di Danny Alverez, continuava a domandarsi ossessiva­mente se un vero sceriffo non avrebbe saputo salvare Matthew Tanner. Lui doveva solo al nome di suo padre l'incarico che ricopriva, così come il diritto di portare un distintivo e una pi­stola, che fra l'altro non aveva più usato dopo l'allenamento al poligono di tiro due anni prima.

Superò il portone d'ingresso e fu preso dal panico. Il gran­de atrio di marmo echeggiava di voci, sul pavimento serpeg­giavano cavi e fili elettrici, e grossi fari accesi illuminavano a giorno l'ambiente. Appena lo videro, i giornalisti gli si affol­larono intorno mettendogli sotto il naso una selva di micro­foni.

Darcy McManus, esuberante come sempre, presidiava le scale. Gli fece un cenno perché lui la raggiungesse di fronte alle telecamere di Canale Cinque, ma invece di flirtare con lei, come avrebbe fatto in passato, Nick cercò di passare oltre per rifugiarsi nel suo ufficio.

«Sceriffo, ha già qualche sospetto?» gli domandò lei pron­ta. Vista da vicino era più vecchia che in TV, e il trucco non na­scondeva del tutto le piccole rughe intorno agli occhi.

«Al momento non posso tare commenti.»

«È vero che il cadavere di Matthew Tanner era decapita­to?» domandò un uomo con un costoso abito a doppio petto.

«Dio santo, chi gliel'ha detto?»

«Allora è vero?»

«Assolutamente no.»

«Sceriffo, è vero che ha ordinato di riesumare il cadavere di Ronald Jeffreys? C'è la possibilità che non sia stato lui quel­lo giustiziato tre mesi fa?»

«Il ragazzo è stato violentato?»

«Avete trovato il furgoncino blu?»

«Sceriffo, può almeno dirci se Matthew Tanner è stato uc­ciso nello stesso modo degli altri? Abbiamo a che fare con un serial killer?»

«Basta» urlò Nick, alzando le mani per zittirli. L'improv­viso silenzio lo preoccupò ancora di più. Che diavolo doveva dire? L'ultima volta Maggie era intervenuta a trarlo d'impac­cio, ma adesso lui non sapeva come venirne fuori e si sentiva un perfetto imbecille.

Salì un gradino e si trovò al fianco di Darcy McManus, che con aria compiaciuta cominciò a sistemarsi i capelli e la giacca preparandosi per la telecamera.

Lui la ignorò e guardò la folla di facce. Poteva girare sui tacchi e darsela a gambe, pensò. Dopo tutto non doveva loro alcuna spiegazione. Non sarebbero certo stati i giornalisti ad aiutarlo nella cattura dell'assassino. O invece sì?

«Sapete tutti che non posso rivelare alcun dettaglio sulle vittime» esordì. «Ma posso ribadire che il corpo di Matthew non è stato, ripeto, non è stato decapitato. Il che non vuol di­re che l'assassino non sia un pazzo psicopatico.»

«Ma è un serial killer? La gente ha il diritto di sapere se deve chiudere in casa i propri figli.»

«Dalle prime indagini è emerso che Matthew è stato uc­ciso dalla stessa persona che ha ucciso anche Danny Alverez» ammise Nick.

«Ed è vero che non avete indizi utili?»

«Avete dei sospetti?»

Nick salì un altro paio di gradini, allentandosi la cravat­ta troppo stretta. «Un paio di sospetti li abbiamo, ma per ora non posso dire altro.» Dopo di che riprese a salire le scale, con la speranza che il discorso fosse chiuso. Ma i giornalisti con­tinuarono a tempestarlo di domande.

«Quando potrà dirci qualcosa di più?»

«È gente del posto?»

«Perché non cercate il furgoncino blu?»

«Adesso sarà suo padre a condurre le indagini?»

Nick si voltò di scatto. «Che c'entra mio padre?»

Tutti guardarono l'uomo in doppio petto che aveva fatto la domanda. Aveva una barba perfettamente curata, i capelli freschi di parrucchiere, un paio di mocassini italiani e l'atteg­giamento del reporter di successo che non ha tempo da per­dere con un oscuro sceriffo di provincia. Nick provò l'impul­so di dargli un pugno, e invece disse: «Secondo lei, perché dia­volo dovrebbe essere mio padre a condurre questa indagine?».

«Be', è lui che ha catturato Jeffreys» disse Darcy McManus rivolta alla telecamera. E solo allora Nick capì che Cana­le Cinque aveva ripreso tutta la scena.

«Quando suo padre ci ha parlato poco fa» riprese l'ele­gantone «ci ha fatto capire che...»

«È qui?» lo interruppe Nick.

«Sì, e ci ha fatto capire che era tornato per darle una ma­no nelle indagini. Credo che le parole esatte siano state...» L'uo­mo sfogliò lentamente i suoi appunti: «L'ho già fatto una volta e so che cosa cercare. Potete scommettere che questo tizio non sfug­girà a un vecchio segugio come il sottoscritto. Il che secondo me significa che è qui in veste professionale».

Altri reporter annuirono. Nick spostò lo sguardo dall'u­no all'altro con lo stomaco chiuso per la rabbia. Quella sera, pensò, tutti avrebbero visto in TV le immagini dello sceriffo che scappava di fronte ai giornalisti... Ma non gliene impor­tava più. Girò le spalle a tutti quanti e riprese a salire i gradi­ni a due a due, pregando di non scivolare e di non rendersi ancora più ridicolo.

Fece irruzione nel suo ufficio, spalancando la porta a ve­tri con tanta violenza da mandarla a sbattere contro la parete. Il vetro si incrinò e tutte le teste si voltarono, distogliendo mo­mentaneamente l'attenzione dall'uomo alto e brizzolato che stava in mezzo alla stanza.

Gli uomini che non eseguivano un suo ordine senza bron­tolare erano tutti raggruppati con reverenza intorno a Tony Morrelli, che a sua volta guardava il figlio con le sopracciglia aggrottate.

«Ehi, vacci piano, figliolo. Hai appena danneggiato una proprietà del governo» disse indicando il vetro rotto.

Di colpo tutta la rabbia di Nick svanì. Abbassò gli occhi come uno scolaretto colto in fallo e si sorprese a domandarsi quanto sarebbe costato sostituire il pannello di vetro.

50

Maggie osservò i passeggeri in attesa sorseggiando uno scotch e cercando di indovinare chi era in viaggio di lavoro e chi in vacanza. Molti voli, compreso il suo, erano stati ritardati per la tempesta di neve e la piccola sala d'aspetto era affollata. Co­sì si era seduta al bar e aveva appoggiato il giaccone appena acquistato sulla sedia accanto alla sua, per evitare compagnie indesiderate.

Aveva già consegnato i bagagli, tenendo per sé solo il com­puter portatile, e stava pensando di chiamare di nuovo St. Mar­garet. Cominciava a temere che fosse successo qualcosa di gra­ve, perché Padre Francis non si era fatto vedere al loro ap­puntamento, e quando lei aveva telefonato al rettorato nes­suno aveva risposto.

In realtà avrebbe voluto chiamare Nick, anzi aveva fatto il suo numero più di una volta, ma poi aveva chiuso dicen­dosi che lui aveva già abbastanza problemi. Con molta pro­babilità i suoi erano solo presentimenti dettati dalla paura. E poi stava finendo le monetine per il telefono e aveva speso l'ultima banconota da dieci dollari per lo scotch che stava be­vendo e per i due precedenti. Dopo aver passato il pomerig­gio a sezionare il piccolo corpo di Matthew Tanner, a pesare gli organi e a contare le ferite, si meritava una cena a base di alcol.

Il segno all'interno della coscia di Matthew era davvero un morso umano. Il povero George Tillie aveva cercato di tro­vare altre spiegazioni, ma poi si era dovuto arrendere all'evi­denza: l'assassino aveva morso Matthew più volte nello stes­so punto, fino a vanificare ogni tentativo di identificazione delle impronte. E quel che era più strano, i morsi erano stati dati molte ore dopo la morte.

Dunque l'assassino non tornava sulla scena del delitto so­lo per osservare la polizia. Era affascinato dal corpo della sua vittima. Stava discostandosi dal solito rituale, stava diven­tando imprudente, e forse aveva lasciato dei segni o delle im­pronte che potevano incriminarlo.

Maggie aveva suggerito a George di cercare tracce di se­me sul piccolo corpo, perché poteva darsi che l'uomo si fosse masturbato mentre mordeva la sua vittima. Il vecchio dotto­re era arrossito fino alla radice dei capelli. Lei aveva capito che la sua presenza lo metteva in imbarazzo e che lui mal sop­portava le interferenze nel suo metodo cauto, perfino delica­to di effettuare l'autopsia, quasi temesse di offendere l'anima del bambino.

Maggie, invece, aveva tagliato e sezionato con fredda pre­cisione, registrando a voce alta le sue impressioni. Ormai quel­lo che esaminava era solo un involucro senza vita e qualsiasi scintilla sacra vi fosse stata custodita era ormai volata via. An­che lei però lo sapeva che c'era qualcosa di orribilmente sba­gliato nel dover sezionare il cadavere di un bambino: quella pelle ancora liscia, quelle ossa tenere che avevano vissuto co­sì poco. Era un tale spreco, una tale ingiustizia. E lo scotch ser­viva a dimenticare tutto questo, almeno per un po'.

«Mi scusi» disse il barista, mettendo un altro bicchiere sul suo tavolo, «quel signore laggiù in fondo le offre un altro whisky e mi ha detto di darle questo.»

Maggie riconobbe subito la busta e la scritta in stampa­tello e si alzò così in fretta che la sedia rischiò di rovesciarsi.

«Quale signore?» domandò sentendo salire la nausea. Si sporse per guardare in fondo alla sala e il barista fece altret­tanto, ma poi scrollò le spalle. «Dev'essere andato via.»

«Che aspetto aveva?»

«Non saprei... alto, bruno, sui trent'anni. Non ci ho ba­dato molto. Perché?»

Lei lo scostò brusca e si incamminò rapida lungo il corri­doio dell'aeroporto, cercando freneticamente un volto nella folla dei passeggeri. Le sue tempie martellavano e la vista era un po' annebbiata dal whisky.

C'era una famiglia con tre bambini, poi alcuni uomini d'affari con la loro ventiquattrore, un inserviente che spinge­va un carrello, due donne anziane, un gruppo di africani nei loro lunghi abiti colorati. Ma nessun uomo alto e bruno sen­za bagaglio.

Non poteva essere svanito nel nulla, pensò lei. Corse al­le scale mobili, prese quella che saliva e si girò a guardare i passeggeri sulla scala in discesa. Ma nemmeno lì c'era qual­cuno che rispondesse alla descrizione. Le era sfuggito ancora una volta.

Maggie tornò al suo tavolo nel bar, dove fortunatamente nessuno aveva toccato il computer. Anche la busta era ap­poggiata al bicchiere dove il barista l'aveva lasciata.

Lei la prese per un angolo, l'aprì cercando di non toc­carla e fece scivolare il cartoncino sul tavolo. Il biglietto di­ceva: MI DISPIACE DI VEDERLA ANDARE VIA COSÌ PRE­STO. FORSE LA PROSSIMA VOLTA CHE PASSO DA CREST RIDGE POTREI FARLE UNA VISITA. SALUTI GREG DA PAR­TE MIA.

51

In piedi dietro la vetrata, l'uomo vide Maggie O'Dell che cor­reva verso la scala mobile. Si muoveva con la grazia e la for­za di un'atleta, pensò. Gambe agili e allenate. Probabilmente stava benissimo in short, anche se la cosa non lo interessava più di tanto.

Spinse da parte il carrello e sfilò il giubbotto e il berretto che aveva preso in prestito dall'inserviente dopo averlo tra­mortito. Poi li appallottolò e li gettò in un cesto dei rifiuti.

Aveva lasciato la macchina nella zona di carico degli ae­rei, con la radio accesa a tutto volume. Così nessuno avrebbe sentito Timmy, anche se si fosse svegliato prima del tempo. E poi, il bagagliaio era ben imbottito, quasi insonorizzato.

Si infilò in auto mentre una guardia si avvicinava, e sci­volò via a gran velocità. Stava facendo buio, ma era valsa la pena di fare quella deviazione per vedere la faccia terrorizza­ta dell'agente O'Dell.

Il vento era aumentato e faceva turbinare i fiocchi di ne­ve davanti al parabrezza. La stufa a kerosene, la lanterna e il sacco a pelo che aveva caricato sul sedile posteriore, destina­ti in un primo tempo al campeggio, sarebbero tornati utili. For­se poteva passare da McDonald, pensò ancora. A Timmy pia­cevano gli hamburger, e anche a lui stava venendo fame.

Si immise nel traffico, accelerando. La giornata era stata fruttuosa, concluse soddisfatto. Adesso aveva di nuovo il pie­no controllo della situazione.

52

«Questo tizio ti sta prendendo in giro» dichiarò Antonio Morrelli seduto nella poltrona girevole che era stata sua. «Devi concedere un'intervista alla TV» continuò. «Far capire a quel­la gente che sai quello che fai. L'altra sera uno di loro ti ha fat­to apparire come un povero poliziotto di campagna che sen­za aiuto non trova nemmeno la porta di casa!»

Appoggiato alla finestra, Nick continuò a guardare le stra­de coperte di neve e uno spicchio di luna arancione che face­va capolino tra le nuvole. «La mamma è venuta con te?» do­mandò ignorando gli insulti. Era lo stesso giochetto da anni: suo padre strillava epiteti e istruzioni, Nick stava zitto e fin­geva di ascoltare. Il più delle volte eseguiva gli ordini ricevu­ti. Era più semplice per entrambi.

«No, è rimasta a Houston con tua zìa Minnie» replicò Tony senza lasciarsi distrarre. «Devi cominciare a fermare qualcuno per interrogarlo» insisté. «Magari qualche vagabondo, non im­porta, purché si veda che tu hai il controllo della situazione.»

«In effetti un paio di sospetti li ho» disse Nick.

«Fantastico, allora interrogali! Forse il giudice può farti avere un mandato per domani mattina. Chi sono?»

Era così che aveva fatto con Jeffreys? pensò Nick. Aveva ottenuto un mandato all'ultimo momento, dopo che le prove false erano state messe a punto?

«Allora, figliolo, chi sono?» ripeté suo padre.

Forse voleva solo impressionare suo padre. E invece di tacere, come dettava il buon senso, Nick lo fissò negli occhi e disse: «Uno è Padre Michael Keller.»

Tony Morrelli smise di dondolarsi sulla poltrona e si passò una mano sulla fronte abbronzata. «Che diavolo ti viene in mente? Un maledetto prete... i media ti metteranno in croce! È un'idea tua o di quell'agente FBI di cui mi hanno parlato i ragazzi?»

Certo, i ragazzi, pensò Nick. I suoi ragazzi. Tony Monelli trattava ancora il dipartimento come se fosse roba sua. Nick im­maginava gli agenti fare allusioni e battutine sul suo conto.

«Padre Keller corrisponde perfettamente al profilo trac­ciato dall'agente O'Dell.»

«Nick, quante volte devo ripeterlo? Non puoi lasciare che il tuo coso prenda le decisioni al posto tuo!»

«Infatti non è così» ribatté lui voltandosi di nuovo verso la finestra. Ma la vista adesso era annebbiata dalla collera.

«O'Dell è molto carina e sono sicuro che sa preparare un'ottima colazione dopo una notte di sesso, ma questo non vuol dire che devi darle retta in altre cose.»

Nick si strofinò la mascella per calmarsi, deglutì, poi si girò di nuovo a guardarlo.

«L'indagine la faccio io» disse. «Le decisioni le prendo io, e ho deciso di fermare Padre Keller per interrogarlo.»

«Bene, renditi pure ridicolo quanto vuoi» fece suo padre. «Intanto io vedo se Gillick e Benjamin riescono a trovarmi qualche sospetto come si deve.»

Nick aspettò che suo padre uscisse, poi colpì la parete con un pugno e aspettò che il dolore delle nocche spellate soffo­casse la furia e l'umiliazione.

53

La casa era buia quando Christine parcheggiò nel vialetto. Mi­se la scatola calda della pizza sul computer, cercando le chia­vi, poi pensò che avrebbe finito per cenare da sola, perché po­teva darsi che Timmy si fosse fermato da qualche amico. E al ritorno le avrebbe raccontato meraviglie della cena casalinga, polpettone e patate al forno o cose del genere, cibo che non usciva da una scatola o da una lattina come da un po' di tem­po succedeva a casa loro.

Quanto era costata a Timmy la nuova indipendenza di sua madre? si chiese preoccupata.

Accese la luce in corridoio e per qualche strana ragione il silenzio le diede un brivido. Forse era colpa del vento, pensò. Si avviò verso la cucina, notando che la segreteria telefonica non lampeggiava. Quante volte doveva ripetere a Timmy di lasciarle detto dov'era? Non c'erano scuse, specialmente ades­so che lei aveva un cellulare!

Appoggiò il cappotto su una sedia e inalò il profumo del­la pizza, improvvisamente affamata. Dopo la visita di Gillick da Wanda aveva perso l'appetito e aveva lasciato il pranzo qua­si intatto.

Scalciò via le scarpe, si versò un bicchiere di vino, prese una fetta di pizza appoggiandola su un tovagliolo di carta e tornò in soggiorno, augurandosi che Timmy non la sorpren­desse sul fatto. Di solito lei non permetteva che si mangiasse sul divano.

Si accoccolò tra i cuscini e aprì il giornale. L'edizione del­la sera aveva lo stesso titolo di quella del mattino, TROVATO UN SECONDO CADAVERE, ma nell'occhiello lei aveva specificato che si trattava di Matthew Tanner e aveva riportato una frase di George Tìllie secondo cui gli omicidi potevano es­sere opera di un serial killer. A chiusura dell'articolo, ricor­dando l'appello che Michelle Tanner aveva fatto in TV perché suo figlio fosse liberato, Christine aveva scritto: Ancora una volta la disperata preghiera di una madre non è stata ascoltata. Ades­so, vedendola stampata, la frase le sembrava un po' troppo melodrammatica. Ma a Corby era piaciuta.

Scorse il resto del giornale, poi le venne in mente che era l'ora del notiziario e accese la TV su Canale Cinque. Come sempre, Darcy McManus appariva impeccabile nel suo tail­leur di ottimo taglio. Christine esaminò i lucidi capelli neri, gli occhi sapientemente truccati, il rossetto in perfetto accor­do con il rosso della blusa. Non riusciva a immaginarsi da­vanti a una telecamera. Avrebbe dovuto rinnovare tutto il guar­daroba... ma d'altra parte avrebbe potuto permetterselo, con la cifra che Ramsey le offriva.

Doveva ammettere che l'idea l'attirava. Sarebbe diventa­ta celebre, magari avrebbe fatto dei reportage su eventi di por­tata nazionale. Aveva chiesto tempo per decidere, ma in real­tà sapeva di non poter rifiutare un'offerta così vantaggiosa. Avrebbe accettato la mattina dopo, naturalmente dopo aver parlato con Corby. Con tutti i debiti che aveva e il rischio di perdere la casa, non poteva permettersi di avere scrupoli.

Finì il vino e capì che era troppo stanca per andare a pren­dere un'altra fetta di pizza. Forse era meglio fare un sonnelli­no. Si distese sul divano, chiuse gli occhi e pensò a tutte le bel­le cose che lei e Timmy avrebbero comprato. Nel giro di due minuti era profondamente addormentata.

54

«Perché non mangi il tuo Big Mac?» domandò l'uomo con la maschera di un presidente.

Timmy si rannicchiò nell'angolo e le molle del materas­so cigolarono. La stanzetta era illuminta solo da una lampa­da a petrolio sopra una cassetta di legno, e lui tremava in tut­to il corpo come l'anno prima, quando aveva avuto una feb­bre così alta che sua madre aveva dovuto portarlo al Pronto Soccorso. Solo che questa volta tremava per la paura, perché non sapeva dov'era né come ci fosse arrivato.

Finora l'uomo era stato gentile. Quando lo aveva ferma­to vicino alla chiesa per chiedere informazioni su una via, por­tava un passamontagna nero, di quelli che indossano i rapi­natori nei film. Ma siccome faceva molto freddo a lui non era parso strano. Anche quando era sceso dalla macchina per mo­strare a Timmy una mappa, lui non si era spaventato, forse perché in quella figura c'era qualcosa di familiare. Era stato allora che l'uomo gli aveva coperto la faccia con un panno bianco. Timmy non ricordava altro, se non di essersi sveglia­to in quella stanzetta.

Il vento filtrava attraverso le assi che coprivano la fine­stra, ma lì dentro faceva caldo. Timmy vide in un angolo una stufa a kerosene, come quella che usava il papà tanto tempo prima quando andavano in campeggio.

«Dovresti mettere qualcosa nello stomaco» disse paterno l'uomo. «Non hai mangiato niente dall'ora di pranzo.»

Timmy lo guardò. Sembrava quasi buffo con quella ma­schera, i jeans, un maglione e un paio di Nike bianche nuove di zecca, ma con una stringa spezzata e riannodata. Accanto alla porta c'erano degli stivali di gomma ancora bagnati, ap­poggiati a un sacco di carta. Strano che un paio di Nike così nuove avessero già una stringa strappata, pensò. Se lui aves­se avuto delle Nike come quelle le avrebbe tenute meglio.

Nella voce soffocata dalla maschera c'era qualcosa che gli sembrava di riconoscere, ma non riusciva a capire che cos'e­ra. Cercò di ricordare il nome del presidente a cui la masche­ra somigliava. Era quello con il naso grosso, quello che aveva dovuto dimettersi... come accidenti si chiamava?

Cercò di smettere di tremare, ma non ci riuscì e allora la­sciò che i suoi denti battessero rumorosamente.

«Hai freddo? C'è qualcos'altro che posso portarti?» do­mandò l'uomo premuroso.

Timmy fece segno di no, e allora l'uomo prese la lanter­na dalla cassetta e fece per andarsene.

«Posso tenere la lanterna?» chiese Timmy. Stranamente, benché tremasse come una foglia, la sua voce era chiara e fer­ma.

L'uomo lo guardò e Timmy gli vide gli occhi dietro i bu­chi della maschera. Scintillavano, come se sorridesse. «Certo, Timmy. Te la lascio.»

Lui non ricordava di avergli detto il suo nome. Come fa­ceva a conoscerlo?

L'uomo rimise la lanterna sulla cassetta di legno, infilò gli stivali e disse: «Domani ti porto delle figurine e qualche fu­metto». Dopo di che uscì, chiudendo la porta con parecchi gi­ri di chiave.

Timmy aspettò, contando fino a due minuti, e quando fu sicuro che l'uomo se n'era andato davvero esaminò la stan­za. Le vecchie assi inchiodate alla finestra sembravano la via di fuga migliore. Scese dal letto e inciampò nella sua slitta, che stava sul pavimento. Poi cercò di avvicinarsi alla fine­stra, ma qualcosa lo trattenne: e quando guardò in basso vi­de che aveva un anello d'acciaio alla caviglia, con una cate­na assicurata alla gamba del letto. Tirò, ma il letto di ferro non si mosse di un millimetro. Allora si mise in ginocchio e tirò ancora e strattonò finché la caviglia non gli fece troppo male per continuare.

Si arrestò di colpo. Aveva capito. Questo era il posto in cui Danny e Matthew erano stati tenuti prigionieri. «Ti prego, Dio, non farmi morire come loro» disse a voce alta.

Poi cercò di pensare a qualcos'altro, qualsiasi cosa, e co­minciò a elencare i nomi dei presidenti che aveva imparato l'anno prima. «Washington, Adams, Jefferson...»

55

Dopo parecchie telefonate senza risposta, Nick decise di an­dare al rettorato. Non aveva voglia di tornare a casa, perché prima o poi ci sarebbe tornato anche suo padre. E lui non se la sentiva di vederlo e tantomeno di parlargli.

Le finestre del rettorato erano tutte illuminate, ma ci vol­le parecchio prima che qualcuno venisse ad aprire la porta. In­fine arrivò Padre Keller in persona, con addosso un accappa­toio nero. «Mi scusi se l'ho fatta aspettare, sceriffo. Stavo fa­cendo una doccia.»

«Ho chiamato prima di venire, ma non ha risposto nes­suno.»

«Strano, sono stato qui tutta la sera. È che dal bagno non si sente il telefono. La prego, entri.»

Nel grande soggiorno c'era il camino acceso, e alcune pol­trone raggruppate attorno a un tappeto. Accanto a una delle poltrone erano accatastati dei libri. Dando una rapida occhia­ta, Nick vide che si trattava di libri d'arte, Degas, Monet, i pit­tori rinascimentali. Era sciocco aspettarsi solo letture religio­se o filosofiche, pensò. Dopo tutto i preti erano esseri umani, con le loro passioni e le loro manie...

«Si accomodi» disse Padre Keller indicandogli una pol­trona.

A parte la bella faccia da ragazzo, il giovane sacerdote possedeva una calma e una disinvoltura che mettevano chiun­que a proprio agio. Nick fu attirato dalle sue mani. Le dita era­no lisce e pulitissime, e le unghie molto curate. Non sembra­vano certo le mani di uno strangolatore di bambini. Forse Mag­gie l'aveva davvero messo sulla strada sbagliata, quest'uomo non poteva essere un assassino. Avrebbe dovuto interrogare Ray Howard, piuttosto.

«Posso portarle un caffè?» domandò Padre Keller.

«No, grazie. Non ci vorrà molto.» Nick aprì la cerniera del giubbotto e prese un taccuino e una penna.

«Temo di non poterle dire granché, sceriffo. Credo che ab­bia semplicemente avuto un attacco di cuore.»

«Mi scusi?»

«Padre Francis. È per questo che è qui, no?»

«Cosa è successo a Padre Francis?»

«Oh, santo cielo... credevo che fosse venuto qui per que­sto... Questa mattina è caduto sulle scale della cantina. Noi crediamo che abbia avuto un infarto.»

«E come sta adesso?»

«Purtroppo è morto» disse Padre Keller a capo chino, evi­tando lo sguardo di Nick. «Dio accolga la sua anima.»

«Mi dispiace, non sapevo...»

«È stato un colpo duro per tutti noi. Lei da bambino ser­viva messa con lui, vero?»

«Sì... sembrano passati secoli.» Nick fissò le fiamme del camino, ricordando quanto era apparso fragile il vecchio pre­te quando lui e Maggie erano venuti a parlargli qualche gior­no prima.

«Mi scusi, sceriffo, ma se non è qui per Padre Francis co­s'altro posso fare per lei?»

Nick dovette farsi forza per ricordarsi che Padre Keller corrispondeva al profilo psicologico di Maggie. Perfino i suoi piedi sembravano della misura giusta ma, come le mani, an­che quelli apparivano troppo puliti, troppo lisci per essere sta­ti fuori al freddo, a calpestare rocce e rami secchi. Padre Kel­ler notò la sua esitazione.

«Sceriffo Morrelli?» disse. «Tutto bene?»

«Sì, sì, certo» rispose Nick. «Volevo farle qualche domanda sul campeggio estivo organizzato dalla chiesa.»

«Il campeggio?» Lo sguardo del prete era confuso o al­larmato?

«Sia Danny Alverez sia Matthew Tanner hanno preso par­te al campeggio la scorsa estate, non è così?»

«Davvero?» si stupì Padre Keller. Oppure fingeva?

«Non lo sapeva?» ribatté Nick.

«L'estate scorsa avevamo più di duecento ragazzi. Vorrei poterli conoscere tutti, ma purtroppo manca il tempo mate­riale.»

«Ha delle foto fatte con loro?»

«Mi scusi?»

«Mio nipote, Timmy Hamilton, ha una fotografia di cir­ca venti ragazzi con lei e con il signor Howard.»

«Ah, sì, certo...» Padre Keller si ravviò i capelli e solo al­lora Nick notò che non erano nemmeno umidi. «Le foto delle gare di canoa. Ho cercato di includere anche Ray in molte del­le attività della chiesa, per farlo integrare meglio, capisce. Ha lasciato il seminario solo l'anno scorso per venire a lavorare da noi.»

Howard era stato in seminario. Nick memorizzò l'infor­mazione e aspettò.

«Sicché Timmy è suo nipote, eh?» proseguì Padre Keller. «Ragazzino in gamba.»

«Oh, sì. Molto.» Doveva continuare a fare le domande su Howard, o il prete lo aveva nominato solo per distrarlo?

«Lei aveva organizzato un campeggio simile a questo nel­la parrocchia dov'era prima, vero? Nel Maine.» Nick finse di consultare la pagina bianca del taccuino. «Credo che il posto si chiamasse Wood River.» E rimase in attesa di una reazione, che non ci fu.

«Infatti.»

«E come mai ha lasciato Wood River?»

«Mi hanno offerto un posto di vice pastore qui. Si può de­finire una promozione.»

«Aveva saputo dell'omicidio di un ragazzino nella zona di Wood River, poco prima che lei se ne andasse?»

«Sì, ne sentii parlare... ma non sono sicuro di capire la ra­gione delle sue domande, sceriffo.»

Il tono della voce non era allarmato né difensivo, forse un po' preoccupato.

«Sto solo controllando tutti gli indizi possibili» disse Nick sentendosi ridicolo. Come poteva aver pensato che un prete fosse capace di commettere un omicidio? Poi qualcosa lo colpì. «Padre Keller, come sapeva che ho servito messa con Pa­dre Francis nella vecchia chiesa?»

«Oh, credo che me lo abbia detto lui stesso» rispose il pre­te. E di nuovo evitò lo sguardo di Nick.

In quel momento qualcuno bussò alla porta e Padre Kel­ler si alzò in fretta, quasi fosse ansioso di sfuggire all'interro­gatorio. «Mi chiedo chi può essere...» sorrise stringendo la cin­tura dell'accappatoio. «Non sono certo vestito per una visita.» E sparì in corridoio.

Nick ne approfittò per osservare la stanza. C'erano una grande libreria, alcune piante verdi, e su una parete era ap­peso un crocifisso di legno scuro, lucidissimo, con una punta insolitamente aguzza. Sembrava quasi un pugnale. C'erano anche alcuni quadri di un artista sconosciuto, che Nick, pur non essendo un esperto, trovò interessanti. Le pennellate di colori stridenti erano quasi ipnotiche. Gialli vibranti, rossi ac­cesi, viola cupi.

Poi Nick li vide. Dietro l'angolo del caminetto, su un vec­chio zerbino, c'erano degli stivali di gomma ancora incrosta­ti di neve. Dunque il prete aveva mentito dicendo di essere stato in casa tutta la sera. A meno che gli stivali non apparte­nessero a Ray Howard.

Dall'ingresso arrivavano delle voci concitate. Nick si al­zò dalla poltrona e andò a controllare. Padre Keller era in pie­di davanti a Maggie, che lo fissava rossa in faccia e lo subis­sava di domande.

56

Nick non aveva nemmeno riconosciuto la voce di Maggie, tan­to era stridula e bellicosa, il che era ancora più strano in una donna controllata come lei.

«Voglio vedere Padre Francis, e subito» disse Maggie spingendo Keller da parte. E andò quasi a sbattere contro Nick. «Che diavolo ci fai qui?» esclamò.

«Potrei farti la stessa domanda. Non dovevi partire sta­sera?»

«I voli sono stati ritardati per il maltempo» replicò. Nel suo giaccone troppo grande, senza trucco e con i capelli scom­pigliati dal vento, sembrava una studentessa.

«Scusatemi...» intervenne il prete.

«Maggie, tu non conosci ancora Padre Keller» disse Nick. «Padre, lei è l'agente speciale O'Dell.»

«Così lei è Keller». Maggie aveva un tono accusatorio. «Che cos'ha fatto a Padre Francis?»

Nick stentava a riconoscere in questa donna ai limiti del­l'isteria l'agente calma e sicura di sé che faceva apparire lui come una testa calda.

«Se mi lascia spiegare...» tentò di placarla Padre Keller.

«Ah, certo, una spiegazione me la deve. Avevo un ap­puntamento con Padre Francis in ospedale, oggi alle quattro, ma lui non si è visto. E ho chiamato qui inutilmente per tutto il pomeriggio»

«Maggie» intervenne Nick, «perché non entri e non cer­chi di calmarti?»

«Non voglio calmarmi, voglio sapere che cosa succede!»

«Stamattina c'è stato un incidente» spiegò Nick, visto che Maggie non permetteva a Padre Keller di parlare. «Padre Fran­cis è caduto sulle scale della cantina e purtroppo è morto.»

Lei si immobilizzò. «Un incidente?» ripeté. «Nick, siamo sicuri che sia stato un incidente?»

«Maggie...»

«Come sappiamo che non è stato spinto? Qualcuno ha esaminato il corpo? Posso fare l'autopsia io stessa, se è neces­sario.»

«Padre Francis era vecchio e malfermo sulle gambe» pro­testò Nick.

«E allora perché era andato in cantina?»

«Ci teniamo il vino per la messa...» insinuò Padre Keller.

Maggie lo fissò stringendo i pugni, e per un attimo Nick pensò che lo avrebbe colpito. Non riusciva a capire il suo at­teggiamento. Se voleva giocare al poliziotto buono e a quello cattivo, perché non lo metteva al corrente?

«Che cosa vorrebbe dire, Padre Keller?» incalzò lei. «Che Padre Francis beveva?»

«Io non voglio dire proprio niente.»

«Forse è meglio che andiamo» disse Nick prendendola per il gomito. Lei si liberò con uno strattone e gli gettò un'oc­chiata di fuoco, poi si diresse verso la porta.

Nick si scusò con il prete e seguì Maggie in strada. «Che cos'è questa storia?» la aggredì. «Perché ti sei comportata in questo modo?»

«Perché quello sta mentendo, e io non credo affatto alla favola dell'incidente. Padre Francis doveva dirmi qualcosa di importante. Quando ci siamo parlati al telefono stamattina, ho capito che qualcuno stava ascoltando la nostra conversa­zione, e io credo proprio che fosse Keller. Ma non capisci, Nick? Ha deciso di fermare Padre Francis prima che potesse parlar­mi! L'autopsia dimostrerà se è stato spinto o no. Sono dispo­sta a farla personalmente.»

«Non ci sarà nessuna autopsia. Keller non ha spinto nes­suno e io non credo che abbia niente a che vedere con gli altri delitti. È pazzesco sospettare di lui. Dobbiamo cominciare a cercare un vero colpevole e...»

Lei impallidì di colpo, svoltò di corsa l'angolo del retto­rato e si chinò sulla neve. Si aggrappò a un albero e cominciò a vomitare, e allora lui capì la voce alterata, l'atteggiamento bellicoso e la collera. Maggie era ubriaca.

Aspettò che avesse finito per non metterla in imbarazzo, poi la vide allontanarsi verso gli alberi che separavano il ter­reno della chiesa dalla collina.

«Nick... guarda!» lo chiamò puntando un dito verso la bo­scaglia.

Lui seguì l'indicazione, guardò e si sentì male. Nascosto fra gli alberi c'era un vecchio furgoncino blu con il predellino di legno.

57

«Domattina per prima cosa chiederò un mandato al giudice Murphy» disse Nick mentre salivano nella camera d'albergo di Maggie. Lei lo ascoltava solo a metà, perché aveva un ter­ribile mal di testa e lo stomaco in subbuglio. Bere tutto quel whisky a stomaco vuoto era stata una stupidaggine colossa­le.

Gettò computer e giaccone sul letto, poi si sdraiò. Nick ri­mase sulla soglia, un po' a disagio, senza risolversi ad anda­re via.

«Non riuscivo a credere ai miei occhi» disse. «Hai aggre­dito Keller in un modo tale che pensavo volessi prenderlo a pugni.»

Lei lo guardò dal letto senza muoversi. «Tu non mi cre­di, ma Keller è sicuramente coinvolto in questa storia.» Poi, coprendosi gli occhi con la mano: «O entri o te ne vai, ma non restare lì sulla porta. Ho una reputazione da difendere, dopo tutto».

Nick entrò chiudendo la porta con un giro di chiave, ac­costò una sedia al letto e si sedette. «Così hai deciso di conce­derti una festa privata di addio...» commentò con un sorrisetto.

«Al momento mi sembrava una buona idea.»

«Ma non rischi di perdere il volo?»

«Molto probabilmente l'ho già perso.»

«E tua madre?»

«Telefonerò al medico domani.»

«Insomma, sei tornata indietro solo per avere la pelle di Keller.»

Lei si rizzò sul gomito, frugò nella tasca del giaccone e gli porse il biglietto. «Ero in aeroporto quando il barista me l'ha dato, dicendo che un tizio gli aveva chiesto di consegnarme­lo. L'ho cercato subito, quel tizio, ma se n'era già andato.»

Nick lesse il biglietto e la guardò senza capire, e lei ricor­dò di non avergli parlato del primo biglietto. «È dell'assassi­no» sussurrò.

«Ma come fa a sapere dove abiti e come si chiama tuo ma­rito?»

«Ha fatto delle indagini su di me. Scava nel mio passato e nella mia vita, proprio come faccio io con lui.»

«Gesù, Maggie!»

«Rischi del mestiere. Mi è già successo altre volte.» Mag­gie si massaggiò le tempie che pulsavano e aggiunse: «Nes­suno ha riposto al telefono del rettorato per ore. Quindi lui ha avuto tutto il tempo di fare una capatina in aeroporto e di tor­nare indietro».

Chiuse gli occhi, poi li riaprì e scoprì che Nick la stava fis­sando. Si mise a sedere, imbarazzata da quello sguardo, e le loro ginocchia si toccarono. La stanza cominciò a girare e a on­deggiare, i mobili a spostarsi sul pavimento.

«Maggie, stai bene?»

Nick le tese una mano e lei vi si appoggiò per un istante, poi si alzò e andò ad addossarsi al cassettone, il più lontana possibile.

Nick però la raggiunse, e i loro occhi si incontrarono di nuovo nello specchio.

Maggie sentì sul collo il suo respiro mentre Nick si chi­nava su di lei. Le labbra di lui la sfiorarono, scesero sulla nu­ca, poi di nuovo sul collo. Ormai Maggie non poteva più tor­nare indietro.

«Che... che cosa fai?» balbettò.

«Quello che desidero fare da giorni» replicò lui bacian­dole il lobo dell'orecchio. Lei si sentì mancare.

«Non... non dovremmo...» disse. Ma la debole protesta non impedì a Nick di continuare ad accarezzarla, di stringer­la, di premere le mani calde sulla sua schiena.

«Nick...» ansimò. La bocca di lui la stava divorando, men­tre le mani continuavano a esplorarle il corpo. Maggie notò che una era fasciata e provò l'impulso di domandargli che cos'era successo. Ma non riusciva più a pensare.

Le mani raggiunsero i seni e cominciarono una lenta carezza circolare che fece crollare in lei ogni resistenza. Tra le sue gambe un punto doleva e pulsava, e una mano di lui scese proprio lì e lo sfiorò con tocco lieve ed esperto. Maggie era vi­cina all'orgasmo quando trovò finalmente la forza di girarsi per guardarlo in faccia, fermarlo, respingerlo. Le sue mani però la tradirono e invece di allontanarlo aprirono i bottoni del­la camicia, cercando la pelle di lui.

Tremando, Nick si chinò a baciarla sulla bocca. E dopo una breve esitazione lei ricambiò il bacio con la stessa avidità, gemendo.

Era senza respiro quando lui la lasciò e scese a baciarle i seni, succhiando i capezzoli attraverso la maglia sottile. La scossa fu così forte che Maggie dovette tenersi al cassettone per non cadere.

«Dio, Nick...» La stanza aveva ripreso a girare, il cuore martellava, e nelle sue orecchie c'era un suono insistente che minacciava di assordarla.

Poi ritornò in sé. Quel suono era lo squillo del telefono che la richiamava alla realtà.

«Devo rispondere...» sussurrò.

Nick era in ginocchio di fronte a lei e i suoi occhi erano pieni di desiderio. Com'erano arrivati a quel punto? pensò Maggie. Era quel maledetto whisky, ecco cos'era. Era la nebbia nel suo cervello, e quella bocca così fresca e quelle mani così esperte...

Si staccò da lui e barcollò fino al tavolino da notte, facendo cadere il telefono e afferrando la cornetta appena in tempo.

«Sì» riuscì a pronunciare. «Sono Maggie O'Dell.»

«Maggie, sono Christine Hamilton. Grazie a Dio l'ho trovata... non so che cosa fare, mi scusi se la chiamo così tardi, ma ho cercato Nick e nessuno sa dov'è.»

«Christine, si calmi e mi dica che succede» fece lei lanciando un'occhiata a Nick.

Sentendo il nome della sorella lui si raddrizzò e riallacciò in fretta la camicia, come se Christine fosse entrata e li avesse sorpresi. Maggie incrociò le braccia sulla maglietta ancora umida, poi si scostò i capelli dietro le orecchie. «Allora, che succede?» ripeté.

«Si tratta di Timmy. Quando sono rientrata, non era a ca­sa. Ho pensato che si fosse fermato a cena da qualche amico... ma ho telefonato a tutti e nessuno l'ha visto dopo questo po­meriggio. Erano andati con la slitta a Cutty Hill. Gli altri bam­bini lo hanno visto incamminarsi da solo verso casa. Lui però non è qui, Maggie, e sono passate più di sei ore... sono così spaventata, non so che cosa fare.»

Maggie coprì il microfono con la mano e si sedette sul let­to. «Timmy è scomparso» sussurrò a Nick.

Vide gli occhi di lui riempirsi di terrore. «Dio mio, no...» gemette Nick. Ed entrambi rimasero a fissarsi, sconvolti.

58

Christine aveva ricominciato a mangiarsi le unghie, un'abi­tudine dell'infanzia che credeva dimenticata, e guardava suo padre passeggiare su e giù in soggiorno. Era stato un sollievo sentire la sua voce al telefono, quando aveva cercato Nick; ma adesso non era affatto un conforto vederlo abbaiare ordini agli agenti che affollavano la casa. Si sentiva di nuovo una ragaz­zina sciocca, incapace di fare qualcosa di buono.

«Perché non vai a riposarti un po', tesoro?» suggerì Tony. Ma lei scosse la testa e rimase sul divano.

Poco dopo, quando Maggie e Nick entrarono in soggior­no, Christine balzò in piedi e si trattenne a stento dal gettare le braccia al collo del fratello. Lui doveva aver capito le sue intenzioni, perché si avvicinò e la strinse contro di sé senza di­re una parola. E lei, che fino a quel momento aveva resistito, cominciò a piangere.

Gentilmente, Nick la fece sedere di nuovo sul divano men­tre Maggie andava a prenderle un bicchiere d'acqua.

Christine la sorseggiò piano, sforzandosi di controllare il tremito delle mani. Suo padre era sparito, come se non voles­se assistere alla sua manifestazione di debolezza.

«Sei sicura che non ci sia un posto a cui non hai pensato, o qualcuno che non hai chiamato?» le chiese Nick.

«Ho telefonato a tutti quanti» rispose soffiandosi il naso. «E tutti quanti mi hanno detto che lo avevano visto dirigersi verso casa con la sua slitta.»

«Non potrebbe essersi fermato, che ne so, in qualche ne­gozio?» domandò Maggie.

«Non credo. A parte la chiesa, tra qui e Cutty Hill ci sono solo case. Ho provato anche a telefonare in rettorato, ma non mi ha risposto nessuno.» Colse l'occhiata tra Maggie e Nick e aggiunse: «Perché? Che è successo?».

«Niente, solo che Maggie e io eravamo al rettorato poco fa... Senti, vado a vedere che cosa sta facendo papà con i miei uomini. Torno subito.»

Maggie si tolse il giaccone e si sedette accanto a Christi­ne. Non era impeccabile come al solito. Portava un paio di jeans e una vecchia maglietta slabbrata e stinta, e aveva i ca­pelli tutti arruffati.

«Non l'ho buttata giù dal letto, vero?» domandò Chri­stine.

«No, per niente.» Maggie cercò di ravviarsi un po' i ca­pelli e poi si guardò, come se notasse solo allora il suo abbi­gliamento trasandato. «Stavo tornando a casa... in Virginia, in­tendo. Il mio volo è stato ritardato, ma ormai avevo già con­segnato tutti i bagagli. Probabilmente a quest'ora i miei abiti stanno volando sopra Chicago.»

«Posso prestarle qualcosa, se vuole.»

«Davvero non le dispiace?»

«No, si immagini. Venga in camera mia.»

Christine si alzò, sorpresa di averne ancora l'energia e sol­levata di avere qualcosa da fare. Chiuse la porta della camera dietro di loro, poi aprì l'armadio e qualche cassetto. Era più alta di Maggie e aveva meno seno, ma a parte questo aveva più o meno la stessa taglia.

«Si serva pure» disse sedendosi sul letto.

Maggie prese un pullover dolcevita da uno dei cassetti. «Non ha da prestarmi anche un reggiseno?»

«Sono nel primo cassetto di sinistra, ma temo che siano un po' piccoli per lei. Può provare uno di quelli sportivi che sono un po' più elastici.»

Il disagio di Maggie era palpabile. Christine pensò di la­sciarla sola, ma in quel momento l'altra si sfilò la maglia e in­filò un reggiseno. Era molto stretto e lei cercò di assestarlo co­me meglio poteva. Christine notò la cicatrice che le attraver­sava l'addome e non riuscì a trattenere la curiosità.

«Mi scusi se sono indiscreta, ma quella non sembra la ci­catrice di un'operazione» disse.

«Infatti.» Maggie la toccò. «È un regalo» disse piano. «Il ricordo di un assassino che ho contribuito a catturare.»

«Non riesco nemmeno a immaginare le situazioni orribi­li in cui si deve essere trovata» esclamò Christine.

«Sono i rischi del mestiere. Senta, non ha una canottiera invece di questa camicia di forza?»

«Ultimo cassetto a sinistra. Come fa a non farle effetto?»

«Oh, non ho detto che non mi fa effetto» replicò Maggie, scegliendo una canottiera di cotone e infilandola nella cintu­ra dei jeans. «Cerco solo di non pensarci.»

Anche il pullover era aderente, ma la canottiera aiutava a smussare un po' le curve. «Grazie» disse.

«I corpi di Danny e di Matthew erano coperti di ferite spa­ventose, vero?»

Maggie capì che la domanda non era fatta dalla giornali­sta a caccia di dettagli sensazionali, ma dalla madre che vole­va sapere. «Troveremo Timmy molto presto» disse invece di rispondere. «Nick ha già chiamato il giudice Murphy per far­si dare un mandato, e abbiamo un sospetto.»

Per un attimo l'istinto giornalistico ebbe il sopravvento. Chi era? Che tipo di mandato stava preparando il giudice? Ma il pensiero tornò subito al suo bambino, così fragile, ancora così piccolo, rannicchiato in un angolo buio chissà dove. Dav­vero glielo avrebbero trovato prima che qualcuno rovinasse la sua pelle così bianca con quei brutti tagli rossastri?

«Cade sempre» sussurrò. «È continuamente pieno di li­vidi...»

Le lacrime le riempirono gli occhi, ma cercò di non la­sciarsi andare. Non voleva crollare proprio adesso, di fronte a una donna che era stata tagliata a pezzi da un maniaco, ma reagiva con un'incredibile forza d'animo. Sì, ecco che cosa le serviva. Essere forte. Piangere non avrebbe aiutato Timmy.

Si alzò dal letto e inspirò a fondo. «Mi dica come posso essere d'aiuto» disse. E ignorò la stretta di terrore alla bocca dello stomaco.

59

Giovedì 30 ottobre

Timmy fu svegliato da un raggio di sole che penetrava attra­verso le assi. Per un attimo pensò di essere a casa, poi avver­tì l'odore di kerosene e di muffa, sentì il rumore della catena che gli stringeva la caviglia ed ebbe paura. Moltissima paura.

No, non doveva lasciarsi prendere dal panico. «Pensa a qualcosa di piacevole» si disse a voce alta. Suo zio Nick gli aveva insegnato a fare così, quando aveva paura e non riusciva a dormire.

Si guardò intorno. Sulle pareti della stanzetta c'erano dei poster molto simili a quelli che aveva in camera sua: i Cornhuskers, Batman, due Star Trek. Non si sentiva rumore di traf­fico, solo il vento che fischiava tra le assi.

Se fosse riuscito ad arrivare alla finestra, era sicuro di po­ter schiodare le assi e scivolare fuori. Cercò di smuovere il let­to, ma era troppo pesante e lui troppo debole per la fame.

Mangiò una manciata di patatine fritte. Erano fredde, ma non male. Poi trovò sulla cassetta due tavolette di cioccolato, un sacchetto di salatini al formaggio e un'arancia. Divorò tut­to, esaminando gli anelli della catena. Nel punto di giuntura c'era una fessura sottilissima, ma lui non aveva abbastanza forza per allentarla. Non si era mai sentito così fragile e im­potente.

Avvertì dei passi e si rimise in fretta sotto le coperte, men­tre il chiavistello scattava e la porta si apriva.

L'uomo aveva una giacca a vento e un berretto di lana sul­la maschera di gomma. «Buongiorno» sussurrò amichevole. «Ti ho portato qualcosa che forse ti piacerà.» E gli mostrò un sacchetto di carta marrone.

Timmy si avvicinò mostrandosi interessato e fingendo di non aver paura. Il sacchetto conteneva degli album di fumet­ti quasi nuovi e un mucchietto di figurine tenute insieme da un elastico. C'erano anche delle cose da mangiare, che l'uo­mo posò sulla cassetta: un pacco dei suoi cereali preferiti, al­tre tavolette di cioccolato, un pacchetto di salatini al mais e due o tre barattoli di spaghetti al pomodoro. «Ho cercato di prenderti le cose che ti piacciono di più» disse lo sconosciuto.

Timmy lo ringraziò automaticamente, e notò di nuovo che gli occhi dell'uomo nelle fessure della maschera sembra­vano sorridere.

«Come sapeva che mi piacciono i cereali Cap'n Crunch domandò.

L'uomo rispose a bassa voce: «Oh, io mi ricordo tante co­se... Adesso però devo andare. C'è qualcos'altro che vorresti?».

Timmy lo vide spegnere la lampada a kerosene e provò una fitta di panico. «Tornerà prima che faccia buio? Odio il buio.»

«Cercherò di tornare.» L'uomo mise la mano in tasca e ag­giunse: «Ti lascio questo. Ma stai attento, Timmy, mi racco­mando...». E gettò sul letto un piccolo accendino luccicante.

Timmy aspettò di essere solo, poi prese in mano l'accen­dino. E fu allora che notò il piccolo stemma che aveva visto tante volte sui giubbotti di suo nonno e di zio Nick. Era il sim­bolo dell'ufficio dello sceriffo.

60

L'odore del caffè le diede la nausea. Il locale si stava riem­piendo di clienti che venivano a fare colazione. Nella speran­za di non essere riconosciuta, Maggie mangiò senza voglia delle uova strapazzate. Prima o poi Nick si sarebbe deciso a tornare. Le aveva detto che non ci sarebbero voluti più di die­ci o quindici minuti, ma era andato via da più di un'ora.

Quella mattina aveva lasciato Christine a malincuore. Non era molto brava a confortare le persone o a rassicurarle. Do­po tutto la sua sola esperienza in materia risaliva a quando aveva dodici anni, e la sera doveva trascinare a letto sua ma­dre ubriaca. Ma aveva simpatia per Christine e provava mol­ta pena per lei. La faccetta lentigginosa di suo figlio le era ri­masta impressa, e non poteva nemmeno immaginare di do­ver aggiungere il corpo martoriato di Timmy alla sua orribi­le, incancellabile galleria di ricordi.

Finalmente Nick entrò, la cercò con gli occhi e le fece un cenno. Portava i soliti jeans con gli stivali da cowboy, ma que­sta volta sotto il giubbotto aveva una felpa rossa con il nome dei Cornhuskers. La mascella non era più gonfia, ma ancora livida, annerita dalla barba non rasata. Sembrava stanco, ma era più attraente che mai.

Si sedette di fronte a lei e prese il menu. «Il giudice Murphy esita un po' a darmi un mandato di perquisizione per il retto­rato» la informò leggendo. «Non ha avuto problemi per il fur­goncino, ma dice che...»

«Ciao, Nick» lo interruppe Angie. «Che cosa ti porto?»

«Oh, ciao» rispose lui imbarazzato.

Maggie guardò la bella cameriera bionda e capì subito che i suoi rapporti con Nick non si limitavano alle ordinazio­ni del ristorante.

«Come stai?» proseguì la ragazza cercando di apparire disinvolta.

«Sono stato molto occupato» fece lui senza guardarla. «Vorrei solo caffè e pane tostato, per favore.»

«Pane integrale, giusto? E panna per il caffè.»

«Sì, grazie.»

«Una vecchia amica?» domandò Maggie quando la ra­gazza si fu allontanata. Non aveva alcun diritto di curiosare, ma vederlo così imbarazzato la divertiva.

«Chi, Angie? Sì, più o meno...» Nick prese dalla tasca il cellulare della sorella, che si era fatto dare nel caso Timmy chiamasse, cercando di cambiare discorso. «Odio questi af­fari.»

«Sembra molto carina» insisté lei.

Questa volta lui la guardò dritto negli occhi. «È molto ca­rina, ma non mi fa sudare le mani o mancare le ginocchia co­me te» disse.

Nello stomaco di Maggie le farfalle si risvegliarono. Lei cercò di distrarsi imburrando un toast.

«Senti, Nick, a proposito di ieri sera... credo sia meglio che ci dimentichiamo di tutto quanto.»

Lui sembrò ferito e fece una piccola smorfia. «E se io non volessi dimenticare? È da tempo che non sentivo niente del genere, e non posso...»

«Ti prego, non trattarmi come un'ingenua camerierina. Non c'è bisogno che tu finga o...»

«Non è una finzione. Ieri, quando pensavo che stessi par­tendo e che non ti avrei più rivista, mi sentivo come se qual­cuno mi avesse dato un pugno in faccia. E poi ieri sera... Ge­sù, Maggie, tu mi sconvolgi, mi togli il respiro, mi fai ammu­tolire... e credimi, di solito con le donne non sono così!»

«Eravamo solo esausti, tutti e due.»

«Io non ero poi così stanco, e non lo sembravi nemmeno tu.»

La sua reazione era stata davvero così scoperta? pensò lei. «Sei deluso perché non puoi aggiungere il mio nome al tuo elenco di conquiste?» disse difensiva.

«Sai bene che non è questo.»

«E allora sarà il gusto del proibito» concluse secca. «Io so­no sposata, Nick. Non sarà il miglior matrimonio del mondo, ma per me significa ancora qualcosa. Perciò non voglio più parlare di ieri sera.»

«Eccoti toast e caffè» disse Angie avvicinandosi. Maggie si domandò se potesse avvertire la tensione fra loro.

«Non vuoi nient'altro?» fece la ragazza rivolgendosi so­lo a Nick.

«Maggie, tu vuoi qualcos'altro?» disse lui di proposito.

La cameriera arrossì.

«No, grazie.»

«Va bene» concluse Angie, ansiosa di andarsene.

Ci fu un momento di silenzio, poi Maggie chiese: «Per­ché il giudice non vuole darti il mandato di perquisizione?».

Nick sospirò e prese a imburrare il toast con rapidi col­petti rabbiosi. «Il giudice Murphy e mio padre appartengono a una generazione che ritiene intoccabili preti e chiesa. Ho cer­cato di convincerlo che sospettiamo di Howard, ma...»

«D'altra parte è quello che pensi.»

«Non lo so.» Lui spinse da parte il toast e si massaggiò la mascella ispida.

«Che cosa ti sei fatto alla mano?» si informò lei notando di nuovo la fasciatura.

«Oh, non è niente. Senti, ieri sera Padre Keller mi ha det­to che Ray Howard ha lasciato il seminario l'anno scorso. E mentre aspettavo la risposta del giudice ho fatto qualche ri­cerca. Howard era in un seminario di Silver Lake, nel New Hampton, che è vicinissimo al Maine e a meno di cinquecen­to miglia da Wood River.»

Lei si raddrizzò sulla sedia. «E quanto tempo c'è rima­sto?»

«Gli ultimi tre anni.»

«Questo elimina il delitto di Wood River.»

«Sì, ma non è una coincidenza un po' strana? Voglio di­re, in tre anni di seminario potrebbe aver imparato come si somministra l'estrema unzione.»

«Era qui all'epoca dei primi delitti?»

«Sto facendo controllare da Hal. Ma ho parlato con il rettore del seminario, un certo Padre Vincent. Non ha voluto scen­dere in dettagli, però mi ha detto che Howard è stato allonta­nato per condotta disdicevole.»

«In seminario può voler dire qualsiasi cosa, dal rompere il voto di digiuno allo sputare sul pavimento. Non lo so, Nick. Howard non mi sembra abbastanza intelligente per architet­tare i rapimenti e il resto.»

Nick ripiegò il tovagliolo di carta più volte, battendo rit­micamente il piede sotto il tavolo. «Forse è quello che vuol far­ci credere» osservò.

«E sia lui sia Keller avevano la possibilità di togliere di mezzo Padre Francis.»

«Dio santo, Maggie, pensavo che ieri sera tu ne fossi con­vinta solo perché avevi bevuto!»

«Te lo ripeto, ieri mattina Padre Francis mi ha detto che doveva dirmi qualcosa di molto importante. E qualcuno ha ascoltato la nostra conversazione, lo so perché ho sentito lo scatto di un altro telefono.»

«Non poteva essere una coincidenza?»

«Ho imparato anni fa che le coincidenze sono rare. L'au­topsia potrebbe dirci se Padre Francis è stato spinto o è solo caduto.»

«Ma non posso chiedere un'autopsia se non ho prove» protestò lui.

«Potremmo parlarne con la famiglia, o con l'arcidiocesi.»

«La verità è che non abbiamo tempo di aspettare i per­messi per autopsie e mandati di perquisizione» fece lui pren­dendosi la testa fra le mani. «Io voglio solo spaventare Ho­ward a morte.»

Invece di discutere ancora, Maggie disse: «Che sia Ho­ward o Keller, dobbiamo essere molto cauti. Se l'assassino si fa prendere dal panico...».

Questa volta la vittima non era un ragazzino sconosciu­to: era Timmy. Non aveva parlato con Nick del fatto che l'as­sassino sembrava accelerare i suoi ritmi, ma dagli occhi di lui vide che lo aveva intuito.

«Già» disse Nick come se leggesse nella sua mente. «Sta accelerando, vero?»

Maggie annuì.

«Andiamocene di qui.» Nick gettò una manciata di ban­conote sul tavolo e infilò il giubbotto.

«Dove andiamo?»

«A sequestrare il furgoncino. E mentre ci siamo, tu po­tresti scusarti con Padre Keller per ieri sera.»

61

Padre Keller aveva appena terminato la messa del mattino e aveva un aspetto molto ufficiale. Tuttavia da sotto la tonaca facevano capolino come sempre le Nike bianche.

«Sceriffo, agente O'Dell... che sorpresa!»

«Possiamo entrare un momento?» domandò Nick sfre­gandosi le mani per riscaldarle. Nonostante il sole, la tempe­ratura era ancora insolitamente bassa per la stagione.

Il prete diede un'occhiata prudente a Maggie, poi sorrise e si fece da parte lasciandoli entrare in soggiorno. Il camino era acceso, ma nell'aria si sentiva odore di bruciato. Nick si chiese se Keller avesse appena eliminato qualcosa che voleva nascondere.

«Non so se posso esservi d'aiuto» esordì Padre Keller. «Ie­ri sera...»

«In effetti volevo scusarmi» lo interruppe Maggie. «Il fat­to è che avevo bevuto un po', e questo mi aveva resa aggres­siva. Spero che capisca e che accetti le mie scuse.»

«Ma certo, capisco benissimo. E sono lieto di sapere che non ce l'aveva con me... dopo tutto ci eravamo visti per la pri­ma volta!»

Padre Keller sembrava più rilassato e aveva smesso di te­nere le mani strettamente intrecciate dietro la schiena. «Stavo per prepararmi un tè. Posso offrirne una tazza anche a voi?»

«Siamo qui in veste ufficiale, Padre Keller» disse Nick.

«Ah, davvero?» La voce del prete era calma, ma le sue mani si infilarono nelle profonde tasche della tonaca, come se volesse nasconderle.

Nick prese il mandato dal giubbotto e disse: «Vede, ieri sera abbiamo notato il vecchio furgoncino qui dietro...»

«Il furgoncino?» domandò Padre Keller sorpreso. Perché quella reazione? pensò Nick.

«Sì, quello parcheggiato in mezzo agli alberi. Corrispon­de alla descrizione che una testimone ci ha fornito del veico­lo in cui ha visto salire Danny Alverez il giorno della scom­parsa.» Nick aspettò. Sapeva che accanto a lui, Maggie regi­strava ogni piccolo movimento del prete.

«Le dirò, non so nemmeno se funziona ancora», disse Pa­dre Keller. «Credo che Ray lo abbia usato qualche volta per andare a far legna nei boschi vicino al fiume.»

Nick gli porse il mandato e lui lo prese con due dita, co­me se potesse esplodere da un momento all'altro.

«Come le ho detto ieri sera» riprese Nick, «sto solo cer­cando di seguire tutti gli indizi. Saprà che ultimamente il mio ufficio ha subito delle critiche... Ecco, non voglio si possa di­re che non abbiamo controllato tutto. Ha le chiavi del furgon­cino, Padre?»

«Oh... non credo che sia chiuso a chiave. Mi metto un giac­cone e gli stivali e l'accompagno.»

«Grazie.» Nick lo osservò avvicinarsi al camino e infila­re gli stivali di gomma che aveva notato la sera prima. Così erano davvero suoi! Keller aveva detto di essere sempre ri­masto al rettorato, e allora Nick aveva pensato che le tracce di neve sugli stivali potevano essere state causate da una rapida uscita in cortile per prendere altra legna per il caminetto. Ma adesso non ne era più tanto sicuro.

Erano sulla porta quando Maggie si aggrappò a un tavo­lino e si piegò su se stessa. «Dio... mi viene di nuovo da vo­mitare...» borbottò.

«Si può sapere che cosa hai bevuto ieri sera?» esclamò Nick. Poi sussurrò al prete: «È tutta la mattina che fa così...»

«Posso andare in bagno?» domandò lei.

«Oh, certo...» Padre Keller guardò ansioso la moquette bianca, poi disse: «In corridoio, la seconda porta a destra.»

«Grazie. Vi raggiungo subito.» E Maggie si allontanò con una mano sullo stomaco.

«È il caso di lasciarla da sola?» si informò Padre Keller.

«Oh, sì... anzi è meglio. Prima mi ha sporcato tutti gli sti­vali.»

Il prete guardò gli stivali di Nick con una smorfia, poi si affrettò a uscire.

Il furgoncino era coperto di neve e dovettero toglierla con una pala per aprire la portiera. All'interno c'era un forte odo­re di muffa e di chiuso, come se il veicolo non fosse stato usa­to da anni. Nick soffocò la delusione e si arrampicò sul sedile di finta pelle screpolata, cercando a tastoni in ogni angolo sen­za sapere bene che cosa sperava di trovare.

«Credo che non ci sia un granché in questa vecchia car­retta» disse Padre Keller.

Nick ritirò la mano che aveva infilato sotto i sedili, graf­fiandosi le nocche con una molla che sporgeva, poi aprì lo scomparto vicino al posto di guida e puntò la torcia. C'erano un libretto di istruzioni ingiallito, una lattina arrugginita, al­cuni tovaglioli di McDonald, un foglietto con un elenco di no­mi e numeri, una scatola di fiammiferi di un posto chiamato Pink Lady e un piccolo cacciavite.

Sentendo gli occhi di Keller su di sé, Nick prese i fiam­miferi e poi fece scorrere la mano sul fondo. Sentì un piccolo oggetto cilindrico, prese anche quello e lo cacciò in tasca con i fiammiferi. Senza farsi vedere, mise nel giubbotto anche il foglietto con i nomi. Infine richiuse lo sportellino.

«Qui non c'è niente» disse. Scivolò fuori dopo un'ultima occhiata, e notò che, nonostante l'odore di vecchio e di chiu­so, il cruscotto, i tappetini e i sedili erano incredibilmente pu­liti.

«Mi dispiace che abbia perso tempo» osservò Padre Kel­ler avviandosi verso il rettorato.

«Be', devo ancora guardare nel retro.»

L'altro si fermò e tornò indietro. Sembrava decisamente seccato. O era qualcosa di più?

62

Maggie guardò di nuovo dalla finestra, vide che Nick e Padre Keller erano ancora alle prese con il furgoncino e continuò ad aprire tutte le porte lungo il corridoio, sbirciando nelle stan­ze. Dopo alcuni uffici e una dispensa, trovò infine una came­ra da letto.

Era piccola, arredata in modo molto semplice, con il pa­vimento di legno e le pareti bianche. Sopra il letto era appeso un crocifisso, in un angolo c'era un tavolo con due sedie e nel­l'angolo opposto un tavolino che reggeva un vecchio tosta­pane e una teiera. Sul comodino c'era una bella lampada dal­la base scolpita, che stonava un po' con tanta semplicità. Nien­te che le sembrasse veramente degno di attenzione.

Maggie stava già per abbandonare il campo quando no­tò tre stampe sulla parete di fronte al letto. Non era un'esper­ta, ma lo stile faceva pensare al Rinascimento italiano. E in ognuna era raffigurata la tortura di un uomo.

Si avvicinò e lesse le scritte sulle cornici. Il Martirio di San Sebastiano, 1475, di Antonio del Pollaiolo, ritraeva un San Se­bastiano legato a una colonna con il corpo trafitto di frecce. Nel Martirio di Sant'Erasmo, 1629, di Nicolas Poussin, alcuni cherubini alati volavano sopra una folla di uomini che strap­pavano le budella a un martire incatenato a una graticola.

Chi poteva desiderare di vedere immagini simili prima di chiudere gli occhi? pensò Maggie. La terza stampa, Il Mar­tirio di Sant'Ermione, 1512, di Matthias Anatello, rappresenta­va un uomo legato a un albero che veniva ferito con pesanti coltelli. Il petto del martire era coperto di sangue e due ferite si intersecavano formando una sorta di croce. Ma certo, pensò Maggie. Adesso era tutto chiaro. I tagli sul torace dei ra­gazzi non erano a forma di X, ma di croce, e avevano un va­lore simbolico ben preciso. Così l'assassino trasformava le sue vittime in martiri.

In corridoio si sentirono dei passi e Maggie uscì dalla stan­za proprio mentre Ray Howard le veniva incontro.

«Ah, è lei» fece l'uomo guardandola severo. «L'agente dell'FBI.»

«Sì, ho accompagnato lo sceriffo Morrelli.»

«E che cosa ci faceva nella camera di Padre Keller?»

«Ah, è la sua camera?» commentò distratta Maggie. «Sta­vo cercando il bagno, ma non riuscivo a trovarlo...»

«Certo, perché è dall'altra parte del corridoio» disse Ray continuando a fissarla con diffidenza.

«Ah, ecco. Grazie mille.»

Maggie si avviò nella direzione giusta ed entrò in ba­gno, mettendosi in ascolto dietro la porta chiusa. Poco do­po, quando si affacciò, vide Howard sparire nella camera di Padre Keller.

63

Il pianale posteriore del furgoncino era colmo di neve ghiac­ciata. Nick vi si arrampicò e chiese a Padre Keller di passargli la pala. Ma il prete rimase immobile con le mani strette al pet­to, come se stesse pregando. Il vento gli sbatteva la tonaca con­tro le gambe e gli scompigliava i capelli.

«Padre Keller?» ripeté Nick. «Mi dà la pala?»

«Oh, certo» fece lui riscuotendosi. «Però non credo che troverà niente di utile, sa.»

«Lo vedremo subito.» Nick si sporse a prendere l'arnese dalle mani di Padre Keller, che sembrava restio a darglielo. C'era sotto qualcosa, lo sentiva, e cominciò a scavare in fretta nella neve. Poi rallentò il ritmo per paura di rovinare o far scomparire qualche prova, e continuò sollevando mucchi di neve più piccoli. Nonostante il freddo sentiva il sudore scor­rergli per la schiena.

Proseguì finché la pala non urtò qualcosa di solido. Il suo­no allarmò Padre Keller, che si avvicinò.

Con piccoli colpi prudenti, Nick disseppellì un oggetto e abbandonò la pala per esaminarlo. Tutt'intorno c'era una cro­sta di ghiaccio, il che stava a indicare che la cosa era ancora calda quando era stata gettata nel mucchio di neve che poi l'a­veva ricoperta.

Nick guardò meglio e intravvide qualcosa che sembrava un lembo di pelle. Riprese a scavare con il cuore in gola e poi si ritrasse sconvolto. «Dio santo!» esclamò.

Incrostato nella tomba di ghiaccio c'era il corpo scortica­to di un grosso cane nero, con la pelliccia che pendeva a bran­delli dalla carogna incisa e scarnificata in più punti, e la gola tagliata.

64

Nick e Padre Keller stavano risalendo i gradini dell'ingresso quando Maggie aprì la porta. Nick la guardò per capire se ave­va trovato qualcosa, ma il sorriso sfuggente di lei non gli dis­se nulla.

«Sta meglio?» domandò il prete.

«Molto meglio, grazie.»

«È un bene che tu non sia venuta con noi» disse Nick, che aveva ancora la nausea.

«Perché? Che cosa avete trovato?»

«Te lo dirò più tardi.»

«Adesso vi andrebbe una tazza di tè?» suggerì il prete.

«No, grazie. Dobbiano an...»

«Sì, se non è troppo disturbo» intervenne a sorpresa Mag­gie. «Magari qualcosa di caldo mi sistemerà lo stomaco.»

«Entrate, allora. Vedo se abbiamo anche qualche bi­scotto.»

Nick non riusciva a spiegarsi la mossa. Perché all'im­provviso Maggie sembrava ansiosa di passare altro tempo con quel prete che disprezzava tanto?

Padre Keller aiutò Maggie a togliersi il giaccone e Nick lo sorprese a guardare le gambe di lei fasciate nei jeans. Non era un'occhiata casuale, ma uno sguardo di apprezzamento. In fondo era un uomo, si disse Nick. E in effetti Maggie, con quei jeans aderenti, era uno schianto.

Non appena Padre Keller si fu allontanato, si chinò ver­so di lei. «Allora?» sussurrò.

«Hai sempre il cellulare di Christine?» domandò lei in­vece di rispondere.

«Sì, è nella tasca del giubbotto.»

«Ti dispiace prenderlo?»

Dopo di che, senza dare spiegazioni, si avvicinò al cami­no come se volesse scaldarsi le mani e prese a frugare nella ce­nere con l'attizzatoio.

«Che diavolo stai facendo?» chiese Nick incuriosito.

«Quando siamo entrati ho sentito odore di gomma bru­ciata.»

«Ehi, attenta, sta per tornare...»

Maggie fece in tempo a osservare: «Qualsiasi cosa fosse, è ridotta in cenere.»

«Latte, limone, zucchero?» domandò Padre Keller en­trando con un vassoio. Quando lo posò sulla panca nel vano della finestra, Maggie era in piedi accanto a Nick.

«Latte e zucchero, grazie» disse Nick.

«Per me limone» disse lei. «Ma prima, se volete scusar­mi, devo fare una telefonata.»

«C'è un apparecchio nell'ufficio in corridoio» offrì Padre Keller.

«No, grazie, userò il cellulare di Nick. Posso?»

Lui le porse il telefono inarcando le sopracciglia e lei si ri­fugiò subito nell'ingresso.

«Vuole un pasticcino?» chiese Padre Keller.

«No, grazie.» Nick cercò di tendere l'orecchio, ma Mag­gie doveva essersi allontanata perché la sua voce non si sen­tiva più.

Poi un telefono cominciò a squillare, un suono soffocato ma insistente. Con aria perplessa il prete uscì in corridoio.

«Che cosa sta facendo, agente O'Dell?» esclamò.

Nick posò la tazza e si affrettò a raggiungerli. Maggie, con il cellulare all'orecchio, camminava lungo il corridoio e si fer­mava davanti a ogni porta, in ascolto. Padre Keller le stava al­le calcagna e continuava a interrogarla senza ricevere rispo­sta.

Nick si avvicinò a Maggie e ascoltò con lei gli squilli, a ogni passo sempre più chiari. Quando arrivarono in fondo al corridoio, Maggie aprì una porta e lo squillo risuonò fortissi­mo.

«Di chi è questa camera?» domandò.

Padre Keller la guardò indignato.

«Padre, le dispiace rispondere al telefono?» insisté lei sen­za entrare. «Sembra che sia in uno dei cassetti.»

Il prete non si mosse. Gli squilli non cessavano e solo al­lora Nick capì che era stata Maggie a fare la chiamata: teneva in mano il cellulare e una lucina verde lampeggiava ogni vol­ta che l'altro telefono squillava.

«Risponda, Padre Keller» ripeté Maggie.

«Ma questa è la camera di Ray, e io non posso frugare nel­le sue cose...»

«Prenda solo il telefono» disse lei. «È nero, piccolo, di quelli con il coperchio richiudibile.»

Lui la fissò stupito, poi entrò nella camera. Di lì a poco ne uscì con un piccolo cellulare. Lei lo prese e lo gettò a Nick.

«Dov'è Ray Howard, Padre? Dobbiamo portarlo con noi al distretto per interrogarlo.»

«Sta facendo le pulizie in chiesa. Vado a dirglielo.»

Non appena furono soli Nick prese Maggie per un brac­cio. «Ma insomma, si può sapere che cosa succede? Perché tut­to a un tratto ti sei convinta di dover interrogare Howard, e come mai hai fatto il numero del suo cellulare? Come lo sa­pevi, tra l'altro?»

«Non ho fatto il numero di Howard, Nick, ho fatto il mio. Questo è il cellulare che ho perso l'altra notte nel fiume.»

65

Christine cercò di mettersi più comoda sulla sedia, infasti­dendo la truccatrice.

«Andiamo in onda tra dieci minuti» disse un uomo cal­vo con le cuffie. Poi si chinò verso di lei per assicurarle un pic­colo microfono al bavero della giacca. Christine respirò pro­fondamente. Si sentiva accecata dalle luci, soffocata dall'aria polverosa, ed era sicura che in pochi minuti tutto il trucco le si sarebbe sciolto per il caldo.

Arrivò una donna, si sedette nella poltroncina di fronte alla sua e, ignorandola, cominciò a leggere dei fogli. Allonta­nò con un colpo la mano dell'uomo calvo e si appuntò il mi­crofono da sola. Poi gettò a terra i fogli e disse: «Spero che ab­biate preparato un gobbo, perché non ho intenzione di usare questa roba!».

Un'inserviente si inginocchiò a raccogliere la pagine dat­tiloscritte, mentre l'uomo la rassicurava paziente: «Il gobbo è pronto, stai tranquilla».

«Voglio un bicchiere d'acqua» disse ancora la donna sbuf­fando. «Perché non c'è una bottiglia sul tavolino qui accan­to?»

L'inserviente le porse un bicchiere di plastica, ma la don­na lo allontanò con malagrazia. «Non questo, ho bisogno di un bicchiere di vetro. Cristo santo, quante volte lo devo ripe­tere?»

D'improvviso Christine si rese conto che la donna era Darcy McManus. Forse non era abituata alle trasmissioni del mattino, perché appariva di pessimo umore. Nella luce cru­da, la sua pelle mostrava una ragnatela di piccole rughe e i capelli neri, di solito così lucenti, erano secchi e stopposi. Il ros­setto vivace strideva con la pelle troppo bianca, priva del so­lito strato di fondotinta che la truccatrice stava applicando in quel momento.

«Un minuto» gridò l'uomo calvo.

McManus mandò via la truccatrice con un gesto nervo­so, si controllò in uno specchio, si raddrizzò la giacca e la gon­na troppo corta. E Christine si rese conto di averla fissata tut­to il tempo come ipnotizzata.

«Tre, due, uno...»

«Buongiorno» disse McManus nella telecamera. La sua faccia si era trasformata e adesso inalberava un sorriso ami­chevole. «Oggi abbiamo con noi un'ospite speciale, Christine Hamilton, la giornalista dell'Ornata journal che ha scritto gli articoli sul serial killer di Platte City. Benvenuta» continuò, ac­corgendosi finalmente di lei.

«Buongiorno» rispose Christine, cercando di non pensa­re a quello che le aveva detto Ramsey poco prima, e cioè che la sua intervista sarebbe stata trasmessa da tutte le stazioni te­levisive dello stato. Quella era senza dubbio la ragione per cui in studio c'era Darcy McManus invece del solito conduttore del mattino.

«Oggi però lei non è qui come giornalista ma come ma­dre. Può dirci perché, Christine?»

McManus era davvero brava, pensò. La guardava con un'espressione preoccupata che sembrava autentica, ma in realtà teneva d'occhio il gobbo, il cartellone elettronico che sta­va alle sue spalle e le suggeriva le battute.

«Riteniamo che un pazzo pericoloso abbia rapito mio fi­glio Timmy ieri pomeriggio» disse Christine con un filo di voce.

«Che cosa terribile...» McManus si chinò verso di lei e le batté un colpetto sulla mano. Christine resistette all'impul­so di voltarsi per controllare se il gobbo le suggeriva anche i gesti.

«E la polizia pensa che sia opera dello stesso uomo che ha brutalmente ucciso Danny Alverez e Matthew Tanner?»

«Non lo sappiamo con certezza, ma c'è questa possibi­lità.»

«Lei è divorziata e cresce suo figlio da sola, non è vero?»

La domanda stupì Christine, che tuttavia rispose: «Sì, in­fatti».

«Anche Laura Alverez e Michelle Tanner sono madri di­vorziate, non è così?»

«Credo di sì.»

«Pensa che scegliendo dei ragazzini che hanno solo la ma­dre l'assassino voglia mandare un messaggio?»

Christine esitò. «Non ne ho idea...»

«Suo marito l'aiuta nell'educazione di Timmy?»

«No, non molto» ammise Christine stringendosi le mani in grembo.

«È vero che lei e Timmy non lo vedete da quando lui l'ha lasciata per un'altra donna?»

«Non mi ha lasciata, abbiamo deciso di divorziare» ri­batté Christine infastidita. Aveva i nervi scossi e cominciava a sentire la collera salirle alla testa. Doveva controllarsi, la sua rabbia non sarebbe certamente stata di aiuto.

«È possibile che sia stato suo marito a rapire Timmy?» in­sisté la conduttrice.

Christine si fece forza.

«Non credo» disse con tutta la calma che riuscì a inven­tarsi. «È piuttosto improbabile.»

«La polizia si è messa in contatto con il suo ex-marito?»

«È chiaro che ci metteremmo in contatto con lui se pen­sassimo che... Insomma» sbottò di colpo Christine, «non cre­de che preferei pensare che Timmy sia con suo padre invece che con uno psicopatico che fa a pezzi i ragazzini?»

McManus stiracchiò un sorriso.

«Lei è chiaramente turbata» commentò. «Forse dovrem­mo fare una pausa...» Le versò un bicchiere d'acqua e aggiunse: «Noi tutti capiamo quanto deve essere difficile per lei...»

«No, lei non capisce un bel niente» ribatté Christine igno­rando il bicchiere, la telecamera e quel maledetto studio tele­visivo.

«Mi scusi?»

«Non può capire. Prima non capivo nemmeno io. Volevo solo lo scoop, esattamente come lei.»

McManus si guardò intorno alla ricerca del regista, irritata. «Lei è sotto pressione, Christine» disse fingendosi com­prensiva. «E anche il fatto di essere qui deve essere uno stress... prendiamoci una pausa mentre va in onda la pubblicità, che ne dice?»

E continuò a sorridere finché le luci non si abbassarono, poi aggredì l'uomo calvo ignorando Christine, come se lei fos­se di nuovo invisibile. «Così non andiamo avanti» ringhiò. «Ho bisogno di qualcosa su cui lavorare!»

«Ho tempo di andare alla toilette?» domandò Christine. L'uomo calvo annuì e lei si staccò il microfono posandolo sul tavolino accanto al bicchiere che non era stato toccato.

«Non ci metta molto» fece McManus acida. «Qui non è come al suo giornale, dove possono fermare le presse. Qui sia­mo in diretta.» Poi prese il bicchiere e bevve a piccoli sorsi per non rovinarsi il rossetto.

Christine si allontanò dallo studio e dalla selva di cavi e lu­ci, e non appena fu in corridoio le parve di ricominciare a re­spirare. Proseguì oltre i camerini, oltre il bagno, aprì la porta di metallo con la scritta USCITA. E finalmente si sentì libera.

66

«Sono in arresto?» domandò Ray Howard.

La sua faccia biancastra faceva apparire gli occhi ancora più sporgenti.

Maggie si massaggiò la nuca per allentare la tensione dei muscoli. Nella stanza c'era un odore forte di caffè e dalle ve­neziane polverose faceva capolino la luce aranciata del tra­monto. Lei e Nick erano in quella stanza da ore, avevano ri­petuto decine di volte le stesse domande e avevano avuto sem­pre le stesse risposte. Maggie non credeva che Howard fosse colpevole, ma sperava che crollasse e rivelasse qualcosa di uti­le. Nick, invece, era ancora convinto che il sagrestano fosse il loro uomo.

«No, lei non è in arresto» ammise alla fine.

«E allora non potete tenermi qui più di un certo numero di ore.»

«E come lo sa?»

«Guardo sempre i gialli alla TV, cosa crede? E poi ho un amico poliziotto.»

«Ah, ha un amico?»

«Nick» intervenne Maggie.

Lui le diede un'occhiataccia e si rimboccò le maniche del­la camicia.

«Ray, vuole un caffè?» domandò lei gentilmente.

L'uomo esitò, poi fece segno di sì. «Due cucchiaini di zuc­chero, per favore. E panna, se l'avete.»

«Le andrebbe qualcosa da mangiare?» continuò lei. «Le abbiamo fatto saltare il pranzo ed è quasi ora di cena. Nick, forse potresti ordinare qualcosa da Wanda per tutti e tre.»

Lui le lanciò un'altra occhiataccia, ma Howard si rad­drizzò sulla sedia, rassicurato. «Mi piacciono molto le coto­lette di pollo che fanno da Wanda» disse.

«Bene. Nick, puoi ordinare una cotoletta di pollo per il si­gnor Howard?»

«Con puré di patate e salsa scura. E condimento all'ita­liana per l'insalata, ma messo da parte.»

«Nient'altro?» fece Nick sarcastico.

«No, nient'altro.»

«E per te?» domandò lui.

«Un panino al formaggio e prosciutto. Lo sai come mi pia­ce.»

I tratti di Nick si distesero immediatamente e il suo sguar­do si addolcì. «Sì, certo. Torno subito.»

Maggie mise una tazza di caffè fumante di fronte a Ho­ward, poi aspettò che lui si rilassasse. L'uomo assaggiò il caf­fè bollente con la lingua e a lei ricordò una lucertola.

Maggie lo osservò sorseggiare la bevanda, poi chinare la testa e ascoltare i rumori che si sentivano oltre la parete. Pas­si affrettati, squilli di telefono, qualche voce un po' più forte delle altre di tanto in tanto.

Quando fu certa che avesse dimenticato la sua presenza, Maggie andò alle sue spalle e disse: «Lei sa dov'è Timmy Ha­milton, vero, Ray?».

Lui smise di bere e si irrigidì. «Non so niente. E non so neanche come ha fatto quel cellulare ad arrivare nel mio cas­setto. Non l'ho mai visto in vita mia.»

Lei girò attorno al tavolo e venne a sedersi davanti a lui. Howard abbassò gli occhi da lucertola fissandoli per un atti­mo sui suoi seni. Distolse lo sguardo, ma un cupo rossore sa­lì sulla sua faccia olivastra.

«Lo sceriffo Morrelli pensa che lei abbia ucciso Danny Alverez e Matthew Tanner.»

«Io non ho ucciso nessuno.»

«E io le credo, Ray.»

Lui la guardò perplesso. «Davvero?»

«Sì. Però credo che sappia molto più di quanto vuole dir­ci. E credo che sappia dov'è Timmy.»

Lui non protestò, ma si guardò affannosamente intorno, come un animale in cerca di una via di fuga. Maggie notò le mani strette intorno alla tazza: dita corte e tozze, e unghie ro­sicchiate fino a sanguinare. Non sembravano affatto le mani di un uomo ossessionato dalla pulizia.

«Se ci dice quello che sa ne terremo conto, Ray. Ma se non ci dice niente e scopriamo che sapeva tutto, potrebbe finire molto male. Potrebbero anche sbatterla in prigione per parec­chio tempo.»

Lui chinò di nuovo la testa in ascolto, forse sperando che qualcuno arrivasse a salvarlo.

«Dov'è Timmy, Ray?»

Howard si portò una mano alla bocca e cominciò a rosic­chiare quel che restava delle unghie.

«Allora?»

«Non so niente» disse in fretta. «E se ogni tanto guido il furgoncino per andare a far legna non vuol dire niente.»

Maggie si ravviò i capelli, esausta. Che avessero davve­ro perso un pomeriggio intero dietro una falsa pista? Certo, Padre Keller poteva benissimo avere nascosto il cellulare nel cassetto di Howard, ma lei era sicura che al rettorato non suc­cedeva nulla che Howard non venisse a sapere.

«Dove va a far legna?» domandò.

Lui smise di mangiarsi le unghie e la guardò, diffidente.

«Ho visto il caminetto al rettorato e immagino che ci vo­glia parecchia legna» spiegò lei. «Specialmente se comincia a far freddo in ottobre come quest'anno.»

«Sì, ce ne vuole parecchia, e a Padre Francis piace... Dio accolga la sua anima... a lui piaceva che in soggiorno ci fosse sempre molto caldo.»

«E allora lei dove va a raccoglierla?»

«Giù vicino al fiume. La chiesa possiede ancora un pez­zo di terra lì, dove c'era la vecchia St. Margaret. Era una chie­setta così bella, ma adesso cade a pezzi... Ci trovo un sacco di olmi e noccioli, qualche quercia, e moltissimi aceri. Il legno di nocciolo è quello che brucia meglio...» L'uomo si interruppe e guardò fuori della finestra.

Maggie seguì il suo sguardo. Il sole stava tramontando, rosso sangue contro la neve bianca. Era chiaro che il discor­so sulla legna e sui boschi aveva colpito il sagrestano, ma né le minacce della prigione né il pollo di Wanda sarebbero riu­sciti a smuoverlo, si convinse Maggie. Avrebbero dovuto ri­lasciarlo.

67

Nick riappese la cornetta e si sfregò gli occhi. Maggie doveva aver capito che aveva voglia di prendere a pugni qualcuno, magari anche Howard, e per questo lo aveva allontanato. Ma come faceva a restare così calma? Lui pensava a Timmy e gli sembrava che qualcuno gli avesse messo una bomba a orolo­geria al posto del cuore. E l'ordigno batteva e batteva, ricor­dandogli che il tempo passava inesorabile.

Aaroon Harper ed Eric Paltrow erano stati uccisi a due settimane di distanza l'uno dall'altro. Matthew Tanner era sta­to rapito poco dopo Danny Alverez. E adesso, Timmy... Qual­cosa era scattato nella mente dell'assassino e gli aveva fatto perdere il controllo. Ma se non lo prendevano nemmeno que­sta volta, che cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasto tranquillo per altri sei anni prima di colpire di nuovo? E se non era Ho­ward o Keller, chi diavolo era?

Nick prese il foglio che aveva trovato sul furgoncino, una specie di lista della spesa con un elenco di nomi e numeri. Co­perta di lana, kerosene, fiammiferi, arance, tavolette di cioccolata, lattine di spaghetti, veleno per topi. Forse era solo un promemo­ria di roba da comperare per il campeggio. Però qualcosa gli diceva che c'era dell'altro.

In quel momento Hal bussò alla porta ed entrò. Le ampie spalle erano incurvate per la stanchezza, i capelli erano ap­piattiti dopo tante ore con il berretto dell'uniforme, e la cra­vatta era macchiata di caffè e allentata.

«Sì, Hal, che c'è?»

L'altro si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania. «La fiala che hai trovato nel furgoncino conteneva dell'etere.»

«E da dove accidenti veniva?»

«Probabilmente dall'ospedale. Ho chiesto al direttore e lui mi ha detto che hanno delle fiale dello stesso tipo all'obi­torio. Lo adoperano come solvente, ma può tramortire una persona. Basta inalarlo un paio di volte.»

«E chi ha accesso all'obitorio?»

«Praticamente tutti. Non chiudono mai la porta a chia­ve.»

«Stai scherzando!»

«Ma pensaci un momento, Nick. È un locale che non vie­ne quasi mai usato. Chi vuoi che ci vada se non è strettamen­te necessario?»

«Ma quando è in corso un'indagine l'ingresso dovrebbe essere permesso solo al personale autorizzato!» esclamò lui incollerito.

Hal non rispose, e dopo un po' Nick domandò: «Siete al­meno riusciti a identificare delle impronte sulla fiala?».

«Solo le tue. E la scatola di fiammiferi non è di un locale notturno, è di una tavola calda nel centro di Omaha, vicino al distretto di polizia. Eddie dice che serve i migliori hamburger della città.»

«Eddie Gillick?»

«Sì. Prima di trasferirsi qui lavorava con la polizia di Oma­ha. Credevo che lo sapessi... saranno sei o sette anni fa.»

«Non so se mi fido di quell'uomo» sbottò Nick, pentendosene subito.

«Perché mai non dovresti fidarti di lui?»

«Non lo so, una sensazione... lasciamo perdere.»

Hal scosse la testa e si alzò per andarsene, ma poi si fer­mò come se ci avesse ripensato. «Senti, Nick, non vorrei che te ne avessi a male, ma in questo distretto ci sono un sacco di persone che la pensano allo stesso modo su di te.»

«E cioè?» esclamò Nick.

«Devi ammettere che la sola ragione per cui hai avuto questo incarico è che sei figlio di tuo padre. Io ti sono amico, e sono con te fino in fondo. Ma devo dirtelo, certi pensano che tu non abbia autorità e lasci decidere tutto all'agente O'Dell.»

«Guarda che lo avevo capito» fece lui accusando il colpo. «Anche perché pare che mio padre stia conducendo un'inda­gine per conto suo.»

«Già... sapevi che ha messo Eddie e Lloyd sulle tracce di Mark Rydell?»

«Rydell? Ma perché diavolo...»

«Credo fosse un amico o il compagno di Jeffreys.»

«Gesù, ma possibile che non lo abbiate capito? Jeffreys non ha ucciso tutti e tre i...» Poi si interruppe di colpo veden­do Christine sulla soglia.

«Rilassati, Nick. Non sono qui come giornalista.»

Nick la guardò. Aveva i capelli arruffati, gli occhi rossi, le guance rigate di lacrime e il trucco sciolto.

«Devo fare qualcosa» disse. «Lascia che ti dia una mano.»

«Vieni a sederti» disse lui resistendo all'impulso di sor­reggerla come un'invalida. Non poteva vederla così. Era la sua sorella maggiore, la roccia, quella che non cedeva mai. Anche quando Bruce se n'era andato, lei si era rimboccata le mani­che e aveva tirato avanti. Ma adesso, così spaventosamente calma, gli ricordava Laura Alverez.

«Corby mi ha dato una licenza temporanea» spiegò lei sfilandosi il cappotto e gettandolo su una sedia. «Natural­mente a patto che l'Omaha Journal abbia l'esclusiva di tutto quel che succede.»

Poi si avvicinò alla scrivania. «Siete riusciti a rintracciare Bruce?» domandò senza guardare Nick.

«No, ma forse verrà a sapere di Timmy dai giornali o dal­la TV e si farà vivo.»

Lei fece una smorfia. «Io ho bisogno di fare qualcosa, Nick. Non posso starmene seduta a casa ad aspettare. Che ci fai con quella roba?» domandò indicando il foglietto che Nick tene­va in mano.

«Sai che cos'è?»

«Sì, è il ruolino di consegna che viene dato ai fattorini ogni giorno. Vedi, c'è indicato il numero di codice del fattorino, i numeri civici delle strade, quanti giornali devono essere con­segnati, quali inserti...»

«E tu riesci a capire di che giorno è e a che fattorino apparteneva?» disse Nick balzando dalla sedia e venendo ac­canto a lei.

«Questo è di domenica 19 ottobre. Il codice personale è ALV0436, e dagli indirizzi direi che...» Sgranò gli occhi e li al­zò su Nick. «È il ruolino di Danny Alverez, della domenica in cui è scomparso!»

68

Timmy cercava disperatamente di non cedere alla paura, ma la prospettiva di un'altra lunga notte al buio lo terrorizzava.

Aveva provato tutta la giornata a trovare una via di fuga, o almeno un modo di chiedere aiuto. Non era facile come lo facevano apparire nei film, ma lo sforzo lo aiutava a non far­si prendere dal panico.

Lo sconosciuto gli aveva portato dei fumetti di Flash Gor­don e Superman. Timmy li aveva sfogliati da cima a fondo in cerca di qualche ispirazione, ma le loro eroiche imprese si era­no rivelate del tutto inutili. Non era un super eroe, lui. Era so­lo un ragazzino di dieci anni, piccolo e magro... Eppure sul campo di calcio aveva imparato a sfruttare la sua bassa statu­ra, per sgusciare tra gli altri giocatori. Forse non gli ci voleva la forza, solo un po' di astuzia.

Ma era difficile pensare con il buio che a poco a poco in­ghiottiva gli angoli della stanza. Nella lampada c'era pochis­simo kerosene, quindi era meglio rimandare il più possibile il momento di accenderla.

Osservò la stufa, pensando che forse poteva prendere un po' del kerosene per usarlo nella lampada. Poi sentì le folate di vento che facevano tremare le assi inchiodate sulla finestra e si disse che senza stufa si sarebbe congelato. Per quanto odias­se il buio, aveva bisogno del calore più che della luce.

Allora ricreò mentalmente le scene preferite di Guerre Stel­lari, ripetendosi i dialoghi a voce alta. Poi prese l'accendino e si convinse che con quello poteva controllare il buio. Ogni tan­to lo accendeva e lo spegneva, e i brevi lampi di luce lo con­fortavano. Ma il buio non era il solo nemico. Anche il silenzio faceva paura. Per tutto il giorno aveva teso l'orecchio cercan­do di sentire delle voci, o l'abbaiare di un cane, o magari le campane di una chiesa o la sirena di un'ambulanza. Ma ave­va sentito solo il fischio di un treno molto lontano, e un jet che passava sulla sua testa.

Aveva anche provato a gridare finché non gli faceva ma­le la gola, ma il vento era stato l'unica risposta. Doveva esse­re molto lontano da qualsiasi centro abitato, e quindi era im­possibile sperare in un aiuto.

Qualcosa si mosse sul pavimento con un clic-clic di mi­nuscole unghie sul legno, e il cuore di Timmy cominciò a bat­tere forte. Premette l'accendino, ma la fiammella era troppo debole. Allora si sporse senza scendere dal letto e accese la lanterna. La luce invase la stanza, ma invece di sentirsi con­fortato Timmy provò terrore e si accoccolò sotto le coperte ti­randosele fino al mento. E per la prima volta da quando suo padre se n'era andato, si mise a piangere.

69

L'agente O'Dell era davvero in gamba, anche se era solo una donna. Un avversario degno di nota. Ma quanto sapeva real­mente e quanto invece giocava a indovinare? Be', a lui piace­va giocare. Lo distraeva dal pulsare doloroso alle tempie.

Nessuno fece particolarmente caso a lui mentre cammi­nava lungo il corridoio. La sua presenza qui era accettata fa­cilmente, come nel resto della comunità. Nessuno vedeva la maschera che portava tutti i giorni, e che non poteva sfilare come faceva con quella di gomma.

Si avviò per le scale che odoravano di disinfettante. L'o­dore gli ricordava sua madre, china sulle ginocchia a strofi­nare il pavimento di cucina finché le sue belle mani delicate non diventavano rosse e screpolate. Quante volte l'aveva os­servata senza che lei lo sapesse, mentre puliva freneticamen­te, singhiozzando, nei rari momenti in cui il suo patrigno dor­miva? Era come se quel rituale di purificazione aiutasse sua madre a sopportare meglio l'orrore della sua vita.

E adesso, tanti anni dopo, lui era nella stessa situazione, e cercava di strofinare via dalla mente le immagini del passa­to attraverso un suo rituale... Ma quante altre morti sarebbe­ro state necessarie per cancellare il ricordo del bambino de­bole e impotente di allora?

La porta si chiuse alle sue spalle, e lui osservò l'ambien­te che conosceva bene e che gli dava uno strano conforto. A parte il ronzare di un ventilatore, tutto era silenzio. L'atmo­sfera giusta per una tomba temporanea.

Infilò i guanti da chirurgo, cercando di indovinare quale cassetto aprire. Il numero uno, due, o magari cinque? Scelse il numero tre e tirò, facendo una smorfia per il cigolio delle ro­telle. Aveva visto giusto.

Il sacco di plastica nero sembrava piccolissimo sulla let­tiga di metallo. Lui l'aprì quasi con reverenza, ripiegando i lembi a lato del corpicino livido. Sembrava una carta geogra­fica, segnata dai tagli precisi del medico legale e dalle sue pu­gnalate, ma ormai Matthew non c'era più, era andato in un posto migliore dove aveva smesso di soffrire, libero da umi­liazioni, solitudine e abbandono. Lui aveva fatto in modo che avesse un riposo tranquillo, da eterno bambino innocente.

Doveva soltanto eliminare l'unica prova che poteva incri­minarlo. Era stato scioccamente imprudente, e forse era già trop­po tardi... ma in quel caso, si disse, sarebbe già stato al distret­to ad ascoltare Maggie O'Dell che gli leggeva i suoi diritti.

Impugnò il coltello da macellaio e fece scorrere la lampo del sacco fino in fondo, esponendo le gambe di Matthew. Ec­cole lì sulla coscia, le impronte rosse dei morsi, i segni della rabbia demoniaca che si era impadronita di lui. Un'onda di vergogna gli salì alla gola.

In quel momento, in corridoio si sentirono dei passi at­tutati dalle suole di gomma, ma sempre più vicini. Lui si im­mobilizzò, stringendo il coltello. I passi si fermarono davanti alla porta.

Come avrebbe spiegato la sua presenza lì? pensò tratte­nendo il respiro. Sarebbe stato quasi impossibile giustificarsi.

Proprio quando temeva che i suoi polmoni sarebbero esplosi per lo sforzo, i passi si allontanarono. Lui aspettò an­cora un poco, sentì una porta chiudersi e inalò una profonda boccata d'aria intrisa di ammoniaca.

Stava diventando imprudente, pensò di nuovo. Ed era sempre più difficile cancellare le sue tracce, o soffocare gli im­pulsi demoniaci che gli facevano perdere di vista l'obiettivo della sua missione.

Ma presto sarebbe finito tutto, si disse. Presto lo sceriffo Morrelli avrebbe avuto il suo colpevole. Ci aveva pensato lui, mettendo prove e indizi nei posti giusti. Era stato facile come nel caso di Ronald Jeff reys, quando era bastato nascondere un po' di oggetti nel bagagliaio della sua macchina e poi fare una telefonata anonima allo sceriffo Antonio Morrelli.

Anche allora, però, aveva commesso l'imprudenza di ag­giungere le mutandine di Eric Paltrow e non quelle di Aaron alle prove incriminanti, perché di solito le prendeva con sé co­me ricordo, ma con Eric se n'era dimenticato e quindi il cor­po era finito all'obitorio con la biancheria indosso.

Questa volta non avrebbe corso rischi inutili. E presto avrebbe messo a tacere il dolore alle tempie, forse per sempre.

E il povero Timmy sarebbe stato salvato. Tutti quei livi­di, povera creatura, chissà che cosa doveva patire per mano di quelli che fingevano di amarlo! Lui, invece, gli voleva be­ne sul serio. A lui come agli altri che aveva scelto con cura per liberarli dal male.

70

Christine premette il pulsante della fotocopiatrice e la faccet­ta sorridente di Timmy scivolò sul ripiano. La foto, con il col­letto un po' storto e i capelli arruffati, era stata scatatta a scuo­la l'anno prima ed era una di quelle che lei preferiva. Timmy però era cambiato moltissimo in quei pochi ultimi mesi e lei si domandava se qualcuno lo avrebbe riconosciuto.

Premette un altro bottone e le copie scivolarono numero­se una sull'altra. Alle sue spalle sentiva voci, passi, rumori, suoni. Il distretto era in piena attività e lei aveva la sensazio­ne che il compito di fare le fotocopie le fosse stato affidato so­lo per toglierla di mezzo. Ma Nick sosteneva che maggiore era il numero di foto che distribuivano in giro, più aumentavano le possibilità che qualcuno ricordasse qualcosa. Stava trattan­do il caso con molto impegno e molta sicurezza, e non soltanto perché Timmy era suo nipote. Dal caso di Danny Alverez tut­ti loro avevano imparato la lezione, e nel modo più difficile.

Christine avvertì la presenza di un uomo dietro di sé. Si girò di scatto, ma Eddie Gillick l'aveva già scaraventata in un angolo, premendosi contro di lei. Sul labbro superiore aveva delle goccioline di sudore e la sua pelle emanava un profumo di dopobarba nauseante.

«Scusa, Christine, devo fare un paio di copie di queste fo­to» disse mostrandogliele. Poi, visto che lei non guardava, glie­le mise sotto il naso, lucide, colorate, terribili: una gola squar­ciata, i tagli rosso vivo, la faccina pallida di Matthew con gli occhi sbarrati che la fissavano.

Christine scostò Eddie con violenza e scappò via, feren­dosi una mano sul bordo della fotocopiatrice. Quando fu in corridoio, si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi.

Era solo la sua immaginazione, o tutti si muovevano al rallentatore? Anche le voci erano basse, si fondevano insieme in un ronzio monotono, e sopra ogni cosa risuonava uno squil­lo acuto, insistente, che trapanava le orecchie. Possibile che nessuno lo sentisse?

«Christine» disse una voce. Lei si addossò alla parete men­tre il corridoio cominciava a girare.

«Christine, tutto bene?» La faccia di Lucy Burton le ap­parve davanti agli occhi, le labbra dipinte di rosa fucsia si mos­sero, ma lei non sentì alcun suono. Dov'era il telecomando? pensò. Doveva aumentare il volume di Lucy, altrimenti non poteva sentirla...

Due mani le si materializzarono di fronte, ma lei le al­lontanò. Aveva bisogno di un po' d'acqua, e il distributore era lì, alla sua sinistra, però sembrava miglia lontano.

«Non ti sento, Lucy» gridò. Ma capì che le parole non usci­vano, restavano imprigionante nella sua mente. Poi il corpo cominciò a scivolare lungo la parete senza che lei potesse fa­re niente. Vide delle scarpe, dei mocassini, un paio di stivali. Qualcuno spense la luce.

71

Nick uscì dal suo ufficio e vide un gruppetto radunato intor­no al distributore dell'acqua, poi il corpo di Christine a terra. Lucy le faceva vento con una cartellina, Hal cercava di rad­drizzarla. Tony Morrelli guardava la scena con aria irritata, e Nick capì che disapprovava quella prova di debolezza di fron­te ad altri.

«Che è successo?» domandò a Eddie Gillick che stava ac­canto alla fotocopiatrice.

«Non lo so. Non ci ho badato» fece l'altro continuando il suo lavoro.

Nick guardò il ripiano su cui le foto del corpo martoria­to di Matthew Tanner si sovrapponevano al sorriso di Timmy. Forse chiedere a Christine di fare copie della faccia del figlio scomparso non era stata una buona idea.

«Sono le foto dell'autopsia?» domandò a Eddie.

«Sì. Le ho appena ritirate all'obitorio e ho immaginato che ti servissero.»

«Lascia gli originali sulla mia scrivania quando hai finito.»

Adesso sembrava che Christine si fosse ripresa. Adam Preston le porse un bicchiere d'acqua e lei lo mandò giù in un sorso, poi Tony disse a voce alta: «Okay, gente, lo spettacolo è finito. Tornate al lavoro».

Tutti eseguirono l'ordine senza fiatare, e Tony chiamò il figlio con un cenno. Nick si irrigidì e rimase dov'era, in un ul­timo tentativo di salvaguardare la sua dignità.

Tony firmò un foglio che Lloyd gli porgeva e poi si avvi­cinò. «Abbiamo trovato Rydell e lo stiamo portando qui per interrogarlo» disse.

«Non hai l'autorità per farlo» replicò Nick obbligandosi a rimanere calmo.

«Come hai detto?» fece suo padre inarcando le sopracci­glia. In realtà aveva sentito benissimo. Farsi ripetere le cose era uno dei suoi metodi di intimidazione, e in passato aveva sempre funzionato.

«Non hai più l'autorità per interrogare nessuno» ripeté Nick scandendo le parole.

«Sto solo cercando di aiutarti, figliolo. Di evitarti la figu­ra dell'idiota davanti a tutta la città!»

«In questa storia Mark Rydell non c'entra niente.»

«Certo, come no. Tu preferisci un sagrestano mezzo sce­mo.»

«Io ho delle prove che incriminano Ray Howard. Tu su Rydell che cos'hai?»

Nella stanza era caduto il silenzio e tutti li stavano ad ascoltare fingendo di occuparsi d'altro.

«Rydell è una checca dichiarata. Ha una fedina penale lunga un chilometro per aggressione ad altre checche, ed è sta­to l'amante di Jeffreys per un po'. Non ho mai creduto che non fosse coinvolto negli omicidi di Jeffreys, e scommetto che ades­so è lui il colpevole. Solo che tu non lo capisci perché non ve­di al di là del bel culetto dell'agente O'Dell.»

Nick arrossì di rabbia e suo padre lo piantò in asso come faceva sempre, liquidandolo con il disprezzo abituale. Lui guardò le facce degli agenti che lavoravano a occhi bassi, poi vide Maggie sulla soglia e capì che aveva sentito tutto.

«Questo non è un assassino che ne imita un altro» disse Nick alla schiena di suo padre.

Tony prese le foto dell'autopsia dalle mani di Eddie. «Di che diavolo stai parlando?»

«Jeffreys aveva ucciso solo Bobby Wilson» continuò Nick. «Non gli altri due. Ma questo tu lo sapevi già.» E aspettò che l'accusa facesse breccia nel cervello di suo padre.

Finalmente Tony si girò a guardarlo, con il solito cipiglio che in altri tempi aveva ridotto Nick a un ragazzino treme­bondo. Ma questa volta lui era pronto.

«Che Cristo vuoi dire?» gridò Tony.

«Ho letto i rapporti sull'arresto di Jeffreys e ho visto i referri delle autopsie. È chiaro come il sole che Jeffreys non po­teva aver commesso i tre delitti, e lui stesso te l'ha detto più volte.»

«E tu dai più credito a un assassino checca che a tuo pa­dre?»

«Il tuo stesso rapporto provava che Jeffreys non aveva uc­ciso gli altri due ragazzini» ribatté Nick sostenendo lo sguar­do di suo padre. «Solo che non hai voluto vedere la verità. Vo­levi essere un eroe, così hai lasciato libero un assassino. E ades­so, a pagare per i tuoi errori e il tuo maledetto orgoglio è tuo nipote!»

Il pugno colse Nick di sorpresa e lo mandò a sbattere contro la fotocopiatrice. Lui si raddrizzò scuotendo la testa, ma era ancora confuso quando il secondo pugno lo prese al­la mascella. Dopo un attimo alzò gli occhi e vide suo padre nella stessa posizione di prima, con le foto in mano e un'e­spressione stupefatta. E capì che a colpirlo non era stato lui solo quando vide Hal che tratteneva Eddie Gillick con en­trambe le braccia.

72

Maggie non fu sorpresa che Nick non tornasse nella stanza dove stavano interrogando Howard. Adam Preston portò la cena ordinata da Wanda e lei disse al sagrestano che dopo aver mangiato poteva andarsene. Lui la guardò sospettoso, ma quando Adam gli mise di fronte il piatto fumante lo attaccò con gusto.

Poi l'agente mise sul tavolo il resto delle ordinazioni. Mag­gie, presa da altri pensieri, si allontanò.

«Agente O'Dell» la chiamò Preston. «Questo è per lei.»

«Non ho fame» rispose Maggie. Ma quando si voltò vide che l'agente non le porgeva il sandwich, bensì una piccola bu­sta bianca.

«Dove l'ha trovata?» domandò fissandola.

«Insieme al sandwich. C'era scritto il suo nome.»

Lei rimase immobile.

«Vuole che gliela apra?» domandò ancora Preston con espressione preoccupata.

«No, no, faccio io.» Maggie prese la busta per un angolo e l'aprì. Il messaggio questa volta era breve, una sola riga: SO TUTTO DI ALBERT STUCKY.

Lei si sforzò di non crollare. «Nick è ancora in ufficio?» chiese.

«Non l'ha più visto nessuno da quando...»

«Da quando Eddie lo ha steso» sogghignò Howard. «In gam­ba, il mio socio.» Poi si cacciò in bocca una forchettata di puré.

«Cosa vuol dire, il mio socio?» scattò Maggie. Poi capì di essere stata troppo brusca, perché l'altro si rimise subito sul­la difensiva. «Niente. È un mio amico.»

«L'agente Gillick?» esclamò lei.

«Sì, perché? Non è un delitto, che io sappia. Facciamo del­le cose insieme, ogni tanto.»

«Che tipo di cose?»

Howard smise di masticare e la guardò con aria di sfida. «Delle volte viene al rettorato e gioca a carte con me e Padre Keller. Altre volte ce ne andiamo a mangiare un hamburger.»

«Lei e l'agente Gillick?» ripeté Maggie incredula.

Howard posò la forchetta nel piatto.

«Ho quasi finito» disse. «Dopo posso andare, no?»

Lei lo guardò. Ne era certa, quegli occhi da rettile na­scondevano qualcosa. Howard sapeva molto più di quanto aveva detto. Non era l'assassino, di questo Maggie era con­vinta. Anche se aveva avuto la sventura di avere il suo cellu­lare nel cassetto, non era il colpevole. Zoppicava troppo per arrampicarsi sul pendio sopra il fiume, o peggio ancora per trasportare un corpo inanimato di trenta chili. E nonostante la lingua pronta, non era abbastanza intelligente da architettare quella serie di delitti.

«Sì, può andare» gli rispose infine senza smettere di fis­sarlo. Voleva che vedesse il sospetto nel suo sguardo, che su­dasse un po', che magari si lasciasse sfuggire qualcosa. Ma lui la ignorò e ricominciò a cacciarsi in bocca grandi forchettate di cibo, aiutandosi con il coltello. Maggie fece un cenno a Preston e lui la seguì in corridoio.

Era troppo giovane per essere uno dei fedeli di Tony Morrelli, ma sembrava ansioso di non rendersi sgradevole agli al­tri, di far parte del gruppo. Aveva però un grande rispetto per l'autorità, che fortunatamente si estendeva anche a lei.

«Adam» gli chiese con le mani sui fianchi, «lei è cresciu­to a Platte City, vero?»

Il giovane agente annuì, un po' stupito.

«Che cosa mi può dire della vecchia chiesa?»

«L'abbiamo controllata, se è questo che intende. Lloyd e io ci siamo andati prima che nevicasse, e poi di nuovo dopo. Finestre e porte sono inchiodate, e si vedeva che non c'era en­trato nessuno da anni. Non c'erano impronte né tracce di pneu­matici.»

«È vicina al fiume?»

«Sì, in fondo a Old Church Road. Ed è registrata come edificio storico, per questo nessuno l'ha mai buttata giù.»

«Come fa a saperlo?» fece lei fingendosi interessata. In realtà voleva solo conoscere l'ubicazione esatta della chiesa, perché se Howard ci andava a raccogliere legna poteva darsi che avesse visto qualcosa.

«Mio padre ha della terra lì vicino e voleva comperare il lotto e buttare giù la vecchia chiesa. Sa, in quella zona il ter­reno è molto ricco, ideale per le coltivazioni. Ma Padre Keller gli ha detto che non poteva buttare giù niente perché la chie­sa era un edificio storico. Nel milleottocentosessanta veniva usata come nascondiglio per gli schiavi in fuga. C'era un tun­nel che la collegava al cimitero...»

Maggie lo guardò, questa volta davvero interessata, e il giovane agente continuò: «Di notte usavano il tunnel per far fuggire gli schiavi fino al fiume, dove una barca li aspettava per portarli a un altro nascondiglio. Ma adesso pare che il tun­nel sia crollato, perché era troppo vicino all'acqua. Non si ado­pera nemmeno più il cimitero. Qualche anno fa, quando c'è stata una piena, abbiamo addirittura visto delle bare andar­sene con la corrente. Uno spettacolo da brivido, le assicuro».

Maggie immaginò il cimitero abbandonato e il tunnel che lo collegava alla chiesa in rovina. Per un omicida ossessiona­to dalla salvezza delle sue vittime, quello sembrava davvero il posto ideale.

73

Prima di fare la sua spedizione, Maggie decise di lasciare un biglietto a Nick, anche se non sapeva bene che cosa scrivergli.

Caro Nick, sono andata a cercare l'assassino in un cimitero... Un po' strano, forse, ma comunque molto più di quel che ave­va lasciato detto quando era andata a cercare il nascondiglio di Albert Stucky. Certo non poteva immaginare che lui le aves­se teso una trappola e la stesse aspettando. Che questo killer volesse fare altrettanto?

«Credo che Nick sia andato via» disse Lucy vedendo Mag­gie con la mano sulla maniglia dell'ufficio.

«Lo so, voglio solo lasciargli un messaggio.»

Lucy però non sembrava soddisfatta, e solo quando capì che lei non le avrebbe dato ulteriori spiegazioni aggiunse: «Ah, hanno chiamato dall'arcidiocesi».

«Che hanno detto?» Quella mattina Maggie aveva parla­to con un certo Padre Jonathan e aveva saputo che secondo le autorità ecclesiastiche la morte di Padre Francis non era altro che un disgraziato incidente.

Lucy, per una volta, volle mostrarsi zelante. «Vediamo... ecco qua. Un certo Padre Jonathan ha detto che Padre Francis non aveva parenti e che perciò i funerali saranno organizzati dalla chiesa.»

«E non ha detto niente di una possibie autopsia?»

Lucy la guardò risentita. «Ho preso il messaggio io stes­sa, e non c'era altro.»

«Grazie.»

«Può dare a me il messaggio per Nick, se vuole.»

«Grazie, non importa. Glielo lascio sulla scrivania.»

Maggie entrò senza accendere la luce, lasciandosi guida­re dal chiarore dei lampioni in strada. Urtò una sedia con la gamba e si chinò a massaggiarla: e così facendo vide Nick se­duto a terra in un angolo, con le ginocchia raccolte al petto e lo sguardo fisso nel vuoto.

Sarebbe stato semplice fingere di non averlo visto, lasciare il biglietto e andarsene via. Invece si avvicinò e si sedette ac­canto a lui sul pavimento, in silenzio. Notò il labbro spaccato e le macchie di sangue sul mento e sulla camicia, e allo stesso modo di Nick si mise a fissare il rettangolo di cielo scuro fuo­ri della finestra.

Lui continuava a tacere, immobile.

«Sai, Morrelli, per essere un ex atleta ti batti come una si­gnorina» fece lei per provocarlo, farlo arrabbiare, scuoterlo in qualche modo da quell'apatia. Ma Nick non reagì.

Avrebbe dovuto alzarsi e continuare il suo lavoro, si dis­se Maggie. Non poteva farsi coinvolgere. Non poteva per­mettersi di tenere troppo a lui. Aveva già i suoi problemi.

Ma, come se le avesse letto nel pensiero, mentre lei ac­cennava ad alzarsi, Nick parlò: «Mio padre ha sbagliato a di­re quelle cose su di te».

«Cioè, non ho un bel culetto?»

Finalmente lui sorrise. «E va bene, ha sbagliato a metà.»

«Non ti preoccupare, ho sentito di peggio.»

«Sai» continuò lui, «quando è cominciato tutto questo, mi interessava soltanto la figura che avrei fatto. Non volevo che la gente mi ritenesse un incompetente.»

Maggie guardò il profilo di Nick scolpito dalla luce del­la luna. Adesso anche le sue pupille si erano adattate al buio e poteva vedere la bella faccia di lui, la mascella ben disegna­ta, le labbra piene. Ma non i suoi occhi dallo sguardo così in­tenso, quegli occhi che sembravano scavare nella sua anima, che la facevano sentire esposta e vulnerabile e viva. Non avreb­be dovuto sentirsi così vicina a un uomo che conosceva da po­chi giorni, e quasi temeva che lui le rivelasse un segreto che li avrebbe avvicinati ancora di più; ma nello stesso tempo lo spe­rava. Così rimase in silenzio e aspettò.

«La verità è che sono un incompetente» riprese Nick. «Non ho la minima idea di come si fa a condurre un'indagine. E for­se, se lo avessi ammesso fin dall'inizio, Timmy non sarebbe scomparso.»

La confessione la commosse, e Maggie capì che per lui era stato un sollievo poter dire quelle parole ad alta voce.

«Hai fatto tutto quel che potevi, Nick» lo confortò. «Cre­dimi, se ci fosse stato qualcosa che avevi dimenticato, o che avresti dovuto fare in un altro modo, te lo avrei detto. Non so se l'hai notato, ma di solito non esito a dire quello che penso.»

Nick fece un piccolo sorriso, distese le gambe e appoggiò la schiena alla parete. Poi diventò di nuovo serio. «Continuo a immaginare di trovarlo, sai. Lo vedo riverso nell'erba còme gli altri bambini, con quello sguardo vuoto... e mi sento così inutile!»

Maggie sollevò la mano, l'avvicinò alla nuca di lui, poi si fermò. Avrebbe voluto accarezzarlo, consolarlo, prender­lo tra le braccia, invece si scostò un poco e si appoggiò a sua volta alla parete, chiudendo gli occhi. Che cosa aveva di spe­ciale quell'uomo? Che cosa c'era in lui che la faceva sentire così?

«Capisci, per tutta la vita ho fatto tutto quel che mio pa­dre mi diceva di fare. Non tanto perché volessi compiacerlo, solo perché era più facile. Così ho accettato di diventare sce­riffo, pensando che consistesse nel fare multe, salvare cani sperduti, magari sedare qualche rissa di tanto in tanto. Ma non pensavo a un delitto così spaventoso. Non sono preparato per questo.»

«Non credo ci sia niente che ti prepara alla morte di un bambino» sussurrò lei. «Per quanti cadaveri tu possa aver vi­sto.»

«Non voglio che Timmy faccia la fine di Danny e di Mat­thew. Non voglio... Eppure non posso fare niente per impe­dirlo.» La voce di Nick tremò. «Niente!»

Maggie allungò di nuovo la mano, esitò, e poi gli acca­rezzò le spalle e la schiena. Lui prese la mano tra le sue e se la portò alla guancia. «Sono felice che tu sia qui, Maggie» disse. «E credo proprio di...»

Lei si irrigidì, preoccupata per la rivelazione che Nick era sul punto di farle.

«Qualsiasi cosa accada non sarà colpa tua» lo interruppe cambiando discorso. «Stai facendo tutto il possibile. Devi so­lo allentare un po' la tensione.»

«Però tu non lo fai» rispose lui guardandola negli occhi. «Perché hai quegli incubi? E per via di Stucky?»

74

«Come sai di Stucky?» esclamò Maggie.

«L'altra notte a casa mia hai gridato il suo nome parec­chie volte. Credevo che prima o poi me ne avresti parlato, ma non l'hai fatto e allora ho pensato che non erano affari miei... e in effetti forse è così.»

«Ormai è una cosa di pubblico dominio. Albert Stucky è un serial killer che ho contribuito a catturare circa un mese fa. Lo avevamo soprannominato il Collezionista, perché rapiva due o tre donne per volta e le teneva prigioniere in qualche edificio in rovina, o in un magazzino abbandonato. Quando si stancava di loro le uccideva tagliandole a pezzetti, fracas­sando il cranio e staccando a morsi dei brandelli di carne.»

«Gesù, e io credevo che il maniaco che stiamo cercando fosse l'assassino peggiore del mondo...»

«Albert Stucky è un mostro, ma molto intelligente. Lo ab­biamo inseguito per due anni, ogni volta che credevamo di es­sere vicini lui si spostava in un altro stato. A un certo punto ha scoperto che io ero incaricata di tracciare il suo profilo, ed è stato allora che è cominciato il gioco.»

La luce della luna adesso aveva inondato l'ufficio, e Mag­gie notò che il labbro di Nick aveva ripreso a sanguinare. Pre­se un fazzoletto dalla tasca e glielo porse: «Tieni. Stai sangui­nando di nuovo».

Lui si ripulì la bocca con la manica. «L'hai detto tu, mi batto come una signorina. Parlami del gioco.»

«Stucky fece delle ricerche su di me e scoprì tutto della mia famiglia, della morte di mio padre, dell'alcolismo di mia madre. E circa un anno fa cominciò a mandarmi dei messaggi. Non che sia una cosa insolita, mi era già successo in altri casi, ma le lettere di Stucky erano particolari: metteva sempre nella busta un pezzetto delle sue vittime, un dito, un lembo di pelle con un tatuaggio, e una volta un capezzolo.»

Nick scosse la testa ammutolito.

«La sua era una specie di caccia al tesoro. Mi mandava de­gli indizi e se indovinavo mi ricompensava con un nuovo in­dizio più preciso. Ma se mi ero sbagliata mi puniva con un ca­davere. E ogni volta che una delle sue vittime veniva ritrovata in un bidone della spazzatura, io mi sentivo più colpevole.»

Maggie chiuse gli occhi per un attimo. Rivedeva le loro facce, tutte quante, con quello sguardo terrorizzato negli oc­chi sbarrati, e ricordava nomi e indirizzi e caratteristiche. Una litania di martiri.

«A volte si prendeva una pausa, ma solo per trasferirsi da qualche altra parte. Poi, finalmente, lo rintracciammo a Mia­mi. Dopo aver ricevuto qualche altro indizio, capii che si na­scondeva in un magazzino abbandonato vicino al fiume, ma avevo il terrore di sbagliarmi. Non avrei più sopportato di ave­re un'altra vittima sulla coscienza. Così non dissi niente a nes­suno e decisi di rischiare di persona. Per lo meno, se mi fossi sbagliata non sarebbe morto qualcun altro. Solo che avevo ra­gione, Stucky era davvero lì, e mi aveva teso una trappola.»

Maggie si interruppe. Respirava a fatica, il suo cuore bat­teva forte. Perché quella storia le faceva ancora un simile ef­fetto, se era finita?

«Mi legò a una colonna e mi costrinse a guardare mentre torturava e mutilava due donne. Anzi, le torture alla seconda furono una punizione perché avevo chiuso gli occhi mentre lui spaccava il cranio della prima. E mi disse che se non aves­si guardato avrebbe continuato a ucciderne un'altra e poi un'al­tra...»

Dio, quando avrebbe smesso di vedere quegli sguardi supplichevoli, di sentire quelle urla disumane? «Così guardai, e mi sentii impotente e inutile e disperata come mai in tutta la mia vita.»

Fissò la luna e le stelle e sussurrò: «Ero così vicina che mi vennero addosso gli spruzzi del loro sangue, e pezzetti di cer­vello e schegge di ossa».

«Ma alla fine lo avete preso?»

«Oh, sì, ma solo perché un passante aveva sentito le gri­da e aveva chiamato la polizia. Non è stato certo per merito mio.»

«Non hai nessuna colpa» disse lui.

«Sì, lo so.» E lo sapeva davvero, ma questo non riusciva a consolarla. Si asciugò gli occhi, poi si alzò in fretta. «Oh, a proposito» aggiunse cercando di riprendersi. «Ho ricevuto un altro biglietto.» Prese la busta dalla tasca e la porse a Nick.

Lui lesse il biglietto. «Dio santo, Maggie. Che cosa pensi voglia dire?»

«Forse niente. Forse si sta solo divertendo un po'.»

«E adesso che diavolo facciamo?» domandò ancora pro­vando a rimettersi in piedi.

«Un'idea ce l'avrei. Che ne dici di ispezionare un vecchio cimitero?»

75

Timmy osservò la fiammella della lanterna. Incredibile come riuscisse a illuminare tutta la stanza, e anche a riscaldarla un poco. Gli ricordava i campeggi con suo padre, che adesso sem­bravano lontanissimi.

Suo padre non era un grande esperto, e gli ci voleva un'o­ra per montare la tenda. E anche come pescatore non valeva un granché, di solito prendevano solo dei pesciolini piccoli che all'inizio ributtavano in acqua e poi finivano col tenere quando erano troppo affamati per aspettare una preda più consistente. Una volta suo padre si era dimenticato sul fuoco il pentolino preferito della mamma, e quello si era quasi sciol­to... Ma a Timmy quelle avventure fra uomini erano piaciute.

Sapeva che i suoi genitori erano arrabbiati uno con l'al­tro, ma quello che non capiva era perché il babbo fosse arrab­biato anche con lui. La mamma gli aveva detto che il papà gli voleva ancora molto bene, ma che non voleva far sapere do­v'era perché non voleva dar loro dei soldi. Però questo non spiegava perché non volesse nemmeno più vederlo, pensò Timmy.

Fissando la fiamma, cercò di ricordare la faccia di suo pa­dre. La mamma aveva tolto di mezzo tutte le fotografie di­cendo che le aveva bruciate, ma qualche settimana prima lui l'aveva sorpresa a guardarle. Era notte e lei credeva che Timmy dormisse. E invece lui l'aveva vista guardare le foto di loro tre insieme, bevendo vino e piangendo. Ma allora, aveva pensa­to, se sentiva tanto la sua mancanza, perché non gli diceva di tornare? A volte era davvero difficile capire gli adulti.

Si sporse per scaldare le mani alla fiamma e la catena che aveva alla caviglia tintinnò. Di colpo Tìmmy ricordò il pento­lino che si era sciolto sul fuoco. Gli anelli della catena non era­no tanto spessi. Quanto calore ci voleva perché si piegassero e si aprissero? Bastava qualche millimetro...

Con il cuore in gola, cercò di sollevare il cilindro di vetro che proteggeva la fiamma, ma si scottò le dita. Allora sfilò la federa dal cuscino, se la avvolse intorno alle mani e provò di nuovo. Il cilindro venne via facilmente, la fiamma tremolò un poco, poi si fermò. Allora lui posò la lanterna sul pavimento e mise un tratto di catena sul fuoco. Aspettò qualche secondo, poi tirò e si spellò le mani, ma non accadde niente. Gli anelli erano come prima. Forse ci voleva un po' più di tempo.

Doveva avere pazienza e intanto pensare a qualcos'altro. Com'era la canzone che cantava la mamma in bagno? Ah, sì, era una di quelle della Sirenetta. «In fondo al mar, vieni a dan­zar...». Ecco, così gli sembrava di non avere più tanta paura.

Tirò di nuovo. Gli anelli si muovevano... o era solo la sua immaginazione? No, cedevano, si stavano aprendo. Un altro po' e sarebbe riuscito a far passare un anello nell'apertura del­l'altro.

I passi fuori della porta lo gelarono. Non adesso, pensò. Gli servivano ancora pochi istanti... Tirò con tutta la sua for­za, e in quel momento la porta si aprì.

76

Quando riaprì gli occhi, Christine si trovò distesa su un vec­chio divano, in un ufficio vuoto usato come archivio. Il tessu­to ruvido le aveva lasciato un segno sulla guancia, aveva i ca­pelli arruffati e non ricordava nemmeno l'ultima volta che si era lavata i denti. Doveva averlo fatto quella mattina prima dell'intervista a Canale Cinque, ma sembravano passati seco­li. La sua fuga dallo studio le sarebbe di sicuro costata il nuo­vo posto, ma non gliene importava un accidente. Le importa­va solo di Timmy.

La porta si spalancò ed entrò suo padre con un bicchiere in mano. Se avesse ingurgitato un'altra goccia d'acqua avreb­be vomitato, pensò lei. E invece prese il bicchiere e bevve.

«Ti senti meglio?» domandò Tony.

«Sì, grazie. Oggi non ho mangiato, dev'essere per questo che ho avuto un capogiro.»

«Se ti ordinassi qualcosa di caldo? Magari una zuppa o un sandwich?»

«Grazie, ma non mi va niente.»

«Ho chiamato tua madre. Cercherà di trovare un volo sta­sera per essere qui domani mattina.»

«Grazie. Sarà bello averla con noi» mentì Christine. In realtà sua madre entrava nel panico appena sentiva aria di cri­si, e per lei sopportarla sarebbe stata una doppia fatica.

«Non arrabbiarti, tesoro... ma ho anche chiamato Bruce. Aveva il diritto di sapere. Timmy è suo figlio.»

«Sì, certo. Erano due giorni che Nick e io cercavamo di rintracciarlo... Ma allora tu sapevi dov'era...»

«No, ma ho un numero per le emergenze.»

«Quindi hai sempre saputo come metterti in contatto con lui.»

Tony la guardò, stupito da tanta rabbia.

«Sapevi che da più di otto mesi cercavo di fargli pagare gli alimenti per Timmy e non mi hai detto che avevi il suo nu­mero?»

«Era per le emergenze, Christine.»

«E far sì che suo figlio avesse cibo in tavola tutti i giorni non era un'emergenza? Come hai potuto?»

«Non esagerare, tesoro. Sai bene che tua madre e io non ti lasceremmo mai senza soldi... e poi Bruce mi ha detto che ti aveva lasciato un bel gruzzoletto.»

«Ah, ti ha detto così?» fece lei con una risata isterica. «Mi ha lasciato esattamente centosessantaquattro dollari sul con­to in banca, e più di cinquemila di debiti da pagare!»

Suo padre odiava le discussioni e lei stessa aveva passa­to la vita a compiacerlo. Sua madre lo chiamava rispetto, ma adesso Christine lo vedeva per quel che era. Colpevole debo­lezza.

«Che figlio di buona donna» disse finalmente Tony smet­tendo di camminare avanti e indietro. «A me ha detto delle co­se ben diverse... ma tu l'hai cacciato da casa sua, figliola.»

«Si scopava la sua segretaria!»

Tony arrossì e la guardò con disapprovazione. Una si­gnora non usava quel linguaggio.

«A volte un uomo sbaglia, Christine» lo giustificò lui. «Un piccolo errore. Non dico che non sia un male, ma non è una ragione per buttarlo fuori di casa sua.»

Sicché era questo che pensava. Christine aveva avuto il sospetto che i suoi non stessero dalla sua parte, ma finora non ne avevano mai fatto parola.

«Saresti così comprensivo se fossi stata io ad avere una relazione?» domandò.

«Non essere ridicola.»

«No, dico sul serio, vorrei saperlo. L'avresti considerato un piccolo errore se io mi fossi scopata il portalettere?»

Lui fece una smorfia. «Parli così perché sei sconvolta, Christine. Ti faccio accompagnare a casa da uno dei ragazzi, eh?»

Lei era troppo arrabbiata per rispondergli, così acconsentì pur di vederlo andare via.

Dopo pochi minuti la porta si aprì di nuovo.

«Tuo padre mi ha pregata di portarti a casa» disse Eddie Gillick.

77

Era stato un vero idiota, pensò Nick premendo l'acceleratore a tavoletta e lasciandosi alle spalle Platte City. Non avrebbe mai dovuto mostrarsi così debole e spaventato, non con Mag­gie, che nonostante le rivelazioni su Stucky adesso appariva calma e controllata come sempre.

Come ci riusciva? Come poteva ricacciare in un angolo della mente tutti gli orrori che aveva visto e subito senza per­dere la ragione?

Quanto a lui, riusciva a malapena a concentrarsi sulla stra­da. Nel suo cuore la bomba a orologeria continuava a ticchet­tare, segnando ogni minuto che passava e che poteva essere l'ultimo di Timmy.

E come se non bastasse, era stato sul punto di confessare a Maggie che l'amava! Un vero idiota, senza speranza. Forse stava davvero andando fuori di testa.

Si girò verso Maggie, vide il profilo quieto di lei e di colpo si sentì invadere da una nuova forza. Doveva essere coraggio­so, doveva farlo per Timmy, e forse ci sarebbe riuscito se non era solo. Anche questa era una novità assoluta: Nick Morrelli che ammetteva di aver bisogno di qualcuno. Strinse le mani sul vo­lante. No, non era troppo tardi, si disse con determinazione. Avrebbe salvato Timmy, insieme a Maggie ce l'avrebbe fatta!

La jeep avanzava zigzagando sulla strada buia e solleva­va sbuffi di neve. Nick decise di mettere da parte l'orgoglio e disse: «Forse dovrei sapere qualcosa di più. Perché stiamo an­dando a visitare un cimitero in piena notte?».

«So che i tuoi uomini hanno controllato la vecchia chie­sa, ma che mi dici del tunnel?»

«Oh, quello deve essere crollato anni fa.»

«Ne sei sicuro?»

«Be', no, e in effetti non l'ho mai visto. Sai, quando ero bambino avevo sentito dire che dei corpi risorgevano dalle tombe e strisciavano attraverso il tunnel fino in chiesa per pu­rificare le loro anime dannate... Ma io ho sempre pensato che fosse una storia inventata per tenerci lontani dalla chiesa di notte.»

«Sembra il posto perfetto per un pazzo ossessionato dal­la redenzione.»

«Pensi che Timmy sia lì? In un buco scavato nella terra?» Nick ricordò la storia del padre che aveva seppellito il figlio di sei anni in giardino e accelerò.

«È solo un'idea» disse lei. «Ma non abbiamo niente da perdere se controlliamo. Ray Howard ha detto che viene qui a far legna, e io credo che sappia o abbia visto qualcosa.»

«Però lo hai lasciato andare!»

«Non è lui l'assassino, Nick. Ma può darsi che sappia chi è.»

«Tu credi ancora che sia Keller, vero?»

Maggie fissava il cielo scuro fuori del finestrino. «Keller può benissimo aver nascosto il mio cellulare in camera di Ho­ward. Può anche aver usato il furgoncino. E in camera tiene quegli inquietanti quadri di martiri torturati, con una ferita a forma di croce incisa sul petto.»

«Anche se ha uno strano gusto in fatto di arte non vuol dire che sia un assassino. E poi chiunque può avere visto quei quadri nella sua stanza e averne tratto ispirazione.»

«Già, ma Keller conosceva tutti e tre i ragazzini.»

«Tutti e cinque, a dire il vero. Lucy e Max hanno trovato gli elenchi degli anni scorsi, e così abbiamo appurato che Eric Paltrow e Aaron Harper avevano frequentato il campeggio l'e­state prima di essere uccisi. Questo però significa che li cono­sceva anche Ray Howard.»

«C'è dell'altro, Nick. Secondo me questo assassino crede di trasformare le sue vittime in martiri, salvandoli da qualco­sa di terribile. In genere i serial killer uccidono per piacere, per gratificazione sessuale o per soddisfare un bisogno egocen­trico. In questo tizio, invece, scatta qualcosa che lo convince di avere una missione, e Padre Keller risponde a tutte le ca­ratteristiche. Chi darebbe l'estrema unzione alle sue vittime, se non un prete? E chi altri avrebbe avuto l'occasione di spin­gere Padre Francis giù dalle scale e farla franca?»

«Gesù, Maggie, non vuoi proprio lasciar perdere?»

«Forse sarò costretta a farlo. Dal momento che Padre Fran­cis non ha parenti, sarà l'arcidiocesi a occuparsi dei suoi resti. E mi hanno fatto sapere che non vedono ragioni per un'au­topsia.»

«Forse c'è qualcosa che ci sfugge» disse Nick pensando ad alta voce. «Forse Keller è coinvolto in qualche modo per­ché protegge qualcuno. Padre Francis non ci ha potuto rive­lare niente della confessione di Jeffreys. Ma supponi che il ve­ro assassino si sia confessato con Keller...»

Vide Maggie riflettere sull'idea e capì che forse non era così assurda. Poi lei disse: «Lo sapevi che Ray Howard e Eddie Gillick sono amici?».

78

La rabbia doveva averla momentaneamente distratta, pensò Christine. Altrimenti non avrebbe mai commesso l'impru­denza di salire sulla vecchia Chevrolet di Eddie, che puzzava di patatine fritte e fumo stantio misti all'opprimente odore di dopobarba.

Eddie si mise al volante, si guardò compiaciuto nello spec­chietto retrovisore e poi gettò un'occhiata alle gambe di Chri­stine. Lei avvicinò i lembi del cappotto, pentita di non essere passata da casa per cambiarsi dopo l'intervista.

La macchina fece un balzo in avanti, e quando Christine cercò la cintura di sicurezza per allacciarla scoprì che era sta­ta tagliata. Eddie proseguì oltre la deviazione che portava a casa sua senza svoltare, e allora lei, in preda al panico, si af­ferrò alla maniglia. Ma quella si ruppe e le rimase in mano.

«Rilassati, Christine. Tuo padre mi ha anche detto di com­prarti qualcosa da mangiare.»

«Non ho per niente fame» protestò lei. «Sono solo stanca morta.» Ecco, così andava meglio. Non poteva fargli capire che aveva paura di lui.

«Se vuoi, ti cucino io una bistecca da far venire l'acquoli­na in bocca» disse lui. «Ne ho giusto un paio in frigo.»

Oh, Dio, no. Non a casa sua! «Forse un'altra volta, Eddie» fece Christine nel tono più gentile possibile, nonostante il di­sgusto. «Sono proprio esausta. Non potresti semplicemente portarmi a casa?»

Lui fece un sorrisetto storto. «L'altra sera, giù al fiume, non eri così restia.»

Già, come aveva potuto essere così stupida? «Mi dispiace se ti ho dato un'impressione sbagliata» si scusò. «Era il mio primo incarico importante e... ero un po' nervosa, capisci?»

«Oh, capisco eccome. È quasi un anno che tuo marito se n'è andato e so benissimo che anche le donne hanno le loro esigenze.»

Di male in peggio, pensò. Si stavano allontanando, sta­vano uscendo fuori città, e ormai a lei non importava più di fingersi tranquilla. Si appoggiò con tutto il suo peso alla por­tiera, ma quella resistette. Eddie la fissò con un altro sorrisetto maligno e lei capì che avrebbe tirato dritto per la sua stra­da, che lei fosse consenziente o no.

Era alto più o meno quanto lei, ma più forte: e aveva at­terrato Nick con un paio di pugni nemmeno tanto violenti. Pe­rò ci era riuscito anche perché lo aveva colto di sorpresa, e qualcosa le diceva che quello era il suo modo di agire. Attac­care quando le prede erano più vulnerabili, come un ragno velenoso.

«Eddie, per favore» lo pregò. «Mio figlio è scomparso, puoi immaginare in che stato sono. Portami a casa.»

«Lo so io di che cos'hai bisogno, dolcezza. Di rilassarti, di pensare a qualcos'altro.»

Lei si guardò intorno. Possibile che non ci fosse niente che poteva usare come arma? Poi, come in risposta alle sue pre­ghiere, intravvide una bottiglia di birra vuota sotto il sedile.

«Trattami bene, ti conviene» disse lui viscido. «Se sarai carina con me, può darsi che ti dica dov'è Timmy.»

79

Timmy nascose il piede sotto le coperte proprio mentre l'uo­mo entrava. Cominciò a camminare avanti e indietro senza di­re una parola: sembrava arrabbiato, così Timmy non disse nien­te e aspettò. Intanto, sotto le coperte, continuava a tirare la ca­tena per allentare almeno un anello. L'uomo aveva lasciato la porta aperta e dal buio proveniva un odore di muffa e di ter­ra bagnata.

«Che è successo alla lanterna?» esclamò l'uomo notando che il cilindro di vetro era rimasto sulla cassetta.

«Non... non riuscivo ad accenderla» balbettò Timmy, «e ho dovuto togliere il vetro. Poi ho dimenticato di rimetterlo dov'era.»

L'uomo prese il cilindro e lo rimise a posto. Mentre si chi­nava Timmy vide dei capelli neri che uscivano dalla masche­ra del presidente Nixon, lunghi e arricciati sulla nuca. C'era qualcosa di familiare in quei capelli, e anche negli occhi che lo guardavano attraverso le fessure. Lo aveva pensato subito, ma non riusciva a capire che cos'era.

Poi l'uomo afferrò la giacca a vento e la infilò di nuovo. «È ora di andare» disse.

«Dove?» esclamò Timmy. Possibile che lo riportasse a ca­sa? Eccitato, scese dal letto cercando di nascondere dietro il piede la catena allentata.

«Togliti tutti i vestiti eccetto le mutandine.»

«Cosa?» disse Timmy con voce strozzata. «Perché? Fuo­ri fa freddo!»

«Non fare domande» ribatté l'altro.

«Ma non capisco...»

«Ubbidisci senza tante storie, stronzetto!»

Quella rabbia inattesa lo colpì come uno schiaffo. Gli oc­chi gli si riempirono di lacrime, ma lui le ricacciò indietro. Non era più un bambino, ma era così spaventato che tremava co­me una foglia mentre cercava di slacciarsi le scarpe. La suola era rotta e lasciava passare la neve, ma a piedi nudi avrebbe avuto ancora più freddo.

«Non capisco...» mormorò di nuovo.

«Non c'è bisogno che tu capisca» scattò lo sconosciuto. Si avviò verso la porta e i suoi stivali di gomma incrostati di ne­ve fecero uno strano schiocco sul pavimento.

«Non mi dispiaceva stare qui» tentò di nuovo Timmy.

«Taci, piccolo bastardo, e datti una mossa!»

Le dita di Timmy tremarono convulse mentre si slaccia­va la camicia. Adesso l'uomo avrebbe dovuto staccargli la ca­tena e si sarebbe accorto dell'anello allentato. Si sarebbe ar­rabbiato ancora di più? Lo avrebbe picchiato?

D'improvviso l'uomo si immobilizzò tendendo l'orecchio. Timmy inghiottì le lacrime e si mise in ascolto. E allora udì il motore di una macchina che si avvicinava.

«Cazzo!» imprecò l'uomo afferrando la lanterna.

«No, per favore, non mi porti via la luce...»

«Chiudi quella boccaccia, piagnone!» ringhiò l'uomo. E si voltò per appioppargli un manrovescio.

Timmy si arrampicò di nuovo sul letto, stringendo il cu­scino.

«Sarà meglio che ti trovi pronto quando torno» sibilò l'uomo. Poi sbatté la porta, lasciando Timmy nel buio più com­pleto. Aveva tanta fretta che non si accorse della catena, fi­nalmente spezzata e penzolante oltre il bordo del letto.

80

Christine riconobbe la strada sterrata che serpeggiava tra gli alberi in riva al fiume. Ormai le intenzioni di Eddie erano chia­rissime: quello era il posto dove si appartavano le coppiette, vicino a Old Church Road.

Era davvero possibile che Eddie sapesse dov'era Timmy? Christine sapeva che il sagrestano di St. Margaret era stato portato al distretto e interrogato. Che Eddie avesse sentito qualcosa? Ma se era emerso qualcosa, Nick non lo avrebbe det­to anche a lei? No, concluse. Nick voleva solo tenerla fuori dai piedi, perciò le dava incarichi minori come fare le fotocopie.

Eddie la disgustava. Era il classico tipo di poliziotto che abusa del suo potere solo perché veste un'uniforme. Ma po­teva darsi che sapesse veramente dov'era Timmy. E lei, che prezzo era disposta a pagare per riavere suo figlio a casa, sa­no e salvo? Era stata sul punto di vendere l'anima per uno sti­pendio più alto. Che cos'era disposta a fare per salvare il suo bambino?

Quando la macchina si fermò nella radura affacciata al fiume, il panico si impadronì di lei. Il suo stomaco vuoto bron­tolò, la testa si mise a girare di nuovo. Dio, no, non poteva sve­nire. Eddie Gillick non avrebbe esitato ad approfittarne.

Lui spense il motore e le luci, e nella macchina calò il buio. Solo un minuscolo spicchio di luna rischiarava il cielo nero.

«Bene, eccoci qui» disse Eddie voltandosi verso di lei.

Con il piede Christine tastò la bottiglia vuota, assicuran­dosi di averla a portata. Sentì uno scricchiolio, poi un fiam­mifero si accese e lei avvertì l'odore del tabacco.

«Posso averne una anch'io?»

Lui le porse una sigaretta, le accese un fiammifero e finì col bruciarsi le dita. «Diavolo» brontolò scuotendo la mano, «Odio i fiammiferi... Ho perso l'accendino da qualche parte.»

«Non sapevo che fumassi» disse Christine inalando a fon­do e sperando che la nicotina la calmasse.

«Sto cercando di smettere.»

«Anch'io.» Ecco, pensò lei, avevano qualcosa in comu­ne... forse poteva reggere fino in fondo. Ormai i suoi occhi si erano adattati al buio e vedeva distintamente la brutta faccia di Eddie. Doveva cercare di calmarsi, così almeno avrebbe evi­tato la violenza. «Sai davvero dov'è Timmy?» domandò.

«Forse...» Le dita di lui le carezzarono la nuca, arrivaro­no alla guancia e poi scesero lungo il collo. «E tu che cosa sei disposta a fare per scoprirlo?»

«Come faccio a sapere che non è un trucco?»

«Non lo puoi sapere.» Le dita si insinuarono sotto il col­letto del cappotto, slacciarono i bottoni, scostarono il bavero.

Christine rabbrividì. «Questo non è leale, Eddie. Devo avere qualcosa in cambio, no?»

Lui si finse offeso. «Direi che un incredibile orgasmo è una ricompensa più che sufficiente.»

Poi le dita sfiorarono i seni di lei, e Christine si costrinse a rimanere immobile. Non pensare, si ordinò. Stacca la spina. Ma avrebbe voluto gridare mentre la mano di Eddie le striz­zava un capezzolo.

Poi Eddie spense la sigaretta e con l'altra mano le toccò la gamba. Le dita tozze scomparvero sotto la gonna, ma lei ri­fiutò di aprire le cosce.

«Andiamo, dolcezza, rilassati» rise lui.

«È che... che sono un po' nervosa. Hai qualche protezio­ne?»

«Tu non usi niente?» fece lui spingendo la mano tra le sue cosce.

«Non sono...» Era difficile non vomitare sotto quel tocco così rozzo. «Non sono più stata con nessuno dopo che Bruce se n'è andato.»

«Davvero?» fece lui compiaciuto. Le dita cercarono di sco­stare le mutandine per insinuarsi dentro di lei. «Be', io i pre­servativi non li uso.»

Lei era così nauseata che non riusciva a respirare. «Allo­ra non possiamo farlo» sussurrò.

Lui scambiò il suo respiro corto per eccitazione, e con l'al­tra mano le sfiorò le labbra inserendovi il pollice. «Ci sono tan­te altre cose che possiamo fare.»

Christine provò l'impulso di gridare. No, non poteva... non poteva permettersi di farlo arrabbiare. Intanto lui aveva aperto la lampo per liberare il pene eretto, e aveva preso la mano di lei. La spostò verso il pene e la costrinse a stringerlo, poi si appoggiò all'indietro.

No, non poteva farlo, pensò lei. Non poteva.

«Davvero sai dov'è Timmy?» domandò di nuovo, come per ricordarsi perché si sottoponeva a quella violenza.

«Piccola, strizzami e succhiami come si deve e ti dirò tut­to quel che vuoi» fece lui ansimando.

Se non altro le aveva tolto le mani di dosso, pensò Chri­stine. Poi ricordò la sigaretta ancora accesa che teneva nell'al­tra mano. Diede una profonda boccata finché la brace non si infiammò, poi conficcò le unghie nella carne pulsante di Eddie.

«Che diavolo...?» ruggì lui aprendo gli occhi. Lei gli pian­tò la sigaretta accesa nella guancia, e approfittando della sor­presa si sporse sopra di lui cercando la maniglia della portie­ra. Eddie cercò di afferrarle il polso, ma lei gli assestò una gi­nocchiata tra le gambe. Lui ansimò e si piegò in due per il do­lore, mentre Christine afferrava la bottiglia e gliela sbatteva sulla testa.

Lui fece un urlo disumano. Christine si addossò alla por­tiera con la maniglia rotta, raccolse le ginocchia e con tutta la forza che aveva gli diede un calcio piantandogli nel petto i tac­chi alti. Eddie volò fuori della portiera e atterrò nella neve.

Si rialzò quasi subito, ma lei aveva già chiuso la portiera con la sicura e girato la chiavetta. La Chevrolet partì al primo colpo.

Eddie si arrampicò sul cofano, gridando oscenità e pren­dendo a pugni il parabrezza. Una crepa si allargò sul vetro. Christine innestò la retromarcia e premette l'acceleratore, fa­cendo balzare la macchina all'indietro. Eddie cadde dal cofa­no. Allora lei inserì la prima e partì.

I fari, pensò. Non aveva acceso i fari! Provò due o tre le­ve, accese il tergicristallo e la radio, poi finalmente trovò il bot­tone giusto. Aveva abbassato gli occhi per una frazione di se­condo, ma quando li rialzò e vide la curva stretta era troppo tardi. Premette il pedale del freno girando il volante con en­trambe le mani, ma la macchina volò oltre il fossato e si schian­tò contro un albero.

81

Nick guardò la chiesa abbandonata nello specchietto retrovi­sore. «Sicura di non aver visto una luce?» domandò.

Maggie si voltò sul sedile. «Forse era solo un riflesso. Sta­sera c'è un po' di luna.»

La jeep prese la strada del cimitero e Nick guardò di nuo­vo la chiesa abbandonata che adesso era alla sua sinistra. L'in­tonaco si era staccato dalle pareti esterne lasciando in vista le assi della struttura, ingrigite dalle intemperie. Molte vetrate erano state rubate, le poche rimaste erano in frantumi e rab­berciate da altre assi inchiodate. Anche la porta era coperta da pezzi di legno fissati l'uno sull'altro in strane diagonali.

«Eppure mi era sembrato di vedere una luce» insisté Nick. «In una delle finestrelle della cantina.»

«Perché non vai a vedere?» propose Maggie. «Intanto io do un'occhiata in giro.»

«Ma ho solo una torcia» disse Nick aprendo il cassettino del cruscotto, attento a non sfiorare Maggie nemmeno per sba­glio.

«Ne ho una anch'io» rispose lei, e gli mostrò una penna con la luce nel cappuccio.

«Quella non ti servirà a molto» sorrise lui. «Ma se vuoi posso lasciare i fari accesi.»

«No, vai, non preoccuparti.»

Nick spense i fari ed entrambi rimasero fermi, senza ac­cennare a scendere dalla macchina. «Chissà perché i cimiteri sono sempre su una collina» osservò lui.

Maggie continuò a fissare la notte scura.

«Ehi, tutto bene?»

«Sì, certo» fece lei in fretta. «Sto solo aspettando che gli occhi si adattino al buio.»

Nick osservò la cinta di ferro arrugginito che circondava il cimitero. Il cancello d'ingresso pendeva da un cardine e sem­brava oscillare, anche se non c'era quasi vento. Odiava que­sto posto, fin da quando era bambino e Jimmy Montgomery lo aveva sfidato a entrare e a toccare l'angelo di marmo nero.

Era impossibile non vederlo, perfino nel buio della not­te. La statua si ergeva al di sopra delle lapidi e le sue ali smoz­zicate la rendevano ancora più minacciosa. La sfida con Jimmy era avvenuta la notte di Halloween, quasi venticinque anni prima. E domani sarebbe stato di nuovo Halloween... Era stu­pido e infantile, ma gli sembrava di sentire i gemiti che si di­ceva provenissero dalla tomba su cui l'angelo vegliava.

«Hai sentito?» sussurrò. Poi si rese conto di essere ridi­colo. «Scusa» borbottò. Grazie a Dio lei non disse nulla.

Aprirono le rispettive portiere nello stesso momento, ma quella di Maggie si bloccò.

«Diavolo... devo proprio farla aggiustare» esclamò Nick. «Aspetta, vengo ad aprirti.»

Saltò giù dalla jeep e fece il giro, poi rimase immobile, co­me ipnotizzato dal raggio di luna che illuminava la faccia del­l'angelo.

«Nick? Che succede?»

Lui distolse gli occhi a fatica. Come mai lei non vedeva niente di strano? «È tutto a posto... vado a controllare la chie­sa.»

«Cominci a spaventarmi.»

«Mi dispiace... è solo l'angelo.» E lo illuminò con la tor­cia.

«Non è che a mezzanotte si mette a volare, vero?»

Nick si avviò verso la chiesa e per stare al gioco disse: «Ri­cordati che domani è Halloween».

«Credevo che lo avessimo annullato» rispose lei.

Con un sorrisetto, Nick continuò per la sua strada, se­guendo il fascio di luce della torcia. Era tutto terribilmente tranquillo, si sentiva soltanto un gufo in lontananza.

Era davvero assurdo lasciarsi influenzare dalle paure del­l'infanzia, pensò. Dopo tutto, quella notte era entrato nel cimitero e l'aveva toccato, l'angelo, mentre gli altri stavano fuo­ri a guardarlo troppo impauriti per entrare. E la terra non si era aperta per inghiottirlo. Però l'aveva sentito quel terribile gemito, e non era stato il solo...

Dal lato della chiesa che guardava la vecchia strada del pascolo non c'era nessuna impronta, il che voleva dire che Adam e Lloyd non erano neanche scesi dalla macchina. Adam lo capiva, era giovane e non voleva recitare la parte del primo della classe, voleva solo fare buona impressione sugli altri ed essere parte del gruppo... ma Lloyd avrebbe dovuto capire che i suoi ordini non erano da prendere sottogamba!

Nick avanzò nella neve alta e si accucciò davanti a una delle finestre della cantina. Illuminò l'interno con la torcia, vi­de cassette accumulate le une sulle altre e un movimento in un angolo... Topi, pensò con un brivido. Lui odiava i topi.

Avanzò fino all'altra finestra e d'improvviso sentì un ru­more di assi. Puntò la torcia aspettandosi di vedere qualcuno, ma anche lì c'erano solo cassette accatastate.

Un altro schianto, poi un rumore di vetri rotti. Venivano da dietro l'angolo. Nick si alzò e cercò di correre, ma la neve intralciava i suoi movimenti e la mano infreddolita faticò a slacciare la chiusura della fondina per prendere la pistola.

Spense la torcia e girò l'angolo, impugnando la pistola. Niente. Riaccese la torcia e vide schegge di legno e vetro sul­la neve davanti a una finestra aperta. Il passaggio non era più grande di una quarantina di centimetri.

Sentì dei passi, puntò la torcia tra gli alberi. Qualcosa si mosse e poi scomparve. Una piccola figura nera e un lampo arancione.

82

Maggie esaminò attentamente il terreno, cercando impronte o tracce di scavi recenti. Timmy era stato rapito dopo la nevi­cata, perciò se era stato portato qui doveva esserci qualche in­dizio. Ma dove poteva essere l'entrata del tunnel?

Alzò gli occhi sull'angelo e illuminò con la piccola torcia la scritta sulla lapide. IN MEMORIA DEL NOSTRO DILETTO NATHAN, 1906-1910. Certo, un bambino. Ecco perché un an­gelo custode vegliava su quella tomba. Maggie tastò in tasca la catenina con la croce, che secondo suo padre avrebbe do­vuto proteggerla. Chissà se la protezione funzionava anche per una scettica come lei?

Improvvisamente avvertì un movimento alle sue spalle. Si voltò puntando la torcia e vide un'ombra scura a terra, po­co lontano. Che fosse un corpo? pensò avvicinandosi cauta. La sua mano scivolò all'interno della giacca e si posò sulla fon­dina. Poi riconobbe un telo cerato simile a quelli che veniva­no usati per coprire le tombe scavate da poco. Ma il cimitero non era più in uso da anni... Il suo cuore accelerò i battiti.

Il telo era nuovo. Gli angoli erano fissati a terra da gros­se pietre, ma una era scivolata via e l'angolo libero si muove­va ogni tanto nella lieve brezza notturna. Con il cuore in go­la, Maggie si chinò. Avrebbe dovuto aspettare Nick, invece af­ferrò il telo e lo sollevò. Sotto c'era una botola chiusa da un battente di legno.

Doveva aspettare Nick, si disse un'altra volta. Questa po­teva essere una trappola come quella di Stucky... Ma lei ave­va fretta di mettere le mani su quel bastardo, e poi lui non po­teva sapere che lei sarebbe venuta lì quella notte.

Guardò la botola, con il cuore che le rombava nelle orec­chie, poi si chinò decisa e visto che non c'erano maniglie af­ferrò il battente per un angolo, senza riuscire a spostarlo. Sem­pre più decisa, Maggie riprovò e questa volta la botola si aprì, rivelando un buco nero. Un forte odore di muffa aggredì le sue narici.

Con la minuscola torcia non poteva vedere oltre i primi tre scalini. Sarebbe stato ridicolo e inutile calarsi giù con una luce così debole. Doveva aspettare Nick, si ripeté, ma lui non si vedeva... Maggie respirò profondamente, impugnò la pi­stola e scese nel buio.

83

Timmy scivolò in un cespuglio spinoso, ma non osò fermarsi. Aveva sentito lo sconosciuto dietro di sé, aveva visto il raggio della torcia, e sapeva che la sua unica speranza di salvezza era continuare a correre cercando di confondersi col buio. Teneva stretta la slitta, anche se era un ingombro, e correva nella ne­ve senza voltarsi indietro. Nella fretta di scappare si era di­menticato di infilarsi il cappotto e adesso tremava di freddo.

Dopo qualche minuto si fermò contro un albero per ri­prendere fiato e si asciugò il sudore dalla faccia. Quando riti­rò la mano vide che c'erano ancora delle tracce di sangue mi­ste alle lacrime.

«Smettila di piangere!» si rimproverò. Poi sentì un rumore dietro di sé. Rami spezzati, scricchiolio di neve calpestata, sem­pre più vicino. Sarebbe riuscito a nascondersi? No, l'uomo avrebbe sentito il battito del suo cuore e lo avrebbe scoperto subito. Non gli restava che continuare a correre.

Riprese la fuga, incurante dei rami che lo schiaffeggiava­no e si impigliavano nei capelli e nei vestiti. Poi, d'improvvi­so, gli mancò il terreno sotto i piedi: la discesa si faceva ripi­dissima, e in fondo c'era il fiume... Non ce l'avrebbe mai fat­ta, pensò. I passi dietro di lui si avvicinavano paurosamente.

Timmy si guardò intorno e notò una radura sulla destra. Si arrampicò sulla roccia che gli bloccava il cammino per ve­dere meglio, sempre tenendo stretta la slitta arancione.

Non era una vera e propria radura, sembrava piuttosto un sentiero, e scendeva fino al fiume in una serie di curve. Per­fetto per la slitta, pensò. Alla mamma sarebbe venuto un col­po se l'avesse visto... ma era l'unica cosa da fare.

Uno scricchiolio più forte lo fece sobbalzare. Si voltò e vi­de un'ombra gigantesca poco sopra di lui, che però per fortu­na gli girava la schiena. Adesso o mai più, si disse. Posò la slit­ta sul terreno, salì cautamente, poi si distese in modo da op­porre pochissima resistenza e si diede una piccola spinta. La slitta cominciò a scivolare lungo la discesa.

84

Nick si fermò sull'orlo del pendio, ansimante. Impossibile ve­dere qualcosa con la sola torcia. I rami degli alberi gli confon­devano la vista, ma l'ombra scura sembrava sparita. L'uomo gli era sfuggito, o si era nascosto talmente bene che lui non poteva più vederlo.

Doveva fare assolutamente qualcosa. Annaspò nella ne­ve, poi gli venne in mente il vecchio sentiero che scendeva al fiume: era molto ripido, percorribile con la jeep. Tornò verso la chiesa, e mentre rimetteva in tasca la pistola trovò il cellu­lare di Christine. Magnifico, pensò. Se non usava la radio del­la jeep, nessun giornalista ficcanaso avrebbe potuto ascoltare la sua chiamata.

«Lucy, sono Nick.»

«Santo cielo, Nick, dove diavolo sei? Eravamo così preoc­cupati.»

«Non ho tempo di spiegarti, ma ho bisogno di un po' di uomini con le fotoelettriche. Ho inseguito l'assassino nei bo­schi dietro la vecchia chiesa, e credo che sia di nuovo diretto al fiume.»

«Dove vuoi che ti mandi gli uomini?»

«C'è un tratto di strada vicino a una radura, non lontano dal punto dove abbiamo trovato Danny.»

«È il posto dove i ragazzi vanno a fare l'amore in mac­china?» fece Lucy.

«Credo di sì. Parlane con Hal e fai decidere a lui chi de­ve portare, d'accordo?»

Poi richiuse il telefono e si domandò se ancora una volta non aveva preso un granchio. E se fosse stato solo un vagabondo che si era rifiugiato nella vecchia chiesa per ripararsi dal freddo? Avrebbe fatto la figura dell'idiota per l'ennesima volta. Ma se questo poteva servire a ritrovare Timmy...

Si avvicinò alla finestra rotta e illuminò l'interno con la torcia. Aveva visto giusto: c'erano una brandina, dei poster al­le pareti e una cassetta di legno con del cibo. Qualcuno era sta­to lì. Poi notò la catena che pendeva dal letto e capì. Qualcu­no era stato tenuto prigioniero... Infine vide i fumetti, le figu­rine dei giocatori di baseball e una giacca a vento. La giacca di Timmy!

Il suo cuore prese a battere come un tamburo. Questo era il posto in cui Timmy era stato nascosto, Maggie aveva ragio­ne. Timmy e forse anche gli altri.

Fu allora che vide il cuscino macchiato di sangue.

85

Maggie sentì delle piccole creature zampettare sopra la sua te­sta. Un po' di terriccio le cadde sui capelli, ma lei non osò guar­dare in alto e proseguì allontanando le ragnatele dalla faccia. Qualcosa le passò su un piede, e anche senza luce capì che si trattava di un topo. Li sentiva correre e squittire tutt'intorno, probabilmente disturbati dalla sua presenza quanto lei dalla loro.

Aveva contato undici scalini, e adesso era in una specie di cantina che somigliava ai vecchi rifugi usati un tempo co­me riparo dagli uragani. Ma a parte uno scaffale di legno e una grossa cassa in un angolo, il locale era vuoto e non c'era­no segni di un passaggio segreto o di un tunnel. Eppure qual­cuno si era dato la pena di spazzare la neve dalla botola e di nasconderla con un telo cerato...

Maggie ispezionò di nuovo il locale con la torcia, e que­sta volta si fermò a osservare meglio la cassa di legno. Non era marcia come lo scaffale, anzi era in condizioni piuttosto buone, e il coperchio era assicurato al resto con chiodi nuovi e lucenti. Maggie cercò di forzare il coperchio con le dita, poi trovò in un angolo un piede di porco arrugginito e provò con quello. Il coperchio si sollevò di qualche millimetro e subito un odore di putrefazione si diffuse nel sotterraneo. Che con­tenesse un corpo? pensò indietreggiando. Il corpo di un bam­bino? D'altra parte aveva visto di peggio: Stucky aveva cac­ciato in un contenitore di plastica per gli hamburger i polmo­ni di una delle sue vittime, e poi aveva gettato il tutto in un bidone della spazzatura.

Cercò di sollevare la cassa per trascinarla all'aperto, ma non riuscì a smuoverla di un millimetro. Allora forzò di nuo­vo il coperchio, e questa volta ne uscì un puzzo così forte che le diede un conato di vomito. Sputò via la piccola torcia che aveva tenuto tra i denti e la lasciò a terra, poi trattenne il re­spiro e tentò di nuovo.

Qualcosa si mosse nel buio e Maggie cadde sulle ginoc­chia impugnando il piede di porco alto sulla testa. Il rumore proveniva da qualcosa o qualcuno molto più grande di un to­po... ma era cessato, e intorno a lei di nuovo il silenzio. Mag­gie raccolse la torcia e proiettò la luce sulle pareti: e allora vi­de che lo scaffale era stato spostato, e rivelava un buco abba­stanza grande da essere il passaggio per il tunnel.

Poi, nel buio, qualcosa si mosse di nuovo alle sue spalle. Non era più sola, qualcuno stava sugli scalini e le bloccava ogni via di fuga. Maggie avvertiva la sua presenza, sentiva il respiro un po' affannoso, come se venisse filtrato da un tubo.

Il panico l'assalì. D'istinto portò la mano alla fondina del­la pistola, ma la lama di un coltello le si appoggiò contro la gola.

86

«Agente O'Dell, che bella sorpresa.»

Maggie non riconobbe la voce soffocata. La lama le pre­meva contro la gola e la costringeva a tenere la testa rovesciata all'indietro. Un rivolo di sangue scendeva nel colletto del giac­cone.

«Una sorpresa?» ribatté. «Credevo che mi aspettassi. Sai tutto di me, o sbaglio?»

«Getta quell'arnese» ordinò l'altro, stringendola, alle sue spalle.

Lei ubbidì. La mano dell'uomo frugò nella giacca, trovò la pistola e si ritrasse di scatto dopo averle toccato acciden­talmente un seno.

L'arma venne gettata in un angolo, dietro la cassa. Certo, pensò Maggie. Era molto più bravo a usare il coltello.

Cercò di concentrarsi, di capire meglio con chi aveva a che fare. L'uomo era forte, atletico, dieci-dodici centimetri più alto di lei. Il volto che le sfiorava le orecchie era coperto da una maschera di gomma, sulle mani portava un paio di guan­ti di pelle nera, del tipo dozzinale che si trova nei grandi ma­gazzini.

«Non ti stavo aspettando» riprese l'uomo. «Pensavo che fossi tornata a casa nel tuo bell'appartamento, a badare a tuo marito e alla tua povera mamma malata. A proposito, come sta?»

«Dimmelo tu, bastardo» lo provocò lei.

Il coltello penetrò un po' più a fondo e un secondo rivo­lo di sangue scese lungo la sua gola.

«Non sei stata gentile» la sgridò l'uomo.

«Chiedo scusa.» Maggie evitò di muovere la testa, pen­sando che poteva benissimo giocare al suo stesso gioco. «Ma vedi, quest'odore mi disturba» disse. «Forse potremmo con­tinuare a discutere all'aria aperta.»

«Spiacente, ho paura che non te ne andrai più di qui. Che ne dici della tua nuova casa?» L'uomo rise. «O forse dovrei di­re la tua tomba?»

Calma, si disse lei. Doveva restare calma. Non doveva pensare a Stucky che le tagliava a fette l'addome. Se solo fos­se riuscita a fargli allentare un po' la pressione del coltello...

«Non ti servirà a niente eliminare me» disse lentamente, muovendosi il meno possibile. «Tutto il distretto di polizia sa chi sei. E tra qualche minuto arriveranno qui decine di poli­ziotti.»

«Non raccontarmi favole, agente O'Dell. So che ti piace agire per conto tuo, ed è questo che ti ha messa nei guai con Stucky. Tutto quel che hai su di me è il tuo ridicolo profilo psi­cologico, e scommetto che so anche che cosa dice. Che mia ma­dre ha abusato di me quando ero piccolo, che mi ha trasfor­mato in una checca e che perciò ammazzo i ragazzini. Giu­sto?» La risatina adesso sembrava il ghigno di un pazzo.

«Veramente non penso che tua madre abbia abusato di te» replicò Maggie, cercando di ricordare il poco che aveva scoperto su Padre Keller. Sua madre era divorziata, gli disse, proprio come le madri delle vittime, ma era morta quando lui era molto giovane, in un incidente. Non riusciva a ricordare i dettagli.

«Credo che ti volesse molto bene» proseguì. «Come tu ne volevi a lei. Però c'è stato qualcuno che ha abusato di te.»

Un piccolo scatto della mano che reggeva il coltello le con­fermò che aveva ragione. «Un parente, forse un amico di tua madre... no, il tuo patrigno.»

Il coltello si spostò di qualche millimetro e lei poté ri­prendere a respirare. L'uomo era zitto e fermo. Adesso Mag­gie aveva tutta la sua attenzione.

«Tu non sei omosesuale, ma lui ti ha fatto dubitare di te stesso, vero? Ti ha fatto credere che potevi diventarlo.»

La stretta attorno al torace si allentò, ma il respiro affan­noso dell'uomo aumentò.

«Tu non uccidi i ragazzini per divertimento. Cerchi di sal­varli perché ti ricordano il bambino spaventato e vulnerabile che eri. Credi che salvandoli riuscirai a salvare te stesso.»

L'uomo rimaneva sempre in silenzio. Si era spinta trop­po oltre? si chiese Maggie. Cercò di concentrarsi sulla mano che stringeva il coltello. Se gli dava una gomitata all'indietro, forse poteva strapparglielo... ma per riuscirci doveva distrar­lo di più.

«Tu liberi le tue vittime dal male, non è così? Infliggendo loro il tuo male, ne fai dei martiri e diventi un eroe. Si potrebbe dire che il tuo è il male perfetto.»

Il braccio scattò a stringerla di nuovo. Aveva esagerato. La lama del coltello si appoggiò al collo di piatto. Con un so­lo gesto l'uomo poteva sgozzarla.

«Queste sono solo stronzate psicologiche» gridò. «Non sai di che cosa parli!» La trascinò verso il foro e continuò: «Al­bert Stucky avrebbe dovuto sventrarti quando ne aveva la pos­sibilità. Adesso toccherà a me finire l'opera». La fece cadere sulle ginocchia e le gettò una scatola di fiammiferi, poi prese una lanterna dallo scaffale. «Accendila» ordinò tenendole il coltello premuto sulla gola. «Voglio che tu veda tutto.»

Maggie riuscì ad accendere la lanterna al primo tentati­vo, anche se le sue dita avevano perso ogni sensibilità e tutto il sangue sembrava essere defluito dalle sue vene. Accadeva di nuovo. Il suo corpo si preparava al dolore distaccandosi, annullando ogni sensazione.

La mano che stringeva il coltello sembrava tremare. Di rabbia o di paura?

«Perché non urli? Perché non piangi?» sibilò lui.

Ma lei non poteva rispondere, perché anche la voce se n'e­ra andata.

«Di' qualcosa» si infuriò l'uomo afferrandola per i capel­li e tirandola in piedi. «Prega. Supplicami!»

«Fai quel che devi fare» disse lei finalmente. E in quel mo­mento la voce di Nick chiamò dalla cima delle scale: «Mag­gie? Sei lì?».

L'uomo si voltò di colpo trascinandola con sé. Approfit­tando di quell'attimo di distrazione, lei gli afferrò il polso, lo torse verso l'esterno e si liberò dalla stretta. Lui le affondò il coltello nel fianco e la lama penetrò attraverso la stoffa fin nel­la carne. Poi l'uomo le diede uno spintone e prese la lanterna, scomparendo nel tunnel. Lo scaffale oscillò e cadde a terra.

«Maggie!» gridò Nick irrompendo nel sotterraneo. La lu­ce viva della torcia l'accecò.

«È nel tunnel» disse lei lottando per rimettersi in piedi. Una fitta nel fianco la immobilizzò e ricadde a terra. «Non la­sciarlo scappare!»

Nick sparì nel buco lasciandola nel buio più totale, ma a lei non serviva la luce per capire che era ferita gravemen­te. Si tastò il fianco appiccicoso di sangue, poi mise la mano in tasca e prese la catenina con la croce che le aveva regala­to suo padre. Lentamente la passò sopra la testa e se la ri­mise al collo.

87

Il tunnel si restringeva e si abbassava e ormai Nick era co­stretto a strisciare sulle ginocchia. Non vedeva più l'ombra mascherata davanti a sé, solo sassi, detriti, radici affioranti o penzolanti dalla volta che gli si attaccavano alla faccia come ragnatele.

Mentre tastava il terreno molliccio, la sua mano sfiorò una cosa calda e pelosa. Un topo! Per il disgusto lasciò cadere la torcia che si aprì lasciando uscire le batterie. Le cercò senza perdersi d'animo, le trovò e le rimise al loro posto. Ma anche dopo aver stretto per bene il coperchio la torcia si rifiutava di funzionare. Premette il pulsante una, due volte, e finalmente la luce tornò.

Riprese a strisciare più in fretta, ma il tunnel si era anco­ra abbassato e adesso era costretto ad avanzare piatto sul ven­tre, aiutandosi con i gomiti. Gli sembrava che la terra gli pe­netrasse in gola e si sentiva soffocare.

Intorno a lui, a parte lo zampettare di qualche topo, c'e­ra il silenzio più assoluto. Che si fosse seppellito vivo? Come aveva fatto l'ombra mascherata a sparire così velocemente? E se quello era il killer, chi era l'ombra che aveva inseguito nei boschi?

Era una pazzia. Non ce la faceva più, i suoi polmoni sta­vano esplodendo, e cominciava a temere di aver preso una de­viazione sbagliata. Questo avrebbe spiegato perché l'uomo era sparito. Forse il passaggio in cui era intrappolato finiva in un punto morto e non sarebbe mai più riuscito a tornare indietro...

Proprio mentre pensava che non avrebbe più potuto pro­seguire, distinse un lampo più chiaro davanti a sé. Era neve che ostruiva l'uscita del tunnel. Con un ultimo sforzo Nick ar­tigliò, scavò e spinse, finché vide il cielo stellato sopra di sé. Gli sembrava di aver percorso dei chilometri e si accorse di non aver nemmeno lasciato il cimitero. Emerse fra le lapidi co­me un fantasma, e a circa un metro di distanza vide l'angelo nero che sembrava guardarlo con l'ombra di un sorriso.

88

Christine si svegliò con la nuca indolenzita come le succede­va sempre quando si addormentava sul divano. Solo che c'e­ra qualcosa di strano, vedeva dei rami, e sopra la testa il cie­lo stellato. Possibile che il vento avesse scoperchiato la casa? pensò nel dormiveglia. E dov'era il plaid? Aveva freddo, bi­sognava che dicesse a Timmy di alzare il termostato, e poi avrebbe preparato una bella tazza di cioccolata calda per tut­ti e due. Ma non riusciva ad alzarsi, doveva esserle caduto qualcosa sul petto. Cercò di spingerlo via: le braccia erano pri­ve di forza. Eppure le vedeva distese lungo i fianchi... e allo­ra che era successo? Si erano addormentate come il resto del corpo?

Strano come la luce fosse accecante. Dov'era l'interrutto­re dell'abat-jour? Forse era meglio richiudere gli occhi per un momento, e magari dormire un altro po'. Se almeno quel suo­no fastidioso fosse cessato... Ma da dove veniva? Da un pun­to dentro il suo cappotto? No, veniva da lei, ed era molto do­loroso...

E che cosa ci faceva il presidente Nixon nel suo soggior­no? Cercò di rispondere al suo cenno di saluto, ma era trop­po debole, e il suo braccio era ancora addormentato. Nixon le sollevò il peso dal petto e poi la rimise a dormire. E lei cedet­te grata al sonno.

89

L'arancione vivido della slitta sembrava brillare nella luce pal­lida della luna. Timmy la guardò ondeggiare nella corrente e cercò di accucciarsi più vicino al terreno, nei cespugli lungo la riva. Tutta la pratica fatta giù per Cutty Hill gli era stata molto utile, anche se nel salto finale aveva perso una scarpa e doveva essersi storto una caviglia, perché adesso era gonfia e gli faceva male.

Nonostante questo si sentiva abbastanza fiducioso. For­se era riuscito a farcela, pensò. Trovò anche il coraggio di concedersi un piccolo sorriso. Poi si voltò e intravide l'om­bra nera che veniva di nuovo verso di lui, aggrappandosi a rami e sassi. Per la prima volta Timmy si sentì disperato: non aveva più vie di scampo. Rimpiangeva di non essere rima­sto sulla slitta, ma ormai era lontana... Una piccola speran­za lo rianimò. E se lo sconosciuto avesse creduto che lui era ancora sulla slitta che si allontanava nella corrente? D'un trat­to sembrava che l'uomo non avesse più nessuna fretta, e ades­so che era arrivato in riva al fiume se ne stava fermo a guar­dare l'acqua.

Allo scoperto appariva anche più basso, e non aveva più la maschera del presidente Nixon. Peccato che fosse troppo buio per vederlo in faccia.

Timmy si appiattì nella neve. La brezza che saliva dal fiu­me era fredda e umida, e lui ricominciava a battere i denti. Do­veva muoversi. Non appena l'uomo se ne fosse andato, avreb­be preso la strada che risaliva la collina. Era molto ripida, ma almeno non passava in mezzo ai boschi, e doveva pur porta­re da qualche parte.

Finalmente l'uomo sembrò decidersi ad andare via da lì.

Si frugò in tasca e dovette trovare quello che cercava per­ché si accese una sigaretta. Poi si voltò e cominciò a cammi­nare dritto verso Timmy.

90

Maggie strisciò sulla scala, arrabbiata con le sue ginocchia che rifiutavano di collaborare. La ferita al fianco bruciava e il bru­ciore arrivava allo stomaco e ai polmoni, come se la lama del coltello si fosse staccata dal manico e adesso frugasse dentro il suo corpo. Eppure avrebbe dovuto avere l'abitudine alle fe­rite e al sangue. Non era la prima volta che le succedeva.

Ma quando arrivò faticosamente alla luce della luna e si vide gli abiti intrisi di sangue le venne la nausea. Si ravviò i capelli sudati e si rese conto che anche la sua mano era insan­guinata. Allora si sfilò la giacca e strappò la fodera fino a ri­cavarne delle strisce abbastanza grandi da tamponare la feri­ta. Poi fece un impacco di neve e l'applicò al fianco. Il dolore era fortissimo e dovette chiudere gli occhi per un momento. Quando li riaprì un'ombra scura veniva verso di lei, barcol­lando tra le lapidi come un ubriaco. Mise la mano alla fondi­na, ma la trovò vuota: la sua pistola era rimasta là sotto, in quel maledetto nascondiglio.

«Maggie» chiamò l'ubriaco, e lei riconobbe la voce di Nick. Il sollievo fu tale che per un istante dimenticò il dolore e la nausea.

Nick era coperto di terra e fango, e puzzava di morte. Ma lei gli si aggrappò con tutte le sue forze.

«Dio santo, Maggie... sei ferita?» ,

«Sì, ma in qualche modo sono riuscita a medicarmi e per un po' resisto... L'hai preso?»

Lui scosse la testa. «Là sotto c'è un labirinto di passaggi e io mi sono infilato in quello sbagliato.»

«Dobbiamo fermarlo, Nick» disse Maggie, senza più preoccuparsi di nascondere la paura. «Probabilmente è nella vecchia chiesa, e dev'essere lì che tiene Tìmmy.»

«Non più. Ho visto la stanza dove lo teneva. C'era il giac­cone di Timmy, ma lui no.»

«Allora dobbiamo trovarlo, subito!»Maggie cercò di met­tersi in piedi, ma gli ricadde addosso.

«Ho paura che sia troppo tardi» disse Nick con voce spez­zata. «Ho anche visto... insomma, c'era un cuscino con del san­gue.»

«Oh, no...» gemette lei appoggiandogli la testa sul petto.

«Gesù, Maggie, ma tu stai male, devo portarti al pronto soccorso. Non ho intenzione di perdere due persone che amo nella stessa notte!»

E la sorresse mentre lei si alzava a fatica. Il dolore era di­ventato insopportabile, ma non le aveva impedito di sentire quello che lui aveva appena detto. Veramente l'amava?

«Non fare sforzi» disse Nick. «Lascia che ti porti in brac­cio fino alla jeep.»

«Morrelli, nemmeno tu mi sembri molto fermo sulle gam­be» replicò lei stringendo i denti per far fronte al dolore. Ma si abbandonò volentieri alle sue braccia.

Erano quasi arrivati all'auto quando Maggie si ricordò della grossa cassa di legno. «Aspetta, Nick» disse. «Dobbia­mo tornare indietro.»

91

Christine fissò le stelle e trovò l'Orsa Maggiore, l'unica co­stellazione che riconosceva. Adesso si era resa conto di esse­re sdraiata sul ciglio della strada, ma la neve era soffice e la coperta di lana, benché un po' ruvida, era calda e piacevole. Se solo fosse riuscita a respirare senza soffocare per i grumi di sangue, forse avrebbe anche potuto riaddormentarsi.

I ricordi riaffioravano nella sua mente a poco a poco. Le mani di Eddie sui seni, lei che lo buttava fuori della macchi­na, poi l'auto, le lamiere che premevano sul petto, e Timmy, oh Dio, Timmy... Sentì il sapore delle lacrime e si morse le lab­bra per fermarle, poi cercò di rizzarsi a sedere, ma il corpo non ubbidiva, e respirare era sempre più doloroso. Perché non po­teva smettere di respirare per un po'?

I fari sbucarono dal nulla, poi sentì lo stridore dei freni, e infine due ombre scesero dalla macchina e si avvicinarono. In un primo momento le sembrarono degli alieni con teste enor­mi, poi capì che sembravano più grandi del normale per via dei cappelli.

«Oh, Signore Gesù... è Christine!»

Lei sorrise e chiuse gli occhi. Non c'era mai stata tanta paura nella voce di suo padre e, anche se forse non era giusto, la cosa le fece piacere.

Quando Tony e Lloyd Benjamin si inginocchiarono ac­canto a lei, Christine riaprì gli occhi. «Eddie sa dov'è Timmy» riuscì ancora a dire.

92

Nick cercò inutilmente di convincere Maggie a restare nella jeep. Aveva perso molto sangue era pallidissima e forse im­maginava cose che non c'erano.

Lei però insisté: «Bisogna andare a controllare, Nick. È importante».

«E va bene, ci vado io» disse lui. «Tu resta qui.»

«Nick, aspetta... là dentro potrebbe esserci Timmy!»

Lui si immobilizzò e dovette appoggiarsi alla fiancata del­la jeep perché le ginocchia non lo reggevano più.

«Perché... perché dovrebbe fare una cosa del genere?» ri­uscì a balbettare. Non poteva nemmeno immaginare Timmy chiuso in una cassa di legno, morto. Eppure l'aveva già pen­sato e temuto. «Non è nel suo stile.»

«Comunque, quello che c'è nella cassa potrebbe essere de­dicato a me.»

«Non capisco.»

«Ricordi l'ultimo biglietto che mi ha mandato l'assassi­no? Se sa di Stucky, può darsi che abbia copiato anche le sue manie. E se là dentro c'è Timmy, io non voglio che tu lo veda.»

Lui la fissò. Il viso di Maggie era sporco e insanguinato, i capelli arruffati erano pieni di terra e di ragnatele, le labbra erano serrate per combattere il dolore e aveva le spalle incur­vate per la stanchezza. Eppure cercava ancora di proteggerlo!

Si voltò e si avviò verso la botola, incurante dei richiami di lei. Sapeva che non sarebbe stata in grado di seguirlo sen­za aiuto.

All'imbocco del sotterraneo si fermò. L'odore di putrido era spaventoso, ma lui si costrinse a scendere. Accese la torcia e trovò facilmente il piede di porco e la pistola di Maggie, che mise in tasca. Poi si chinò, afferrò un angolo della cassa e la trascinò penosamente su per gli scalini. Ogni passo era una tortura, i muscoli sembravano scoppiare per lo sforzo, ma fi­nalmente fu di nuovo all'aria aperta e lasciò cadere la cassa sul terreno.

Maggie era lì, più bianca del marmo della lapide a cui era appoggiata. «Lascia che la apra io» disse allungando la mano verso il piede di porco.

«No, Maggie. Posso farcela.» Nick inserì l'estremità del ferro sotto il coperchio e fece leva. Anche nell'aria fredda del­la notte, l'odore di morte sovrastava tutti gli altri. Quando il coperchio fu libero lui esitò un istante, e Maggie lo sollevò del tutto.

Entrambi fecero un passo indietro, ma non per il puzzo terribile. All'interno, avvolto con cura in un telo bianco, c'era il corpicino livido di Matthew Tanner.

93

Ormai Timmy non poteva più nascondersi né scappare. Guar­dò il fiume, domandandosi se sarebbe stato capace di attraver­sarlo a nuoto, o di lasciarsi trasportare dalla corrente. Ma l'ac­qua nera scorreva troppo in fretta, ed era sicuramente gelida.

L'uomo aveva finito la sigaretta e continuava a cammi­nare nella sua direzione. Ogni tanto borbottava qualcosa tra sé e con un calcio gettava qualche sasso nel fiume. Era così vi­cino che gli spruzzi lo bagnavano.

Doveva risalire nei boschi, si disse Timmy. A nuoto non ce l'avrebbe mai fatta. Si sporse per controllare l'uomo e vide che si stava accendendo un'altra sigaretta. Adesso, pensò. Sal­tò su e si mise a correre, ma i sassi che franavano sotto i suoi piedi lo tradirono. Fece appena in tempo ad arrivare sulla stra­da che la caviglia cedette e lui cadde in ginocchio. Si rialzò quasi subito, ma qualcuno lo sollevò a mezz'aria. Timmy scal­ciò e graffiò il braccio che lo stringeva alla vita, e ottenne so­lo che un altro braccio lo strangolasse. «Piantala di agitarti, stronzetto» intimò l'uomo. Timmy cercò di gridare, ma la vo­ce gli morì in gola.

Quando la macchina imboccò la strada, l'uomo lo teneva ancora sollevato a mezz'aria. L'auto si fermò, ma l'uomo non accennò a fuggire. Timmy riconobbe l'agente Hal e allora si convinse che l'incubo stava per finire. Ma perché quello non scappava? pensò stupito.

«Che succede?» domandò Hal camminando verso di lo­ro con un altro agente. Timmy era incredulo. Che cosa aspet­tavano a estrarre le pistole? Non vedevano che quello gli sta­va facendo male?

«L'ho trovato che si nascondeva nel bosco» disse l'uomo. «Si può dire che l'ho salvato.»

«Già, lo vedo» disse Hal.

No, voleva gridare Timmy, è una bugia! Ma non riusciva a respirare. Non capivano, quei due, che l'uomo era l'assassi­no?

«Sali in macchina» disse Hal. Poi, con voce più dolce: «Ri­lassati, Timmy. Sei in salvo».

Finalmente l'uomo lo rimise a terra e lui corse verso l'a­gente, trascinando la caviglia gonfia.

Hal lo prese gentilmente per le spalle e lo mise al riparo dietro di sé. Poi estrasse la pistola e disse all'uomo: «Quanto a te, Eddie, mi devi un bel po' di spiegazioni».

94

Venerdì 31 ottobre

Christine si svegliò circondata di fiori. Era morta? pensò. Poi vide sua madre seduta accanto al letto e si disse che doveva essere viva per forza, perché la tuta da jogging a strisce fucsia e turchese che indossava sua madre non era sicuramente una tenuta adatta al paradiso, e forse nemmeno all'inferno.

«Come ti senti, tesoro?»

«Dove sono?» chiese lei. Era una domanda stupida, se ne rendeva conto, ma dopo tante ore di allucinazioni, o che dia­volo altro, aveva il diritto di saperlo.

«Sei in ospedale, cara. Sei uscita dalla sala operatoria qual­che ora fa.»

Un'operazione? Solo allora Christine notò i tubicini che la collegavano a macchine e monitor. In preda al panico, si strappò le coperte.

«Ma cosa fai?» la rimproverò sua madre.

Le gambe c'erano ancora, grazie a Dio. Una era fasciata, ma poteva muoverla.

«Non vorrai prenderti anche una polmonite!»

Lei alzò le braccia e piegò le dita. Se non altro i pezzi c'e­rano tutti. Lo stomaco le faceva un male d'inferno, ma era tut­ta intera.

«Tuo padre e Bruce sono andati a prendere un caffè. Sa­ranno felici di trovarti sveglia.»

«Bruce è qui?» si allarmò Christine. Poi ricordò il rapi­mento di Timmy e di colpo ebbe l'impressione che l'aria del­la stanza fosse stata risucchiata via.

«Dagli un'altra possibilità, tesoro» disse sua madre. «Que­sto calvario l'ha cambiato molto.»

Calvario? pensò Christine. Adesso era così che definiva­no la scomparsa di Timmy?

Proprio allora Nick si affacciò dalla porta. Era in giacca e cravatta, lei non lo vedeva così elegante da tempo, sembrava quasi vestito per un funerale... Christine pensò di nuovo a Timmy ed ebbe un altro attacco di panico.

«Ciao, caro» disse sua madre mentre Nick si chinava a ba­ciarla sulla guancia. Christine li osservò attentamente. Stava­no recitando? Avevano deciso di non dirle niente perché era ancora troppo malandata?

«Voglio la verità, Nick» implorò con una voce così stri­dula che lei stessa non la riconobbe. Entrambi la guardarono senza parlare, poi Nick si avvicinò alla porta che aveva appe­na richiuso. «D'accordo, se è davvero quello che vuoi.»

«Nick, per favore...» gemette lei.

Lui aprì la porta e Christine vide un'apparizione che sem­brava Timmy. Si sfregò gli occhi. Aveva di nuovo le allucina­zioni? Poi suo figlio avanzò zoppicando verso di lei, con un taglio su una guancia e un labbro gonfio, ma in ordine e pet­tinato, e con i vestiti puliti. Aveva perfino un paio di scarpe da tennis nuove. Che tutto fosse stato solo un bruttissimo so­gno?

«Ciao, ma'» fece Timmy come in una mattina qualsiasi. Poi si inginocchiò sulla sedia che la nonna aveva avvicinato al letto, e a quel punto Christine rinunciò a trattenere le lacri­me. Gli accarezzò la testa, gli ravviò il ciuffo sulla fronte, po­sò la mano sulla guancia ferita.

«Ma dai, mamma» fece lui. «Ci guardano tutti.»

E lei capì che era vero e reale.

95

Nick se la svignò prima che l'atmosfera diventasse troppo sdolcinata, e svoltando l'angolo del corridoio si imbatté in suo padre.

«Ehi, calma, figliolo» disse Tony mettendo in salvo la taz­za di caffè che aveva in mano. «Non si può mai dire che cosa ti perdi andando troppo in fretta.»

Il tono era sarcastico come sempre, ma Nick era troppo di buon umore per arrabbiarsi.

«Non è Eddie, sai» disse ancora suo padre.

«Ah, davvero? Questa volta sarà il tribunale a deciderlo e non Antonio Morrelli.»

«Che diavolo vorresti dire?»

Nick si avvicinò a suo padre fino a guardarlo fisso negli occhi. «Hai aiutato qualcuno a montare delle false prove con­tro Jeffreys?»

«Attento a come parli, sai. Non ho mai commesso un fal­so in vita mia!»

«E allora come spieghi le discrepanze che sono venute fuori?»

«Non c'era nessuna discrepanza. Ho solo fatto il neces­sario per far condannare quel figlio di puttana.»

«Ma hai ignorato delle prove importanti.»

«Sapevo che aveva ucciso quel ragazzino, quel Wilson. Tu non hai visto il cadavere, non sai che cosa gli aveva fatto passare. Jeffreys meritava di morire!»

«Non venirmi a dire che i tuoi orrori sono peggiori dei miei» sbottò Nick stringendo i pugni. «Questa settimana ho visto quanto basta per una vita intera. Forse Jeffreys meritava di morire, ma accollandogli gli altri due omicidi hai lasciato libero un assassino. Hai fatto in modo che la città si sentisse al sicuro quando non lo era affatto.»

«Ho fatto quello che ritenevo necessario.»

«Non dirlo a me, questo. Vallo a dire a Laura Alverez e a Michelle Tanner.» E Nick girò sui tacchi e se ne andò.

Si aspettava di provare soddisfazione per aver finalmen­te detto a Tony Morrelli il fatto suo, invece sentiva solo ama­rezza.

Si fermò davanti alla reception dell'ospedale e guardò stu­pito la segretaria in mantello nero e cappello a cono, poi vide i festoni di cartone con le zucche e capì. Ma certo, era Halloween. «Ciao, Nick» disse una brunetta arrivando dietro di lui.

«Ehi, Sandy... adesso fai il turno di giorno?» fece lui un po' imbarazzato. C'era un posto in città in cui non rischiasse di imbattersi in un'ex amante, fosse anche solo l'avventura di una notte? pensò.

La ragazza ignorò il suo imbarazzo. «Sembra che Chri­stine stia molto meglio» disse.

Lui la fissò senza sentirla. Chissà perché era finita con Sandy? Era bella, intelligente, simpatica... come tutte le don­ne che aveva scelto finora. Ma nessuna reggeva il confronto con Maggie.

«Ehi, Nick, tutto bene?» domandò Sandy.

«Eh? Oh, sì... volevo solo sapere il numero della camera dell'agente O'Dell.»

«È la 372, in fondo al corridoio» disse la segretaria. «Ma può darsi che sia già andata via.»

«Come, andata via?»

«Ha firmato i documenti poco fa e stava aspettando dei vestiti, perché quelli che aveva addosso ieri sera erano ridot­ti piuttosto male» spiegò la donna. Ma Nick era già a metà del corridoio.

Spalancò la porta. Maggie stava guardando fuori della fi­nestra. Si voltò in fretta chiudendo la camicia dell'ospedale aperta sulla schiena.

«Morrelli, ma tu non bussi mai?»

«Scusami.» Il cuore di Nick si calmò mentre la guardava. I capelli erano di nuovo lucidi e puliti, la faccia aveva ripreso un po' di colore, gli occhi brillavano. «Mi hanno detto che eri già andata via e...»

«Sto aspettando dei vestiti nuovi. Una delle infermiere volontarie si è offerta di andarmeli a comperare.»

«E i medici hanno detto che va bene?» domandò lui preoc­cupato. «Che te ne puoi andare?»

«Hanno lasciato decidere a me.»

Si fissarono negli occhi per un attimo, poi lei ruppe l'in­cantesimo. «Come sta Christine?»

«L'operazione è riuscita e pare che sulla gamba non re­steranno cicatrici. Le ho appena portato Timmy.»

Gli occhi di Maggie si addolcirono. «Viene quasi da cre­dere al lieto fine» disse.

I loro sguardi si incontrarono di nuovo e questa volta lei sorrise. Dio, lo sapeva quanto era bella quando sorrideva? Nick stava per dirglielo, per farle sapere che la sola idea di non rivederla più lo faceva star male, che l'amava, e al diavo­lo il suo matrimonio e tutto il resto. Ma ci ripensò e disse in­vece: «Stamattina abbiamo arrestato Eddie Gillick».

Maggie andò a sedersi sul letto.

«Abbiamo interrogato di nuovo Ray Howard» continuò Nick, «e questa volta ha ammesso che ogni tanto prestava il furgoncino blu a Gillick.»

«Anche il giorno che Danny è scomparso?»

«Ovviamente Howard non se lo ricorda, ma c'è dell'altro. Eddie è venuto a lavorare qui l'anno del primo omicidio. Il di­stretto di polizia di Omaha gli ha dato una lettera di referenze, ma nel suo dossier c'erano ben tre rimproveri ufficiali per uso improprio della forza durante un arresto, e in due casi si tratta­va di minorenni. A un ragazzino ruppe addirittura un braccio.»

«E l'estrema unzione?»

«Sua madre - una madre single, tra l'altro - ha fatto per anni il doppio lavoro per mandarlo alla scuola cattolica. E que­sto fino al liceo.»

Maggie si scostò i capelli dietro l'orecchio.

«Non lo so, Nick... tu credi sia lui?»

Invece di rispondere Nick continuò: «Ha avuto sicura­mente accesso alle prove del caso Jeffreys, e può averlo inca­strato con facilità. Aveva anche accesso all'obitorio, tanto che ieri c'è andato a prendere le foto dell'autopsia. Quindi può aver sottratto il corpo di Matthew quando si è reso conto che i segni dei morsi potevano farlo identificare. E usando la sua autorità può benissimo aver fatto qualche telefonata per ave­re informazioni su Albert Stucky».

Sentendo quel nome lei fece una piccola smorfia invo­lontaria. «L'obitorio non è chiuso a chiave» obiettò. «Ci può entrare chiunque. E molto di quel che Stucky ha fatto è stato descritto con dovizia di particolari sui giornali e in TV.»

«Sì, ma c'è di più.» Nick aveva tenuto per ultima la cosa più grave, ma anche la più dubbia. «Abbiamo trovato degli oggetti nel suo bagagliaio. Una maschera di Halloween, un paio di guanti neri e un rotolo di corda.»

«E perché avrebbe dovuto lasciare quella roba in mac­china se sapeva che gli stavamo dando la caccia? Specialmente se era stato lui il responsabile delle false prove contro Jeffreys?»

Anche Nick la pensava allo stesso modo, ma non vedeva l'ora che quell'incubo finisse. «Mio padre ha appena ammes­so di sapere che quelle prove erano false» disse.

«Davvero?»

«Più o meno. Ha ammesso di avere ignorato le discre­panze tra alcune prove.»

«E crede che Eddie sia colpevole?»

«No, dice di essere sicuro che non lo è.»

«E questo ti convince ancora di più che invece è lui» os­servò Maggie. Dio, come lo conosceva bene.

«Timmy ha un accendino che gli ha dato il suo rapitore, con lo stemma del nostro dipartimento. È un regalo che mio padre faceva ai collaboratori come ricompensa, ma non ne die­de via molti. Eddie era una delle cinque o sei persone che lo possedevano.»

«Gli accendini si perdono» fece lei alzandosi e tornando alla finestra. Questa volta dimenticò il suo abbigliamento som­mario, e lui poté vedere una generosa porzione della sua schie­na e una spalla. Così, con quel camicione addosso, Maggie sembrava piccola e fragile. Nick immaginò di stringerla fra le braccia, di distenderla sul letto, di sdraiarsi accanto a lei, di guardarla e accarezzarla per ore... Si massaggiò gli occhi per scacciare quel sogno impossibile.

«Tu pensi ancora che sia Keller?» domandò.

«Non lo so più. Forse non voglio ammettere che sto per­dendo il mio fiuto.»

«Perché? Secondo te Eddie non corrisponde al tuo profi­lo psicologico?»

«No» rispose senza esitazioni. «Vedi, l'uomo del sotter­raneo non è uno che perde la testa e fa a pezzetti i ragazzini in un accesso d'ira. Ucciderli per lui è una missione, qualcosa di programmato nei minimi dettagli. Io credo addirittura che sia convinto di salvarli.»

Nick non le aveva ancora chiesto che cosa era successo nel sotterraneo prima del suo arrivo, ed evitò di farlo anche adesso. I giochetti sadici, i messaggi, Albert Stucky... sembra­va una faccenda troppo personale, ma proprio per questo c'e­ra il rischio che Maggie non fosse obiettiva.

«Timmy che cosa dice?» fece lei voltandosi. «Ha identifi­cato Eddie?»

«Ieri sera sembrava sicuro, ma questo accadeva subito do­po che Eddie lo aveva inseguito lungo l'argine. D'altra parte Eddie sostiene di averlo visto nel bosco e di averlo seguito so­lo per portarlo in salvo. E stamattina Timmy ha ammesso di non aver mai visto in faccia il suo rapitore. Però non possono essere soltanto coincidenze, no?»

«No. Direi che hai finalmente un vero indiziato» ammise Maggie stringendosi nelle spalle.

«Già. Ma il punto è: ho anche il vero assassino?»

96

La valigia era vecchia e malconcia e lui aveva perso la combi­nazione anni prima, così adesso evitava semplicemente di chiuderla a chiave. Anche il manico era rotto e aggiustato con un po' di nastro adesivo, che d'estate diventava appiccicoso. Ma quella valigia era l'unico ricordo che aveva di sua madre. L'aveva rubata da sotto il letto del patrigno la notte che era scappato di casa, se si poteva chiamare casa la prigione in cui era vissuto ancora tre settimane dopo la morte di sua madre, subendo la stessa punizione tutte le notti.

Aveva aspettato che il patrigno si addormentasse, esau­sto, aveva preso la valigia e senza far rumore ci aveva infila­to dentro le sue poche cose, mentre il sangue gli colava anco­ra lungo le cosce. Al contrario di sua madre non si era mai abi­tuato alle spinte profonde e violente del patrigno, e anche quel­la notte camminava a stento. Ma era andato ugualmente a pie­di fino alla chiesa di Nostra Signora di Lourdes, dove Padre Daniel gli aveva offerto un rifugio.

Il prezzo da pagare per l'ospitalità non era diverso dalle punizioni subite fino allora, ma se non altro Padre Daniel era gentile. Non c'erano più state lacerazioni e lacrime, solo l'u­miliazione che lui accettava come espiazione della sua colpa. Perché in fondo lui era un assassino. E lo sguardo sbigottito negli occhi spenti di sua madre, distesa sul pavimento della cantina con le ossa spezzate, lo ossessionava.

La seconda volta che aveva ucciso era stato più facile. La vittima era un gatto randagio che Padre Daniel aveva raccol­to e nutrito senza chiedere nulla in cambio come faceva con lui - il che era stata una ragione più che sufficiente per ammazzarlo. Ricordava ancora il sangue caldo che gli era schiz­zato sulle mani quando gli aveva tagliato la gola.

Da allora, ogni morte era stata un rito sacrificale. Aveva ucciso il primo ragazzino durante il secondo anno di semina­rio, un fattorino con le lentiggini e gli occhi tristi che gli ri­cordavano i suoi. Aveva dovuto ucciderlo, per liberarlo dalla sua infelicità, per salvarlo. E per salvare se stesso.

Controllò l'orologio. Aveva ancora tempo, pensò po­sando la valigia accanto alla sacca di tela grigia che aveva fi­nito di preparare poco prima. Diede un'occhiata al giornale ben ripiegato sul letto. UN AGENTE DI POLIZIA SOSPET­TATO DEGLI OMICIDI DI PLATTE CITY. Il titolo gli strap­pò un sorriso. Com'era stato facile! Quando aveva trovato l'accendino sul pavimento del furgoncino, aveva capito che quel bulletto arrogante era un perfetto capro espiatorio, per­fino meglio di Jeffreys.

Tutte le barbosissime serate di conversazione e le partite a carte con quel bastardo avevano avuto la loro utilità. Si era mostrato interessato alle conquiste sessuali di Gillick, gli ave­va offerto consigli e assoluzione, aveva addirittura finto di es­sergli amico, quando in realtà quell'uomo gli dava il volta­stomaco. Ma aveva capito che Gillick era l'uomo che gli ser­viva. Era un violento, e ce l'aveva in particolare con i ragaz­zini e con le donne, che secondo lui lo provocavano e quindi si meritavano qualsiasi maltrattamento. Gillick gli ricordava parecchio il suo patrigno, il che avrebbe reso la sua condanna ancora più piacevole.

E sarebbe stato condannato, questo era sicuro, grazie al­le prove nascoste opportunamente nel bagagliaio della vec­chia Chevrolet. Era stato un vero colpo di fortuna imbattersi nella macchina dopo l'incidente e metterci quelle due o tre co­sette compromettenti. Proprio come aveva fatto con Jeffreys.

Quell'idiota di Ronald Jeffreys era venuto da lui a con­fessare l'assassinio di Bobby Wilson, ma quando gli aveva chiesto l'assoluzione non aveva mostrato un briciolo di ri­morso. Fargli avere la meritata condanna era stato sempli­cissimo. Erano bastati una telefonata anonima e un po' di og­getti ben scelti.

Un perfetto capro espiatorio, come Daryl Clemmons, il giovane seminarista che gli aveva confidato la sua paura di essere omosessuale e così facendo si era candidato al ruolo di colpevole per la morte del fattorino. E poi c'era stato quel po­veraccio di Randy Maiser, un vagabondo che aveva chiesto ospitalità al parroco di St. Mary. La gente di Wood River non ci aveva messo molto a incolparlo della morte di quell'altro ragazzino.

Sì, aveva sempre trovato la soluzione più giusta per tut­ti... Diede un'altra occhiata al giornale e la foto di Tìmmy ap­pannò un po' il suo buonumore. Stranamente, aveva provato sollievo per la fuga di Timmy, ma non poteva nascondersi che era colpa di quel ragazzino se adesso era costretto ad andar­sene in quel modo poco dignitoso. Non poteva continuare la vita di sempre sapendo che aveva fallito la sua missione, con il timore che Tìmmy riconoscesse i suoi occhi o il suo modo di camminare. A meno che...

Riprese in mano il giornale per leggere gli articoli all'in­terno. Sì, ecco. Il padre di Timmy, Bruce, era di nuovo in cit­tà. Povero Timmy, con tutti quei lividi. Sì, forse poteva anco­ra tentare di salvarlo.

97

Maggie avrebbe tanto voluto poter dire a Nick che era finita, che nessun ragazzino sarebbe più scomparso. Ma mentre ri­vedevano i vari elementi dell'accusa contro Eddie Gillick, con­tinuava a sentire lo stesso dubbio. Possibile che si fosse sba­gliata così grossolanamente e che la sua fosse solo testardag­gine?

E poi le riusciva difficile fare una conversazione seria con addosso solo quel ridicolo camicione. Nick si impegnava a guardarla il meno possibile, ma lei si sentiva sempre più nu­da ogni volta che i loro occhi si incontravano.

«E va bene, sembra proprio che Eddie Gillick sia colpe­vole» disse incrociando le braccia sul petto. Poi si accostò di nuovo alla finestra, tenendo la schiena contro la parete. Quel giorno il cielo era così azzurro e limpido che sembrava finto. Quasi tutta la neve si era sciolta e le foglie degli alberi erano un trionfo di colori dorati. Era come se un incantesimo mali­gno si fosse dissipato e tutto fosse tornato normale, anzi mi­gliore di prima. Solo che lei aveva ancora quel dubbio che la tormentava.

«Che ci faceva Christine con Eddie ieri sera?»

«Lui doveva accompagnarla a casa, ma invece l'ha por­tata in Old Church Road dicendo che se faceva sesso con lui le avrebbe detto dov'era Timmy.»

«Sapeva dov'era?» esclamò lei.

«Così ha detto Christine, ma forse quando me ne ha par­lato ieri sera era ancora sotto shock. Mi ha anche detto che il presidente Nixon l'aveva portata sul ciglio della strada.»

«Ma certo. Quando ha estratto Christine dalla macchina aveva addosso la maschera, che poi ha nascosto nel baga­gliaio.»

«E poi si è messo a dare la caccia a Timmy nei boschi» proseguì Nick. «Dopo aver cercato di violentare Christine e di aggredire te nel sotterraneo. Un tipo molto occupato, no?»

Lui e Maggie si guardarono di nuovo, mentre il dubbio aumentava in entrambi. «Ha cercato di fare qualcosa con te?» domandò Nick.

«Che vuoi dire?»

«Sì, insomma, ti ha messo le mani addosso? Ha cercato di...?»

«No» disse lei. «No, per niente.» E ricordò che quando l'uomo aveva frugato nella sua giacca per toglierle la pistola e l'aveva sfiorata, aveva ritratto la mano come scottato. E an­che mentre le parlava all'orecchio non l'aveva mai toccata. No, all'uomo del sotterraneo non interessava il sesso, non con gli uomini e certamente non con le donne. Poi ripensò alle im­magini dei martiri sulle pareti della camera di Padre Keller. Il sacerdozio e il conseguente voto di castità dovevano essergli apparsi come una soluzione perfetta.

«Dobbiamo di nuovo interrogare Keller» aggiunse.

«Ma non abbiamo assolutamente niente su di lui.»

«Dammi retta per l'ultima volta» insisté Maggie.

In quel momento un'infermiera si affacciò alla porta. «Agente O'Dell, c'è una visita per lei.»

«Era ora» sospirò Maggie aspettandosi la volontaria con i vestiti.

L'infermiera tenne aperta la porta e lanciò un sorriso am­mirato al bell'uomo biondo nell'elegante abito di Armani. Lui entrò dando una breve occhiata a Nick, poi dedicò a Maggie un sorriso professionale.

«Greg» esclamò lei. «Che diavolo ci fai qui?»

98

Timmy inserì due monetine nel distributore, fece per sceglie­re la solita tavoletta di Snicker, poi ricordò la stanzetta buia e l'uomo con la maschera e scelse una barretta di cioccolata al­le noccioline.

Non doveva pensare alla sua prigionia, si disse. Doveva concentrarsi su sua madre e aiutarla a stare meglio. Vederla in quel grande letto, con tutti quei tubicini collegati alle mac­chine che sibilavano e ticchettavano, gli faceva un po' paura. Lei però non sembrava tanto malata ed era parsa anche con­tenta di vedere il papà, per quanto gli avesse strillato contro. Questa volta il papà non aveva risposto con altri urli, aveva solo detto e ripetuto che gli dispiaceva tanto, e quando Timmy era uscito dalla stanza loro due si tenevano per mano. Era un buon segno, no?

Timmy si sedette sulla poltroncina della sala d'aspetto e aprì l'involucro della sua tavoletta. Il nonno doveva portargli un sandwich dal bar di fronte, ma lui non aveva fatto cola­zione e aveva lo stomaco vuoto, così decise di non aspettare. Mise in bocca metà della barretta e la lasciò sciogliere un po', poi cominciò a masticare.

«Credevo che preferissi gli Snicker.»

Timmy si voltò stupito. «Buongiorno, Padre Keller» mor­morò a bocca piena. «Non l'avevo sentita.»

«Come stai?» disse il prete arruffandogli i capelli e indu­giando con la mano sulla sua testa.

«Oh, bene.» Timmy inghiottì il resto della cioccolata e ag­giunse: «Mia madre è stata operata stamattina».

«Già, l'ho saputo.» Padre Keller posò la sacca di tela sulla sedia, poi si accucciò di fronte a lui. Quella era una cosa che gli piaceva, pensò Timmy, l'interesse genuino che il prete gli dimostrava. Lo si vedeva da quegli occhi azzurri che certe vol­te erano così tristi...

Solo che oggi c'era qualcosa di diverso negli occhi di Pa­dre Keller. Tìmmy non capiva perché, ma gli avevano fatto ve­nire un nodo allo stomaco. Si agitò sulla sedia e il prete do­mandò: «Davvero stai bene?».

«Sì, sì, sto bene... deve essere tutta quella cioccolata che ho mangiato. Non avevo fatto colazione. Va da qualche par­te?» domandò poi accennando alla sacca.

«Sì, accompagno Padre Francis alla sua dimora eterna. È per questo che sono qui, per vedere se il corpo è pronto.»

«È... è qui?» balbettò Timmy.

«Sì, giù nell'obitorio. Ti andrebbe di venire con me?»

«Non lo so... sto aspettando mio nonno.»

«Ci vorranno solo pochi minuti, e credo che ti piacerà. Sembra una scena di X-Files.»

«Davvero?» Chissà se i cadaveri erano davvero così pal­lidi e rigidi, pensò. «Ma la gente dell'ospedale non si arrabbierà?»

«No. Non c'è mai nessuno.»

Quando Timmy si alzò dalla poltroncina, l'involucro del­la barretta di cioccolata gli cadde a terra. Lui si chinò a racco­glierlo e notò le Nike di Padre Keller, candide come sempre. Solo che oggi c'era un nodo in una delle stringhe, un nodo strano....

Timmy ebbe uno strano capogiro. Sì, doveva essere tutta quella cioccolata a stomaco vuoto. Il prete gli tendeva la ma­no sorridendo, gentile come sempre. Ma perché aveva quel nodo nella stringa delle Nike?

99

«Come hai scoperto che ero in ospedale?» domandò Maggie quando furono soli.

«Non lo sapevo finché non sono arrivato stamattina al di­stretto di polizia, dove una sciacquetta in minigonna di pelle mi ha messo al corrente.»

«Non è una sciacquetta.» Adesso si metteva a difendere Lucy Burton? pensò Maggie.

«Comunque, questo conferma quello che ho sempre so­stenuto. Il tuo lavoro è troppo pericoloso.»

Cercando di soffocare la collera, Maggie gli voltò le spal­le e aprì la valigia che lui le aveva portato. Riavere le proprie cose era confortante, e lei cercò di concentrarsi solo su quello.

«Perché non vuoi ammetterlo?» insisté Greg.

«Che cosa?»

«Che il tuo lavoro è troppo pericoloso.»

«Per chi, Greg? Per te? Per me non lo è. Ho sempre sa­puto che c'erano dei rischi.»

Lo guardò scura in viso. Lui camminava nervosamemte per la stanza, come in attesa di un verdetto. Maggie sospirò. «Quando ti ho chiesto di ritirare le mie valigie in aeroporto non intendevo chiederti anche di portarmele fin qui.» Poi cer­cò di sorridere, ma lui non si lasciò smuovere.

«L'anno prossimo diventerò socio dello studio. Siamo sul­la buona strada, capisci?»

«Sulla buona strada per cosa?» fece lei scegliendo un com­pleto di slip e reggiseno.

«Non dovresti più fare queste cose rischiose. Hai otto an­ni di anzianità, Dio santo, dovresti avere tutti i titoli per diventare un sovrintendente, un direttore, non so... insomma, qualcos'altro!»

«Ma a me piace il lavoro che faccio.» Maggie cominciò a sfilare il camicione dell'ospedale, poi gli gettò un'occhiata.

«Vuoi che me ne vada?» esclamò lui alzando le mani - e gli occhi - al cielo. «Già, forse è meglio che me ne vada così puoi dire al tuo cowboy di tornare.»

«Non è il mio cowboy

«È per questo che non hai risposto alle mie telefonate? C'è qualcosa fra te e lo sceriffo Big Jim?»

«Non essere ridicolo» disse lei sfilando il camicione e chi­nandosi a infilare gli slip. Muoversi le faceva male, ma se non altro le ferite erano medicate a dovere e coperte da una fascia.

«Oh, mio Dio, Maggie...» sussurrò lui vedendola. Poi i suoi occhi si fermarono sulla cicatrice all'addome e lei si co­prì.

«Quella non è una ferita di ieri sera» disse Greg, più ar­rabbiato che preoccupato. «Perché non me l'hai detto?»

«E tu perché non te ne sei accorto?»

«E così adesso è anche colpa mia!» sbottò lui alzando di nuovo le braccia. Lei riconobbe il gesto che faceva quando ri­passava le sue arringhe. Forse poteva funzionare con qualche giuria, ma per lei era solo un atteggiamento inutilmente tea­trale.

«No, tu non c'entri» lo rassicurò.

«Sei mia moglie, il tuo lavoro è tanto pericoloso da farti tagliare a pezzetti e io non c'entro? Non dovrei preoccupar­mi?»

«Tu non sei preoccupato, sei arrabbiato perché non te l'ho detto.»

«E certo che sono arrabbiato. Perché non me ne hai par­lato?»

Lei gettò da parte il camicione offrendogli un'ampia vi­suale della cicatrice. «Questa è di più di un mese fa, Greg. Qualsiasi marito l'avrebbe notata, ma tu no. Non facciamo più l'amore, io non dormo più nemmeno nel tuo stesso letto, ma tu non hai notato neanche questo, né che passo le nòtti a cam­minare avanti e indietro. Non ti importa un accidente di me, Greg, questa è la verità.»

«Ma è assurdo! Come puoi dire che non mi importa di te? Se voglio che tu lasci l'FBI!»

«Se ti importasse davvero capiresti quanto il mio lavoro è importante per me, invece tu ti preoccupi della figura che faccio fare a te. Vuoi poter dire ai tuoi colleghi che tua moglie è un pezzo grosso dell'FBI, con un ufficio lussuoso e un eser­cito di segretarie. Vuoi che mi tiri a lucido per i tuoi party fra avvocati, così puoi mettermi in mostra senza che si vedano le cicatrici. Be', io non sono così, Greg. Io sono come sono, con le mie ferite e le mie cicatrici. E forse non mi adatto più al tuo stile di vita tanto raffinato.»

Lui la guardò scuotendo la testa, come fa un padre con una bambina capricciosa, ma non disse niente.

«Grazie per avermi portato le valigie» fece lei stanca­mente. «Ma adesso voglio che tu te ne vada.»

«E va bene» sbuffò Greg cacciandosi le mani in tasca. «Ve­diamoci a pranzo, dopo che ti sarai data una calmata.»

«No. Voglio che tu torni a casa.»

Lui la fissò con le labbra contratte, ma invece di sbottare di nuovo girò sui tacchi e la piantò in asso, e Maggie si lasciò cadere sul letto. Dopo un po' sentì un lieve tocco sulla porta e con la rabbia in corpo si preparò mentalmente all'ennesimo attacco di Greg. Ma fu Nick a entrare.

«Scusa, non sapevo che non fossi vestita» balbettò vol­tando la testa.

Lei afferrò il reggiseno e lo infilò. «Dovrei essere io a scu­sarmi» disse adottando il sarcasmo tipico di Greg. «Sembra che il mio corpo pieno di cicatrici sia una vista repellente.» Do­po di che prese una camicetta e cominciò a infilarla.

Nick le lanciò una rapida occhiata. «Dio santo, Maggie, ormai dovresti sapere che non sono la persona a cui dire una cosa del genere. Sono giorni e giorni che cerco di trovare una minima cosa di te che non mi faccia impazzire.»

Maggie continuò ad allacciare la blusa, anche se le sue di­ta tremavano. Bastava la presenza di Nick Morrelli perché lei si sentisse di nuovo viva, sensuale, bellissima.

«Comunque scusami, non volevo irrompere qui come un pazzo... ma abbiamo un problema riguardo all'interrogatorio di Padre Keller.»

«Lo so, lo so, non abbiamo prove sufficienti.»

«No, non è solo questo.» Un'altra rapida occhiata gli ri­velò che Maggie era quasi vestita, ma lui rimase voltato. Pen­sando che l'aveva vista con molto meno addosso, lei sorrise fra sé.

«Ho appena telefonato al rettorato e ho parlato con la cuo­ca» continuò Nick. «Padre Keller sta per partire, e Ray Ho­ward è scomparso.»

100

Timmy notò la scritta ZONA RISERVATA - ACCESSO VIETA­TO fuori dell'ascensore, ma Padre Keller non ci badò e si av­viò per il corridoio come se fosse stato lì molte altre volte. Tìmmy gli tenne dietro come poteva, anche se la caviglia gli faceva ancora male.

Solo allora, guardando verso di lui, Padre Keller notò che zoppicava. «Che hai fatto?» domandò.

«Mi sono slogato la caviglia ieri notte nel bosco» disse lui in fretta. Non voleva pensarci, non voleva ricordare. Ogni vol­ta che ci ripensava, gli veniva un nodo allo stomaco, e non era piacevole.

«Ne hai passate un bel po', eh?» disse Padre Keller fer­mandosi e accarezzandolo sulla testa. «Ti va di parlarne?»

«Veramente no» fece Timmy fissando le sue Nike nuove. Erano dell'ultimo modello, regalo di zio Nick proprio quella mattina.

Padre Keller non insisté come facevano tutti gli altri, e lui gliene fu grato. Cominciava a essere stufo di tutte quelle do­mande. L'agente Hal, i giornalisti, i dottori, zio Nick, il non­no, tutti volevano sapere della stanzetta buia, dello strano uo­mo, di come aveva fatto a scappare. E invece lui non voleva più pensarci.

Padre Keller aprì una porta e accese la luce, e la grande stanza si illuminò a giorno.

«Ehi, sembra proprio X-Files» esclamò Timmy sfiorando il lungo tavolo d'acciaio al centro della stanza. Poi i suoi oc­chi corsero agli strumenti sistemati in bell'ordine sui vassoi, e infine ai cassetti lungo la parete opposta. «È lì che tengono la gente morta?» si informò.

«Sì» rispose Padre Keller. Ma sembrava distratto mentre posava la sacca di tela sul tavolo.

«E Padre Francis è in uno dei cassetti?» sussurrò Timmy.

«Sì, a meno che gli incaricati dell'agenzia di pompe fu­nebri non lo abbiano già prelevato per portarlo in aeroporto.»

«Come, in aeroporto?» Timmy non aveva mai sentito che i morti viaggiassero in aereo.

«Ricordi che ti ho detto che avrei accompagnato Padre Francis nel suo luogo di sepoltura?»

«Certo.» Timmy ricominciò a esaminare i ripiani e gli stra­ni strumenti che vi erano disposti, cercando di indovinare a che cosa servivano. Alcuni erano molto aguzzi, altri lunghi e sottili, uno sembrava una sega in miniatura.

«Ho sentito che tuo padre è di nuovo in città» disse Pa­dre Keller stando fermo in piedi accanto al tavolo.

«Sì. Spero che rimanga.» Fra gli strumenti c'era anche un microscopio. Gli sarebbe piaciuto un microscopio come rega­lo di compleanno.

«Davvero vorresti che rimanesse? Ma non ti trattava ma­le?»

Timmy guardò Padre Keller, sorpreso dalla domanda. «Che vuol dire?» fece dopo un po'.

Il prete sembrava occupato a controllare il contenuto del­la sua sacca. «Non ti faceva del male?» insisté frugando tra la biancheria. «Non ti faceva delle cose spiacevoli?»

Timmy non capiva di che cose spiacevoli stesse parlando Padre Keller, ed era sempre più perplesso. «Be', no, era quasi sempre gentile con me. Delle volte urlava, ma non tanto...»

«E i tuoi lividi, allora?»

Timmy arrossì, ma per fortuna il prete non lo stava guar­dando. «Oh, mi vengono facilmente. Di solito me li faccio gio­cando a calcio.» O scontrandomi con Chad Calloway, pensò.

«E allora perché la tua mamma lo ha mandato via?» do­mandò Padre Keller. La sua voce era strana, bassa, come se fosse arrabbiato. E Timmy non voleva farlo arrabbiare... Poi sentì un tintinnio metallico e si domandò che cosa cercasse in quella sacca.

«Non lo so. Ma credo che fosse per via di una puttanella con grosse tette e niente cervello» disse usando le stesse pa­role che aveva sentito dire a sua madre.

Questa volta Padre Keller lo guardò, ma i suoi occhi di solito così gentili erano freddi e... no, non era possibile... Lo stomaco di Tìmmy si contrasse, poi un conato di vomito gli salì alla gola mentre un brivido gelido gli serpeggiava lungo la schiena.

«Ehi, stai bene?» domandò il prete. I suoi occhi tornaro­no caldi e gentili.

Il panico di Tìmmy diminuì, ma il nodo allo stomaco non accennava a sciogliersi. L'aveva immaginato il cambiamento nella faccia di Padre Keller?

«Tìmmy, credi che la tua mamma e il tuo papà torneran­no insieme?» domandò il prete a bassa voce. «Credi che po­trete essere di nuovo una vera famiglia?»

«Lo spero. Sento la mancanza di mio papà. Mi piaceva quando andavamo in campeggio e lui mi insegnava a pesca­re, e parlavamo insieme e tutto quanto. L'unica cosa era che lui non sapeva proprio cucinare.»

Padre Keller gli sorrise e richiuse la sacca senza prende­re niente.

«Ah, eccovi qui» disse Tony Morrelli spalancando la por­ta. «L'infermiera Richards ha detto che aveva visto l'ascenso­re scendere nel seminterrato. Che stavate facendo?»

«Padre Keller è venuto a prendere Padre Francis per il suo ultimo viaggio» spiegò Timmy.

Poi si voltò a guardare il prete e fu contento di notare che sorrideva ancora, e non era più strano come poco prima. Si ri­volse al nonno e disse: «Di', questo posto non sembra una sce­na di X-Files.

101

Nick rallentò vedendo la faccia tesa di Maggie. Certo la feri­ta le faceva male, pensò, ma lei non l'avrebbe mai ammesso.

L'aeroporto di Eppley era affollato come ogni venerdì se­ra e loro si fecero strada tra la folla dei pendolari che torna­vano a casa e i fortunati che partivano per il week end. La si­gnora O'Malley, cuoca di St. Margaret, aveva detto a Nick che Padre Keller partiva alle due e quarantacinque per accompa­gnare Padre Francis alla sua ultima dimora, e che Ray Howard era sparito. «Non lo vedo da stamattina» aveva spiegato. «Fa sempre finta di essere molto occupato, dicendo che deve fare delle commissioni per Padre Keller, ma non si capisce mai do­ve va cacciarsi tutto il giorno.»

A Nick però interessavano molto di più altri dettagli, co­sì aveva insistito: «E dove sarà seppellito Padre Francis?».

«Oh, da qualche parte in Venezuela.»

«Venezuela? Dio santo, e perché?»

«Padre Francis amava molto quel paese» aveva spiegato la donna, felice di essere in possesso di informazioni così pre­ziose. «C'era stato per il suo primo incarico, appena uscito dal seminario, in un villaggio di poveri contadini. Parlava sem­pre di quei bellissimi bambini con gli occhi neri e di come spe­rava di tornare in Venezuela una volta o l'altra. Peccato che da vivo non ci sia riuscito.»

«Ricorda il nome del villaggio o della città più vicina?» aveva domandato Nick.

«Veramente no... sono tutti nomi così difficili da pronun­ciare. Ma Padre Keller torna fra pochi giorni, non può aspet­tare di chiederlo a lui?»

«Temo di no. Non sa nemmeno il numero del volo o il no­me della compagnia aerea?»

«Oh, povera me, non so se me l'ha detto... Forse la TWA, oppure no, chissà.... Di sicuro so che partiva da Eppley alle due e quarantacinque.»

Nick guardò l'orologio e vide che erano quasi le due e mezzo. Lui e Maggie si erano separati all'ingresso e avevano tentato di superare file e code con l'aiuto dei loro distintivi, ma l'impiegata della TWA non sembrava molto impressiona­ta dalla veste ufficiale di Nick, e nemmeno il fascino che lui aveva cercato di mettere in atto pareva avere alcun effetto.

«Mi dispiace, sceriffo, ma non posso darle la lista dei pas­seggeri e tantomeno informazioni su di loro.»

«Può dirmi almeno se avete un volo per il Venezuela tra, diciamo, una decina di minuti?»

La donna controllò lo schermo del computer. «C'è un vo­lo per Miami, e da lì si può prenderne uno per Caracas.»

«Ottimo. Che uscita?»

«L'uscita undici, ma il volo è partito alle due e quindici.»

«Ne è sicura?»

«Oh, sì. Oggi la visibilità è eccellente e tutti i voli sono in perfetto orario.»

«Può almeno controllare se su quell'aereo c'era una bara?»

«Mi scusi?»

«Una bara. Sa, di quelle che trasportano i morti.» Dietro di lui, nella coda, qualcuno ridacchiò. «Sono sicuro che que­sta informazione non lede più la privacy di nessuno.» Altre risatine.

La donna si cucì la bocca ancora di più. «Non posso dir­le nemmeno questo. Adesso, se non le dispiace, dovrebbe spo­starsi in modo da non intralciare le operazioni di imbarco de­gli altri passeggeri.»

«Lei sa che posso farmi dare un mandato dal tribunale e tornare con quello, vero?» sbottò Nick perdendo la pazienza.

«Ecco, allora faccia così.» L'impiegata tese la mano per prendere il biglietto dell'uomo anziano dietro a Nick, e quel­lo gli diede un'occhiata ostile.

Nick si spostò al banco della United Airlines, dove nem­meno Maggie aveva ottenuto informazioni utili. Era sempre più pallida, ma Nick le aveva già chiesto un paio di volte come si sentiva e non voleva l'ennesima risposta secca, così lasciò per­dere e la mise al corrente del poco che aveva scoperto.

«Uscita undici, hai detto? Che aspettiamo?»

«Il volo è partito venti minuti fa.»

«E Keller era a bordo?»

«L'impiegata non ha voluto dirmelo. E adesso che cosa facciamo? Pensi che valga la pena di andare a Miami e cer­care di intercettarlo prima che prenda il volo per Caracas? Perché se arriva in Sudamerica non lo troveremo mai più... Maggie?»

Ma lei fissava un punto oltre la spalla di Nick. «Credo di aver localizzato Ray Howard» sussurrò.

102

Nick la guardò perplesso. «Forse ha accompagnato Padre Kel­ler» disse.

«Già. Ma allora perché si è portato dietro una valigia?»

La grande sacca di tela grigia sembrava molto pesante e accentuava l'andatura zoppicante di Howard. Il sagrestano era vestito di tutto punto come sempre, in pantaloni ben sti­rati, camicia bianca e cravatta. Il solito cardigan era stato so­stituito da una giacca blu.

«Spiegami di nuovo perché non può essere il colpevole» disse Nick senza togliergli gli occhi di dosso.

«Perché zoppica. Non sarebbe mai riuscito a trasporta­re i corpi dei ragazzi nei boschi dove li abbiamo trovati. E poi Timmy ha detto che il suo rapitore non zoppicava af­fatto.»

Howard si fermò a osservare il cartello con gli orari di partenza, poi si diresse verso le scale mobili.

«Non lo so, Maggie. Certo che quella sacca sembra mol­to pesante...»

«Sì, è vero» fece lei avviandosi in fretta verso le scale con Nick alle calcagna.

Ray stava mettendo il piede sul primo gradino quando lei lo chiamò: «Signor Howard.»

Lui si voltò. Gli occhi da rettile erano terrorizzati. Affer­rò la sacca, saltò sulla scala in discesa e cominciò a correre, spostando violentemente le persone.

«Io prendo le scale» fece Nick correndo verso l'uscita di emergenza. Lei estrasse la pistola e gridò: «FBI!» La folla si aprì al suo passaggio come per incanto.

Howard continuava a correre con sorprendente rapidi­tà, zigzagando tra i passeggeri, evitando valigie e carrelli. Ma Maggie gli teneva dietro benché il suo respiro fosse or­mai affannoso e la ferita al fianco bruciasse di nuovo come l'inferno.

Di colpo Howard si fermò, prese un carrello carico di va­ligie dalle mani di una hostess stupefatta e lo gettò addosso a Maggie. Una valigia si aprì rovesciando il contenuto sul pa­vimento. Maggie scivolò su un paio di slip di pizzo, perse l'e­quilibrio e cadde in mezzo a cosmetici e scarpe, schiacciando un flacone di fondotinta con il ginocchio.

Con un ghigno soddisfatto Howard corse verso l'uscita, sempre stringendo la sacca di tela. Ma proprio mentre stava per varcare le porte scorrevoli, Nick piombò su di lui e lo af­ferrò per la giacca. Howard cadde a terra e si riparò la testa con le mani come se si aspettasse un pugno.

Maggie si rimise in piedi. «Sto bene» disse prima che Nick le facesse la domanda. Ma mentre riponeva la pistola nella fondina sentì che la ferita si era riaperta e aveva ricominciato a sanguinare.

«Che ci fa qui, Howard?» esclamò Nick aumentando la stretta sul bavero della giacca.

«Ho accompagnato Padre Keller che partiva. Perché mi inseguite? Non ho fatto niente, io!»

«Allora perché è scappato?»

«Perché Eddie mi aveva detto di stare attento a voi due» fece l'altro con aria furba.

«Che cosa c'è nella sacca?» intervenne Maggie.

«Non lo so. Padre Keller mi ha detto che non gli serviva più e mi ha pregato di riportarla al rettorato.»

«Allora non le spiace se diamo un'occhiata, vero?» Mag­gie gliela tolse di mano, la scagliò su una sedia e la aprì.

«Sicuro che non è sua?» domandò vedendo il solito car­digan marrone e alcune camicie bianche ben ripiegate.

Howard guardò il contenuto e scosse violentemente la te­sta. «No!»

Sotto le camicie c'era una pila di libri d'arte, il che spie­gava il peso considerevole. Ma sotto ancora c'era qualcosa di molto più interessante: una scatola di legno dal coperchio in­ciso con un fazzoletto di lino, un piccolo crocifisso, due can­dele e una bottiglietta di olio. E poi, sotto un mucchietto di ri­tagli di giornale, un paio di mutandine da bambino avvolte intorno a un affilatissimo coltello da macellaio.

103

Domenica 2 novembre

Maggie digitò un codice e aspettò, dando un morso al sand­wich portato poco prima da Wanda. Le valigie erano pronte, lei era vestita da ore, ma il suo volo non partiva che a mezzo­giorno.

In attesa di connettersi con Internet, prese l'Omaha Jour­nal e lesse di nuovo l'articolo di Christine in prima pagina.

Secondo l'agente speciale Maggie O'Dell, la psicologa forense che l'FBl aveva destinato al caso, è improbabile che Gillick e Howard fossero complici. "I serial killer" ha detto, "agiscono da soli. " Tut­tavia l'ufficio del procuratore distrettuale ha incriminato formal­mente l'ex poliziotto Eddie Gillick e il sagrestano Raymond Howard per gli omicidi di Aaron Harper, Eric Paltrow, Danny Alverez e Mat­thew Tanner. Un'accusa separata è stata inoltrata per il rapimento di Timmy Hamilton.

Qualcuno bussò alla porta. Maggie gettò il giornale sul letto e controllò lo schermo del computer prima di andare ad aprire. Ancora niente. Era domenica mattina, perché ci vole­va tanto per un semplice collegamento?

Poi aprì e il solito tremito arrivò puntuale. Nick stava sul­la soglia, sorridente, con un paio di jeans e una maglietta rossa che sottolineva i suoi muscoli. Perché le faceva quell'effetto?

«Deve far caldo, fuori» si sentì dire. Ma sì, meglio parla­re del tempo e ignorare l'elettricità che Nick aveva portato nel­la stanza.

«Già. È difficile credere che abbia nevicato solo pochi gior­ni fa. Tieni, questo è per te» aggiunse lui porgendole una sca­tola che lei non aveva notato. «Diciamo che è un regalo di rin­graziamento e un augurio di buon viaggio.»

Maggie pensò di rifiutare, di dirgli che non era il caso, ma poi prese la scatola e l'aprì. Dentro c'era una maglietta da foot­ball, con il numero diciassette stampato in bianco sulla schie­na. «È magnifica» disse sorridendo.

«Non sostituirà la vecchia maglietta di tuo padre» fece lui con un'ombra di imbarazzo, «ma ho pensato che dovevi ave­re una maglia dei Cornhuskers. Il diciassette era il mio nu­mero.»

«Grazie» sussurrò lei. I loro occhi si incontrarono e Mag­gie cercò di nuovo di combattere quel brivido così speciale, ma questa volta fu lui il primo a distogliere lo sguardo.

«Oh, e questo è da parte di Tìmmy.»

Lei prese la videocassetta con un sorriso. «X-Files» escla­mò.

«Mi ha detto di riferirti che è uno dei suoi episodi prefe­riti, quello con gli scarafaggi assassini.»

«La guarderò di sicuro» promise lei. «E farò sapere a Tìmmy che cosa ne penso.»

Rimasero in piedi a guardarsi, in silenzio. Per una setti­mana avevano passato insieme ventiquattr'ore su ventiquat­tro, scambiandosi opinioni e consigli, dando la caccia a pazzi e santi, piangendo la morte di due ragazzini che non cono­scevano. Maggie aveva concesso a Nick di scoprire vulnera­bilità e sentimenti cui lei stessa non pensava mai. E forse per questo, adesso sentiva che andando via avrebbe lasciato die­tro di sé una parte di vita. Che fine aveva fatto la fredda, con­trollata, professionale agente O'Dell?

«Maggie, io...»

Lei lo interruppe in fretta. «Scusa, quasi dimenticavo... ho chiesto alcune informazioni via Internet» e si avvicinò al ta­volo dove stava il computer. Il collegamento era finalmente in atto e lei digitò un paio di indirizzi.

«Lo stai ancora cercando» disse lui senza mostrarsi sor­preso.

«Da Caracas il corpo di Padre Francis è stato spedito via corriere in un piccolo villaggio, circa cento miglia a sud della capitale» spiegò lei. «Keller dovrebbe tornare oggi, e io sto cer­cando di sapere se ha preso l'aereo che da Miami doveva ri­portarlo qui, o se è andato altrove.»

«È incredibile quante informazioni riesci ad avere» os­servò Nick chinandosi a esaminare lo schermo. «In aeropor­to, l'altro giorno, ho pensato come sarebbe stato comodo ave­re un distintivo dell'FBI invece del mio, che non impressio­nava nessuno.»

«Non ti starai ancora preoccupando di apparire incom­petente...»

«In effetti no. Non più.»

Finalmente l'elenco dei passeggeri del volo TWA 1692 ap­parve sullo schermo, e Maggie trovò il nome che cercava. Il reverendo Michael Keller compariva sull'elenco anche a de­collo avvenuto.

«Questo però non significa che sia davvero su quell'ae­reo» osservò Nick.

«Lo so.»

«E se non torna?»

«Oh, prima o poi lo troverò. Non può scappare per sem­pre, no?»

«Anche se dovessi trovarlo, ricorda che non abbiamo uno straccio di prova contro di lui.»

«Ma tu credi davvero che Eddie Gillick o Ray Howard ab­biano ucciso quei ragazzini?»

Lui esitò, guardò le valigie sul letto, poi di nuovo lei. «Non so che parte può aver avuto Gillick nella faccenda, ma tu sai che ho sospettato di Howard fin dall'inizio. E poi lo abbiamo trovato in aeroporto con quella che poteva essere l'arma dei delitti nella borsa!»

«Però non corrisponde affatto al profilo dell'assassino» insisté lei.

«Può darsi. Ma sai che ti dico? Non voglio passare i miei ultimi momenti con te a parlare di Eddie Gillick o Ray Ho­ward...»

Le si avvicinò lentamente, fissandola, e lei si ravviò i ca­pelli e spinse una ciocca dietro l'orecchio. Le sue dita trema­vano di nuovo, e il brivido era sceso dallo stomaco al ventre.

Nick prese il viso di Maggie tra le mani, poi si chinò su di lei, baciandola teneramente. Il bacio proseguì, caldo, inti­mo, dolcissimo. Maggie chiuse gli occhi e li tenne chiusi an­che quando lui si scostò.

«Ti amo, Maggie.»

Lei riaprì gli occhi di scatto. La faccia di Nick era vicinis­sima, il suo sguardo era serio, l'espressione ansiosa come quel­la di un bambino. E lei capì che dirle quelle parole doveva es­sere stato molto difficile.

«Nick, ci conosciamo appena...» protestò. Come poteva un semplice bacio toglierle il respiro in quel modo?

«Non ho mai provato niente di simile, Maggie. È qualco­sa che non so spiegare, ma è così.»

«Nick, io non...»

«Per favore, lasciami finire.»

Lei inspirò a fondo e si afferrò al cassettone, come aveva fatto la notte in cui erano stati sul punto di fare l'amore.

«È passata solo una settimana, ma ti posso assicurare che quando si tratta di... be', d'amore, non sono affatto un tipo im­pulsivo. Non ho mai provato prima quel che provo per te. E prima d'ora non ho mai detto a una donna che l'amavo.»

Lei aprì la bocca per protestare di nuovo, ma lui la zittì alzando una mano.

«Non mi aspetto che quello che ti ho detto cambi la tua vita o comprometta il tuo matrimonio. Ma non volevo che tu partissi senza saperlo, anche se per te non farà alcuna diffe­renza. Volevo sapessi che sono pazzamente, disperatamente, follemente innamorato di te.»

Lei non trovava la voce. Le sue mani si aggrapparono al cassettone, mentre avrebbero voluto volare al collo di lui e stringerlo forte. «Non so che cosa dire...» sussurrò infine.

«Non devi dire niente.»

«Io... è evidente che anch'io provo qualcosa per te» bal­bettò lei lottando con le parole. Non sopportava l'idea di non rivederlo più, ma che ne sapeva dell'amore? Aveva creduto di essere innamorata di Greg, aveva sperato di amarlo per sem­pre, ma non era stato così... «È che adesso le cose sono molto complicate.»

Si sarebbe presa a calci. Come poteva essere così terra terra, così pratica e razionale, quando lui le aveva aperto il suo cuore?

«Lo so» disse Nick. «Ma non è detto che lo siano per sem­pre.»

«E quello che mi hai detto fa differenza, sai» aggiunse Maggie. «Un'enorme differenza.»

Lui sembrò sollevato da quella semplice rivelazione. «Ve­di» disse ancora, «tu mi hai aiutato a vedere alcune cose mol­to più chiaramente. Ho continuato per anni a seguire le im­pronte di mio padre... ma adesso non voglio più farlo.»

«Sei un bravissimo sceriffo» sussurrò Maggie invece di gridare che anche lei lo amava.

«Grazie, ma non è quello che voglio dalla vita. Ammiro molto il fatto che il tuo lavoro sia così importante per te. Am­miro la tua dedizione, la tua ostinazione. E solo adesso mi ren­do conto che voglio anch'io qualcosa di simile.»

«E allora sentiamo, che cosa vuoi fare da grande?» sorri­se lei.

«Quando ero all'università ho lavorato per qualche tem­po nell'ufficio del procuratore distrettuale a Boston. Mi han­no sempre detto che potevo tornare quando volevo... è pas­sato un bel po' di tempo, ma pensavo di chiamarli e sentire se l'offerta è ancora valida.»

«Sembra un'ottima cosa» disse Maggie. Quanto distava Boston da Quantico? Non molto, di sicuro.

«Mi mancherai» disse Nick. Poi, con un sospiro: «Credo sia ora di avviarci».

«Sì.» Lei lo sfiorò e andò a chiudere il computer, staccan­do spine e cavi e poi mettendolo nell'apposita borsa. Nick pre­se le valigie. Erano già sulla porta quando il telefono squillò. Dopo una breve esitazione, Maggie tornò indietro e sollevò la cornetta.

«Maggie O'Dell.»

«O'Dell, meno male che ti trovo ancora» disse la voce di Cunningham.

«Stavo giusto andando in aeroporto.»

«Bene. Mando Delaney e Turner a prenderti. Venite qui il più presto possibile.»

«Che succede?» fece lei. «A sentirti sembra che io abbia bisogno di guardie del corpo!» Scherzava, ma quando il si­lenzio si prolungò, cominciò a preoccuparsi.

«Volevo dirtelo prima che lo sapessi da qualche notizia­rio» riprese Cunningham. «Albert Stucky è scappato. Lo sta­vano trasferendo da Miami a un carcere di massima sicurez­za in Florida, e lui ha staccato l'orecchio di una delle guardie con un morso e ha pugnalato l'altra, immagina un po', con uno stiletto nascosto in un crocifisso. Poi gli ha fatto saltare la testa con le loro pistole d'ordinanza. Sembra che il giorno pri­ma avesse ricevuto in cella la visita di un prete, e dev'essere lui che gli ha lasciato il crocifisso. Ma non devi preoccuparti, Maggie... abbiamo preso quel bastardo una volta e lo prende­remo di nuovo.»

Maggie strinse il ricevitore. Sì, certo, pensò. Ma per ora tutto quel che sapeva era che Stucky era di nuovo libero.

EPILOGO

Una settimana dopo

Chiuchin, Cile

Era incredibile quanto fosse caldo il sole. Sotto i piedi nudi lui sentiva la spiaggia di sassolini, le onde tiepide che gli lambi­vano le caviglie.

L'oceano Pacifico sembrava estendersi all'infinito e le sue acque erano come un balsamo che rinnovava e calmava la sua anima.

Dietro di lui, le montagne isolavano quell'angolo di para­diso, dove vivevano contadini poverissimi e bisognosi di gen­tilezza e attenzione quanto di salvezza eterna. La piccola par­rocchia comprendeva poco più di cinquanta famiglie. Era per­fetto. Da quando era arrivato non aveva più sentito il pulsare alle tempie e forse questa volta se n'era liberato per sempre.

Un gruppo di ragazzini dalla pelle scura, con addosso sol­tanto dei calzoncini laceri, corse verso di lui dando calci a un pallone. Due di loro lo riconobbero dalla messa del mattino e gli fecero grandi cenni di saluto chiamandolo per nome. Lo pronunciavano in un modo buffo, che lo faceva ridere.

Quando furono più vicini e gli si strinsero intorno, lui ac­carezzò le loro testoline di capelli corvini e sorrise. Uno dei ra­gazzini, quello con gli short blu tutti strappati, aveva uno sguardo triste che colpiva al cuore.

«Buongiorno anche a voi» disse. «Ma ricordatevelo bene, il mio nome è Padre Keller. Non Killer.»

RINGRAZIAMENTI

Devo gratitudine e stima a tutti coloro che mi hanno sostenu­to con la loro competenza, rendendo possibile questo viaggio straordinario.

Un ringraziamento particolare a:

Philip Spitzer, il mio agente, che ha creduto da subito nel libro e ha fatto di tutto perché fosse pubblicato. Philip, sei un mito.

Patricia Sierra, collega scrittrice, per aver condiviso sapere, acutezza e amicizia con generosità.

Amy Moore-Benson, il mio editor, per la tenacia, le in­tuizioni sottili e la capacità di rendere indolore e gratificante la revisione del libro.

Dianne Moggy e tutti i professionisti di MIRA Books, per l'impegno e la determinazione nel fare di questo libro un suc­cesso.

Ellen Jacobs per la capacità di dire le cose giuste al momento giusto.

Sharon Car, per tutti i pranzi passati insieme, io ad autocommiserarmi e lei a incoraggiarmi.

LaDonna Tworek, che mi ha indicato la giusta prospettiva, aiutandomi da subito a non perderla di vista.

Jeanie Shoemaker Mezger e John Mezger, che mi hanno ac­colto e ascoltata nel corso di tante cene deliziosamente amichevoli.

Bob Kava, per aver sempre risposto con pazienza alle mie domande sulle armi da fuoco.

Mac Payne, che mi ha offerto qualcosa da dimostrare.

I miei genitori, Edward e Patricia Kava, in particolare la mamma, per aver acceso tutte quelle candele augurali.

Scrivere è per lo più un atto solitario e tuttavia non sarebbe stato possibile senza l'appoggio affettuoso della mia famiglia e dei miei amici. Grazie anche a Patti El-Kachouti, Marlene Haney, Nicole Keller, Kenny e Connie Kava, Natalie Cummings, Sandy Rockwood e Margaret Shoemaker.

E, infine, grazie a Bob Shoemaker. Questo non sarebbe sta­to esattamente il genere di libro che Bob avrebbe voluto leg­gere, ma ciò non gli avrebbe impedito di essere orgoglioso di me e di parlarne a chiunque.

FINE



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