LEONARDO SCIASCIA
La corda pazza
Certo è, comunque, che la cultura siciliana ha avuto
sempre come materia e come oggetto la Sicilia: non senza
particolarismo e grettezza, qualche volta; ma plU spesso
studiando e rappresentando la realtà siciliana e la "sicilia-
nità" (la "sicilitudine" dice uno scrittore siciliano d'avan-
guardia) con una forza, un vigore, una compiutezza che
arrivano all'intelligenza e al destino dell'umanità tutta. E
bastino i nomi di Michele Amari e di Giovanni Verga; di
Isidoro La Lumia, Luigi Capuana, Federico De Roberto,
Alessio Di Giovanni, di Luigi Pirandello; di Francesco
Lanza, Nino Savarese, Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi;
di Salvatore Quasimodo, nella cui poesia il tema dell'esi-
lio (l'esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla
povertà dell'isola, hanno sofferto e soffrono) si lega
amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi
perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di
Noto. E questa può anche essere una chiave per caplre la
Sicilia: che alla distanza di più che otto secoli un poeta di
lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato
la loro pena d'esilio con gli stessi accenti: "vuote le mani,
- dice Ibn Hamdis, - ma pieni gli occhi del ricordo di
lei".
1969
VITA DI ANTONIO VENEZIANO
Luis Rincón de Páramo: toledano, arcidiacono e cano-
nico, inquisitore di Sicilia dal 1586 (per ventitre anni,
dice il Franchina: ma il conto non torna se morì nel
1605), autore di un De ongine Inquisitionis stampato in
Madrid nel 1598 e capitato, circa un secolo e mezzo dopo,
in mano a Voltaire. "Questo Páramo, - leggiamo nel Dic-
tionnaire, - era un uomo semplice, esattissimo nelle date,
che non ometteva nessun fatto interessante, e calcolava
col massimo scrupolo il numero delle vittime umane che
il Santo Uffizio aveva immòlato in tutti i paesi." E malin-
conicamente: "Del resto tutti gli uomini rassomigliano a
Páramo, quando sono fanatici.
Esatto e scrupoloso don Luis de Páramo era non solo
nel tenere partita delle vittime e nel farne altre col suo
implacabile zelo, ma anche nel difendere e portare avanti
i privilegi del Santo Uffizio contro gli ordinamenti e le
leggi del Regno (gli anni in cui fu inquisitore di Sicilia si
infittiscono di contestazioni e conflitti giurisdizionali, e
specialmente riguardo a delinquenti altolocati che il
Santo Uffizio proteggeva in quantofamiliari) e nel richia-
mare gli uffici statali, e per essi il vicerè, ai più minuti
doveri verso il sacro tribunale. Tra questi, discendendo
dall'obbligo di allogare condecentemente gli inquisitori e
gli uffici e, non condecentemente e nemmeno umana-
mente, i prigionieri, c'era la manutenzione degli edifici: e
trovandosi don Luis de Páramo ad abitare un apparta-
mento del "castillo d'esta ciudad de Palermo" la cui cu-
cina era molto vicina "al magazen de la polvora de la
corte" (cioè al deposito delle polveri che dava nel cortile),
non si sentiva tranquillo; e ragionevolmente, visto che già
una volta l'appartamento era andato a fuoco (quando l'a-
bitava, a quanto pare, il suo predecessore: don Lope de
Tarragona) e più volte il camino della cucina. Pertanto
aveva supplicato il vicerè conte d'Alba che ordinasse e pa-
gasse le necessarie opere di muratura, "de manera che se
podia vivir sin sospecho"; ma il vicerè, parendogli forse
che ad uno che dispiegava tanto zelo ad accender roghi
toccasse di giusta misura la preoccupazione che il fuoco
gli dilagasse in casa, non si curò di una tanto drammatica
istanza o l'abbandonò senza particolare raccomandazione
al corso burocratico, costringendo l'inquisitore a mettere
mano ai fondi del suo ufficio e ad anticipare ben quaran-
totto once e tarì quattro: al cui impiego nei lavori di ripa-
razione e di sicurezza don Luis certo sovraintese con l'ac-
curatezza e lo scrupolo che poi Voltaire doveva ricono-
scergli nell'opera d'inchiostro. E attinse ai fondi del suo
ufficio in forza dell'incubo che quella polveriera "muy
cerca" gli dava, ma con l'inflessibile volontà di farsi rim-
borsare dal governo: e ci riusciva infatti parecchi mesi
dopo, col vicerè conte d'Olivares.
C'è da credere che i lavori fossero stati fatti troppo
bene, con tutti gli accorgimenti dettati a don Luis de Pá-
ramo dall'ansietà di "vivir sin sospecho"; fatto sta che
meno di un anno dopo, il 24 agosto del 1593, lo stesso
conte d'Olivares si trovava ad autorizzare il tesoriere ge-
nerale a "far la spesa necessaria per scavare li corpi morti
e robe che sono restati sotterrati nella disgrazia successa
in castel a mare di questa città"; la quale disgrazia ap-
punto era venuta dall'incendio ed esplosione del magaz-
zino delle polveri. Che poi il fuoco al magazzino delle
polveri fosse arrivato, in quel fatale 19 agosto, dalla cu-
cina dell~inquisitore, è una nostra maligna illazione; ma
non del tutto gratuita, se consideriamo con quale frenesia
dovevano andare quel giorno le cose in cucina, avendo
monsignor Páramo convitato alla sua mensa due maestri
di Sant'Agostino, il conte di Racalmuto, il barone di Sicu-
liana ed altri cavalieri (ma il conte era ospite abituale del-
l'inquisitore: imputato di aver fatto ammazzare un certo
La Cannita, al quale il conte d'Alba aveva promesso inco-
lumità, era scampato al giudizio di un tribunale ordinario
che quasi certamente l'avrebbe consegnato al boia, attra-
verso uno strenuo conflitto giurisdizionale tra vicerè e in-
quisitore: e sarebbe rimasto per circa dieci anni, formal-
mente prigioniero ma di fatto ospite, nel Castello a
mare).
Ma più illustri dei commensali dell'inquisitore erano
due prigionieri, non sappiamo con precisione se delle co-
muni carceri (che pure avevano sede nel Castello) o di
quelle del Santo Uffizio: Argisto Giuffredi e Antonio Ve-
neziano. E diremo ampiamente della vita passionale e av-
venturosa del Veneziano; ma a conferirle quel risalto chi-
sciottesco che merita - essenzialmente oltre che per acci-
dentali coincidenze - non è inutile dare controparte a
quella, suo malgrado tribolata, del Giuffredi. Perché en-
trambi ebbero tragica vita: ma il Veneziano per naturale
disposizione, per tempesta di sentimenti e gusto di li-
bertà, il Giuffredi invece per fatalità. Il primo aveva la
rima pronta e un latino agile, carico di ambiguità e dop-
pisensi, contro le autorità costituite; e la spada non meno
pronta, non meno agile, nel sostenere la ragione e il torto,
l'interesse e il capriccio. Ma il Giuffredi era rispettoso e
prudente verso i potenti, segreto nei pensieri, cauto nelle
liti. E dei suoi intendimenti, delle sue esperienze, delle
sue regole di vita lasciava ai figli un libretto manoscritto
intitolato Avvertimenti cnstiani: un singolare e prezioso
documento da cui vien fuori, tre secoli prima dei Malavo-
glia, di Mastro don Gesualdo, quello che possiamo chia-
mare l'uomo del Verga. Che è poi, effettualmente, l'uomo
siciliano; e lo ritroviamo tale e quale nel 1945, in quell'a-
cuto ragguaglio di Sebastiano Aglianò sulla Sicilia.
Questi Avvertimenti il Giuffredi li chiama anche Ri-
cordi, e non si può fare a meno di pensare al Guicciardini:
solo che i R~cordi del Guicciardini sono, come esattamente
dice Cecchi, un libro di regole contro le regole; mentre
quelle del Giuffredi sono regole precettate e inamovibili,
di cui prega e ordina ai figli la più continua e scrupolosa
osservanza ("siccome mi havete ascoltato ed ubbidito in
vita così anco farete doppo la mia Morte"). E che a lui
non siano poi valse, queste regole, a scansare le cause ci-
vili, la tortura giudiziaria, la scomunica, la morte nel car-
cere, è forse da mettere in conto della loro inamovibilità e
rigidezza: in cui appunto non si considera - come invece,
e peculiarmente, nel Guicciardini - la fluidità e contrad-
dittorietà che è nella natura, negli individui, nella società,
nella storia e i tanti "accidenti e pericoli d'infermità, di
caso, di vioienza" cui la vita dell'uomo è sottoposta.
Il primo avvertimento riguarda la roba: ed è già signifi
cativo che ne parli come "prima cosa"; tanto più che egli
stesso, quando per secondo avvertim~nto viene a parlare di
Dio, riconosce e si rammarica che non la roba ma Dio "io
dovea mettere per ogni ragione pel primo". Il concetto
che ha della ro6a è di cosa da Dio imprestata a lui, e da
lui ai figli, e dai figli ai nipoti: da usare, quindi, con tutte
quelle precauzioni che consentano l'intatta trasmissione,
poiché il malo uso o il consumo di essa sarebbe un vero e
proprio furto; a danno di Dio, oltre che degli eredi. E a
questo concetto si lega l'avvertimento relativo al commer-
cio: "Di mio consiglio procurate fuggire ogni sorta di
mercanzia, e credetemi che non è la migliore mercanzia,
né la più lecita, del risparmio, del quale non si ha a far re-
Stituzione; ed in detto risparmio non si corre pericolo di
perdere mai". E quando passa a citare proverbi in dialetto,
a prova della universale saggezza del suo consiglio, si ha
il senso di sentire padron 'Ntoni e di intravedere il barco
che va a fondo col carico di lupini. Né il Giuffredi ha
nelle banche più fiducia che nel commercio: tenervi pic-
cole somme, può anche andare; ma non il grosso. In
quanto alla giustizia, "il più sicuro è rimettere ogni torto
a Dio"; e guardarsi dal contendere con funzionari e con
sbirri, e anzi farseli amici con reFalie e con ossequio, poi-
ché "con una cattiva e talhora alsa relazione vi possono
fare gran danno". Mormorare del governo è poi la cosa
più vana e la maggior pazzia del mondo; e così dei preti
"per qualsivoglia cosa cattiva che di loro udiste o vede-
ste". Conviene, di conseguenza, evitare ogni dimesti-
chezza: per non perder il rispetto che a loro si deve come
mmlstri di Dlo.
Con più profondità e verità dice poi del matrimonio e
della famiglia; e anche qui viene da pensare ai Malavo-
glia, che è l'opera in cui trova più alta espressione quella
dolorosa e anslosa pietà, quella religione della famiglia
che e componente prlmaria del modo di essere siciliano (ma
con tutte quelle sotterranee implicazioni, esplosioni e re-
more che il Verga non sospettò). E c'è anche in Giuffredi
naturalmente, quel considerare la donna come oggetto
che tuttora pesa nella vita sociale del Sud: ma temperato
dalla intensità e vivacità dei sentimenti, de~li affetti. E c'è
un luogo degli Avvertimenti da cui sembrano affiorare
tante accorate figure femminili del Verga, quando il Giuf-
fredi raccomanda ai figli di mai "passar l'hora del ritorno:
perché io vi giuro per la santa Fede che io debbo a Dio,
che una delle cose, perché rendo maggiormente grazie
alla sua divina bontà, d'havermi piuttosto fatto huomo
che donna, è per l'affanno che sente la povera donna
quando è passata l'hora del tornare il marito a casa, e non
torna; affanno veramente grandissimo. E qual maggior af-
fanno può essere il vedere partir di casa uno che si ami di
amor vero, e vedersi passar l'hora del ritorno, e farsi
notte, e dubitar di disgrazia, e non vederselo ritornare?"
Da quest'uomo ricco di sentimento ma irto di diffi-
dente prudenza viene anche la prima voce che si sia levata
nel mondo contro la tortura e la pena di morte. Rivolgen-
dosl partlcolarmente al figlio Glovanni, che era avviato
alla carriera giudiziaria, egli scrive: "ma voglio ben dirti
G., e COSI lo dico agll altrl, che non condanniate mai nes-
suno ad essere frustato... se non è per cosa più che grande,
anzl, potendo, per qualsivogha cosa non date mai morte a
nessuno", poiché "questa vita che è di Dio io la vorrei la-
sciar tor da lui". E con un calore e una concitazione in cui
si sente l'esperienza della tortura, e per averla subita e per
averla vista dare tante volte nella sua qualità di segretario
dell'Inquisizione, raccomanda di "venir quasi così mal vo-
lentieri a dare altrui la corda, come a dargli morte; perciò
che oltre al pericolo in cui si pone uno, confessando, di
morire, si pone anche a pericolo di rompersi il collo, rom-
pendoglisi, come l'ho veduto io talvolta..." Ed è evidente
da questi frammenti, come dal contesto dell'avvertimento
da cui son tolti, che il Giuffredi aveva non solo precisa
coscienza che la pena di morte, la tortura, la fustigazione
fossero offesa a Dio e alla dignità umana, ma anche la
convinzione propriamente giuridica, tecnica, che la con-
fessione estorta non valesse ai fini della verità, della giu-
stizia.
La vita di Antonio Veneziano, coetaneo ed amico del
Giuffredi, è come una puntuale negazione degli Avverti-
menti cristiani. Violento, sensuale, scialacquatore, carico di
debiti (e di mal francese, secondo un suo tardo biografo),
incostante negli affetti familiari e negli amori, assoluta-
mente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uo-
mini che le rappresentavano (e nei riguardi di costoro,
presumibilmente, non privo di vocazione aretinesca):
questo era Antonio Veneziano. E lo accomunano al Giuf-
fredi l'esercizio di un petrarchismo freddo e prevedibile,
che però il Veneziano mirabilmente trasfonde e riscatta
nelle poesie in dialetto; il gusto causidico, che nel Vene-
ziano ha punte di scetticismo e di divertimento mentre
nel Giuffredi, che le cose della giustizia vedeva dal diden-
tro, sottende greve ansietà e malafede; la fine sotto le ma-
cerie del Castello. Che poi entrambi siano stati vittime
del Sant'Uffizio, è ipotesi gratuita anche se suggestiva; e
contiene pochissimi elementi probanti, e prevalentemente
d'ordine psicologico: per il Veneziano, che è quasi impos-
sibile un uomo così pronto alla satira e così arrisicato ab-
bia mantenuto per tutta la vita un rispettoso o prudente
La corda bazza La corda pazza 975
atteggiamento nei riguardi dell'Inquisizione e di persona-
lità come quella del Páramo, fanatica fino al grottesco;
per 1l Gluf redi, che la repugnanza per il suo mestiere di
scriba del Sant'Uffizio agi probabilmente come concausa
di un allontanamento o rottura, con la conseguente per-
dita di quella qualità di familiare che sarebbe valsa a sot-
trarlo alla giustizia ordinaria, nelle cui mani invece più
volte lo troviamo.
Le disavventure giudiziarie del Giuffredi cominciano
crediamo, nel momento in cui maturo d'anni e d'esPe-
rienza, sicuro di sé e della macchina delle leggi, si da a
speculare in margine alla cosa pubblica. Il Veneziano
nelle vicende giudiziarie si trova immerso invece da gio-
vamsslmo, dentro una numerosa e litigiosa famiglia. Il
magnifico Antonio Veneziano, suo padre, ebbe tre mogli
e nove figli: uno dalla prima, uno dalla seconda, sette
dalla terza. Antonio, battezzato col nome di Antonello
era il terzo dei sette figli nati da Allegranza Azolino; la
quale doveva essere molto giovane, se di parecchi anni so-
pravvisse al marito.
Antonello (poi, forse dopo la morte del padre, chia-
mato Antonio) nacque a Monreale il 7 gennaio del 1543.
O meglio: il~7 gennaio fu battezzato; e gli furono padrini
Gian Antonio Fasside, dottore in teolo~ia e vicario in
Monreale del cardinal Farnese, e il magni~ico Filippo Me-
lisenda; madrina Norella La Autilia. Il vicario del Farnese
era, effettualmente, la più alta autorità: questa provenen-
dogli dall'arcivescovo-abate che aveva la città e il territo-
rio di Monreale in "directum plenum et liberum domi-
nium" (anzi: "demanium"), per la totale traslazione di
poteri fatta dal normanno Guglielmo II alla chiesa mon-
realese. Da ciò, nelle vicende giudiziarie, la continua di-
chiarazione del Veneziano di una residenza e cittadinanza
palermitana, per non essere giudicato da un foro improv-
vlsato e arbltrarlo quale doveva essere quello di Monreale,
composto prevalentemente da forestieri ai quali la lontana
autorità del Farnese lasciava modo di fare il più profitte-
vole giuoco tra le fazioni e i personalismi locali. E in
quanto all'autorità del vicario, c'è da dire che il trovarlo a
far da padrino in un battesimo già è segno di una sua in-
clinazione al comparaggio e alla faziosità. D'altra parte,
un così autorevole compare di battesimo dice del grado
sociale e della potenza dei Veneziano; le cui orlgmi, come
qualcuno afferma, saranno state venete: ma già alla fine
del secolo xv erano ben radicate a Monreale in una larga
parentela e in una solida proprietà immobiliare. Indubbia-
mente però le sorti della famiglia toccarono il vertice di
fortuna con Antonio, padre del poeta, che fu mastro no-
taro della Curia e pretore, e con suo fratello Antonino, ar-
cidiacono. Dalla nidiata di figli che il magnifico Antonio
ebbe da Allegranza Azolino, venne la disgregazione della
roba e la decadenza.
Nel 1547, quattro anni dopo la nascita di Antonello e
prima che l'ultima figlia, Maria, fosse battezzata, morlva
Antonio Veneziano. Con testamento fatto in punto di
morte (7 luglio 1547) chiedeva per sé una tomba nella
chiesa di San Vito e una messa settimanale, da celebrarsl
il venerdì, e dava ai figli e alla moglie, equamente, la
roba. Di quella dei minori, nominava curatore e tutore 11
reverendo Antonino, suo fratello.
L'influenza dello zio, congiunta probabilmente al di-
sgusto di una vita familiare che doveva essere alquanto
tempestosa, consigliarono Antonello, che da ora m poi
chiameremo Antonio, ad entrare nel collegio palermitano
della Compagnia di Gesù: a dodici anni, nel 1555. Com-
piuto a Palermo il corso di grammatica passò al collegio
di Messina, il solo in Sicilia che per volontà di Ignazio di
Loyola, che giustamente riteneva pericoloso il moltlpli-
carsi delle cattedre quando mancano i buoni maestri, te-
neva un corso completo di studi letterari, con insegna-
mento di grammatica, umanità, rettorica, lingua greca ed
ebraica Indubbiamente Antonio Veneziano diede bril-
lanti prove, se appena quattro anni dopo viene mandato,
insieme ad altri tre giovani siciliani, a concludere gli studi
nel collegio romano, dove proprio in quell'anno, 1559, era
arrivatO come maestro di filosofia secondo Tommaso il gio-
-
vanissimo Francesco Toleto, che parecchi anni dopo do-
veva diventare cardinale. Il Toleto era dottissimo in filo-
sofia e teologia, ma aveva anche inclinazione alla giuri-
sprudenza: e "anche a non farlo a posta ne ispirava amore
ai discepoli, sebbene quella non era una materia che se-
condo le regole del fondatore doveva studiarsi dai Padri
della Compagnia". E di filosofia e teologia secondo Tom-
maso troviamo consustanziati molti luoghi della poesia
del Veneziano; mentre la sua conoscenza del diritto tro-
viamo disseminata nelle tante istanze e "comparse" con le
quali si trovò a difendere la sua roba e la sua libertà, e
nella fama di giureconsulto che si acquistò presso i po-
stern
Dopo tre anni di studi col Toleto, e dopo otto anni di
vita nella Compagnia, la vocazione di Antonio doveva aD-
parire ben radicata. Ma l'arcidiacono suo zio qualche dub-
blo doveva averlo se nel suo testamento (5 gennaio 1562),
lasciando eredi universali i nipoti Giovanni e Nicolò, in-
giungeva che ogni anno regalassero ad Antonio un ve-
stito di panno decente e conforme al modello della Com-
pagnia di Gesù, ma apriva la possibilità che il giovane la-
sciasse la Compagnia, nel qual caso doveva essere conside-
rato anche lui erede universale, nella esatta terza parte dei
beni.
Il canonico Millunzi, della cui biografia del Veneziano
largamente ci serviamo, quasi fa colpa all'arcidiacono di
una tal clausola, come di una tentazione offerta ad un gio-
vane vigoroso e intemperante; ma a noi, considerando che
fino ai giorni nostri, in Sicilia, ci sono stati dei preti che
hanno lasciato la loro roba a nipoti anche lattanti, a tassa-
tiva condizione che si facessero preti, il testamento dell'ar-
cidiacono Veneziano appare di una saggezza e di una tol-
leranza addinttura meravigliose per il suo tempo. Se poi
espressamente l'arcidiacono volle, con la terza parte dei
suoi beni, mettere a prova la vocazione del nipote, e pro-
priamente tentarlo, bisogna dire che era un sant'uomo, ol-
tre che saggio e tollerante: e la vita del poeta ci dice
quanto scarsa era in effetti la sua inclinazione ai modi di
vita della Compagnia di Gesù. Comunque, pochi mesi
dopo la morte dello zio, ecco che Antonio lascia la Com-
pagnia e torna a Monreale: "coll'espressa licenza e la be-
nedizione dei superiori".
Dal momento in cui torna a Monreale, Antonio
avrebbe tutte le ragioni per rimpiangere la vita sicura e
serena che la Compagnia gli offriva; ma non ne troviamo,
nei suoi scritti, il più piccolo segno.
Per cominciare: deve far fronte ai creditori e perseguire
i debitori. Poi viene, nel marzo del 1563, un'accusa di
omicidio a carico di suo fratello Nicolò; e nel giugno del-
l'anno successivo l'accusa viene estesa a lui e al fratello
Giovanni. E dapprima vengono imprigionati Nicolò e
Giovanni, poi anche Antonio. Ma non ci stanno per
molto: ottengono una specie di libertà provvisoria; piut-
tosto larga, se il 30 novembre di quell'anno troviamo Ni-
colò Veneziano tra i cinquanta consiglieri cittadini. La
qual carica, evidentemente, non impediva di lì a qualche
giorno che tutti e tre i fratelli, più il loro cognato Anto-
nio de Calogero, venissero banditi dalla città e territorio
di Monreale per quattro anni.
L'omicidio di cui erano imputati i fratelli era stato
commesso in persona di Antonio Polizzi; e Giovanni e
Nicolò, in una istanza, lasciano intendere che l'accusa non
è infondata, solo che il Polizzi era bandito, ladro e scorri-
tore di campagna e fu ucciso "per la resistencia che fachia
a li officiali regii, quali lo seguitavano per pigliarlo": che
poi ad ammazzarlo non siano stati gli ufticiali regi, ma
Nicolò o Giovanni Veneziano, non importava; Impor-
tante era che la battuta di caccia era andata a buon fine
(ed è, questa, una tesi che ha avuto una sua validità fino
ai giorni nostri). Comunque, a quanto pare, Antomo
Il nella faccenda non c'entrava per niente; ma gli toccò di-
batterla e subirla per ben cinque anni, con finale prova
della tortura: e riuscendo questa, finalmente, favorevole
agli imputati, nel dicembre del 1568 uscivano di prigione
tOCcati soltanto da una misura, diremmo Oggl, di pollzla:
i
il divieto di tornare a Monreale. Misura che viene addol-
cita nell'anno successivo, con la concessione, prima ad
Antonio e poi agli altri, di poter entrare nel territorio
della città, ma sempre mantenendosi nel raggio di un mi-
glio dall'abitato. Soltanto il 27 agosto del 1576 il vicerè
marchese di Pescara, per intercessione del conte di Vicari
autorizzava il Veneziano a tornare nella sua città.
C'è da credere che quella sorta di "maledettismo" che
informa la vita di Antonio Veneziano abbia avuto radice
in quegli otto anni passati nella Compagnia di Gesù, cioè
nella sua condizione di quasi spretato che tentava di rove-
sciare e rovesciava in forme di irriverenza, di spavalderia,
di azzardo, di libertinaggio, di mafia. Se è suo, come crede
il Millunzi, il memoriale di protesta contro il notaro del
tribunale Coxia, il quale aveva trascurato di presentare le
ragioni dei Veneziano al governatore di Monreale, du-
rante l'istruzione del processo per l'omicidio di Antonio
Polizzi, c'è una espressione che è tipica (e che tale è rima-
sta) della mentalità mafiosa: "li carzeri non mangia li ho-
mini"; il carcere non mangia gli uomini: e anzi, come si
può riscontrare in canti e proverbi del sentire mafioso, li
ammaestra, li tempera. Uscendo dalla Compagnia di
Gesù, che in quegli anni particolarmente doveva risentire
di quello slancio per cui Unamuno si trova a raffrontare
la vita di Ignazio a quella di don Chisciotte, Antonio
viene a trovarsi in un ambiente in cui la roba, la donna e i
puntigli personali o di famiglia o di cosca sono valori testi-
moniati, vendicati e rivendicati con la violenza più cieca
ed efferata: e vi si getta in mezzo con un impeto che deve
far dimenticare quel passato in cui vestì divisa di mitezza,
di carità, di noncuranza dei beni e dei piaceri terreni. E un
fenomeno abbastanza diffuso e abbastanza comprensibile.
Quante volte Antonio Veneziano sia stato arrestato
tra il 1563 e il 1568, quale coimputato per l'omicidio dei
Polizzi, non sappiamo esattamente; e il conto si perde del
tutto se tentiamo di farlo nell'arco dei trent'anni di vita
dal 1563 al 1593. Il carcere, la prigionia: ecco il vero corso
e stato della sua vita ("Natu appenna in enimma fu pre-
dittu / Di la mia vita lu cursu e lu statu": ma dice degli
affanni e patimenti amorosi). Un uomo propriamente
mangiato dal carcere.
Ed eccolo di nuovo in Castello nell'agosto del 1573, ac-
cusato di aver rapito (consensualmente, pare) a suor Eu-
frigenia Diana, terziaria domenicana, una ragazza che
stava al suo servizio, Franceschella Porretta. Dal rapporto
del capitano di giustizia di Monreale, la vicenda del ratto
appare complicata da un furto: "Ad istanciam magce et
Revde sororis Eufrigenie de Diana monialis tercii ordinis
Sancti Dominici accusantis eum de furto magno certarum
raubarum ad summam unc quinque et de raptu Franci-
scelle Porretta famule..."; e non è escluso che Pietro di
Nicolosio dica la verità, anche se sappiamo bene di che è
capace un capitano di giustizia, e poi in combutta con
una monaca di casa. Questo fatto cade in un momento in
cui si era accesa una gran lite familiare per la divisione
della roba: Antonio, che in un primo tempo si era schie-
rato con la madre contro i fratelli Giovanni e Nicolò, è
costretto a cambiar fronte quando la madre, dal ratto di
Antonio forse colpita nei suoi sentimenti di devozione
alle monache di casa e di rispetto per la roba altrui, di-
chiara il suo disdegno per il figlio degenere. E dapprima
fa procura, chiuso com'è in Castello, al fratello Giovanni;
ma questi non tarda molto, insieme a Nicolò, a mettersi
d'accordo con la madre a danno d'Antonio. E il docu-
mento di questo accordo è forse il testamento di Alle-
granza, in data 15 febbraio 1574, in cui ad Antonio viene
riConosciuta una specie di legittima (dieci once una volta
per tutte) e dichiarato fuori d'eredità in quanto figlio di-
sobbediente. E senza mutare opinione Allegranza Azolino
muore di lì a poco. Antonio, che chi sa come è riuscito a
districarsi dalle accuse della monaca di casa e che forse si
è scaricato anche di Franceschella, nonostante il grande e
duraturo amore affermato in una ottava, o perché effetti-
vamente è stufo delle liti o perché vuol dimostrare il suo
sdegno e il suo disinteresse o per altra ragione, più se-
greta, fa donazione di tutti i suoi diritti ereditari ad Eufe-
mia de Calogero, figlia della sorella Vincenza nella cui
casa, a Palermo, era ospitato. L'atto di donazione è piutto-
sto curioso, e rende attendibili i tardi sospetti del profes-
sor Vincenzo Epifanio: Eufemia non deve né sposarsi né
farsi monaca, mantenersi in onestà e pudicizia, mai cadere
in errore: pena la nullità della donazione (e i beni sareb-
bero andati, in tal caso, a Vincenza, Costanza, Virginia e
Maria Veneziano, sorelle del poeta). E si sa che testa-
menti e donazioni che imponevano ai giovani un destino
allora si facevano frequentemente, quasi di regola: ma di
solito si prescriveva che il ragazzo si facesse prete o frate,
la ragazza monaca o che condecentemente si sposasse. La
condizlone che non Sl monacasse e non Sl sposasse poteva
se mai venir fuori dalla preoccupazione di un padre, di
una madre, di un parente prossimo, ormai in età e biso-
gnosi di un'assistenza continua, non da uno zio giovane
quasl quanto la nlpote. Un mistero sotto ci doveva essere:
e forse è il mistero stesso di Celia, della celeste e terrestre
Celia cantata dal Veneziano. Perché di altri suoi amori, di
altre donne amate, l'identità viene offerta senza veli: Fran-
cisca, cioè Franceschella Porretta, e Isabella, cioè Isabella
La Turri; e si può escludere che una delle due, o tutte e
due, siano poi diventate la Celia del cui amore il poeta
non è sicuro, dubita, diffida, la Celia che lo inquieta, lo fa
soffrire; che, per dirla con le parole di Cervantes, lo
"tiene, abrasa, hiere y pone fria".
11 canonico Millunzi inorridisce del sospetto che la do-
nazlone nascondesse una seduzione e corruzione, anzi rav-
visa nel documento, nelle condizioni poste dal donatore
un assurgere del dono materiale a qualcosa di più alto.
cioè a una partecipazione dello zio all'educazione del
cuore della nipote. "Con la solennità di un pubblico stru-
mento, - dice, - le rlcorda e le raccomanda il timore di
Dio, il rispetto al Monarca e al Pontefice e alle loro leggi
e la conservazione dell'onestà e della pudicizia"; ma sor-
vola sulla pnnclpale ingiunzione: niente matrimonio,
niente convento. Ma non volendo noi, per sostenere il so-
spetto, ricorrere al trucco dell'omissione, come fa il cano-
nico per eliminarlo, portiamo i due soli elementi che sem-
brano buoni nel suo giuoco: il primo, che tra il ratto di
Franceschella e la donazione passa troppo poco tempo; il
secondo, che se uno scopo abietto ci fosse stato nella do-
nazione, i primi a denunciarlo sarebbero stati i fratelli di
Antonio, che non persero tempo a impugnare l'atto. Ma
si può ribattere: che a passare da un amore a un altro non
ci vuole poi molto, e che il fatto stesso che Antonio si
spoglia dei suoi beni dimostra che già la sua relazione con
Franceschella doveva essere finita; che una relazione amo-
rosa con la figlia della sorella era cosa difficilmente so-
spettabile (quella di Voltaire con Madame Denis è stata
scoperta giusto dieci anni fa) e, se sospettata, difficil-
mente provabile; e che, dopotutto, si trattava di un fatto
che avrebbe gettato vergogna su tutto il parentado, anche
nel ribollire di liti per la roba.
Alla fine del 1575 Eufemia de Calogero ha già salda-
mente in mano i beni che lo zio le ha donato: Nicolò Ve-
neziano, e il giudice Tarugi che a quanto pare lo favoriva,
restano sconfitti forse più dalla benevolenza verso il poeta
di don Carlo d'Aragona, presidente del Regno, che dalla
giustezza degli argomenti giuridici. Il Tarugi, per di più,
si prende dal Veneziano un lampeggiante epigramma che
lo consiglia a mutare in corvo la colomba del suo
stemma.
Nel 1576, come abbiamo detto, Antonio torna a Mon-
reale: e un paio di documenti ci dicono che aveva ritro-
vato armonia coi fratelli, o soltanto un accordo inteso ad
affrontare certi loro debitori. Uno dei quali, "lu poviru
Francesco Camami", dichiara che già per ben due volte ha
pagato il suo debito, solo che non riesce a trovare testi-
moni perché la gente ha paura dei fratelli Veneziano,
"homini armigeri et forti". E c'è da credergli.
Fino al novembre del 1577 abbiamo, in carte giudizia-
rie, segni della presenza del poeta in Sicilia e nella sua
città: cade così l'ipotesi di coloro che lo credono prigio-
niero dei pirati d'Algeri fin dal 1575; ipotesi formulata to-
gliendo un dieci a un passo del Baronio ("Dum in Alge-
rio MDIXXXV plus minusque serviret servitutem") in cui
l'anno, 1585, è in ogni caso sbagliato, e fidandosi di una
notizia dell'Auria ("Nel miglior corso degli suoj studi
tratto dalla devozione e curiosità di riverire i luoghi santi
di Roma, partitosi da Palermo fu preso dai barbari corsari
e portato prigioniero in Algeri nel 1575, dove per sot-
trarsi dal gran peso della servitù e da sì gravi molestie
compose molte canzoni siciliane drizzate alla sua Celia.
Ma non molto tempo doppo fu ricomprato a danari dal
Senato di Palermo, per merito di tanto uomo, e dovuta
gratitudine di averlo servito di suo segretario" Notizia
piena di inesattezze: dalla curiosità verso i luoghi santi di
Roma, che il Veneziano già conosceva, alla qualifica di se-
gretario del Senato, che il poeta mai ebbe).
Il dubbio sull'anno in cui il Veneziano fu catturato dai
pirati sorge dalla relazione che dell'avvenimento fece il
monaco cassinese Ignazio Zamparroni, palermitano, e che
fu pubblicata circa un secolo dopo da un suo confratello
Poiché il nome del Veneziano non viene fuori dalla rela
zione, si è pensato che la ragione per cui il monaco po-
teva tacere della presènza del poeta sulla nave catturata
non poteva essere che la più owia: il poeta non c'era. Ma
a legger bene la relazione ci si accorge che lo Zamparroni
soltanto parla e si preoccupa dei preti, chierici e frati che
furono suoi compagni di sventura, non curandosi per
niente dell'altra "molta gente". E poi bisogna considerare
che in quel 1578 il Veneziano non doveva godere di gran
fama come poeta, né di stlma come uomo.
Nel 1578, dunque, il 25 aprile, "ad hore venti, con se-
gni d'allegrezza suonando trombe, pifare, e tamburi, scari-
cando artiglieria, inarborando stendardi, e spiegando trin-
chetti", partirono dal porto di Palermo due navi una, che
lo Zamparroni chiama la Capitana, sulla quale si era im-
barcato don Carlo d'Aragona con la sua famiglia e il suo
seguito; e l'altra, la Sant'Angelo, che portava passeggeri,
tra i quali ventisei religiosi, e merci. Don Carlo era di-
retto alla corte di Spagna, dove avrebbe avuto, in cambio
di quella di presidente del Regno di Sicilia, la carica di
governatore di Milano da cui doveva cavare la sola piccola
gloria di entrare, come autore di una grida, nelle pagine
dei Promessi sposi. Ma la prima meta era Napoli: e non
sappiamo se il Veneziano avrebbe lasciato la nave per
proseguire verso Roma o se avrebbe continuato il viaggio
fino alla Spagna, come crede il Millunzi.
Partirono di venerdì; ed erano vicine all'isola di Capri
la domenica, quando improvvisamente scoprirono otto
galere "disarborate" che puntavano su di loro. "Trovavasi
la Capitana distante dalla Galera Sant'Angelo, e avanti
più, che due miglia, la quale per essere meno carica cami-
nava con più veloce passo, e accortasi de' nemici, non
aspettò altrimenti l'altra galera, ma buttate in mare l'an-
core, la robba, e focone, fece il caro di terra, e poggiò
verso l'Isola de' Capri, a vele, e a remi; la Galera Sant'An-
gelo vedendo non potere seguitare la Capitana, e le galere
nemiche assai vicine, drizzò il camino verso Sardegna,
sperando, che se il vento si rinforzava per lo golfo, la
notte seguente salvarsi." E forse fu la decisione che la per-
dette.
- Nel giro di poche ore, due delle galere corsare raggiun-
sero la Sant'Angelo: "gagliardamente si combattette con
mortalità d'entrambe le parti, ma arrivate doppo l'altre da
fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d'archibu-
giate, furono astretti li defensori a buttare l'armi, e ren-
dersi vivi".
Cervantes si trovava prigioniero in Algeri già da tre
anni. Può anche darsi avesse già conosciuto il Veneziano
durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che
ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro
nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reci-
proca estimazione letteraria, se non di amiclzla.
Di questo incontro ci restano due poesie: una di Cer-
vantes a Veneziano, dodici ottave scritte dopo la lettura
della,elia; una di Veneziano a Cervantes, incredibilmente
-=
brutta, di ringraziamento e di ammirazione. La poesia di schiavitù. E si può
dire che questo prete rinnegato è in ef-
Cervantes è aCcompagnata da questa lettera: "Al Serior fetti l'unico legame
documentato tra il gruppo di prigio-
Antonio Veneziani. Senor mio: Prometo á V. M. come nieri cui apparteneva il
Veneziano e quello cui apparte-
chrlstlano que son tantas las imaginaciones que me fati- neva il Cervantes.
gan, que no me an dexado cumplir como queria estos ver- A questo punto sorge la
domanda: come mai il Cer-
sos que á V M embio, en senal del buen animo que vantes, i cui tentativi di fuga
fallivano, molto probabil-
tengo de servirle, pues él me a movido á mostrar tan pre- mente, per il numero
delle persone che vi partecipavano,
sto las faltas de mi ingenio, confiado que el subido de non mise il Veneziano a
parte dell'ultimo? E come mai
V M recibirá la disculpa che doy, y me animará á que en poi, una volta liberi,
nessuno dei due si ricordò dell'altro?
tiempo de mas sosiego no me olvide de celebrar como pu- E non c'è tanto da
meravigliarsi del Veneziano, che della
diere el Cielo que á V. M. tiene tan sin contento en esta sua prigionia parla
soltanto per la pena di lontananza dal-
tierrade la qual Dios nos saque, y á V. M. llegue á l'amata, ma il Cervantes,
che di quella esperienza assidua-
aquella donde su Celia vive. En Argel, los seis de No- mente scrisse, è strano
non abbia mai ricordato il poeta si-
viembre 1579 De V M verdadero amigo y servidor, Mi- ciliano suo compagno nella
sventura (ma non è escluso ci
guel de Cerbantes". sia, in qualche luogo dell~opera cervantina, una allusione
Questa lettera, e i versi che accompagna, sono rimasti ancora non decifrata al
Veneziano, forse confusa dal fatto
ignoti agli studiosi del Cervantes fino al 1914, anno in cui che il cognome,
scritto con iniziale minuscola, indica il
il professor Eugenio Mele pubblicava, da un codice della nativo della citta di
Venezia: e ricordiamo, ad apertura del
Biblioteca Nazionale di Palermo, i due testi nella forma Viaje del Parnaso, il
giuoco che il Cervantes fa con Cesare
più esatta (e di lì a poco le ottave entravanO nelle Obras Caporali: "Un certo
caporale italiano, / di patria peru-
completas di Cervantes a cura di Schevill e Bonilla). Nes- gino, a quel che
intendo, / d~ingegno greco e di valor ro-
sun dubbio sulla loro autenticità: e anzi il Mele trova un mano
sicuro elemento di prova là dove, nella lettera, Cervantes Dove il Cervantes,
senza ricordarlo direttamente, si è
dice dei suoi triboli e spera in un "tiempo de mas so- ricordato del Veneziano,
e più della sua Celia, a noi pare
siego Qualche mese prima, sappiamo (ma non si sapeva sia nella novella El amante
liberal, quando l'infelice Ric-
di certo a Palermo alla fine del Cinquecento o nei primi cardo, siciliano
prigioniero dei turchi, descrive le bellezze
del Seicento, e forse in nessun luogo e tempo prima della di Leonisa: "Y te
pregunto primero si conoces en nuestro
Vita del Ce~anteS del Navarrete, 1819), Cervantes aveva lugar de Trápana una
doncella a quien la fama daba nom-
tentato per la quarta ed ultima volta la fuga, ma tradito bre de la mas hermosa
mujer que habia en toda Sicilia
dal preteJuan Blanco era caduto in più dura condizione. una di cui i poeti
cantavano che aveva i capelli d'oro, che
Questo preteJuan Blanco - "prete Giovanni Bianco_ i suoi occhi erano soli
splendenti, le sue guance rose pur-
troviamo anche nella relazione del monaco Zamparroni e puree, i suoi denti
perle; le sue labbra rubini; il suo collo
le accuse che il monaco palermitano gli muove compro- alabastroe che ogni sua
parte nel tutto e il tutto in ogni
vano in pieno quelle di Cervantes.Quel miserabile prete sua parte facevano
stupenda e concentrata armonia..":
spagnolo, dice ad un punto lo Zamparroni: e non si trat- che pare la
trascrizione di una ottava del Veneziano, e
tiene dall annotare la sua poco cristiana soddisfazione lealmente il Cervantes
avverte che così "los poetas canta-
quando, finalmente liberi per riscatto tutti i religiosi presi ban: i poeti
siciliani, di una fanciulla siciliana.
con la galera Sant'Angelo, soltanto il Blanco rimaneva in
La corda bazza i La corda pazza 987
Il 19 settembre del 1580 si firmò il riscatto del Cervan-
tes, che partiva verso la Spagna il 24 ottobre. Di quello
del Veneziano, da chi fu pagato e quando, non sappiamo
niente di certo. Secondo il Di Giovanni, "da buoni amici
fu recattato"; secondo il Mongitore e l'Aguilera, a riscat-
tarlo fu il Senato palermitano. Dalle due notizie, la più
sensata deduzione è che il prezzo del riscatto sia stato rac-
colto tra parenti, amici ed estimatori e che le trattative
siano state condotte dal Senato palermitano e da rappre-
sentanti del vicerè (come in tanti altri casi, ed anche per i
religiosi catturati assieme al Veneziano). Il 28 novembre
del 1580, comunque, il poeta è già tornato a Monreale: e
ne fa fede un atto notarile in cui compare come testi-
mone.
Nel luglio del 1581, eccolo di nuovo in mezzo alle liti
familiari: le sorelle Maria e Virginia, monache nel paler-
mitano monastero della Concezione, lo chiamano in giu-
dizio (e con lui il cognato Giovanni Sansoprano, marito
della sorella Costanza) per il pagamento di 450 once. Pro-
babilmente per sistemare le cose con le sorelle monache
Antonio si dà a sistemare la questione di una proprietà in-
divisa con la sorella Costanza, il cognato e la loro figlia
Allegranza. Era rièntrato, insomma, nella normalità, ma
forse con un certo rimpianto della prigionia, se ora prefe-
risce la solitudine della campagna. O forse la campagna
gli offre, più della città, occasioni di attaccar brighe, di
sfogare umori violenti. Lo troviamo, infatti, in contesa
con un vicino, che gli aveva rubato tegole e mozzato al-
beri, e con altri perché abusivamente pascolavano greggi
nelle sue terre. Ad un punto anzi, da un documento del
settembre 1582, vediamo irrompere con "grandissima fu-
ria" (così come lo vide il povero capraio Giuseppe Greco
che depone in favore del suo padrone) Antonio Vene-
ziano in compagnia di due suoi amici: "et lu detto de Ve-
netiano dicendo alli compagni soi, dati a sti curnuti
amaczati quanto crapi potiti, che mi hanno aroinato",
ecco che si gettano in mezzo alle greggi. La scena è chi-
sciottesca; il sentimento che la produce molto meno. Poi-
ché era già notte, cacciate con tanta furia, le capre si di-
spersero: di novecentocinquanta, il pastore riusci a ricon-
durne all'ovile soltanto quattrocento. Il bello è che il pa-
drone del gregge, Diego Villasignora, sosteneva che le ca-
pre si trovavano sulle terre del Veneziano per consenso di
questi; né il Veneziano, a quanto pare, lo negava. Solo
che non c'era un contratto scritto, e dunque il giudice
non riusciva a pigliar partito netto tra i due. Come poi sia
finita, non sappiamo. Ma a questa lite, aggravata dalle co-
sidette vie di fatto, ne succede un'altra più, per così dire,
usuale: contro i confrati della chiesa di San Vito, che di-
sturbavano i suoi diritti di patronato sulla cappella di
Santa Maria del Rosario (dove erano le tombe di famiglia
e dove lo stesso Antonio fu sepolto).
Nelennaio del 1583 il poeta fa disegno di trasferirsi a
Pisa. Si fa prestare cento once dal nipote Pietro Arcabaxo
e gli cede per cinque anni, a patto che ogni anno il nipote
gli rimetta in Pisa il canone di gabella, la sua parte di
quella proprietà ereditata che ancora restava indivisa. Ma
non parte, forse perché improvvisamente preso da pas-
sione per la politica cittadina. Eccolo infatti consigliere
municipale: e a piantare grane, naturalmente. Ma con ra-
gione, ma giustamente. Spiega il Millunzi: "Chi oggi pi-
glia titolo di sindaco con l'autorità di capo del conslglio
comunale, in antico si chiamava pretore: ed invece si dava
titolo di sindaco ad un ufficiale civile il quale era chia-
mato non solo ad esaminare le amministrazioni, ma anche
a giudicare della rettitudine degli amministratori". Ed
ecco il fatto. Nell'agosto di ogni anno si doveva fare la
provvista di grano per la città, che pare veniva data in ap-
palto al commerciante che faceva la più conveniente of-
ferta. Si capisce che c'erano degli intrallazzi (così anda-
vano le cose, direbbe il Manzoni, nel secolo xvl!). Il Ve-
neziano subodorò che ne corresse uno tra il pretore Fran-
cesco Romeo e il sindaco Geronimo Azolino, cioè tra co-
lui che doveva essere il controllato e colui che doveva es-
sere il controllore. E il 21 agosto, alla vigilia della riu-
nione del consiglio, ecco che li sorprende, pretore e sin-
1 ! La corda pazza 989
daco, che d'amore e d'accordo preparano le proposte da
sottoporre ai consiglieri. "Perché, - domanda, - lo signor
Geronimo fa questi rubrichi et proposti di consiglio cum
sit che esso è sindaco di li officiali et divirria esseri in fa-
guri di la città?" Domanda che aveva una sua ragion d'es-
sere nel secolo xvI, evidentemente; ma che sarebbe insen-
sata oggi. Dicendo queste parole, testimonia il notaro '
Martino La Cannita, il Veneziano "stava voltato verso
ditto magco preturi, lo quali ditto magco preturi li re-
spusi et li dissi a ditto di Venetiano: sediti al vostro loco
perché non siti chiamato per questo ne questo vi compe-
tixi, et quum vi tocchira dari il vostro voto, lo darreti, et
ditto magco di Venetiano replicao: anci mi competixi, et
mi meraviglio del signor Martino che e mastro notaro et
fa officio di scrivano et con questo si ni andao et da poi di
illa ad un pezzo tornao in ditta casa di la citta undi ci tt
erano multi genti per farsi lo ditto consiglio et di novo
tornao a repigliarsi di paroli con ditto signor pretori per li
cosi scritti, undi ci foro multi paroli et gridati et li gentl'
che erano illa si misiro in disturbo et fu bisogno che al-
cuni si intromittissiro et remediassero". Quasi faceva na-
scere una rivolta, insomma.
Se conseguenze ci furono, certo spiacevolmente non
toccarono il Veneziano: e anzi, fatto che riuscirebbe incre-
dibile oggi, forse perché con tanto ardire aveva denun-
ciato l'intrallazzo del pretore e del sindaco, il nostro poeta
si ebbe in premio una carica pubblica piuttosto impor-
tante (febbraio 1585). Il Millunzi: "Secondo le costitu-
zioni di allora gli interessi del monarca erano tutelati in
Sicilia da un regio Conservatore Generale, residente nella
capitale, il quale a sua volta creava e teneva un Proconser-
vatore in ogni città del regno... I diritti, i doveri, le premi-
nenze e l'esercizio di quest'officiale venivano tutti deter-
minati nella cedula di elezione, ed erano di alto interesse e
richiedevano una lar~a conoscenza del diritto Il Vene-
ziano ottenne quest'u~ficio dal Luogotenente D Giovanni
D'Aquino".
Ancora liti: col nipote Pietro Arcabaxo che non osser-
vava i patti della gabella e con un certo Paolo Cannavali
che esige da lui un debito della sorella Vincenza (la ma-
dre di Eufemia) di cui si era fatto garante. Il debito era
stato pagato, ingiusta era la pretesa del Cannavali: ma ci
vogliono circa due anni perché il giudice Tarugi (quello
che già dal Veneziano si era buscato un epigramma) si
decida a dargli ragione.
In quest'ultimo processo, il Veneziano tornava al vec-
chio cavillo della sua residenza a Palermo, e che il foro a
lui competente fosse quello palermitano: il che vuol dire
che, almeno per avvalorare l'istanza, trascorreva il suo
tempo più a Palermo che a Monreale. Per sua disgrazia:
ché il 1° dicembre 1588 viene arrestato quale sospetto au-
tore di una pasquinata contro il vicerè don Diego Enrí-
quez de Guzmán conte di Alba. "Si trovò appizzato un
cartello contro il vicerè alla cantonera di D. Pietro Piz-
zinga allo piano delli Bologni. Ed alli 1di gennaro se-
guente ne fu tormentato Antonio Veneziano, poeta famo-
sissimo di Monreale, ed ebbe sette tratti di corda e tinni."
Resistette alla tortura, dunque: e perciò non può essere
questo il caso, citato in un manuale giuridico del 1606, in
cui il Veneziano, durante la tortura, prima confessò; poi
fece ritrattazione, ebbe altri tre tratti di corda, mantenne
la negativa: e il giudice Francesco De Milis fu costretto a
una specie di "non luogo a procedere", poiché "ulterius
non poterant torqueri". Questo caso forse è da collocare
nella prima prigionia del poeta, quando insieme ai fratelli
fu imputato di omicidio. Nel 1588, è presumibile sia stato
rilasciato dopo i sette tratti di corda cui resistette. Ma la
Sua partita col conte di Alba de Liste non era ancora
chiusa.
Il 15 dicembre 1590, sabato, "venendo di Messina il vi-
cerè conte di Albadelista, accostò la galera allo sbarcaturi
o ponte quale era fatto a Nostra Signora di Pedigrutta,
ed era fatto di lignami, ed avia stato molto tempo fatto a
mari, che niscia da circa 15 canne, per incontrare a S. E. Si
ci ritrovaO di sopra tutta la nobiltà di Palermo e Sicilia; e
per la tanta calca delli genti che ci era di sopra, e di sotto
con barchi e filuchi, subissò detto ponte, e si affogaro nel-
l'acqua a mare l'infrascritti signori e cavalieri...", e segue
un lungo elenco. Ma fu salvato l'arcivescovo Diego de
Haedo, che è poi l'autore di quella Storia e topografia di
Algeri (Valladolid 1612) che riuscirà di grande utilità ai
biografi del Cervantes. E poiché, come dice il Navarrete,
il De Haedo lavorò alla sua Storia durante la lunga per-
manenza in Sicilia, "informandosi sulle pene che subi-
vano i prigionieri cristiani in Algeri da coloro che riscat-
tati tornavano nell'isola", è probabile che tra i suoi infor-
matori abbia avuto parte rilevante il Veneziano.
Il De Haedo fu dunque salvato: e il "ma" cui noi ab-
biamo attaccato la notizia del suo salvataggio si riferiva
alla sua precedente e feroce funzione di inquisitore di Sici-
lia e non, evidentemente, alle sue postume benemerenze
cervantine. "E quando lo pottiro salvare non feciro poco",
agglunge il cronlsta: cioe a stento.
Da questa sciagura il vicerè e la viceregina uscirono as-
solutamente indenni: il ponte era crollato un attimo
prima che il conte vi mettesse piede, il che bastava, in
una città come Palermo, a crear~li quella che elegante-
mente Pitrè dice "fama di uomo fatale", vale a dire di jet-
tatore, e ad ispirare al Veneziano una delle sue acute pa-
squinate. Ora, che un libello sulle qualità jettatorie del
conte abbia avuto circolazione in Palermo, pare certo: ma
che il Veneziano sia stato nuovamente arrestato quale so-
spetto autore, non c'è documento che lo provi, né ab-
biamo il testo del libello per avanzare a nostra volta so-
spetti o per dissiparli. C'è solo, nel Palermo Restaurato di
Vincenzo Di Giovanni (opera che il Di Marzo ritiene sia
stata scritta intorno al 1627), una nota che pare attendi-
bile: "Ultimamente, per un altro cartello trovatosi, es-
sendo egli stato tradito dai suoi amici, che gli deposero
contro, fu preso e carcerato nel Castell'a mare, quando,
succedendo in quello l'orribilissimo incendio, ivi con tutti
gli altri carcerati si morse; ed in tal modo morì così cele-
bre e famoso poeta". Ma non si riferisce certo al cartello
o libello, di cui fa congettura il Pitrè, che dava al con-
te d'Alba patente di jettatore. Il "libello in Proregem
scripto", come dice il Mongitore, indubbiamente c'è
stato; ma che sia stato scritto dal Veneziano e che il Ve-
neziano ne sia stato imputato, non c'è alcun indizio per
affermarlo. E poi difficile da credere (anche se un vicerè,
per un puntiglio personale, era in grado di consumare ben
altri arbitri) che dal dicembre 1590 all'agosto 1593 sia ri-
masto in carcere quale sospetto autore del libello: se non
la sua fama, se non il suo acume giuridico, certamente
l'arrivo del nuovo vicerè conte di Olivares (24 marzo
1592) avrebbe messo fine alla sua prigionia. Del resto, da
un documento dell'aprile 1593 (una delle solite questioni
sulla roba), il Millunzi aveva tratto la convinzione che a
quel momento il Veneziano era "un'altra volta libero a
Monreale": ma infondatamente, a parer nostro, stando
alla lettera del documento; mentre più fondatamente di-
cono della libertà del poeta tra il 23 gennaio 1591 e il 23
maggio 1592, quattro documenti sfuggiti al Millunzi; e
particolarmente l'ultimo, datato da Messina. Si tratta di
quattro istanze intese ad ottenere proroghe per l'esecu-
zione di una decisione giudiziaria, di un sequestro in-
somma, disposto sulla quota di sua pertinenza dei beni
patrimoniali indivisi, in favore della sorella Costanza ma-
ritata Sansoprano. E che per circa un anno e mezzo, di
due mesi in due mesi, il poeta sia riuscito a tener sospesa
l'esecuzione, è già un bel risultato; come poi la vicenda
sia andata a finire, e se non sia stata ragione della sua ul-
tima prigionia, non possiamo dire. Ma ci pare, ripetiamo,
molto attendibile la notizia tramandata da don Vincenzo
Di Giovanni: che un altro cartello, e il tradimento dei
suoi amici, l'abbiano portato all'ultima fatale prigionia. E
ci soccorre in questa ipotesi, e conferisce più concreta at-
tendibilità al Di Giovanni, la tradizione popolare che at-
tribuisce al Veneziano un'ottava che dice della tremenda
condizione del carcerato e impreca contro il tradimento:
"Amici, amici, quadari, quadari, / Facitimi quadari di li-
Scía, / Cà tutti quanti mi vogghiu squadari, / Li robbi
lordi di la Vicaria. / Curriti tutti, mastri pittinari, / Pur-
tati tutti pettini pri mia; / E s' 'un cc'è corna, faciti sirrari
/ Li corna a chiddi chi 'nfussaru a mia!''I Giustamente il
Pitrè dice che "la trovata de' pettinagnoli che non avendo
la materia prima dei pettini da fabbricare potrebbero pro-
curarsela presso i calunnlatori, è vivacemente ingegnosa";
e dunque non del tutto campata in aria l'attribuzione al
Veneziano anche da questo punto di vista.
Palermo Restaurato (o Ristorato) di Vincenzo Di Gio-
vanni è un ragguaglio sul rifiorire della città nella se-
conda metà del secolo xvl. Per quanto riguarda la vita
culturale, il Di Giovanni nota che c'erano diverse accade-
mie di musica e di belle lettere, e particolarmente si sof-
ferma su quella degh Opportuni, che si teneva in casa
sua, dove "si leggeva filosofia morale sopra il Piccolo-
mmi, e Sl andavano esaminando le composizioni, che di
mano in mano in quella si presentavano. Ed in quel modo
ne uscirono belle ed eleganti composizioni, e particolar-
mente una commedia, che si recitò nella sala della Corte
Pretoriana, fatta dal Senato in onore del duca di Terra-
nova, allora luogotenente per S. M. in questo regno". Il
Veneziano non era forse assiduo frequentatore di accade-
mie; ma che fosse considerato il miglior poeta, nelle acca-
demie e fuori, non c'è dubbio. "Ebbe, - scrive il Di Gio-
vanni, - nella nostra patria il primato: fu d'ingegno acuto
e peregrino, di somma sapienza e dottrina, di stile eroico
e sublime; e di fare imprese aveva il primato. Le sue can-
zoni furono di tanto pregio, che ogni cosa bella si repu-
tava da lui; e furono di tal sorte, che ogni professore di
poesia, anco d'Italia, desiderava aver canzoni di Vene-
ziano, per servirsi di suoi concetti nelle opere sue; intanto
che tra I nostn poeti quel si reputava buono, che più allo
stile del Veneziano si appressava. Non meno egli prevalse
nel verso latino, nel quale non era meno altiero che nel-
l'altre sue opere. Amò egli la sua Celia, per la qual com-
pose cento canzoni, tutte di pensieri celesti, e quelle
chiamò La Celia. Compose anco molti altri capitoli di
gran diletto."
Non occorrerebbe aggiungere altro: non solo la qualità
delle poesie del Veneziano, e la sua superiorità rispetto
agli altri poeti siciliani del tempo, restano esattamente de-
finite e collocate; ma anche il problema del reputare da lui
o~ni cosa bella, su cui può oggi quasi del tutto vanamente
affannarsi il filologo, è già proposto nella breve notizia.
Perché questo è il punto che fa della poesia del Veneziano
un caso assolutamente unico: per circa due secoli e mezzo
(fino all'edizione, peraltro scorrettissima, dell'Arceri, nel
1859) ha avuto una ristretta circolazione manoscritta ma
una vastissima diffusione e tradizione nella memoria del
popolo fin quasi ai nostri giorni, e anzi la tradizione ma-
noscritta indubbiamente è stata influenzata dalla tradi-
zione mnemonica in cui, attraverso un continuo processo
di cristallizzazione, veniva a realizzarsi quella tendenza a
reputare da lui ogni cosa bella già abbastanza evidente nei
primi decenni del Seicento. Ma questo non è, fortunata-
mente, problema nostro. Noi abbiamo voluto raccontarne
la vita, così appassionata, tribolata e drammatica che de-
gnamente avrebbe potuto trovar posto in quelle "di av-
venture di fede e di passione" del Croce (il quale, notizia
di non scarso rilievo, aveva pensato ad una edizione delle
opere del Veneziano negli "Scrittori d'Italia" del Laterza)
e che è rimasta, appunto perché così travagliata e tragica,
nella leggenda e nella fantasia del popolo siciliano. E in
quanto alla sua poesia, ci pare di poter concludere il no-
stro giudizio in questo di Francesco Flamini che è, tutto
sommato, il più esatto che finora sia toccato al Vene-
ziano: "E cosa nova fece il siculo Petrarca, Antonio Vene-
ziano da Monreale, nel suo canzoniere in vernacolo, inti-
tolatoelia dal soprannome della donna amata, tuttora
ammiratissimo nell'isola ove fu composto ed ove una eco
ne sopravvive nei canti del popolo. Ai quali molto deve
per parte sua, sia nell'intonazione sia nel metro, questo
poeta di fantasia e di sentimento, dotto di greco e di la-
tino ed autore anche di prose italiane, come la descrizione
deì Fonte Pretorio, signorilmente eleganti, ma insoffe-
rente di freno al fervido ingegno e a quella vena mordace
che gli fruttò il carcere e, per uno scoppio delle polveri
quivi avvenuto, a soli cinquant'anni la morte. Poiché il
metro è l'ottava siciliana a rime alterne, antichissima, e
quanto all'intonazione, se una cotal turgidezza, un certo
sfoggio di colori vivaci e di quelle antitesi che altri ben
definì l'asma dell'intelletto non ci permettono di dimenti-
care in che tempi il Veneziano scriveva, se il Petrarca so-
prattutto e a volte anche Dante e il Tasso gli han sugge-
rito la mossa del pensiero, o il pensiero medesimo svolto
nel breve giro degli otto versi, non si può negare il DiU
delle volte a questi il pregio di una freschezza e di unare
casalingo, che solo nella poesia di popolo han riscontro, e
di là derivano... Che le settecentocinquantatre canzuni di
cui consta la Celia sieno, come piacque a taluno di chia-
marle, un madrigale prolungato, non direi: hanno bensì
qualche affinità con questo genere di poesia che, adattis-
simo all'indole dei tempi, durante la seconda metà del
Cinquecento salì in fiore, acquistando vita propria".
967
IAmici, amici, preparate acqua calda, / preparatemi acqua calda
con lisciva, / ché tutri quanti mi voglio bollire / gli indumenti
lordi di carcere. / E voi, mastri che fate i pettini, correte, / por-
tate rutti pettini per me; / e se non avere il corno da cui farli,
segate / le corna a coloro che qui mi hanno infossato.
IL CASO DELLA BARONESSA DI CARINI
"Stu casu pri lu regnu batti l'ali", dice con bella imma-
gine l'anonimo che cantò la tragica storia della baronessa
di Carini. E si può dire che ancora, dopo quattro secoli,
batte le ali: e non più nelle piazze, poiché i cantastorie
hanno tragedie più attuali da raccontare, ma tra gli StU-
diosi di filologia e di storia.
Cominciò, com'è noto, Salvatore Salomone-Marino.
Sentì dalla madre un frammento della storia: e si diede a
cercarne altri per tutta la Sicilia, al tempo stesso lavo-
rando a ricostruire la verità storica dei fatti. E dapprima
credette che la verità storica coincidesse con la verità poe-
tica, e cioè che don Vincenzo La Grua, barone di Carini,
avesse in un cieco impeto d'ira ammazzato la sua giovane
figlia Caterina, colpevole di un'amorosa relazione con Lu-
dovico Vernagallo. Successivamente, forse anche per certi
dubbi sollevati dal Pitrè, i fatti gli apparvero in diversa
declinazione: don Cesare Lanza aveva ammazzato la figlia
Laura, moglie di don Vincenzo La Grua, e l'amante di lei
Ludovico Vernagallo, avendoli sorpresi insieme nel ca-
stello di Carini. Su questa seconda ipotesi, come già sulla
t)rima, condusse un'operazione di curiosa improntitudine
filologica ma di efficace risultato poetico: dalle migliaia
di versi raccolti nei paesi siciliani, e più nella zona di Pa-
lermo, egli ne estrasse circa trecento, articolandoli in una
sequenza drammatica, in una durata poetica di rara inten-
sità. E il poemetto fu infatti salutato come uno dei più
alti testi di poesia popolare, e fino alla pubblicazione del
lavoro di Aurelio Rigoli (Le varianti della "Barunissa di
Carini" raccolte da Salvatore Salomone-Marino, Palermo
1963) così considerato.
Ma lasciando da parte il caso filologico che viene a
rampollare dal caso della baronessa, diciamo che la se-
conda ipotesi del Salomone-Marino sulla verità dei fatti
era senz'altro esatta. Solo che, in circa cinquant~anni di ri-
cerche, egli non pervenne mai ad una prova risolutiva.
Raccolse un gran numero di documenti, sulla mancanza
di altri formulò sospetti attendibilissimi: e documenti e
sospetti sapientemente collegò e dispose in un racconto
suggestivo e convincente. Ma il documento definitivo,
che a chiare lettere dicesse che don Cesare Lanza aveva
ammazzato la figlia Laura e il Vernagallo, l'illustre stu-
dioso non ebbe la gioia di trovarlo. E venne fuori, questo
documento, parecchi anni dopo la sua morte. Casual-
mente, a quanto pare. Lo trovò Gaetano Catalano nell'Ar-
chivio Storico Nazionale di Madrid: ed era in un registro
di protocollo. Il Catalano lo comunicò ad Antonino Pa-
gliaro, e questi lo pubblicò in nota a un suo saggio la cui
validità, dopo il lavoro del Rigoli, resta un po' dubbia.
C'era però, molto più vicino di quello di Madrid, un
documento ancora più preciso: nei registri della Cancelle-
ria e del Protonotaro, proprio in quell'Archivio di Stato
di Palermo in cui il Salomone-Marino tanto lavorò. L'ha
trovato recentemente Adelaide Baviera Albanese, diret-
trice dell'Archivio: e lo pubblica, muovendo tutto un di-
scorso che si può consi erare definitivo per la verità sto-
rica del caso, nel numero 8 (ottobre-dicembre 1964) dei
"Nuovi quaderni del meridione" editi dalla Fondazione
Mormino.
Il centro drammatico del documento è nella istanza di
don Cesare Lanza che il decreto reale riporta per dichia-
rarla accolta, e precisamente nel punto in cui don Cesare
racconta che "essendo andato al castello di Carini a videre
la baronessa di Carini sua figlia come era suo costume
trovò al baron de Carini suo genniro molto alterato per-
ché havia trovato in quel mismo istante nella sua camara
Lodovico Vernagallo suo innamorato con la detta baro-
nissa, onde detto exponente mosso de iusto sdegno in
compagnia di detto barone andorno et trovorno li ditti
baronissa et suo amante serrati insieme et cussì subito in
quello stanti foro ambo doy ammazati". Coi tempi che
corrono, forse è opportuno chiarire che nella sua camera
cioè in camera da letto, don Vincenzo aveva trovato l'in-
namorato di sua moglie e non, come secondo grammatica
dovremmo intendere, il suo. Ma questo marito tradito lo
vediamo finalmente nella sua debolezza e viltà, nella sua
malizia. Né la storia in versi, né i documenti raccolti dal
Salomone-Marino, né il documento rinvenuto a Madrid
erano finora riusciti a gettare luce su questo personaggio:
che potevamo indovinare umanamente squallido e inetto,
ma ora lo abbiamo quasi fisicamente presente. Natural-
mente, non c'è da credere alla casualità; né ci vuole
grande immaginazione per vedere l'effettivo svolgimento
dei fatti. Don Vincenzo avrà sospettato o saputo la tresca
della moglie, ne avrà parlato al suocero. Don Cesare pro-
babilmente si sarà mostrato incredulo, e il La Grua si sarà
dato a tessere l'agguato, a fornirgli la prova. Ed ecco che
riesce a chiudere gli amanti in camera: e manda a chia-
mare don Cesare. Questi arriva, seguito da una mano di
armati: e passionale e violento qual era, con tanta più col-
lera quanto poco aveva creduto al tradimento della figlia,
irrompe nella camera a vendicare, ad uccidere. Non da
solo, forse: ché il Vernagallo avrebbe potuto difendersi;
ma ci riesce difficile immaginare don Vincenzo al suo
fianco. Comunque, per le leggi d'allora era opportuno la-
sciare intendere che don Cesare avesse ucciso la figlia, e
don Vincenzo l'amante della moglie.
O forse c'è stata una accurata premeditazione da parte
di entrambi, il genero già da prima in accordo col suocero
a stabilire le modalità dell'agguato e della vendetta. Ma
questo nessun documento potrà mai dircelo.
Si chiude dunque, col saggio di Adelaide Baviera Alba-
nese, il problema della verità storica del caso Resta però
aperto quello filologico: poiché ci deve essere stato, alla
base delle circa quattrocento varianti raccolte dal Salo-
mone-Marino, un testo primigenio, dovuto a un poeta
colto e di eccezionale sensibilità. E l'errore del Salomone-
Marino è stato molto probabilmente quello di cercarlo
nella memoria del popolo, mentre più fondatamente
avrebbe dovuto cercarlo tra i manoscritti delle bibliote-
che.
1965
IL CAPITANO CONTRERAS
"Sono nato nella nobilissima città di Madrid il 6 gen-
naio 1582... I miei genitori si chiamavano Gabriele Guil-
lén e Giovanna Roa y Contreras, quando andai al servizio
del Re avrei voluto assumere il cognome di mio padre,
ma poiché nelle mie carte figurava il nome di Contreras
che ho portato fino ad oggi e col quale sono conosciuto
da tutti, non fu possibile correggere l'errore che era stato
commesso. Così, nonostante sia stato battezzato come
Alonzo de Guillén, mi chiamo Alonzo Contreras." Al
nome che sarà del più puro e sottile poeta spagnolo del
nostro secolo, le "carte" avevano dunque sostituito un
nome corrusco e guerriero. Avevano deciso, direbbe Savi-
nio. Avevano segnato un destino.
Alonzo Contreras, dunque; e poi (non ci voleva
molto) de Contreras. Ma del suo nome lampeggiante e
dell'avventurosa sua vita non avremmo saputo nulla, se
intorno ai cinquant'anni l'uomo di spada non avesse im-
pugnato la penna per lasciarne memoria: questa Vida del
capitan Alonso de Contreras che, scoperta da un erudito
spagnolo al principio di questo secolo e pubblicata in una
rivista accademica, ebbe la ventura di essere riscoperta da
Ortega y Gasset (sulla cui edizione condusse la tradu-
zione in italiano Ettore De Zuani: Avventure del capitano
Alonzo de Contreras).
Il libro s'appartiene da un lato alla letteratura picaresca
spagnola; e dall'altro, anche se in tono minore, a quella li-
nea segnata dalla Vita del Cellini, dalle Memorie del Casa-
nova, dai romanzi e dai testi autobiografici di Stendhal. E
insomma uno di quei libri che, pur nella sfera di una sim-
patia irresistibile, suscita dapprima nel lettore una specie
di antagonismo, quasi il sentirsi destinatario di una sfida a
distanza: la sfida a raggiungere la verità del documento
(l'altra verità del documento, dopo Pirandello) al di là
della mistificazione di cui lo scrittore sembra avvertirlo. E
così al piacere della lettura si accompagna, ad accrescerlo,
una vellelta dmndagine, un puntiglio, per così dire, archi-
vistico: che nei più si spegne a lettura finita, e restando
soltanto un'ombra di insoddisfazione (e in questo caso il
fenomeno ha analogia con quello che si verifica nella let-
tura dei romanzi polizieschi); mentre a un livello più alto
e meno numeroso di lettori, la sollecitazione non finisce
con la prima lettura, si fa passione e in certi casi mania, e
specialmente quando ad un certo punto inevitabilmente si
converte da antagonismo in complicità (e a questo punto
il lettore-detective arriva quando i riscontri documentari
lo convincono che la mistificazione dello scrittore sol-
tanto consisteva nel fargli intravedere una mistificazione;
e vinta dunque la sfida, o almeno pareggiata, niente più
lo trattiene dal cedere alla simpatia: ed è proprio il mo-
mento in cui diventa vittima, ma felicemente, della misti-
ficazione).
Ecco dunque il capitano Alonzo de Contreras, parente
un po' picaro di Benvenuto Cellini, di Giacomo Casa-
nova, di Henry Beyle. E uomo di natali poveri ma non
ignobili, dice. E c'è da credergli, se a quei tempi i suoi ge-
nitori ebbero cura di mandarlo a scuola. E sapeva già leg-
gere e scrivere quando ammazza a colpi di coltello, come
per glUOCO, un compagno di scuola. Condannato a un
anno di confino, se ne va ad Avila in casa di uno zio. Pas-
sato l'anno, torna a Madrid. Il padre morto, la madre con
otto figli a carico di cui lui era il maggiore. E subito si ar-
ruola tra le truppe che vanno in Fiandra. A tredici anni
abbraccia dunque il mestiere delle armi. Lascia Madrid al-
l'alba del 7 settembre 1595: e da quel momento la sua vita
è quella del soldato; ma con una parentesi ascetica, di ro-
mitaggio, che non si dà la pena di motivare se non con
una certa stanchezza e una generica devozione alla Madre
di Dio. Il personaggio, dice Ortega, rappresenta una va-
rietà estrema di quella splendida fauna che era allora la
soldateria europea; ma lo splendore, che era poi tutto nel-
l'azzardo, nell'imprevidenza e nella rapacità, aveva un ro-
vescio di miseria quale nei testi del Ruzante e nelle inci-
sioni del Callot e del Villamena.
Parte della sua vita avventurosa e tempestosa il Contre-
ras la passò scorrendo i mari, e il Mediterraneo prevalen-
temente: con lunghi soggiorni a Malta, a Palermo e in al-
tre città portuali. Ed è appunto il suo soggiorno a Pa-
lermo che ci muove al puntiglio del riscontro, in partico-
lare riguardo a due fatti che nelle sue memorie hanno ri-
lievo. Il primo è un avvenimento storico: la spedizione
che possiamo dire punitiva della squadra navale spagnola
e maltese contro una città della costa berbera. Secondo
Contreras, la squadra approdò alla spiaggia africana, sotto
le mura di una città chiamata Maometta, "la vigilia della
Madonna di agosto del 1605, all'alba", secondo i cronisti
siciliani l'anno è il 1606, e il giorno è proprio quello della
Madonna di mezzagosto. Per quanto riguarda lo svolgi-
mento dei fatti, non c'è discordanza tra il racconto di
Contreras e le annotazioni dei cronisti. Più drammatico e
ricco di dettagli il capitano; il quale, da vero figlio della
fortuna, per un caso non perì, come tanti altri, nella scia-
gurata spedizione: aveva addosso un'armatura a maglie
d'acciaio che gli aveva prestato il nostromo della sua ga-
lera, e perciò costui si adoprò a salvarlo. Ma nessuno
tentò di salvare l'adelantado di Castiglia, che comandava
la spedizione, e il gran maestro di campo Andrea de Silva.
Particolare curioso: come il Contreras per l'armatura fu
salvato, l'adelantado per l'armatura perì. "La predetta
rotta, - dice il cronista siciliano, - si ebbe per non osser-
varsi l'ordine militare. Sia ciò esempio ad ogni conduttor
d'esercito."
La sera del 18 agosto, le galere entravano nel porto di
Palermo con i fanali coperti in segno di lutto "Soprag-
giunta la notte, - dice il Contreras, - vennero a prendere
il corpo dell'adelantado e lo portarono in una chiesa di cui
non ricordo il nome, con molte torce, e là lo lasciarono in
attesa di trasportarlo in Spagna"; e il cronista siciliano:
"sbarcaro il corpo dell'adelantado loro generale e lo posero
nella chiesa di Santa Maria della Catena. E l'istesso giorno
andò a seppellirsi alla Casa Professa del collegio, con
pomposa compagnia di cavalieri e titolati". L'unico punto
di discordanza: e c'è da domandarsi come mai il Contreras
abbia dimenticato il solenne funerale dell'indomani, e che
il comandante fu sepolto in una chiesa palermitana.
Il secondo avvenimento, nel soggiorno a Palermo del
capitano, è del tutto personale ma non privo di implica-
zioni pubbliche: stava, con la sua compagnia ricostituita
acquartierato a Monreale; e ogni giorno scendeva a Pa-
lermo montando "una cavallina grassa e robusta" che un
fornaio gli prestava. "In quel tempo io ero proprio un bel
giovanotto, che facevo invidia a tutti. Nella strada per
dove passavo venendo da Monreale abitava una signora
spagnuola, oriunda di Madrid, vedova di un uditore. Era
bella e non povera, e tutte le volte che passavo la vedevo
alla finestra; io la salutavo e mi parve che ella rispon-
desse. Seppi chi era e le mandai un'ambasciata..." La bella
vedova non avea pretese: "si sarebbe accontentata di una
sedia di due servi e di due serve", e si vede che a Palermo
era ailora più facile avere servi e serve che sedie. Il capi-
tano, senza perder tempo, se la sposa: ma in segreto poi-
ché il vicerè duca di Feria aveva gettato l'occhio sulia ve-
dova per darla in moglie al duca d'Arcos. Nientedimeno.
Ma qui insorge qualche dubbio sulla veridicità del rac-
conto: tenendo presente che la disgraziata spedizione av-
venne a metà agosto, calcolando il tempo che ci sarà vo-
luto a ricostituire la compagnia e quello che sarà trascorso
in sguardi, ambasciate e visite alla bella vedova, fino alla
decisione di sposarsi, arriviamo certamente a una data che
va ben oltre l'8 settembre di quell'anno, giorno in cui il
duca di Feria lascia dèfinitivamente Palermo. Comunque,
dopo appena un anno e mezzo di matrimonio, il capitano
acquista certezza che la moglie lo tradisce; si mette alle
poste e "una mattina la loro mala fortuna volle che li sor-
prendessi assieme; e morirono. Che Dio li abbia in gloria
se in quell'estremo istante si pentirono". Stranamente, e
sì che erano attenti a quello che gli spagnoli facevano in
città, i cronisti palermitani non registrano l'avvenimento.
Un così bel delitto d'onore non poteva poi sfuggire, se ve-
ramente si fosse verificato. O il capitano si sbaglia d'an-
no, o il suo delitto d'onore non c'è stato. D'altra parte, sa-
rebbe curioso che uno spagnolo di allora si qualificasse
marito tradito soltanto per raccontare la spacconata dei
due omicidi e dell'impunità. Perché dopo l'omicidio, e
non per fuggire, il capitano se ne andò in Spagna: ad illu-
strare certe sue pretensioni a Corte.
Tornato a Palermo qualche anno dopo, sente dire che
il vicerè d'Ossuna vuol farlo arrestare. "Senza curarmi di
sapere se ciò era vero, e non lo era, mi imbarcai alla volta
di Malta... Correva l'anno 1611." Altre avventure lo atten-
dono, e poi il più fortunato incontro della sua vita: quello
con Lope de Vega, alle cui solìecitazioni forse dobbiamo
queste vivissime memorie. Per parte sua, Lope fece del ca-
pitano il protagonista della commedia Il re senza regno, e
gliela dedicò. "Con uomini come vostra grazia, - gli disse
Lope offrendogli la sua casa, - si deve dividere a metà an-
che il mantello." Erano della stessa razza.
1969
IL VESCOVO A TINDARI
"Tindari, mite ti so." Ma tutt'altro che mite è il luogo, e
anzl di orrida bellezza, a precipizio di un mare che sbava
sale nelle gore morte. E del resto già nelle due ultime sil-
labe del verso Quasimodo dichiarava la soggettività della
sensazlone, del rlcordo: h so ora, qui, lontano, in altra terra
in esilio, nell'ansia precocei monre. Condizione e stato d'a-
mmo che un altro poeta, circa duecentottanta anni prima
appunto da Tindari e contro Tindari lamentava: luogo d'esi-
ho che Sl confaceva al dolore, alla disperazione, alla morte.
"Ntra na muntagna sulitaria alpestra, / Sutta celu gnilatu
ed arla impura, / Sentu sulu parrari a la finestra / Li venti
chi ammmazzanu li mura. / Di niuri olivi, e pallida inestra
/ E la campagna ngramagghiata e scura: / Giu chi cca s'a-
gnuna, e Sl siquestra / Quannu sta visitusa la natura.''I Da
questa ottava, detta "magistrale", il poeta sviluppava poi
(eserclzio allora non inconsueto) altre otto ottave, ciascuna
delle quali, nell'ordine, finiva col corrispondente verso della
prima: sicché abbiamo una poesia di nove ottave in cui agli
orrorl lnvernah e infernali del luogo si aggiungono pardi, ti-
gn, lupl, 11 Fato avverso, la Parca dura, la Peste crudele.
Il poeta Sl chiamava Simone Rau e Requesenz, dei du-
chi della Ferla. Imparentato coi Ruffo, ad uno di questa
famlglia dobbiamo la postuma edizione delle Rime di
Monstgnor Don Stmone Rau stampata in Venezia per li
Gluntl nel 1672. E in una poesia diretta a costui, Jacopo
di nome, studioso di astronomia, troviamo l'unico mo-
mento in cui nebbie ed angosce si dissolvono dal Tindaro;
forse per la primavera che sopravviene, forse per allettare
l'amico e parente al viaggio: e gli promette un aprile rl-
dente, un mare tranquillo e che "vedran qui chiara qual
più dubbia stella / tue canne occhiute".
Tindari era allora una delle residenze del vescovo di Pat-
ti. E tra il giugno del 16S8 e il settembre dell'anno succes-
sivo il Rau fu titolare di quella diocesi: a conclusione della
sua vita, e dopo una vicenda dolorosa e vergognosa.
Spenta sanguinosamente la rivolta capeggiata da Giu-
seppe d'Alesi, a placare il popolo palermltano ancora m-
quieto e diffidente il vicerè marchese di Los Vélez dichia-
rava, il S settembre del 1647, il ritorno della nobiltà a sen-
timenti di fedeltà e di affetto verso le maestranze citta-
dine, e ristabilita dunque la "pace Universale". Ma a rista-
bilire la pace ci voleva pane e buon governo; e anche se ll
popolo ormai prostrato non si sarebbe più sollevato a mi-
nacciose turbolenze e soltanto avrebbe covato rancore e
rimpianto per quelle giornate d'agosto in cui aveva avuto
in pugno la vittoria e ingannato e tradito aveva a sua
volta tradito il d'Alesi, l'inquietudine e lo spirito di ri-
volta si erano come per contagio appresi a persone e
gruppi della borghesia e della nobiltà stessa.
Se ne ebbe un primo avviso, che però stava tra lo scher-
zo e la follia, il 23 settembre: si trovò in via della Loggia un
cartello che invitava il popolo a convocarsi armato, la dome-
nica seguente, in piazza Marina; e lì sarebbe comparso un
cavaliere che l'avrebbe guidato alla liberazione della patria.
Fu identificato, o così si credette, il cavaliere: un Carlo Ven-
timiglia, che confessò sotto tortura e fu impiccato.
Qualche mese dopo veniva rivelata uncospirazione
repubblicana. Vi erano implicati un vecchio soldato di
mare divenuto amministratore della vedova principessa di
Roccafiorita, un prete, uno scrivano e un curiale: e face-
vano disegno di creare un reggimento democratico del quale
sarebbe stato pnmo doge Francesco Baronio Manfredi, ge-
suita passato al clero secolare, autore tra l'altro di un dot-
tissimo libro su Palermo, che a quel momento languiva
nelle carceri dell'Inquisizione, per ragioni che nessuno fi-
nora si è dato la pena di indagare. I cospiratori furono im-
plccatl, il Baronio trasferito a Pantelleria.
Altre cospirazioni (e qualcuna probabilmente provocata
da agenti del governo) furono scoperte, altre persone imnic-
cate. Finché, alla fine del 1649, fu rivelata dal gesuita Giu-
seppe Spucches l'ultima della serie, e la più preoccupante.
Ne facevano parte i giureconsulti Lo Giudice e Pesce, e no-
bili delle prime famiglie del Regno. Tra questi, il conte di
Mazzarino: che ebbe la sciagurata idea di confessarsene col
De Spucches; ma c'è il sospetto che l'abbia fatto apposta
considerando tra l'altro che poteva anche confessarsi con Si-
mone Rau, allora parroco, che della congiura partecipava
Informato dell'avvenimento, don Giovanni d'Austria venne
a Palermo: e subito quei congiurati che non erano riusciti a
scappare furono processati e giustiziati. Il solo Simone Rau
che era stato preso assieme agli altri, ebbe diverso tratta-
mento: fu mandato in Spagna a discolparsi presso il re, ma
da Filippo IV ebbe, invece che una punizione, la nomina a
regio cappellano e abate di Santa Goce, e tornava una de-
cina d'anni dopo in Sicilia vescovo di Patti.
Non pare si possa dubitare delle testimonianze che indi-
cano il De Spucches come delatore, traditore dell'amicizia e
della fede; ma il sospetto che Simone Rau si sia salvato e sia
stato premiato per una rivelazione della congiura contempo-
ranea o precedente a quella del gesuita, è di tutti i cronisti e
gli storici. Non basta, a spiegare la sua immunità, il fatto
che godesse di una influente parentela. Non era da meno il
conte di Racalmuto, e fu decapitato. Che poi alla immunità
Sl agglungessero gli onori, sembra un po' tropt)o Né ci si
può fermare all'ipotesi che una volta arrestato abbia rivelato
i nomi dei complici: troppo poco, considerando le proce-
dure del tempo nei riguardi della reità contro lo Stato Pro-
babilmente il Rau era fin dal principio un agente provoca-
tore, e fu arrestato soltanto per un giuoco d'apparenza, e
mandato a Madrid anche per salvaguardarlo da eventuali
vendette. Certo è che da quel momento nella fredda prezio-
sità dei suoi versi, nel giuoco di petrarchismo e gongorismo,
si insinua una vena di dolore, di vergogna, di colpa. Le sue
notti sono piene di immagini dogliose, di fantasmi spaventosi,
torbidi e negri i giorni; nemica la natura, e luttuosa. "Ahi
che nel duro e spaventoso agone / Ove di mia salute Sl con-
tende, / Mi condanna la colpa, e mi riprende, / Che l'infer-
nale accusator m'oppone. / Ahi dove il tempo? ove son l'o-
pre buone? / Or da un momento bilanciata pende / L'eter-
nità: né v'è chi mi difende, / Né v'ha chi il fallo scusi o chi
il perdone..." Questa ossessione di essere rimasto, di fronte
agli uomini, di fronte all'eterno, agganciato e sospeso nell'a-
zione di un momento, nell'errore, nella colpa; di aver tutto
perduto e di non poter nulla riguadagnare - e ci pare di ri;
sentire come un'eco, appena un'eco, di un dolore a noi plU
vicino: "Il dramma per me è tutto qui, signore: nella co-
scienza che ho, che ciascuno di noi - veda - si crede 'uno'
ma non è vero: è 'tantl', signore, 'tantl', secondo tutte le
possibilità d'essere che sono in noi: 'uno' con questo, 'uno'
con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser
sempre 'uno per tuttl', e sempre 'quest'uno' che ci crediamo,
in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce ne accor-
giamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso
sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciatl e
sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in
quell'atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe glu-
dicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla go-
gna, per una intera esistenza, come se questa fosse assom-
mata tutta in quell'atto!"
969
' Su una montagna solitaria alpestre, / sotto cielo gelato ed
aria impura, / sento solo parlare alla finesrra / I ventl che ml-
nacciano le mura. / Di neri olivi e pallida ginestra / è la campa-
gna ingramagliata e scura: / credo che qui si nasconda e si se-
questri / la natura quando sta in lutro.
DAL MONASTERO DI PALMA
"Stavano tutte le Sorelle radunate in ricreazione, e ra-
gionandosi del Signore, si disse come fra breve si sarìa
detto da lui: Ductus est Jesus in desertum. Alla qual cosa si
commosse un comune sentimento di volere seguire spiri-
tualmente il Signore in una di quelle bestie che trovò il
Signore in quel bosco solitario. Sicché vi fu chi disse: io
sono stata per l'addietro Capretta errante in ogni male,
bensi camblero mla sorte seguendo il Santo Romito come
mansueta pecorella tacita, e paziente ad ogni mia ripu-
gnanza... Altra rispose: ed io, Madre, confesso essere stata
nel male Lupo voracissimo; e voglio emendarmi se-
guendo il Santo Romito come umile Asinello, carican-
domi di tante mortificazioni per quanto carico va questo
glumento. A questa, Suor Maria Maddalena rispose: ed
io, quanto sono stata loquacissima Rana, tanto seguirò
emendata il nostro buon Romito, fatta per suo amore
muta e ritirata testuggine, facendo la mia tana nella terra
vilissima del conoscimento proprio, ove mi nasconderò ai
Piedi di Gesù Cristo. Velenoso serpente io sono stata, al-
tra soggiunse, e sarò per l'avvenire mesta Tortorella, pian-
gendo al piedi del Signore li miei peccati, unica causa
della sua amara morte, escludendo nella mia viduità l'af-
fetto di ogni altra creatura. Confessò d'essere stata Volpe
fugace, Maria Lanceata nostra sorella, e per seguire il Si-
gnore propose di divenire mansueto Coniglietto, il quale
per suo naturale raccoglimento congiunge il capo coi
piedi: così ella farà ritirandosi tanto in se stessa In un
santo raccoglimento fino a che giunti insieme questi due
estremi, cioè il suo cuore e Dio, stia come dormendo co-
gli occhi serrati a tutto ciò che sta nel mondo. Qui si sve-
gliò il Leone ferocissimo del mio cuore, e per miracolo di
Dio si compunse alquanto proponendo lasciar la sua fero-
cia con divenire Agnello, cambiando il suo ruggito in
muto silenzio, portando il mio cuore ove Iddio lo vuole,
che se egli mi meni al macello paziente vi andrò, sicut
agnus ductus ad occisionem. Così seguirono tutte di mano in
mano, destinandoci tutte vilissime bestie dietro il nostro
Santo Romito. E finita questa santa ricreazione, andò que-
sto stuolo di devoti animali a riporsi unitamente all'ovile
di Maria nostra Signora... Così in santo fervore si diede
principio alla nostra quaresima; e per isprone del nostro
interno la Madre Abbadessa ha fatto sopra questo alcuna
visibile dimostrazione; poiché avendoci portate tutte al
giardino, trovammo in un devotissimo luogo nostro Si-
gnore in età di anni trenta, vestito come appunto andava
per il mondo, stando sotto un albero mestissimo, seduto
con una mano alla mascella e con l'altra tenendo un faz-
zoletto. Poiché essendo movibile, ora lo poniamo in
luogo ora in un altro... e per la bellezza della faccia e
forma corporale ci fa veramente versare molte lacrime..."
E una pagina allucinante: e sui monasteri dice più di
quello che potevano immaginare o intravedere Diderot e
Manzoni; e di più tremendo. L'ha scritta suor Maria Cro-
cifissa della Concezione, dell'Ordine di San Benedetto, al
secolo Isabella Tomasi. Si trova in un volume di sue lettere
spirituali pubblicato a Venezia nel 1711. E diretta al fra-
tello Giuseppe Maria, chierico regolare, e porta la data
del 5 marzo 1675.
Suor Maria Crocifissa scrive dal monastero di Palma
Montechiaro, dove era entrata a quattordici anni e preso i
voti a diciassette. Il padre, che fu poi detto il duca santo,
aveva fatto edificare per lei il monastero: e vi entrarono
poi altre tre sorelle e la madre. Già era in fama di santità
lo zio, che giovanissimo era fuggito dal fidanzamento con
la nipote del vescovo di Agrigento e dai diritti di primo-
genitura, lasciando quella e questi al fratello minore Giu-
lio, il quale, dopo avere avuto otto figli dalla nipote del
vescovo, investiva il figlio Ferdinando dei titoli e dei beni
e con dispensa papale si separava dalla mo~lie: lui a far
vita da romito, lei nel monastero con le figlie. Giusta-
mente dice Gioacchino Lanza Tomasi, nel libro (suo e del
fotografo Enzo Sellerio) sui Monasterz e castelli siciliani
che "l'esperienza mistica dei Tomasi di Palma è un episo-
dio appartato nella storia di Sicilia... Un episodio estrema-
mente vigoroso, condotto con caparbia tenacia". Per due
generazioni, in quella loro remota terra di Palma, i To-
masi sono stati segnati da una vocazione mistica i cui ef-
fetti - sui loro corpi, sulle loro anime - ci riempiono di
spavento e di orrore più che le pagine di Sade e di Ma-
soch. E, insieme a un sentimento di rispetto, di venera-
zione, un senso di orrore misto a pietà dovevano provare
quei loro poveri vassalli di Palma: ed è toccante l'episodio
dei popolani che volevano impedire alla duchessa madre
di separarsi dal marito e di entrare nel monastero, sicché
dovette farlo di mattina presto, prima dell'alba (Andrea
Vitello, I gattopardi di Donnafugata).
E tuttavia, dal loro cupo e torbido misticismo si leva
un'ansiosa umiltà, una dedizione alla miseria e al dolore
degli altri, una volontà di alleviare e di senire. Il duca si
scopriva il capo quando parlava con qualsiasi persona,
"ancorché menoma servente o fameglio della sua corte"
non gradiva gli atti di ossequio e, per dimostrarlo, una
volta si mise in ginocchio di fronte a un vassallo che gli si
era inginocchiato; non volle mai comprare schiavi; non
amava che si scrivesse dei meriti della sua famiglia. Una
cantilena popolare, certamente venuta fuori a Palma dopo
la sua morte, enumera i suoi atti di carità, di amore verso
i vassalli: i due scudi lasciati nelle case degli ammalati, le
~nocciole regalate ai bambini, il generoso salario ai mura-
tori, la dote alle orfane, la farina alle famiglie povere... E
ugualmente ansiosa di servire era la figlia suor Maria Cro-
cifissa, che in convento voleva tenere un ruolo più da
conversa che da "signora" e tra le converse voleva essere
seppellita. Ma forse in questo loro farsi umili e servire, in
questo loro costringersi alla tolleranza e al rispetto, non
c'era minore sofferenza che nel flagellarsi a sangue, nel-
l'incidersi le carni coi nomi di Cristo e di Maria, nel dor-
mire sui sarmenti, nello strisciare la lingua a terra. Tant'è,
però, che in quel secolo atroce esercitavano il loro potere
incontrollato, le loro vaste prerogative, con un fervore di
carità talmente inconsueto da restare memorabile nel po-
polo di quella ancora amara terra di Palma.
Quasi tre secoli dopo, Giuseppe Tomasi scriveva Il gat-
topardo. A quella greve esperienza mistica che due genera-
zioni di suoi antenati avevano corso nel XVII secolo po-
teva g~lardare con spirito volteriano e stendhaliano: come
ad una follia e come ad una di quelle storie di passioni
che Stendhal avrebbe fatto rilegare a "dorso rosso". Sco-
prendo in un armadio fruste e cilizi, Tancredi s'inquieta,
"ebbe paura, anche di se stesso". Dice ad Angelica: "An-
diamo via, cara, qui non c'è niente di interessante". Ma
lui, Lampedusa, non ha paura. Ha bevuto in ben altre
cantine, è distaccato da ogni follia, da ogni passione - o
almeno sempre pronto a contemperare la follia con la sag-
gezza, la passione con lo scetticismo. "In quella stanza
Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al co-
spetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sem-
brargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere
sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva
sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio
esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue,
carne della sua carne..." Una esperienza mistica viene così
trasferita nella sfera della più parossistica feudalità, si ro-
vescia in quello che è appunto il suo contrario: l'amore ai
beni terreni, alle cose, alla roba.
Giuseppe Corbera è appunto il duca santo. Così come
ìa beata Corbera è suor Maria Crocifissa. E qui insorge
uno dei piccoli problemi onomastici e toponomastici del
Gattopardo. Perché ha mutuato questo nome a quello
della sua famiglia è evidente: i Corbera, famiglia estinta
erano statl signori di Santa Margherita Belice, paese che
nella fantasla di Giuseppe Tomasi si fonde a Palma Mon-
techiaro. Ma perché chiamare con quel solo nome, Cor-
bera, la beata Maria Gocifissa? Probabilmente pensò a
quella Eufrosina Corbera che, amante di Marcantonio Co-
lonna a Palermo e poi moglie di Lelio Massimo a Roma
provoco tragedie degne delle Cronache italiane di Stendhal.
Non senza ironia, forse nella sua immaginazione una fi-
gura della passlone mistica sostituì una figura della passione erotica.
1970
UNA ROSA PER MATTEO LO VECCHIO
In via Albergheria domandiamo a una donna dov'è la
via Matteo Lo Vecchio. Risponde che dev'essere un po'
più avanti, a sinistra. Per darci più sicura indicazione, gri-
dando domanda a una vicina se la via di Mattiu 'u Viec-
chiu non è più avanti, a sinistra. La vicina ripete il nome,
ci pensa su un momento, conferma. Pronunclato in dia-
letto, con quel di possessivo e con una inflessione in cui
ci pare di cogliere lontano timore e disprezzo, quel nome
fa uno strano effetto: come stessimo cercando una per-
sona viva, nel quartiere ben conosciuta ma indesiderata.
La via è poi un vicolo corto e stretto, fatto di tristis-
sime case; e una piuttosto antica, forse appunto quella del
Lo Vecchio. Meno oscuro, però, di quello vicino intito-
lato a Cagliostro: il vicolo in cui Goethe entrò in un po-
meriggio di aprile del 1787, per ingannare la vecchia ma-
dre del grande avventuriero.
Con la bolla Quia propter prudentiam tuam, nel 1097
Urbano II conferiva a Ruggero il Normanno e ai suoi
successori il potere della Legazia Apostolica sulla Sicilia
appena "liberata" dagli arabi. Tale potere consisteva nella
giurisdizione sulle cose ecclesiastiche da parte dei re di Si-
cilia: e veniva esercitato, supremamente, attraverso un
Tribunale detto della Regia Monarchia (denominazione in
cui si affermava e ribadiva la doppia potestà, temporale e
spirituale, del re: sia nell'interpretazione di Monarchia
come contrapposto a diarchia, sia nel significato medioe-
vale di diocesi). Unito al potere di nominare i vescovi
quello della Legazia, anche se non entrava nelle questioni
di fede, faceva del re siciliani quasi dei papi (o quasi degli
antipapi): e perciò più volte, nel corso dei secoli, la Curia
romana aveva tentato di negare l'autenticità della bolla o
di darne interpretazioni limitative; ma in difesa del privi-
legio si era formata in Sicilia una scuola giuridica tal-
mente agguerrita, intransigente e sottile che la bolla
"aveva assunto aspetto e sostanza di un vero e proprio
contratto non rescindibile unilateralmente". La bolla in-
somma era considerata dai giuristi siciliani come oggi, ro-
vesciandosi le parti, alcuni giuristi cattolici pare vogliano
conslderare il concordato del 1929
Sul punto, il conflitto più violento tra Curia romana e
Regno di Sicilia esplose il 22 gennaio del 1711. E per un
pugno di ceci che due guardie annonarie del comune di
Lipari (i cui nomi - Giambattista Tesorero e Giacomo
Cristò - dai brevi pontifici sono stati tramandati alla sto-
ria) prelevarono come tassa da un bottegaio che per conto
del vescovo li teneva in vendita. Era vescovo di Lipari
monsignor Nicolò Tedeschi, di recente nomina. E appena
appresa la notizia di quella esazione, secondo lui illegit-
tima, si accese "di sì vchemente furore, che divenendo
Mongibello di eccidi, eruttar parea fiamme di orrende mi-
nacce". A placarlo, le autorita comunali di Lipari ordina-
rono alle due guardie di restituire gli ottocento grammi di
ceci. Ma a monsignore non bastava la restituzione: voleva
che le autorità dichiarassero illegittima l'azione delle
guardie e gli rivolgessero pubbliche scuse. Al rifiuto, ful-
mmo sulle due guardie, quali violatori delle immunità ec-
cleslastlche, la scomunica maggiore
Il Tribunale della Regia Monarchia, cui le guardie fe-
cero ricorso, sospese il provvedimento di scomunica. Il
vescovo corse a Roma: e ottenne piena approvazione al
suo operato, una lettera che dichiarava incompetente il
Tribunale della Regia Monarchia e un'altra, diretta all'e-
iscopato siculo e con ordine di renderla pubblica, che ri-
badiva la stessa tesi. Ma per rendere pubblica la lettera, i
vescovi avevano bisogno dell'approvazione di quel Tribu-
nale stesso che la lettera attaccava. Alcum vescovl la chie-
sero (e naturalmente non l'ebbero), altri fecero presente
alla Santa Sede le conseguenze che la pubbhcazione della
lettera poteva portare (i più ingenui: poiché la Santa Sede
appunto le aveva calcolate); i vescovi di Catania, Girgentl
e Mazara la pubblicarono senz'altro. A questo punto, il
vicerè Carlo Antonio Spinola domandò al clero siciliano
più qualificato per dottrina un parere sulla controversia:
cinquantanove maestri teologi dichiararono legittima l'a-
zione del Tribunale e illegittime le pretese della Santa
Sede. Stampata e diffusa la dichiarazione, il vicerè fece se-
guire un bando in cui si dicevano nulli tutti gli atti di pro-
venienza estera non approvati dall'autorità regia. Il vescovo
di Catania reagì immediatamente: dichiarò nullo il bando
del vicerè e la dottrina in esso contenuta "temeraria, omda,
scandalosa e perniciosa". Il vicerè ordinò l'espulsione dal
Regno del vescovo di Catania; e subito dopo quella dei ve-
scovi di Girgenti e Mazara. Partendo, i tre vescovi decreta-
rono l'interdetto sulle loro diocesi e lanciarono scomuniche
contro giudici e ufficiali di polizia.
Intanto, per il trattato di Utrecht, Filippo V di Spagna
cedeva a Vittorio Amedeo II di Savoia il Regno di Sicilia.
Il nuovo re cercò di trattare con la Santa Sede una solu-
zione del conflitto soddisfacente per entrambe le parti. La
Santa Sede fu irremovibile: voleva la fine del privilegio. Il
conflitto si fece allora più violento. Nella sola diocesi di
Girgenti vennero a mancare (per arresto, espulsione e la-
titanza) settecentodiciannove ecclesiastici. Il clero era or-
mai diviso in "curialisti" e "regalisti", si parlava di "sci-
sma siciliano". Nelle diocesi in interdizione nascite, ma-
trimoni e morti non avevano più sacramenti: e la gente ci
si rassegnava.
Forse perché più acuto dello Spinola, forse perché favo-
rito dal sommuoversi di speranze e di energie che in Sici-
lia provocano i mutamenti di vertice, il vicerè conte Maf-
Nel giugno del 1718, in violazione del trattato di U-
trecht, gli spagnoli tornavano a impadronirsi della Sicilia.
Tornando alla vecchia politica, la Spagna, che nel 1711
non aveva ceduto alla Santa Sede, nel 1719 ne accettava le
condizioni. Per pacificare gli animi, ma più per riparare
agh errorl, gradualmente venivano revocati gli interdetti
ritirate le scomuniche. Ma molti uomini di cultura erano
già emigrati a Torino. Quelli rimasti in Sicilia venivano
allontanati o si allontanavano dalla vita pubblica. Ultimo
ad essere assolto dalla scomunica fu Matteo Lo Vecchio
Ma non dalla vendetta: e due colpi di archibugio mette
vano fine alla sua vita la sera del 21 giugno, davanti la
cattedrale.
fei portò la difesa del privilegio da un piano puramente Alla data 22 giugno
1719, il canonico Mongitore an-
giuridico a un piano culturale e rivoluzionario. Vennero nota nel suo diario che
al funerale, pagato da don Anto-
fuori uomini nuovi, una vera e propria classe dirigente nio Nigrì popolani e
ragazzi "si posero dietro il cadavere
quale mai la Sicilia aveva avuto (e mai, purtroppo fino ad con fischi e
dispreggi, crocitando e ridendo", sicché fu ab-
oggi, avrà) Corsero venature gianseniste, si ebbero più bandonato in strada.
Prelevato da alcum facchini, fu la-
stretti rapporti con la cultura francese. Un clero che cre- sciato dietro la
chiesa di Sant'Antonino: ma i frati dell'at-
deva in Dio e prOpugnava il diritto dello Stato contro la tiguo convento
uscirono armati di bastone, inseguirono i
temporalità della Chiesa veniva affermandosi contro il facchini, ne raggiunsero
uno solo e costui costrlnsero a ca-
vecchio clero isolano sostanzialmente ateo, avido di bene- ricarsi del cadavere.
Facchino e fratl cercarono di scan-
fici, intento a scrutare e ad avallare prodigi e supersti- carlo al cimitero dei
poveri, ma il romito che lo custodiva
zioni. rifiutò di accoglierloonde i portatori, salito il muro die-
Ad eseguire mandati di arresto o di deportazione con- tro la chiesa, lo
portarono ivi; e vedendo in tal luogo un
tro il clero più riottoso, ci voleva un ufficiale di polizia pozzo secco, in
esso denudato gettarono il cadavere". E
particolarmente zelante e particolarmente refrattario per conclude "Fu da tutti
ammirata la divina giustizia contro
temperamentO o per convinzione, alle scomuniche. E così un dispreggiatore della
Chiesa e ordine ecclesiastico".
venne fuori Matteo Lo Vecchio: forse dai ranghi della po- Ma non da noi. E
mentre guardiamo la casa che forse
lizia ordinaria chiamato alla fiducia del giudice Antonio fu sua ricordiamo lo
straziante racconto di Faulkner che
Nigrì Fiducia bene accordata: ché Matteo Lo Vecchio fu s'intitola Una rosa per
Emily: di Miss Emily che per anni
inflessibile esecutore, affrontando scomuniche, esecra- dorme accanto al
cadavere dell~uomo amato. Una rosa per
zione, impopolarità. Il canonico Mongitore, del partito Matteo Lo Vecchio: per
questo cadavere che esattamente
"curialista", afferma che facilmente i preti lo corrompe- da un secolo e mezzo
dorme, in fondo al pozzo secco, ac-
vano e scansavano l'arresto: ma il numero stesso dei preti canto al cadavere
dello Stato.
arrestati contraddice l'affermazione, e l'odio di cui il Mon-
gitore lo gratifica, e la vendetta di cui fu vittima.
1969
IO, VILLABIANCA
"Or essendo io, conte marchese di Villabianca e di Bel-
forte, Francesco Maria Emmanuele, portato assaissimo
dalla natura alla lezione delle istorie, e molto più di
quelle della Siciha, ove fortunatamente sortii i natali...": e
dunque venticinque volumi in folio, manoscritti, di un
Diano palermitano che va dal 1743 al 1802; quarantotto
volumi, parte manoscritti parte a stampa, di Opuscoli paler-
mitani, una Stona ricercata di S cilia ne' suoi passi oscuri e
diffichi; un vastissimo ragguagho sulla città, nella sua to-
pografia e nei suoi monumenti; i cinque volumi della Sici-
lia no~ile (ora in ristampa anastatica presso la libreria anti-
quaria Forni di Bologna). E tanti altri studi, relazioni,
elogl; e una blbliogra~ia, infine, dei propri scritti.
Tanta mole di manoscritti e di stampa fa pensare che il
marchese altro nella sua vita non abbia fatto che scrivere
scrivere, scrivere. Anche se visse lungamente, anche se
precoce fu la sua vocazione alle istorie. Eppure ammini-
strò sagglamente i suoi beni, in un'epoca in cui altri del
suo ceto sperperavano fortune favolose e si indebitavano
fino ai capelli; e fu piuttosto attivo nelle cariche pubbli-
che che tenne. Come fece dunque a scrivere tanto se non
per forza di monomania, di follia; strappando ore al
sonno e minuti ai pasti; annotando ogni fatto che cadeva
sotto il suo occhio e ogni nuova che arrivava al suo orec-
chio ovunque si trovasse, per strada o al senato, al circolo,
al caffè, in portantina, in diligenza? E davvero c'è nel suo
occhio, a guardare il ritratto in bassorilievo che è sulla sua
tomba, un che di folle: ma di una follia quieta, appagata -
così come nell'occhio di Madame de Sévigné. Solo che
Madame de Sévigné era tanto più acuta, tanto più sottil-
mente feroce e insomma tanto più intelligente del mar-
chese; e a tal punto la pagina del Villabianca è priva di
spirito, anche là dove la situazione, l'aneddoto, natural-
mente avrebbero dovuto provocarglielo, che a volte viene
al lettore la tentazione di riscriverla in parodia dei grandi
testi epistolari e memorialistici francesi. E non sarebbe
difficile: ché la Palermo della seconda metà del Settecento
offriva, nel bel mondo in cui il Villabianca si muoveva,
nella materia che il Villabianca registra, tanto di svagato,
d; libertino, di paradossale, e incredibili contrasti, impre-
vedibili fermenti; e personaggi straordinari quali i vicerè
Caracciolo e Caramanico, l'avventuriero maltese Giuseppe
Vella, inquisitori massoni e preti giansenisti, il poeta Gio-
vanni Meli, il giacobino Francesco Paolo di Blasi. E ca-
bale, congiure, tumulti. E una costellazione di belle
donne, ciascuna delle quali consegnava alla poesia di Gio-
vanni Meli, che ce li tramanda, una particolarità, un
vezzo, un sorriso, uno sguardo. Ma il marchese non indul-
geva a simili leggerezze: delle donne tiene d'occhio la
virtù e la dote, mai la bellezza; ogni fatto traduce nelle ri-
valutazioni o svalutazioni patrimoniali che provoca: na-
scita, morte, matrimonio, monacazione, adulterio. Mai un
accento di divertimento, comicità, ironia; e quando, rac-
contando un caso, dice che c'è da ridere, è proprio il
punto in cui non c'è niente da ridere.
Sarebbe bello fare di quest'uomo austero e vano un
personaggio: frugare sotto i suoi panni di testimone im-
peccabile e impassibile, cercare i suoi istinti, i suoi senti-
menti, i suoi cedimenti; sorprenderlo nell'alcova e nel
confessionale, nel dubbio, nel baratto, nelle piccole e
grandi viltà, nei rimorsi. "Io, conte marchese di Villa-
bianca": io, la virtù; io, la dignità di una classe che la di-
gnità va disperdendo; io, la Sicilia in quello che la Sicilia
ha di buono, di giusto, di devoto. Soprattutto di devoto: a
Dio, alla Chiesa, al Re, alle leggi, ai patti. E che niente si
muova, che nessuna Istituzione venga soppressa, mutata,
interpretata con nuovo spirito. L'Inquisizione c'è da se-
coli: che resti. Ma sua maestà (che Dio guardi) ha man-
dato vicerè un leguleio napoletano infranciosato, un liber-
tino, uno che se la prende coi nobili, con la festa di santa
Rosalia, col Santo Uffizio: ed ecco che costringe quei po-
veri prigionieri, rei in materia di fede, ad uscire da una
prigione dove avevano ricetto e vitto, e fa bruciare docu-
menti e immagini, cancellare emblemi. "Croci gigliate ad-
dio, spade addio e ulivi; / Non conto fate più, nulla voi
or siete": così il marchese saluta gli stemmi dell'Inquisi-
zione che Caracciolo fa abbattere. Pena e malinconia
quasi crepuscolare, per l'atroce mondo che se ne va, e un
odio tenace, inflessibile, che non si smaglia nel riconosci-
mento del plU plCCO1O merito, verso un uomo che di me-
riti ne ebbe tanti. E crediamo che la più grande soddisfa-
zione della sua vita il marchese l'avrebbe avuta se avesse
potuto leggere in Casanova quel tratto che riguarda Ca-
racciolo. "Fui soprattutto felice di vedere a Spa il mar-
chese Caraccioli che avevo lasciato a Londra. Aveva otte-
nuto un congedo dalla sua corte e si divertiva a Spa. Era
un uomo veramente intelligente, generoso, umano, com-
prensivo, amico dei giovani, uomini e donne indifferente-
mente, ma senza eccesso": quell'indifferentemente sarebbe
stato degustato dal marchese nel senso più maligno, de-
dito com'era a registrare tutti i reati che allora si dicevano
"di nefando".
Ma reazionario com'era, vanitoso, impietoso, sadico di
un sadismo spesso inconsapevole qualche volta compia-
ciuto, sempre pronto a catoneggiare, non molto intelli-
gente, fanatico delle istituzioni dei privilegi della sua
classe e della "sicilianità", il Viliabianca trova nel Diario
palermitano il suo riscatto e la sua gloria. Legato al pas-
sato, ha dato credito all'avvenire che pure gli appariva in-
quieto e torbido. Di fronte a una clamorosa impostura, di
cui ampiamente riferisce (quella dei falsi codici arabi del
Vella), così conclude: "Impostura questa che ben vi sta al
secolo che appo noi sta correndo col vanto di secolo illu-
minato sebbene io sempre l'ho tenuto per oscuro, piutto-
sto maidicente e torbido. Affé più sicuri corsero i passati
tempi..."; ma l'oscurità del presente non lo fa disperare
dell'avvenire. Che poi vagheggiasse un avvenire in cui i
re avrebbero riguadagnato i loro troni e i regicidi e gli
usurpatori sarebbero finiti alle forche, in cui i suoi pari
avrebbero ripreso la forza e la virtù antiche, in cui la fede
sarebbe stata difesa con l'antico rigore e la cosa pubblica
preclusa all'intrusione di mercatanti e gabelloti, non ha
poi molta importanza se, vaneggiando del passato e dei
principi piu retrivi, egli consegnava al Diario la più og-
gettiva immagine del presente, la testimomanza plU di-
retta di più che mezzo secolo di vita palermitana e sici-
liana. Malgré lui, la testimonianza di una fine, una imma-
gine di morte. Della sua classe, della "sicilianità".
La morte storica della classe cui il Villabianca fanatica-
mente s'appartiene è impressione che il Diario continua-
mente alimenta attraverso notiiie di singole morti, che
cadono con tale frequenza da far pensare a una morìa che,
come in un racconto di Poe, sia penetrata nella splendida
e chiusa cittadella della nobiltà. Ma non tutti, sotto la
penna del marchese, semplicemente muoiono o cessano di
vivere o mancano di vita. Le notizie funebri vengono re-
gistrate con una infinità di variazioni: passò di questa
vita, passò all'altra vita, passò all'eterna vita, passò a mi-
glior vita, passò nel numero dei più, passò agli anni
eterni, passò agli eterni riposi, cedette al comun fato, soc-
combette al Fato di natura, venne all'occaso dei suoi
giorni, dal soggiorno qui temporaneo di noi mortali è
passato all'eterno... E c'è da chiedersi se la morte venisse
così graduata dal marchese per giudizio o per affetto; se i
lontani o i cattivi morissero semplicemente e i vicini o i
buoni venissero destinati a una vita migliore, eterna, ripo-
sante.
Per cui, non volendo relegarlo nella semplice morte e
non riuscendo a vederlo negli eterni riposi (e se mai lo
vedremrno chino sui suoi quinterni in folio, a registrare i
modi di rlposo dei suoi pari), diciamo che il Villabianca
venne all'occaso dei suoi giorni il 6 febbraio del 1802. Bo-
naparte, glà primo console, stava per affermare che non
c'era bisogno dell'opposizione. Il marchese ne sarebbe
stato deliziato.
LA CORDA PAZ~A
Il 4 ottobre del 1811 al Real Teatro Carolino di Pa-
lermo fu rappresentata in gala, per l'onomastico del prin-
cipe ereditario Francesco, l'opera La scuola degli amanti
owero Così fan tutte, libretto di Lorenzo da Ponte, musica
di Wolfgang Amadeus Mozart. L'insuccesso fu totale e
definicivo: per centotrentasei anni le cronache del teatro
musicale palermitano non registreranno altre rappresenta-
zioni pubbliche di opere mozartiane. "Non andavano a
sangue", dice il Serio.
Fanatico di Mozart, il barone Pietro Pisani aveva visto
cadere un'opera che a Palermo avrebbe dovuto trovare nel
pubblico quella "consonanza spirituale", come dice il
Paumgartner, che altrove si era spenta con la rivoluzione
francese; e forse appunto perciò era stata scelta. E indub-
biamente sdegnato della irrimediabile sordità dei suoi pari
a quella divina musica, qualche anno dopo fece eseguire a
sue spese ll flauto magico ammettendo solo un altro spet-
tatore: un tedesco di nome Marsano (Marsan probabil-
mente) di cui sappiamo che teneva negozio in Palermo,
suonava il clarinetto e conosceva un po' di latino, se in la-
tino grossamente aveva tradotto il libretto dell'opera, of-
frendo così al Pisani la possibilità di ricostituirlo "in versi
italiani maestrevolmente conformati alla frase musicale".
Una simile realizzazione del teatro (che in Europa mi
pare sia stata poi ripetuta da un re folle) avrebbe scon-
La cordapazza r.a ha77.a 1025
volto nei persiani di Montesquieu quella nozione del tea-
tro alla quale con mente vergine erano arrivati. E nello
stesso Montesquieu. E in Pirandello che effettualmente la
conferma, e anzi come in un prisma la scompone e poten-
zia. Ma il barone Pisani ben altre nozioni stava per scon-
volgere: e se la sua concezione del teatro tanto era lontana
dalla "invenzione" del teatro che Montesquieu attribuisce
al perslam - apparentemente per celia ma sostanzialmente
per la ragione stessa che Borges pone come la sconfitta di
Averroè ("voleva immaginare un dramma senza sapere
che cos'è un teatro") e che sarà la vittoria di Pirandello -
la sua concezione della vita molto si avvicina a precorrere
quella di Pirandello appunto. In due battute pirandelliane
si può infatti riassumere la visione della vita, e il modo di
vivere e di operare, del barone Pisani: "Deve sapere che
abbiamo tutti come tre corde d'orologio in testa. La seria,
la civ:le, lapazza"; "E via, sì, sono pazzo! Ma allora, per-
dio, Inginocchiatevi! Inginocchiatevi! Vi ordino di ingi-
nocchiarvi tutti davanti a me - così! E toccate tre volte la
terra con la fronte! Giù! Tutti, davanti ai pazzi, si deve
stare così!" La prima è del Berretto a sonag~i, cioè di una
commedia preclsamente localizzata e che assume e scio-
glie il tema della follia nella "tipicità" della vita siciliana
delle sue regole; la seconda dell'Enrico IV, in cui il tema
trascorre dal caso clinico all'esistenza stessa.
Pietro Pisani nacque in Palermo nel 1761. Fin da ra-
gazzo ebbe vivissima inclinazione alla musica, e senza
maestro, contro la volontà del padre che l'avviava invece
agli studi di legge, assiduamente la studiò. Si addottorò
all'università di Catania in diritto civile e "prese a battere
le vie del foro", ma di controvoglia. A ventitre anni sposò
Maria Antonia Texeira Albornoz, che ne aveva dician-
nove, "bella della persona, di cuore ingenuo e pudico, ma
spesso combattuto da insanabile gelosia, a cui certo dava
egli alimento": di lei Giovanni Meli canterà la voce, gra-
devole linda spirante desiderio e dolcezza. Ne ebbe otto
figli, tra i quali egli predilesse il secondo, Antonino, che
gli pareva realizzasse con seria e profonda applicazione
quella sua sempre viva ma ormai dilettantesca passione
per la musica.
Antonino aveva appena pubblicato un lodatissimo sag-
gio sul dritto uso della musica strumentale quando, nel l815,
moriva. Poiché "nelle sue passioni toccava gli estremi,
quantunque agli atti e ai modi sembrasse di una stoica
impassibilità" Pietro Pisani tentò il suicidio. Salvato dai
familiari, totaimente mutò modo di vivere. E si sarebbe
del tutto chiuso nel lutto, così come fino alla morte ne
portò l'abito, se i suoi doveri di funzionario non l'aves-
sero, forse fortuitamente, portato alla passione per l'ar-
cheologia. Ufficiale della Real Segreteria di Stato e, dal
1820, segretario del luogotenente generale principe di
Cutò, Pisani volse tutta la sua attenzione agli scavi che gli
inglesi Harris ed Angell facevano a Selinunte: in quanto
funzionario e in quanto dilettante, come allora si diceva,
di antiquaria. Fermò l'emigrazione delle metope rinve-
nute, dando in compenso agli archeologi le copie in gesso
che si trovano al Museo Britannico; e si diede a un pa-
ziente lavoro di ricostruzione e interpretazione dei pezzi,
pubblicandone poi i risultati in una Memoria sulle opere di
~cultura in Selinunte che venne fuori, con un certo ritardo,
nel 1824, quando già era preso da un'altra passione, più
profonda e durevole. "Mi è stato - diceva poi - confidato
dalla Prowidenza un deposito prezioso, la ragione dei po-
veri matterelli, ed io devo loro appoco appoco restituirla."
La Prowidenza si manifestò attraverso il marchese Pietro
Ugo delle Favare, nuovo luogotenente del Regno, che il
10 agosto del 1824, ritenendo che "per disposizione di
cuore e per esattezza nell'adempimento del dovere" il Pi-
sani rispondesse alle intenzioni del re e alle sue premure,
lo nominava deputato alla Real Casa dei Matti.
Quando la lebbra si ritira dall'Europa e restano vuoti
quei miserabili edifici, dice Michel Foucault, in cui il
male era mantenuto ma non curato, ecco che quelle strut-
ture d'esclusione tornano a funzionare per la pazzia. E un
lebbrosario in cui si trovano ancora lebbrosi è quello che
a Palermo, fino al 1824, è chiamato ospizio dei matti. "Lo
abbandono, nel quale trovai per verità questo luogo, se
dal mlel occhi non fosse stato veduto, da chiunque udito
lo avessi, lO non lo avrei giammai creduto. Esso la sem-
bianza di un serraglio di fiere presentava piuttosto, che di
abltazlone di umane creature. In volgere lo sguardo nel-
l'interno dell'angusto edificio, poche cellette scorgevansi
oscure sordide malsane: parte ai matti destinate, e parte
alle matte. Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente am-
mucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Al-
cum di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla
nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, vari coperti di
cencl, altrl in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di
bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e
sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pati-
vano. Estenuati gl'infelici, e quasi distrutti gli occhi te-
nean flssl In ognl uomo che improvviso compariva loro
Innanzi; e compresi di spavento per sospetto di nuovi af-
fanm, in Impetl subltamente rompeano di rabbia e di fu-
rore. Quindi assicurati dagli atti compassionevoli di chi
pietosamente li guardava, dolenti oltre modo pietà chie-
devano, le margini dei ferri mostrando, e le lividezze delle
percosse di che tUttO il corpo avean pieno. Quai martiri
oh Dio, e quanti! Eppure altre angosce incredibili e vere
quel meschinl sopportavano. Oltre degli accennati mali
varie infermità pestifere vedevansi alle loro membra ap-
plccate; polché si facean con essi insieme convivere gli
etici, i lebbrosi, e tutti coloro che da sozzi morbi cutanei
eran vizlatn"
Il primo provvedimento del Pisani fu quello di far ca-
dere le catene e di ristorare quei disgraziati con "cibi ri-
creativi" e "soavi liquori": e "parea in quel punto, che la
follia avesse nelle loro menti ceduto il luogo alla ra-
gione". Poi diede mano, in base a un regolamento da lui
compilato (Istruzioni per la novella Real Casa dei Matti, Pa-
lermo 1827), ad un radicale rinnovamento dell'istituzione:
e a tal punto che non fu più una istituzione. Già il regola-
mento era abbastanza avanzato rispetto a quel tempo ed
al nostro (se lo si applicasse integralmente, oggi, i mani-
comi italiani non sarebbero così tremendi come sono).
Ma è in effetti un documento burocratico in cui il mar-
chese delle Favare che lo approva non può essere coin-
volto in quella che Basaglia dice "mancanza di serietà e di
rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e
a tutti gli esclusi" cui il Pisani era andato accomunandosi.
Insomma: se le sue carte dicono dell'istituzione, la sua
vita e la sua opera totalmente la negano. Spesso firmava
le sue lettere qualificandosi come il primo pazzo della Si-
cilia; e di un pazzo che aveva ucciso uno dei custodi, ad
ammonimento di questi, fece fare il ritratto con questa
iscrizione: "Vera effigie del Beato Giovanni Liotta da Aci
Reale pazzo furioso il quale spinto dall'ira celeste uccise
con un pezzo di canna infradicita il suo custode che vo-
leva bastonarlo". Saggio al punto da riconoscersi folle, e
abbastanza folle da ritenersi tra i folli il più saggio, in
questa contraddizione diede vita ad una comunità armo-
niosamente articolata ed attiva, irripetibilmente realizzò
un'utopia, un'opera d'arte, un teatro. "Riesce opportuno
di combinare con loro, dirò così, delle continue scene di
teatro": ma sulla base della sincerità della fedeltà del non
mancar giammai di parola né di mai occultare la verità.
Michele Palmieri, siciliano in esilio, in quei suoi vivis-
simi souvenirs di cui Stendhal e Dumas si servirono, anno-
tava: "Nel paese più arretrato d'Europa, c'è il manicomio
più avanzato d'Europa". Ma il fenomeno era tutt'altro che
incongruente e contraddittorio: appunto per l'arretratezza
del paese la funzione di un "meccanismo d'esclusione" fi-
niva con l'apparire sommamente ingiusta e ingiustificata
agli occhi di un uomo pietoso e consapevole, tanto
estremo nelle passioni quanto lucido nell'analizzarle,
quale il Pisani. La "corda civile" rimaneva bloccata da se-
coli; e il funzionamento della "corda sena" andava ormai
in sincronia allo scatenarsi della "cordapazza". Più tardr,
il principe di Lampedusa parlerà di una follia siciliana:
ma il barone Pisani ne aveva già avvertita coscienza, se
dentro una tanto vasta area di follia ritagliò il solo luogo
in cui si potesse ricostituire la ragione.
BRIGANTAGGIO NAPOLETANO
E MAFIA SICILIANA
nale, indipendenza possibile ad uno Stato secondario, ric-
chezza economica, prosperità commerciale, morale pub-
bhca, dovlzla generale". Né era poi lampante, come soste-
neva il capitano Cava. la diversità e distinzione tra la "po-
htlca reazlone armta e il comune brigantaggio: e già il
generale José Borjcs, venuto con l'illusione di dirigere la
reazlone armata, si era trovato nella tragica condizione di
non potcr distinguere in Carmine Crocco, ed in altri della
stessa specle, il sentimento legittimista dalla vocazione a
delinquere. Lo sguardo meditativo che il Cava invocava
non poteva essere che quello dello storico o di un uomo
capace di vivere dentro la tempesta degii avvenimenti
nell'Immediato pericolo del]a guerriglia feroce, con una
seremta e spregludicatezza di giudizio, una noncuranza
una leggerezza pcrsino, pari a quella di Paul-Louis Cou-
rier nel 1806. quando l'esercito francese si trovò ad affron-
tare una situazione identica a quella che affrontava l'eser-
CltO plcmontese dopo il 1860. Courier con la sua lliade, in
quella iliade di guai; Courier che scrive quelle deliziose
lettere che con delizia le signore cui erano destinate leg-
geranno nei salotti di Parigi. "Il popolo, vedete, è imper-
tmente; questi bricconi di contadini si mettono a tu per
tu COI vmcltori d'Europa. Quando ci prendono, ci bru-
clano con la magglor grazia possibile" (da Reggio Cala-
brla, il 15 aprile del 1806). "La nostra situazione era triste.
Non avremmo potuto muoverci, se non avessimo incon-
trato Massena che veniva dall'assedio di Gaeta. Allora
SlamO tOmatl SUI nostri passi, facendo da avanguardia a
questo piccolo esercito e conducendo contro gli insorti la
plU brutta di tutte le guerre. Ne uccidiamo pochi, e ancor
meno ne catturiamo. La natura del paese, la conoscenza e
l'abltudme fanno sì che, anche se arriviamo su loro di sor-
presa, facilmente ci sfuggono; ma non noi a loro. Quelli
che prendiamo, li impicchiamo agli alberi; quando loro ci
prendono, Cl bruciano con tutta la dolcezza che possono"
(da Mlleto, il 2 ottobre). "Impiccammo un cappuccino a
San Giovanni in Fiore, e una ventina di poveri diavoli
che avcvano più l aspetto di carbonai che d'altro. Il cap-
puccino, uomo di spirito, parlò molto bene a Reyner.
Reyner gli diceva: 'Voi avete predicato contro di nol'.
Egli si difese: le sue ragioni mi parevano abbastanza
buone" (da Scigliano, il 21 agosto). Gli insorti, i ribelli:
non li chiama mai banditi o fuorilegge, e mai li mette su
un piano morale diverso da quello in cui lui e Massena e
l'esercito della repubblica francese si muovono. Le loro ra-
gioni gli sembrano abbastanza buone. Non tanto buone
quanto quelle che porteranno l'intelligenza francese a bat-
tersi per la libertà dell'Algeria, ma abbastanza buone.
Quest'uomo che preferirebbe stare nei salotti del Fau-
bourg o tra i codici della Laurenziana e che pure non di-
sdegna il secondo mestiere di chef d'escadron, cui la repub-
blica l'ha chiamato, se non per il fatto che diventa cattivo
e non ride più, preso com'è dal rovello di ammazzar gente
che non conosce e che non gli ha fatto né bene né male;
quest'uomo è il risultato di una civiltà (e di una rivolu-
zione) di cui, mezzo secolo dopo, né il generale Borjes né
i generali piemontesi né gli intellettuali italiani che, per
usare una espressione di De Sanctis, si avviluppavano
nella sfera brillante della nazionalità, avevano effettuale
nozione. E si può dire di più: non c'è ancora oggi, a qual-
siasi livello, un italiano che si senta di chiamare "ribelle"
l'altoatesino che spara sui carabinieri e dà di tritolo ai tra-
licci della corrente elettrica. E sarà magari, l'altoatesino
terrorista un nazista: ma certamente esprime una rea-
Z!ne poiitica non confusa con grassazioni e sequestri di
persona, come invece accadeva nella reazione delle pro-
vince napoletane all'esercito di Murat e a quello di Vitto-
rio Emanuele.
Una considerazione che s'impone è poi questa: che la
storiografia sul banditismo politico è a tutt'oggi di estra-
zione meridionale, mossa cioè da una passione locale, da
una coscienza e responsabilità, per così dire, etnica. Da
Croce a Nitti, da Lucarelli a Doria, da Oddo a D'Alessan-
dro a Pedio a Molfese: tutti meridionali. Da questa specie
di monopolio storiografico su una materia che implica al-
meno l'ombra di una "legittima suspicione" e che, inevi-
tabilmente, risente pure del concorso romantico di un'Eu-
ropa intesa a vagheggiare nel brigante la "pianta uomo"
discende la tendenza ad estrarre dal fenomeno un carattere
quasi univoco di rivolta sociale, se non addirittura di rivo-
luzlone, oscuramente compresso, inarticolato, non ade-
guatamente mnescato insomma, dentro un ordine di fatti
dispiegato in senso legittimista, sanfedista, reazionario. E
non che Sl voglla qui sostenere una tesi contraria, cioè che
nell'endemico banditismo meridionale, e anche nei mo-
mentl Irí CUI è stato catalizzato dalla politica reazionaria,
non siano ravvlsablll elementi di inquietudine sociale
tutt'altro. Solo che non bisogna mai dimenticare che ii
banditlsmo, polltico quanto si vuole, appunto è stato
strumento, sempre, della politica padronale ed ecclesia-
stlca plU reazlonaria.
Lasciando da parte il periodo dell'occupazione francese
del Regno di Napoli, in cui il brigantaggio viene assunto
totalmente alla causa legittimista e sanfedista, involgendo
nel trono e nella Chiesa l'idea della indipendenza nazio-
nale e quindi, in un certo senso, quella della libertà (e che
pOI i brlganti non riescano a riadattarsi, almeno alcuni
nella restaurazione, è un fatto in cui giocano i tempera-
menti Individuali e le acquisite abitudini all'autorità e al-
l'arbltrio da un lato, i deteriori machiavellismi del go-
verno restaurato dall'altro); lasciando da parte, dunque, il
perlodo di cui è stato umanissimo e svagato testimone
Courler, fermiamoci a considerare il brigantaggio che
aglta dopo il 1860 il vero e proprio Regno di Napoli in
confronto a quello che infesta la Sicilia negli stessi anni.
In Sicilia ci sono le solite bande armate, senza dubbio raf-
forzate dai disertori della leva obbligatoria e dalla confu-
sione del trapasso dei poteri; ma non c'è assolutamente
un brlgantagglo che possa dirsi politico nel senso della
reazione borbonica. Una forma di brigantaggio politico in
Slclha verrà a prodursi molto più tardi, quando la banda
Gluhano si rendera dispomblle per esecuzioni intimidato-
rle e terroristlche mandate dalla reazione agraria. La stessa
rivolta del 1866, e la conseguente dispersione nella cam-
pagna, dopo la repressione, degli elementi che più si
erano compromessi nella rivolta, nemmeno segnò 11 sor-
gere di un conato di banditismo politico. Benché i pie-
montesi avessero tenuto per responsabile lo stesso monsi-
gnor D'Acquisto, arcivescovo di Monreale, la rivolta del
'G6 altro non fu che una sollevazione popolare, della città
e del circondario di Palermo, vagamente alimentata dai ri-
sentimenti del basso clero e da elementi mafiosi non an-
cora assestati nel nuovo corso delle cose: un movimento
che "dal suo primo iniziarsi alla sua distruzione restò ace-
falo", come acutamente dice un anonimo testimone dei
fatti. Se il movimento veramente fosse stato disegnato a
livello di monsignor D'Acquisto e degli aristocratici che
furono arrestati nella repressione, non possiamo dire che
avrebbe avuto altra condotta e altro esito, ma certo
avrebbe lasciato altre tracce e testimonianze.
Come mai, dunque, non nasce un brigantaggio politico
in Sicilia nonostante l'aperto disinganno succeduto, nello
spirito pubblico, agli entusiasmi suscitati da Garibaldi?
La ragione principale crediamo sia da ricercare nel "sici-
lianismo", cioè in quel complesso di sentimenti e di risen-
timenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli ave-
vano più o meno efficacemente contrastato ogni attentato
ai privilegi del Regno di Sicilia e, nell'ultimo periodo, la
t)olitica unitaria (di unione al Regno di Napoli) dei Bor-
boni. Elemento importante del "sicilianismo" era l'isti-
tuto dell'Apostolica Legazia, per cui lo Stato siciliano de-
teneva delega di poteri ecclesiastici e religiosi: e ne di-
scendeva il carattere non diciamo progressista, ma in un
certo modo laicista del clero (e più di una memoria regi-
stra la sorpresa dei garibaldini a trovarsi accanto preti e
frati). E dentro il "sicilianismo" si agitava la formazione
di una categoria sociale, se non di una classe, che appros-
simativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più
esattamente, di cui è campione il Sedara del Gattopardo: la
quale categoria vedeva nel parlamentarismo, o almeno
nella macchina elettorale, quelle chances che lo Stato dei
Borboni non offriva e non prometteva. In forza del "sici-
nrnlazza La corda pazza 1035
lianismo", insomma, le frange legittimiste e sanfediste si
riducevano in Sicilia a pochi funzionari e manutengoli del
regime borbonico, e ai più maldestri e ingenui per di più
A Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, c'erano
invece un'aristocrazia e una burocrazia cristallizzate in-
torno alla corte borbonica; un clero direttamente legato
alla Curia romana; una classe borghese (sempre approssi-
mativamente parlando) meno pronta e spregiudicata di
quella borghese-mafiosa, la quale aveva capito che tutto
stava per cambiare appunto perché niente cambiasse e che
l'entrare nel Regno d'Italia, abdicando a certi privilegi au-
tonomistici, avrebbe accelerato il passaggio di consegne
dai gattopardi agli sciacalli su una realtà destinata per
molti anni ancora alla immobilità. In conclusione: identi-
ficando il "sicilianismo" in un corpus piuttosto confuso e
contraddittorio di privilegi nazionali e di classe (e com-
presi tra gli uni e gli altri quelli dell'Apostolica Le~azia)
di tradizioni, di costumi, di abitudini ritenuti perfetti e
superiori (e siamo nella dimensione della follia siciliana
che tuttora esiste ed esercita un suo fascino anche sui non
siciliani), non è del tutto azzardato affermare che la mafia
ne fosse il risultato più conseguente al momento dell'U-
nità d'Italia (e oltre) e che addirittura riflettesse echi di
una rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria
e da ciò la sua funzione in senso nazionale-unitario e il
venir meno di quelle condizioni che davano luogo al bri-
gantaggio nelle province napoletane. Giustamente dice
Hobsbavvm: "La nuova classe dominante dell'economia
agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori citta-
dini, scoprirono un modus vivendi con il capitalismo set-
tentrionale". Una classe di uguale formazione, che non
aveva alcuna ragione di temere "la trasformazione del Sud
in una colonia agricola del Nord commerciale e indu-
striale", una classe così pronta e spregiudicata e refrattaria
ai motivi ideali della legittimità e della fede, non esisteva
nel napoletano: per cui i briganti continuarono in Sicilia
a fare i briganti, e portarono lo Stato italiano a patteg-
giare l'ordine pubblico con la mafia stessa.
Queste considerazioni valgono, crediamo? a splegare
come le vaghe aspirazioni sociali riscontrabill nel rigan-
taggio diciamo napoletano, o soltanto in alcuni capi, si
agitassero dentro il contesto di una fazione molto plU ar-
retrata e reazionaria (oltre che effettualmente inutile in
quanto di causa persa) della mafia siciliana: e questa sarà
la caratteristica di ogni brigantaggio politico, fino a Salva-
tore Giuliano (il quale, politicamente sollecltato dalla
mafia, fu dalla stessa mafia spento quando essa trovo asse-
stamento nella democrazia post-fascista). Ma d'altra parte,
il confronto del brigantaggio napoletano nel periodo suc-
cessivo all'Unità con quello che si svolse in Sicilia negli
stessi anni serve a dare a quello napoletano la distinzione
di politicità che il capitano Cava auspicava.
19G8
VERGA E LA LIBERTA
"Il paragone del serpe che depone la spoglia è omai
vecchio arnese retorico, e pure non ne trovo di meglio a
significare il villano che, durante la messe, dà un calcio
alla mitezza dell'indole, alla tranquillità abituale, al ri-
spetto verso le classi più rispettate, e assume il ghigno fe-
roce, il linguaggio a iil di rasoio, gli atti provocatori di un
demagogo Il villano quando si reca a mietere porta con
se l'aslno, 1l cane, la moglle o una parente, e se non ne ha
ne fitta qualcuna; guarda dall'alto al basso, insulta, pro-
voca, satlrlzza sul vmo, sul pane, sul companatico che im-
bandisce il proprietario del fondo, e pure non cessa dal
mangiar cinque volte, e dal bere ventiquattro in un
giorno; e a spese del proprietario deve mangiare anche la
moglie, che spigola pel marito, e il cane che in un mese si
rifocilla delle astinenze di un anno, e l'asino che spesso è
legato in modo da sbocconcellare i covoni. Il padrone
sputa amaro come il veleno, ma guai se sbocchi in un
rimprovero, in una rimostranza, in un semplice avverti-
mento: il mietitore alza la voce, risponde agro e superbo,
e, slegando l'aslno, s'Incammlna a partire: e allora il pa-
drone a supplicarlo, e quasi quasi a chiedergli scusa.
Quando passa qualcuno per quei viottoli, uomo o donna,
prete oappello, si alza un sonorissimo concerto di urli
tramezzo ai quali si armonizza una sfuriata d'ingiurie... Se
poi passa uno sbirro, povero lui! Più non son urli, ed in-
giurie, ma una tempesta di fischi e di pietre."
Così Serafino Amabile Guastella nell'introduzione ai
~anti popolan del circondario di Modica (Modica 1876). E
allo stesso Guastella dobbiamo la trascrizione di un canto
della messe, cioè della mietitura, che è il più straordinario
documento, il più diretto, in cui ci si possa imbattere rela-
tivarnente al contadino siciliano qual era nel secolo scorso
e fino alla seconda guerra mondiale: qual era effettiva-
mente, sotto le apparenze di una religiosa rassegnazione
all'immutabile destino. E vale la pena riportarla per in-
tero, a farla conoscere al di fuori della cerchia degli spe-
cialisti in cui finora, crediamo, è rimasta:
Quant'è bedduu bon campari
Primau metri, pu~u pisari:
Lu pisari cu lu metri,
Picchí l'uomuunn~è ri petri.
- No, ri petri nun è l'uomu,
Lu lumiuni nun è uovu.
Nun è uovu lu lumiuni,
Nun è fàuci lu zappuni.
Lu zappuni nun è fauci,
A li mastri pugna e càuci.
Pugna e càuci a li mastrazzi,
Li linzolaun subisazzi.
Li bisazziun sulinzola,
Fàuci r~oru vola vola.
Vola vola ni stampara,
Cutiddati a li nutara.
'E nutara cutiddati,
Li cutedda nun suspati.
Nun suspari li cutedda,
Lu panaruunn~è crivedda.
La criveddaunn~è panaru,
Ni li detti è lu massaru.
Lu massaru è ni li derti,
Nun sutenci li mulietti.
E li tenci hannu li spini,
Lampi e trona a li parrini.
'E parrini lampi e trona,
C'è cu canta c'è cu sona
C'è cu sona c'è cu canta
C'è cu scippa c'è cu cianta
C'è cu cianta c'è cu scippa
Ni la messi nun si sicca.
Nun si sicca ni la messi
La massara fila e tessi.
Fila e tessi la massara
Latri tuttl'i mulinara.
Mulinara tutti latri
Cunzirioti santipatri.
Santipatri cunzirioti
Facci giarni li batioti.
Li batioti facci giarni,
Lu capraru ha peni ranni.
Peni ranni ha lu capraru,
La muggeri ci arru6baru.
Ci arrubbaru la muggeri,
Arsl tuttl 'I cavaleri.
Cavaleri arsi tutti,
Cu ni scorcia cu ni futti.
Cu ni futti cu ni scorcia
Lu lampiuni nun è torcia.
Nun è torcia lu lampiuni
Lu staffieri è cascittuni.
Cascittuni è lu staffieri
Tira cutri è lu valvieri.
Lu varvieri è tira cutri,
Ll )Imentl nun su' putri.
Nun su putri li jimenti
Lu scursuni 'unn'è sirpenti.
Lu sirpenti 'unn'è scursuni
Lignu tuortu 'u muraturi.
Muraturi lignu tuortu,
Lu scarparu è veru puorcu.
Veri puorci li scarpara
Culi apierti li sculara.
Li sculara culi apierti
Li scursuna 'un su' lucerti.
Li lucerti 'un su' scursuna
Buttanieri 'i cucuzzuna.
Cucuzzuna buttanieri,
Pisi fàusi li cianchieri.
Li cianchieri pisi fàusi,
Li cammisi nun su' càusi.
Nun su' càusi li cammisi,
Li sbirrazzi tutti 'mpisi.
Tutti 'mpisi li sbirrazzi,
Li piccieri nun su' tazzi.
Nun su' tazzi li piccieri,
Lu spizziali mancia e seri.
Mancia e seri lu spizziali,
La fasola nun è sali.
Nun è sali la fasola,
La sasizza 'un è stiggiola.
La stiggiola 'un è sasizza,
La palumma nun e )Izza.
Nun è jizza la palumma,
Ciaramedda senza trumma.
Senza trumma ciaramedda,
Nun è vacca la vitedda.
La vitedda nun è vacca,
Nun c'è donna senza tacca.
Senza tacca nun c'è donna,
Nun c'è omu senza corna.
E li corna su' gintili,
Nesci marzu e trasi aprili.
Trasi aprili e nesci marzu,
La quaggiata 'unn'è tumazzu.
Lu tumazzu 'unn'è quaggiata
N'arrivau la bon'annata.
Bon'annata n'arrivau,
E la francia s'accapau.
S'accapau, finíu la francia,
Lu viddanu sciala e mancia.
Sciala e mancia lu viddanu,
Oru e argentu m stu clanu.
Ni stu cianu oru e argentu,
Vola vola comu 'u vientu.
Vola vola fàuci fina,
La campagna è tutta cina.
Tutta cina è di laúri,
Pi laurari a lu Signuri:
Lu Signuri pi laurari,
Quanr'è bedduu bon campari.
Tutrutrú tutrutrú,
Quattru scuti un puorcu fu.
E fu un puorcu quattru scuti
Poviri e ricchi siemu curnutil.
E il canto della scatenata anarchia contadina, dell'oclio
verso ogni altra classe e categoria sociale, della devasta-
zione di ogni valore, anche del valore stesso cui il mondo
contadino dava, e continuava a dare, tragico tributo: la fe-
deltà della donna, l'onore. Al Guastella pare di trovarsi di
fronte ad un altro uomo; ad un uomo ben diverso - nelle
esigenze, nel comportamento, nel linguaggio - da quello
che per tutta un'annata ha curvato la schiena nel lavoro di
zappa, ha pagato le decime e i balzelli, ha tremato davanti
ai padroni e ai campieri, si è inginocchiato davanti al
prete, ha Implorato bottegai e mastri di fargli credito. Ma
è, in realtà, l'uomo che poteva venir fuori dalla pelle del-
l'altro: solo che Serafino Amabile Guastella, nobile di
Chiaromonte Gulfi, non è in grado di accorgersene; di ca-
pire che SOttO l'apparente mitezza, la tranquillità, il ri-
spetto non poteva non nascondersi l'affilato disprezzo, il
bruciante rancore, la feroce rivolta. Le condizioni del brac-
ciale di campagna erano tali, e tale la considerazione in cui
gli altri - &l nobile allo sbirro, dal prete al conciapelli -
lo tenevano, che viene perfettamente in taglio questo
passo di La Bruyère: "Si vedono certi animali selvaggi
maschi e femmine, in giro per le campagne, neri, lividi,
nudi e bruclatl dal sole, curvl sul terreno che rimuovono e
scavano con una straordinaria ostinazione. La loro voce
però, è quasi del tutto articolata e quando si drizzano, mo-
strano un viso umano: ché in effetti sono degli uomini, e
a notte sopragglunta si ritirano nelle loro tane, dove vi-
vono di pane nero, di acqua e di radici. Essi risparmiano
agli altri uomini la fatica di seminare, di arare e di racco-
gliere per vivere; e meritano così di non mancare di quel
pane che hanno seminato".
Giustamente Courier avvertiva: "badate che egli parla
delle persone felici, di quelle che avevano del pane"; e lo
stesso avvertimento vale per quanto riguarda il contadino
siciliano: dai tempi di La Bruyère fin quasi ai nostri.
Il decurionato civico di Bronte, cioè il consiglio comu-
nale, riteneva infatti felici le persone che si trovavano
nella condizione descritta dal La Bruyère. Il raccogliere le
galle di quercia e i fichi selvaggi, i capperi, i funghi, le
mignatte e le rane, non solamente per uso proprio ma an-
che per farne "discreto mercimonio, a prezzo vantag-
gioso" era, secondo i dec~rioni, nell'anno 1842 di nostra
redenzione, il massimo di felicità cui il bracciale disoccu-
pato potesse aspirare. I periodi di occupazione del brac-
ciante agricolo erano quelli della semina, della prima e
della seconda zappa, della mietitura e trebbiatura: non più
di cento giorni all'anno, e con un salario miserevole, di
solito anticipato dai padroni, in grano e legumi, al princi-
pio dell'inverno, e poi per tutta l'annata scontato col la-
voro: spietata forma di usura generalmente esercitata dai
proprietari fino a pochi anni addietro. Per il resto, al brac-
ciante non restava che dedicarsi all'industria: ché indu-
~trioso o industriale era chiamato chi a quel "discreto mer-
cimonio" si dedicava.
Ma non pare che gli interessati sentissero la felicità di
una tale condizione, come i dect~rioni (non soltanto quelli
di Bronte) credevano, e ne troviamo esempio in un tal
Carmelo Giordano che, uscendo da una taverna, pronun-
ciava queste, per lui fatali, parole: "Se gira la palla, le
bocce ed i cappellucci devono andare per aria", che il
commissario Cacciola, trovandosi per caso a passare, sentì
e nel giusto senso interpretò: "Riflettendo che quelle pa-
role - se gira la palla - possono alludere a cambiamento
di politica, e quell'altre - le bocce ed i cappellucci per aria
- sembrano riferirsi alle teste degli uomini attaccati al
Governo, ho creduto mio dovere fare arrestare..." (gen-
naio 18S0).
La fame è cattiva consigliera. E se al Giordano ispirava
quel feroce vagheggiamento delle teste (con cappelli) per
aria, in Gaetano Spitalieri provocava più selvagge rea-
zioni: "Rosalia Catania in Spitalieri per sua querela a ca-
rlco del proprio figlio Gaetano Spitalieri, si dava ad
esporre che questi, la sera del giorno 11 suddetto mese,
contro i sentlmenti di natura osava percuoterla a pugni e
gettandola a terra la malmenava pei capelli, ciò pel mo-
tivo di non aver trovato cosa da mangiare. L'incolpato
Spltaherl nel suo interrogatorio nemmeno sapeva negarlo
ma si assillava dicendo che era ubriaco" (febbraio 1850).
Su gente come questa cadevano contravvenzioni (gene-
ralmente per evasioni al balzello del macinato e quasi
sempre convertite in carcere), pignoramenti per usure
non pagate, tassaziom arbltrarie, accuse di furto (di solito
per legna raccolta nei boschi ducali o comunali). Senza
dire delle llbertà sessuali che i galantuomini si concede-
vano con le ragazze del popolo: e basti considerare che
nel 1853 c'erano a Bronte (su circa 10 000 abitanti) 38 ba-
lie comunali, nutrici cioè dei bastardi di ruota
Per dare un'idea di come si procedeva nelle tassazioni,
stralclamo da due ricorsl: "Come si poté tassare il suppli-
cante per once due e tarì quindici quando i primari del
paese, e speclalmente i decurioni, possessori di gran vi-
gneti e possessioni si trovano tassati per pochi baiocchi,
mentre dovevano essere significati in una grandiosa
somma?" e "Giuseppe Minio Basciglio viene di sentire di
essere stato conslderato nel ruolo del vino e vino mosto.
Riescirebbe troppo lunga voler raccontare la industriosa
maniera per vivere la vita con la sua famiglia. Non pos-
slede vlgneti, non possiede terre adatte all'agricoltura, ma
solo si adatta a raccogliere e vendere delle erbe sarvatiche
m quella pubbhca piazza come ognuno potrà farne atte-
stato" (aprile 1853). E quando i guardaboschi della si-
gnora duchessa di Bronte o quelli del comune sorprende-
vano qualcuno a far legna, erano guai grossi: un'am-
menda pari al valore dell'albero vivo e non della legna, e
non meno di un mese di carcere. Si trovano registrate am-
mende fino a 39 ducati: somma che il bracciante non riu-
sclva a buscare In tutta una vita.
La signora duchessa stava in Inghilterra: e a Bronte, ad
amministrare il gran feudo che graziosarnente Ferdinando
(III di Sicilia, IV di Napoli, I delle Due Sicilie) aveva do-
nato all'ammiraglio Nelson, stavano, come già il loro pa-
dre, Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ma ormai così
bene ambientati da poter essere considerati notabili del
paese Ed è a loro che si deve il particolare rigore che Ga-
ribaldi raccomandò a Bixio per la repressione della rivolta
di Bronte e che Bixio ferocemente applicò: alle sollecita-
zioni del console inglese, a sua volta dai fratelli Thovez
Sui fatti di Bronte dell'estate 1860, sulla verità dei fatti,
gravò la testimonianza della letteratura garibaldina e il
complice silenzio di una storiografia che s'avvolgeva nel
mito di Garibaldi, dei Mille, del popolo siciliano liberato:
finché uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Ra-
dice, non pubblicò nell"'Archivio Storico per la Sicilia
Orientale" (anno Vll, fascicolo 1, 1910) una monografia
intitolata Nino Bixio a Bronte; e già, a dar ragione delle
cause remote della rivolta, aveva pubblicato (1906, "Ar-
chivio Storico Siciliano") il saggio Bronte nella nvoluztone
del 1820. E non è che non si`sapesse dell'ingiustizia e della
ferocia che contrassegnarono la repressione ma era come
una specie di "scheletro nell'armadio"; tuttl sapevano che
c'era, solo che non bisognava parlarne: per prudenza, per
delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsl ln fa-
miglia, non si lavano addirittura.
E non è che il Radice avesse della storia del risorgi-
mento e del garibaldinismo una visione refrattaria a
quella che il De Sanctis chiama la sfera brlllante della li-
bertà e nazionalità: soltanto era mosso dalla "carità del
natio loco", gratuitamente marchiato d'infamia dagli
scrittori garibaldini, e dall'umana simpatia e pietà per
quell'avvocato Lombardo che Bixio sbrigativamente ave-
va fatto fucilare come capo della rivolta: ed era stato Sl 1
capo della fazione comunista, ma della rivolta, e special-
mente dei sanguinosi eccessi in cui sfociò, non si poteva
considerare più responsabile dei suoi avversari della fa-
zione ducale.
44 La corda pazza La corda pazza 1045
Ma mentre andava raccogliendo testimonianze, ricordi,
documenti, il Radice veniva acquistando, almeno nei ri-
guardi di Bixio, traboccante indignazione morale, la-
sciando a noi, suoi lettori di oggi, un elemento di più per
quella indignazione storica in cui involgiamo il presente
in quanto frutto del passato, di quel passato. Ed è vero che
si adopera, il Radice, a non sottrarre del tutto la figura di
Bixio al mito "lampo e fulmine", alla leggenda di "Ajace
dell'età nostra"; ma quando scrive, con giusto e fine giu-
dizio, che "la rivoluzione gli fu propizia per salvarlo forse
da una vita ignobile", ben poco resta di quel mito, di
quella leggenda.
Sui fatti di Bronte, pur non tacendo a carico di Bixio
anche i più rivoltanti dettagli (come, per esempio, l'a-
troce risposta al ragazzo che chiedeva il permesso di por-
tare al Lombardo delle uova, alla vigilia dell'esecuzione:
"Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in
fronte"), il Radice insomma si china come su "un'ingiu-
stizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la com-
mettevano": così come il Manzoni, cui questa frase appar-
tiene, sul processo degli untori. E dire al Radice che l'in-
giustizia di Bronte poteva anche esser veduta da quelli
che la commettevano ma nòn per ciò essere evitata, che
era nell'ordine di una concezione dello Stato - padronale,
di classe - CUI 1l garibaldilllsmO plU O meno cosciente-
mente concorreva, sarebbe stato come dire al Manzoni
che il processo agli untori appunto veniva a provare l'as-
senza, nelle cose umane, nella storia, della sua Prowi-
denza.
Il Radice aveva sei anni nel 1860; Giovanni Verga ne
aveva venti: e i suoi ricordi della rivolta di Bronte e del
circondario etneo, della repressione garibaldina, delproces-
sone che poi si tenne a Catania, dovevano essere ben vivi
quando, nel 1882, scrisse la novella Libertà. Non sarebbe
per noi una sorpresa, anzi, se dalle sue carte venisse fuori
qualche redazione della novella di data più remota, o de-
gli appunti, delle note, che in qualche modo dessero con-
~erma a questo nostro sospetto: che in Libertà le ragioni
dell'arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi su-
periore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una ml-
stificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e cri-
spino, si sentiva tenuto. Tale mistificazione, e addirittura
una radicale omertà, consigliava il sentimento della na-
zione (anche di quella parte della nazione che poteva ef-
fettualmente considerarsi vinta), oltre che il proprio di ga-
lantuomo, nel senso che lo stesso Verga dà alla parola ga-
lantuomo, senza dire dei protagonisti: da Bixio, che alla
Camera, appena due anni dopo i fatti, dava di sé imma-
gine ben diversa da quella che il popolo di Bronte ricor-
dava ("Potrei citare fatti dolorosi in cui mi son trovato
nella necessità di far fucilare. Nel fatto di Bronte potrei
provare che ho impedito, ho minacciato quelli che volevano la
fucilazione... gli accusati sono stati giudicati dai tribunali del
paese... e solo quando il tribunale ebbe pronunziato, dtco, fu-
rono dolorosamente fatti fucilare da me"), al maggiore De
Felice, presidente della commissione di guerra che giudicò
il Lombardo e gli altri, che nel suo diario non scrisse nota
sull'avvenimento, al colonnello Sclavo che così scriveva al
Radice: "Egregio professore, io vorrei che riuscisse a pro-
vare l'innocenza del Lombardo, ed anche di tutti gli altri,
il che sarà assai difficile!... Non rivanghiamo su quel tri-
ste passato! Ciò che a Lei occorrerà lo troverà nella vita di
Nino Bixio di G. Guerzoni, a pagina 212 copiato fedel-
mente dal diario dell'Eroe. Io spero che pensandoci bene non
ritornerà ai fatti dell'agosto 1860. La riverisco e sono il suo
dev.mo servitore Sclavo Francesco colonnello già con Bi-
xio nel 1860, nel 6, 7, 8, 9 agosto a Bronte" (data della
lettera: 8 aprile l907)2.
A darci la chiave della mistificazione di Verga è un pic-
colo particolare, che non si può cogliere se non si conosce
la realtà dei fatti. Ecco il passo della novella da cui questo
particolare vien fuori: "Il generale fece portare della pa-
glia nella chiesa, e mise a dormire i SUOI ragazzl come un
padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al
suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sa-
cramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito
ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano
Pizzanello, i primi che capitarono". Abbiamo messo in
corsivo il nano: ché è questo il punto. Verga sapeva bene
che non Sl trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo
del paese, un innocuo pazzo soltanto colpevole di aver va-
gato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzo-
letto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplo-
desse, sciagura ai galantuomini; quel Nunzio Ciraldo Fra-
iunco che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per
dichiarare totalmente infermo di mente e la cui fucila-
zione costituisce la pagina più atroce di questa atroce vi-
cenda. E si vedano le Memone di uno dei Mille di France-
sco Grandi, che il Radice non poté conoscere (sono state
in parte pubblicate sul "Ponte" qualche anno fa): dove si
racconta che per tutto il percorso dalla prigione al luogo
della fuchazlone il Fraiunco non fece che baciare uno sca-
polare che portava al collo e dire al garibaldino che gli
stava vicino "La Madonna mi salverà"; e non fu colpito
dalla scarica, per cui si gettò ai piedi di Bixio gridando
"La Madonna mi ha fatto la grazia, ora fatemela voi", e
Bixio, al sergente Niutti: "Ammazzate questa canaglia"
Ci si può obiettare che, a carico di Bixio, Verga fece di
peggio, nella novella: èliminò quel simulacro di processo,
gli íece sbrigativamente ordinare la fucilazione dei "primi
che capitarono"; ma in effetti non è così: ché la rappre-
sentazione, sia pure in una sola frase, del processo, lo
avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia
e voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto,
e con mdulgenza, come un intemperante. E come la sua
cosclenza, certamente, era turbata, non volle turbare
quella del lettore scrivendo "il pazzo"; e scrisse "il nano"
dissimulando in una minorazione fisica la minorazione
mentale; e anche in ciò, si noti bene, affiorando quel suo
profondo sentire popolare: il pazzo investito di sacertà é il
nano ritenuto invece essere pieno di malizia e cattiveria.
Ancora una obiezione, e fondamentale: e se Verga non
avesse avuto del fattl che una conoscenza vaga, approssi-
mativa; una versione qua e là raccolta e con gli anni, nel
ricordo, vivissima come sintesi tragica ma sbiadita ed in-
certa nei detta~li reali?
A parte il fatto che la fucilazione di un pazzo è ele-
mento senza dubbio mnemonicamente più forte della fu-
cilazione di un nano (o di uno detto il nano per sopran-
nome: come la nana che dà titolo a un romanzo del SICI-
liano Navarro della Miraglia), il ricordo di Verga non è
per niente offuscato in altri dettagli. Anzl, noi che ab-
biamo familiarità con le carte del processo, siamo portati
a credere che lo scrittore lo abbia seguito da spettatore, e
ne abbia conservato in appunti o indelebilmente nella
memoria un intenso ricordo. Quei giurati Verga certa-
mente li ha visti, quei giudici che "sonnecchiavano dietro
le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore",
quegli avvocati, e gli imputati stipati nella gabbia. Oltre
l'arte, che in questa novella è grande, si sente l'evento fi-
sico, ottico; la "cosa vista". E c'è un particolare che po-
teva sì, da quel grande scrittore che era, inventare o m-
tuire, ma il fatto è che è stato detto nel processo, da uno
degli imputati (giudici e giurati avranno sogghignato di
incredulità, ma il giovane Verga ne avrà sentlto la pro-
fonda e tragica verità): "Il taglialegna, dalla pietà, gli
menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse
dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava
come una foglia". L'uccisione, questa, del giovane figlio
del notaio: il notaio Cannata, uno dei più odiosl notabill
di Bronte. Ed esattamente Verga ricorda come il notaio
morì - "si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi
a finire nel mondezzaio" - come esattamente rlcorda l'e-
sclamazione di uno dei rivoltosi, a scrollarsi del rimorso
di avere ucciso il ragazzo incolpevole: "Bah! egli sarebbe
stato notaio, anche lui!"
Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le
ragioni della sua arte venivano a coincldere con le raglom
diciamo risorgimentali, cioè di una specie di omertà sulla
effettuale realtà del risorgimento) è nell'avere eliminato
dalla scena l'avvocato Lombardo: personaggio che non
poteva non affascinarlo in quanto portatore di un destlno,
in quanto vinto. Né poteva, Verga, confonderlo col perso-
nagglo che ne fece la letteratura garibaldina (Abba: "l'av-
vocato Lombardi, un vecchio di sessant'anni, capo della
tregenda infame"): ché il Lombardo era ben conosciuto
negh amblenti liberali catanesi, e nessuno a Catania
avrebbe mai creduto alla storia, accreditata presso Bixio
dal notablh di Bronte e diffusa a scarico di coscienza tra i
garibaldini, di un Lombardo reazionario, o "realista" (cioè
partlgiano di Francesco II: quasi i siciliani non stessero
per avere un altro re). E diamo qui, poiché nel saggio ha
rltenuto di non dover riportarla per intero, la lettera che il
senatore Carnazza-Amari diresse al Radice "Gent mo Si-
gnore, in risposta alla Sua dell'11 corrente mi permetto si-
gmflcarle che lO sono figlio di Sebastiano Carnazza, e che
è possibile che l'avvocato Sanfilippo abbia inteso leggere
a mlo padre lettere al medesimo dirette da Nicolò Lom-
bardo, perché entrambi erano amici e in corrispondenza
eplstolare, ma queste lettere io ora non possiedo. E possi-
bile, ma io non so, almeno non mi ricordo, se mio padre
abbia difeso alla Corte d'Assise del 1863 i brontesi. Ri-
cordo benissimo che Nicolò Lombardo era molto amico
di mio padre e da lui e da contemporanei era ritenuto
come 1l capo del partito Liberale a Bronte. Anzi, benché
io era ragazzo, poiché le impressioni dell'infanzia restano
mdeleblll, ricordo che nei primi giorni della rivoluzione
del 1848 il Lombardo venne in Catania da mio padre di-
cendogli che la rivoluzione era scoppiata in Bronte ed egli
vemva in Catama per prendere opportuni accordi con mio
padre e con i liberali. Non posso certamente ricordare
tutta la conversazlone avvenuta, anche perché alla mia età
non poteva comprenderla interamente, ma restommi im-
presso il fatto; e parmi di vedere ancora il Lombardo tutto
animato, aitante della persona, con folta barba, nera come
l'ebano, lo sguardo scintillante, parlare animosamente.
Durante e dopo la rivoluzione egli fu frequentemente da
mio padre. Quando fu fucilato nessuno sospettò che ciò
fosse avvenuto perché reputato borbonico, ma invece
come eccessivamente rivoluzionario; e rrìolti ebbero ra-
gione di credere che quella fucilazione abbia avuto causa
in un fatale errore di Bixio, il quale in quel momento feb-
brile accolse come verità iniqui istillamenti fattigh dau ne-
mici del Lombardo". (Ma ad evitare il "fatale errore"
Lombardo aveva detto a Bixio: "Domandi a Catama chi
sono io".)
L'avvocato Lombardo, quel personaggio che effettiva-
mente il Lombardo era stato, avrà inquietato e la co-
scienza civile e la coscienza artistica di Verga. Dal punto
di vista dell'arte, l'apparizione del Lombardo avrebbe dis-
solto l'atroce coralita della novella; né d'altra parte 11
Verga era portato ad assumere personaggi lntellettuah, e
per di più ec~essivamente rivoluzionari. Dal punto di vista
dell'intendimento civile, cui per condizlone soclale e cul-
turale era legato, gli sarà poi parso che la rappresenta-
zione di un simile personaggio, e delle circostanze di CUi
fu vittima, venisse a minacciare di leggenda nera la storla,
dopotutto gloriosa, dell'unità d'Italia.
Ed il fatto che di un tale personaggio Si sia liberato del
tutto, che l'abbia così decisamente rimosso, ci fa congettu-
rare in lui una inquietudine, un travaglio. O forse questa
nostra congettura muove dal grande amore che abbiamo
per Verga, dalla profondapietas che Lombardo ci ispira.
Chi sui fatti di Bronte aveva chiarissime idee (anche se
le espresse con contorto linguaggio) era l'avvocato Mi-
chele Tenerelli Contessa, difensore degli imputatl. La sua
arringa veniva a tradurre in termini rigorosamente giuri-
dici, in argomentazione di diritto, le più profonde Istanze
della vera, effettiva, concreta rivoluzione liberale (e di-
ciamo liberale nel senso gobettiano). Poiché nemmeno 11
Radice ha tenuto conto di questa arringa (e a noi pro-
viene dalle sue carte) ne diamo di seguito quello che Ci
pare il passo fondamentale:
"Or quando proverò che le stragi perpetrate in Bronte
dal 2 al S agosto 1860 anziché rivelare opposizione al di-
ritto obiettivato nella legge rivoluzionaria, rivelano piut-
tosto una brutale convalidazione, una feroce affermazione
di una legge scritta a caratteri di sangue, il sangue sparso
da Calatafimi a Milazzo, la vittoria della difesa sull'accusa
non sarà più dubbia. Ci troviamo nel caso di considerare
un azlone, la quale malgrado porga le apparenze di un
fatto crlminoso, pure era una conferma, una brutale con-
vahdazlone della rivoluzione; fatto che non era conse-
guenza del movimento ma s'inviscerava nella riscossa me-
deslma. In una parola, ci troviamo nel caso ove non si
puo conslderare reato un'azione la quale, quantunque
porga le apparenze di un fatto criminoso dinanzi alla giu-
stlzla, pure è comandato dalla legge - è permesso dalla
egge. Clo posto, la teorlca della impunità dei reati com-
messl contro gli eslege o pubblici nemici - la teorica della
leglttimlta della propria difesa, saranno da me applicate
onde escludere la caratteristica di reità in un'azione che se
sara punlta da Dlo perché inumana, non può condannarsi
da VOI. Alle prove.
"Il programma di Marsala chiamava il popolo ad insor-
gere colle armi in pugno, contro il comune nemico. Or
bene, chi era questo nemico? Il Borbone. Ma desso era
fuorl, né poteva cadere sotto i nostri artigli per poterne
fare un altro Luigi XVI; gl'inimici erano tutti coloro che
con qual Sl sia mezzo contrastassero il trionfo della rivolu-
zlone. Ma fm qui la riscossa esprimeva un concetto con-
uso di tantl pnncipli in lotta, quello di nazionalità splen-
deva di maggior luce, ma il popolo lo spalleggiava senza
comprcnderlo, Sl batteva con entusiasmo per il fascino di
una grande idca, per l'istinto di vincere o morire sotto gli
occhi del Dlttatore, dell'idolo suo. Fino a questo mo-
mento non erasl svlluppato nessuno dei suoi interessi, la
rlvoluzlone marcia avanti seguendo come ombra il suo
eroe. Ebbene, tramontano alcuni giorni e senza abdicare
l'elemento nazionale, si fa intellettiva: ed un decreto de-
stltulsce tUttl gl'individui che avessero servito lungo la re-
staurazione; e a questa misura logica e rivoluzionaria i
prmclpll del movimento si analizzano, la sfera dei nemici
Sl estende e Sl rende comprensibile. Ma l'elemento nazio-
nale ed mtellettivo, procedendo vittorioso fra mille osta-
coh, non poteva completare la rivoluzione, né questa
La corda pazza | La corda pazza 1051
monca nelle sue aspirazioni avrebbe potuto sbarazzarsi di
tutti gl'intoppi morali e materiali che ne ingombrassero i
passi gloriosi: fu mestieri farsi ancora democratica, allor-
ché il Dittatore ordinò la divisione delle terre comunali...
Tutti coloro che ostacolavano l'attuazione di questi prin-
cipii, tutti erano intrinsecamente dichiarati rei di lesa na-
zionalità: poiché che altro faceva la rivoluzione se non
tradurre in atto quelle giuste idee, quei giusti desiderii
che non avevano voluto concretare regolarmente I go-
verni abbattuti? Quindi le leggi rivoluzionarie mentre
realizzavano i principii della rivoluzione, condannavano
coloro che ostacolavano la manifestazione obiettiva e
reale di tali principii, come quei brontesi che si erano op-
posti a riconoscere questi diritti della plebe, malgrado che
il governo borbonico li avesse voluto soddisfare!
"Signori giurati, la borghesia brontese, non paga di
avere per vent'anni avversato con tutti i modi ingiusti
l'attuazione di questi bisogni, taluni dei quali erano stati
riconosciuti e soddisfatti dal Borbone, come si è detto, e
poi mercé l'opera loro avversa, rea ed inumana non effet-
tuati; oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivo-
luzione in virtù delle leggi dittatoriali medesime, seguiva
a contrastare l'esecuzione della legge rivoluzionaria... Un
esempio metterà suggello alle mie argomentazioni. Im-
maginiamo che una banda di briganti invada oggi (ba-
date, oggi) un comune del napoletano, e per sorpresa Si
impadronisca della pubblica amministrazione; e in se-
guito esca e armata mano arresti chi le si potesse opporre,
covrendo questo atto reazionario colla bandiera tricolore
come prima aveva ingannato nell'afferrare il potere ser-
vendosi del medesimo vessillo... Tutti i ladri insomma
che con la loro opera corrisposero a capello con i principii
della restaurazione e, mediante la corruttela e la immora-
lità, la puntellarono, tutti erano briganti, tranne quelli
che servirono, ripeto, la restaurazione come governo d
fatto, al pari dei toscani che servirono il granduca...".
Evidentemente, questa arringa non convmse né i glu-
dici né i giurati, quei "dodici galantuomini" che "certo si
1052 La corda pazza
dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati
del galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano
fatto la hbertà". E venticinque imputati si ebbero l'erga-
stolo, uno vent'anni di lavori forzati e due dieci, cinque i
dieci annl se h ebbero di semplice reclusione.
Forse parve anche a Giovanni Verga, questa difesa del
Tenerchi Contessa, un armeggiare d'avvocato, una chiac-
963
I Per la lettura di questo canto diamo un essenziale glossario:
che la traduzlone letterale di solito porra il lettore a saltare il re-
MeAtn, mietere; pisari, trebbiare; fàuci, falce; mastri, arrigiani
cauct, calcl, btsazzl, bisacce; 'mpara, contrada; panaru, paniere
crtvedda, crlvello; dethdebiti; tenci, tinche, mulietti, cefali~par
rtn[, prcn, trona, tuoni; Icippa, sradica; cianta, pianta, cunzinoti
conclapelh; santtpatn, lestoíanti; giarni, gialle, batioh, monache
muggtert, moglle; scorcia, scortica; cascittuni, spia, hra cutri, ruf-
flano; varvtert, barbiere; jimenti, giumente,putri, polledri, butta-
n/ert, puttanleri; cucuzzana, frati;fausi, falsi, cianchieri, macellai
cammut, camicie; càusi, calzoni; 'mpisi, impiccati, piccieri, bic-
chierl; sert, siede; sasizza, salsiccia; Itt,?gtOIa, le interiora de~li
agnelli o del capretti legati con budella ed omento, jizza, ru-
maca (?); ctaramedda, ciaramella; trumma, tromba, tacca, mac-
chia; quaggtata, latte cagliato; tumazzu, formaggio, francia
fame; s'accapau, si soffocò, finì; cianu, pianura; cina, piena
laurt, messc; lauran, lodare; scuh, scudi; fu, qui vale costò
Questo documento ed altri che qui pubblichiamo, li dob-
biamo alla cortesia dell'avvocato Renato Radice.
L'arrmga del Tenerelli Contessa fu pubblicata nel 1863 dalla
Tipografla La Fenice di Musumeci, Carania: Difesa pronunziata
d'tnnanzt la Corte d'Assise del Grcolo di Catania per la causa degli
ecctdt avvenuti nell'agosto 1860 in Bronte. Nel passo che abbiamo
diportato, fci siamo permessi qualche lieve correzione: formale,
NAVARRO DELLA MIRAGLIA
"Navarro ha pubblicato giorni fa un suo libro, Don-
nine io gli avevo promesso di fargli un articolo dove gli
avrei dato del 'ruffiano' e combinandosi il primo di aprile
colla domenica giorno della pubblicazione del 'Fanfulla',
scrissi un articolino terribile che fu messo in poche copie
e una di queste copie fu presentata al Navarro Egh ando
su tutte le furie. Avanzini fingeva di essere mdignato con-
tro di me, ed io mi mostravo mortlflcatisslmo... Una com;
media che fino a questo momento dura ancora perche si e
finto di fare una 'smentita' pel numero prossimo, che ui
ha preso sul serio. Le maggiori risa saranno domani
quando gli sveleranno il pesce..."
Capuana, si sa, il gusto della beffa lo aveva nel sangue:
e basti ricordare quella, terribile e per di plU contmuata,
che tramò a danno di Lionardo Vigo, la cui Raccolta am-
plissima di canti popolari siciliani ne contiene piu di uno
fatturato dal Capuana, e uno con dentro, ad rlttura, i
verso di Dante "Donne che avete intelletto d'amore' tra-
dotto in siciliano; e un altro, di sana pianta inventato, in
cui si parla del gran conte Ruggero, che ll Vigo pubblico
nonostante i consigli di prudenza, di cautela, di uno sto-
rico come Michele Amari: tanta era la fiducia che rlpo-
neva nel suo giovane collaboratore. Il quale, peraltro,
armò il terribile scherzo per far ridevole vendetta della
mania che aveva il Vigo di togliere ai paesi slciliam, e so-
prattutto a Mineo, paese natale del Capuana, la paternità
di certl cantl per attrlbuirla ad Acireale.
Il pesce d'aprile ordito per Emanuele Navarro della
Miraglia nel 1883 (la lettera in cui Capuana ne dà notizia
è diretta all'amico Guzzanti) non sappiamo come sorse
nella mente, anche in fatto di scherzi ingegnosa, di Luigi
Capuana: forse per il carattere ingenuo e irritabile del
Navarro (caratteri simili provocano a loro danno gli
scherzi); o forse perché il Capuana voleva allegramente
vendicarsi del moralismo che il Navarro gli aveva predi-
cato a proposito di Giacinta e che poi aveva dimenticato
scrlvendo un libro come Donnine, che allora doveva appa-
rire piccante anche nel titolo (e non sappiamo, pur-
troppo, se lo fosse anche al di là del titolo: il libro è intro-
vablle, e se ne ignora l'esistenza persino nella guida bi-
bllografica I narratori di Luigi Russo). Va bene che, nella
lettera Ill CUI parla di Giacinta (datata da Sambuca Zabut il
2 luglio 1879), il Navarro dice di non far questione di im-
moralltà, ma in definitiva le sue osservazioni scivolano su
quel piano: "... se aveste modificato, qui e là, qualche
mezza pagina, se aveste addolcito qualche tinta cruda, se
aveste soppresso qualche frase un po' troppo sensuale e, la-
sclatemelo pur direj brutale. Sembra anche a me che spesso
la forma salvl il fondo. Guardate Balzac. Nessuno de' cosi-
dettl naturalisti moderni ha ed avrà forse mai le sue ardi-
tezze di concetto. Qual donna più corrotta della signora
Marneffe? Qual vecchio più laidamente degradato del ba-
rone Hulot? Qual nodo più infame di quello che unisce l'a-
bate Herrera e Luciano di Rubempri? Nondimeno i libri di
Balzac possono andare e vanno per le mani di tutti. E sa-
pete perché? Perché se spesso il pensiero guazza nel fango
l'espressione è sempre castigata, sempre".
Anche Verga rimproverava a Giacinta certe crudezze
ma con più fondato giudizio: "se avrestisic} sacrificato
qualche volta la verità dell'analisi all'effetto drammatico...
L'analisi che predomina nella seconda parte è forse più
perfetta, ma resa con minore efficacia, parlo di quell'effi-
cacla che nasce dalla rappresentazione e non dal fatto". Il
Navarro non ha invece le idee così chiare; e le sue preoc-
cupazioni hanno natura più moralistica che estetica. E
così è anche nei suoi libri: dove il modificare l'addolcire il
sopprimere, che in scrittori come Manzoni e come Verga
è processo in cui assolutamente coincldono le ragloni mo-
rali con le ragioni dell'arte, scopre carenze di un "cosld-
detto naturalista" costretto da atfezioni morallstiche a de-
limitare la materia che appunto la natura gli offre. Che è,
evidentemente, una contraddizione in termmi.
Ma qualche anno dopo il pesce d'aprile, nel 1886, Ca-
puana pubblicava una nuova edizione di Giacmta m CUl Sl
nota "la passione della semplicità e della rapidità" indub-
biamente suggeritagli dal Verga, ed anche quel lavoro di
"addolcimento" auspicato dal Navarro.
I rapporti tra il Capuana e il Navarro erano cominciati,
per tramite di Giuseppe Macherione, giovane poeta coeta-
neo del Capuana e suo compagno di studi nella catanese
facoltà di giurisprudenza, nel 1857. Il Navarro era nato
nel 1838 (a Sambucaabut in provincia di Girgenti, l'8
di marzo), il Macherione nel '39, il Capuana nel '40. Il
Macherione morì giovanissimo, nel '61: lasciando però tre
o quattro libri di poesie patriottiche. L'amicizia del Ca-
puana e del Navarro continuò per tutta la loro vita: anche
se è curioso il fatto che si dessero del tu nel 1857 e del voi
nel 1879. Forse l'allontanamento del Navarro dalla Sicilia
affievolì i loro rapporti; o forse ci sarà stato fra loro un
momento di freddezza, di dissenso. La loro relazione me-
rita comunque una più approfondita indagine, nel senso
di una ipotesi che qui formuliamo: che si debba al Na-
varro la rivelazione, per il Capuana e per l'ambiente lette-
rario catanese decisiva, della letteratura verlsta francese.
E notizia certa, tra le poche che abbiamo del Navarro,
di un suo lungo soggiorno in Francia, a Parigi natural-
mentedove in edizione Lacroix pubblicò un volume di
novelle intitolato Ces messieurs et ces dames: dal '61, proba-
bilmente, fin oltre il '70, se visse le giornate dell'assedio
di Parigi. Pare che al viaggio in Francia sia stato Alexan-
dre Dumas ad invogliarlo. E pare che abbia goduto dei fa-
vori - ultimi di una carriera amatoria lunga ed intensa
tale, insomma, da infatuare un letterato proveniente dal
l'estrema provincia italiana - di George Sand. Ma quel
che plU Importa, ed è certo, è che il Navarro frequentò gli
ambienti letterari parigini ed ebbe sempre, anche al ri-
torno in Italia, un'informazione di prima mano sulla let-
teratura francese: e letteratura francese insegnò all'Istituto
Superiore femminile di Magistero. E a questo proposito
viene owia l'illazione che la sistemazione di Capuana
come professore di letteratura italiana nello stesso Istituto
si debba in parte al Navarro (quel pOStO fu successiva-
mente occupato dal Pirandello: dove c'è un siciliano ce ne
sarà subito un altro, e poi un altro, come in questo caso, o
molti altri, come in tanti altri luoghi e casi).
E probabile che nel lungo soggiorno parigino Ema-
nuele Navarro abbia disperso il patrimonio familiare:
come per Capuana e per Pirandello, l'Istituto di Magi-
stero sarà stato l'estrema risorsa economica, quel "pane di
governo" avaro ma sicuro cui già voracemente si volge-
vano le classi popolari e colte della Sicilia. E~li era figlio
di un medico - verseggiatore inesauribile: e forse il figlio
pensava alla dilagante vena poetica di suo padre quando
al Capuana dava consiglio di "non far molti versi ad un
tempo, perché la facilità spesso riesce un dono perico-
loso" - di un meclico benestante: ché la professione del
medico era impossibile allora fosse esercitata da persone
che non avessero beni di fortuna. Nessun documento a
provarcelo: ci affidiamo alla memoria di qualche cittadino
di Sambuca per affermare che Emanuele Navarro della
Miraglia era figlio di Vincenzo Navarro, medico e poeta
nativo di Ribera e trasferitosi in Sambuca a causa delle
"omicide esalazioni" che nella piana di Ribera imperver-
savano; cioè della malaria. Forse il titolo "della Miraglia"
il figlio riesumò dalla genealogia familiare, per quel gusto
stesso che lo portò ad assumere pseudonimo di Blasco ne-
gli articoli e nei libri che pubblicava; ma può anche darsi
l'abbia inventato, fatto non infrequente fra i giovani be-
nestanti siciliani che migravano verso le grandi città euro-
pee a disperdere fortune faticosamente accumulate da un
paio di generazioni appena. Certo è che suonava bene,
così come si legge nelle "aggiunte" all'Ottocento di Guido
Mazzoni: Emanuele Navarro conte della Miraglia.
Nel 1860 padre e figlio accorsero, con altri notabili di
Sambuca, ad accogliere la colonna Orsini che dal vicino
paese di Giuliana, dove secondo gli ordini di Garibaldi il
colonnello Orsini avrebbe dovuto attestarsi, era stata re-
spinta dagli abitanti, che temevano il colonnello von Me-
chel mettesse a fuoco il paese, come poche ore prima
aveva fatto a Corleone. Il diverso contegno dei due paesi
vicini dice come la classe dei notabili fosse a Sambuca
aperta alle nuove idee: avevano infatti rapporti con uo-
mini politici e letterati di altre città siciliane, tenevano bi-
blioteche relativamente aggiornate, pubblicavano un gior-
naletto letterario.
In un elenco di volontari sambucesi arruolatisi nell'eser-
cito garibaldino, non figura il nome di Emanuele Navarro.
Ma bisogna tener presente che pochissimi notabili riusci-
vano a concepire la guerra come affar loro: i più manda-
rono le squadre dei loro "picciotti", cioè i contadini e i
campieri delle loro terre, i "picciotti dritti", i giovani ma-
fiosi. Per loro e per i loro figli c'erano i nuovi compiti poli-
tici e di rappresentanza da assolvere, c'era - intorno a Crispi
segretario di Stato, intorno a Filippo Cordova che portava
in pectore gli intendimenti e le riserve mentali di Cavour -
da accagliarsi nella sorgente burocrazia. E così troviamo
Emanuele Navarro nel gabinetto del prodittatore Mordini
e, creatura del Crispi, direttore del "Precursore".
Poco più tardi il Navarro si allontanava da Crispi e
dalla politica per seguire la sua vocazione di letterato. E
tornato in Italia dopo il lungo soggiorno in Francia, a Fi-
renze fondò e diresse "La fronda"; e passò poi a Roma a
far parte della redazione del "Fanfulla della Domenica" e
ad insegnare letteratura francese nell'Istituto di Magi-
stero.
Nel 1879, quando presso l'editore milanese Brigola
pubblicò La Nana, il Navarro aveva già pubblicato, oltre
al llbro di novelle in Francia, Lefisimedi Flaviana (1873)
e La vita color di rosa ( 1876). Dopo La Nana pubblicherà
le Macchiette parigine (1881), Donnine (1883), le Storielle
stcZI~ane (1885).
Sulla Nana il Capuana scrisse un articolo che entusia-
smò il Navarro: "Vi confesso ingenuamente ch'io sono ri-
masto a bocca aperta, per la meraviglia, leggendolo.
Nulla delle mie intenzioni, delle mie idee e perfino de'
miei sottintesi, vi è sfuggito. Voi avete, in certi punti, ri-
velato me a me stesso. Voi avete scoperchiato la mia
mente e ci avete letto dentro come me, anzi meglio di me.
Tutte le vostre osservazioni sono di esattezza sorpren-
dente, tutte, comprese quelle del 'ponce' ed il motivo che
ml Vl fece ricorrere. Sapevo che siete un uomo d'ingegno
ora comincio quasi a sospettare che abbiate il dono della
seconda vista".
Il Navarro era davvero un ingenuo: ché La Nana non
era lettura così ardua, così difficile; e, come critico, il Ca-
puana ha fatto di meglio. Ma c'è un punto, in cui Ca-
puana dà ad un altro critico (il Cameroni) garanzia sulla
verità di fatto del racconto, da siciliano sulla realtà sici-
liana rappresentata dal Nàvarro, che serve all'assunto per
cui riproponiamo oggi la lettura del racconto.
La Nana racconta la vicenda di una popolana, Rosaria
Passalacqua soprannominata La Nana perché nano era il
padre, sedotta da un "galantuomo" e silenziosamente
amata da un giovane contadino, un "picciotto dritto". Il
giovane "galantuomo", destinato ad un matrimonio d'in-
teresse, ad un certo punto l'abbandona: e il giovane di
mafia, che pure dolorosamente ha seguito la vicenda della
seduzione e l'intima relazione tra Rosaria e il "galan-
tuomo", l'accoglie tra le sue braccia. Conclusione che ad
un critico non siciliano, come il Cameroni, parve inverosi-
mile: ché ben altro - coltellata o lupara - si aspettava dal
"picciotto dritto", stante la nera leggenda di gelosia e di
sangue che si era diffusa relativamente alla Sicilia. E il Ca-
puana ribatteva:
"I veri siciliani chi li vuol conoscere li troverà nel rac-
conto del Navarro della Miraglia La Nana. 'Quelli lì? -
ho inteso dirmi da qualcuno. - Ma somigliano proprio a
noi, non hanno nulla di speciale! E una disillusione!' Non
so che farvi, ma vi assicuro ch'essi sono autentici, nei più
minuti particolari. Anche l'amico Cameroni non sa per-
suadersi in che maniera non si trovi nel libro del Navarro
né una pistolettata, né la più piccola coltellata; e non vuol
mandar giù quel Rosolino che sposa la Rosaria da lui
amata, benché sappia quel che è già avvenuto tra essa e 11
galantuomo Gigelli. Eppure la chiusa del racconto del
Navarro è quanto di più siciliano si possa immagmare. La
pistolettata che il Cameroni ci avrebbe voluto sarebbe
stato invece un pretto convenzionalismo, e il Navarro ha
fatto bene a non caderci. Se mi diceste ch'egli avrebbe po-
tuto scegliere qualcosa di men comune e di più interes-
sante, sarei d'accordo con voi. Ma allora significherebbe
che non avreste capito che i personaggi del racconto sono
un mero pretesto, e che, sto per dire, i veri personaggi
d'esso siano quel cortile del Nano così evidentemente de-
scritto, quella fiera, quella villeggiatura al castello more-
sco di Floriana, quella vendemmia, quella notte di Natale,
insomma tutti i soggetti di descrizione che il pennello del
Navarro rende a meraviglia, con esattezza fotografica, l1
colorito per di più."
E una garanzia un po' troppo vasta. Perché i veri SlCl-
liani sono anche così, come Rosolino Cacioppo; ma non
tutti così. E un piccolo scarto di tempo, appena qualche
anno dopo, e di spazio, la distanza Sambuca e Vlzzmi: e
Capuana si troverà di fronte, siciliani altrettanto veri, l
personaggi della Cavalleria rusticana. Ma è certo, mtanto,
che il Navarro presentava un aspetto inedito, non conven-
zionale della Sicilia: il mondo contadino della Sicilia m-
terna in cui l'illecito sessuale invece che suscitare esiti tra-
gici veniva come assorbito nella sfera della spiritualità. Si
limitava però a rappresentare gli effetti di un processo di
sofisticazione piuttosto complesso, che è pOI l'elemento
per così dire catalizzatore della visione della vita e della
fantasia pirandelliana. E non è che non sappia, il Navarro, 1l cora Capuana:
"chi vuol conoscere la vita dei paesetti
che dietro quell'effetto, dietro quel fatto i un "picciotto 1| della Sicilia
legga La Nana: gli varrà proprio come l es-
dntto" che perdona l'illecito sessuale, ci sia una "filoso- 11 serci vissuto un
intero anno .
fia, un giuoco di sentimenti contrari, di pietà e di umori- 11 Il paese che il
Navarro descrive - Villamaura - è Sam-
smo. F~losofia comugale e Filosofia paterna si intitolano due I buca Zabut (oggi
Sambuca di Sicilia, per quella mania di
raCCOnti del volume Stonelle stch~ane: e nel pnmo c'è un I certo umanesimO
provincia1e, che trovò insperata so
personagglo ridicolo e pietoso, che è come la larva da cui I zione nel regime
fascista, di togliere tracce arabe) Sam
verranno fuon quei lucidi casistl, quel lolci notomizzatori I buca, nel Val di
Mazara e nella diocesi di Girgenti; 8 m
delle proprie coniugali disgrazie che sono i "cornuti paci- | glia distante dal
mare africano e 50 da Palermo E nella
flci" della narratlva e del teatro di Pirandello: da Tararà a I sottointendenza
di Sciacca. Popolazione 8728 Ex feudo
Ciampa a Martino Lori, dal garzone di masseria allo scri- | con titolo di
marchesato della famiglia Beccadelli-B°I°-
vano al consigliere di Stato - per cui il processo di sofisti- I gna, dei
principi di Camporeale. Esporta granoorzovino
cazlone della morale sessuale travalica dal mondo conta- I ed oliocosì nel
dizionario geografico dell Ortolani (Pa-
dino (più precisamente: dal mondo borgese-mafioso) al I lermo 1819). Un paese
contadinodunquearroccato sulla
mondo borghese. Ma Emanuele Navarro non aveva i I plaga del feudo, ancor oggi
isolato e solitario come al
mezzi per andare al di là degli effetti, al di là della descri- tempo
dell'Ortolani, come al tempo del Navarro; forse
z~one. E ln questo suo romanzo, dice il Capuana, "le circo- un popiù povero, ché
certo non esporta più quei pro-
stanze esteriori si impongono e sopraffanno l'individuo dotti della terra che
esportava nel secolo scorso e fino a
che Sl muove dentro di esse. Il cortile, la vendemmia, la pochi anni addietro.
Perciò la diga del Carboirecente
fiera, il temporale, la notte di Natale, il carnevale, tutti i | opera di
bonifica, resta come un vuoto occhio azzurro nel-
mmutl partlcolari della monotona vita del villaggio rego- I l~immutata aridità
della campagna: i braccianti giovanii
lata come un ordigno o, se plU Vi piace, come una fun- I giovani borgesi (come
il Rosolino Cacioppo della Nana~
zlone ammale che non ha coscienza di se stessa: ecco il piccolo proprietariO che
ai tempi del Navarro si poteva
prlncipale Pietro Rosalia Nunzla, Rosolino e tutti gli corlsiderare di
condizione agiata) I abbandonano Il p
altn personaggi ecco l'accessorio". E tuttavia "alcuni ca- tra Sciacca e
Corleone, tagliato fuori dalle più vive arterie
ratten, specle quello della vecchia mamma, son riusciti di cOmunicazione, sembra
farsi ancora più isolatopiù re-
stupendamente' e dentro quell'eccesso di descrizioni moto
l~una accavallata sull'altra i personaggi si muovono senza E remoto luogo,
dall'arabo as-Sabuqahpare significhi
artlflzlo, col loro ingenuo dramma, dalla prima all'ultima nome del paese. E di
questo ancor oggi remoto luogo~
P g Emanuele Navarro ci descrive un anno di vita da un'e-
Il dramma che Sl agita nelle pagine della Nana è vera- state all~altra: e la
passione effimera di un galantuomo
mente ingenuo: al punto che oggi, dopo Pirandello, ab- per una popolana, i loro
incontri, la loro relazione, il si-
blamo l'Impressione che sarebbe bastata una piccola lenzioso e tenace amore del
giovane borgese sono, come
spmta per rovesclarlo in mgegnosa commedia. Ma il mag- giustamente notava il
Capuana, un mero pretesto ma
glor preglo del libro, oltre che nel casuale costituirsi a pre- dissimulato con
arte", di un libro che per noi, oggiha
cedente plrandelliano, è nella fedele rappresentazione della un eccezionale
valore documentario.
vlta, delle abitudini, dei costumi di un paese siciliano,
della Sicilia occidentale, subito dopo l'unità d'Italia. An-
1963
POSTILLA SU STENDHAL E NAVARRO
"Mérimée, P. H. B. par Un des Quarante. Avec un fron-
tespice stupéfiant dessiné et gravé par S.P.Q.R. (Félicien
Rops). Eleutheropolis, l'an MLCCCIXIV (Bruxelles 1864)." E
un libretto che contiene ricordi e aneddoti stendhaliani
che Mérlmée aveva pubblicato nel 18$0 in un opuscolo ti-
rato a venticlnque esemplari, anonimo e senza data, e poi
aveva fatto in modo che non circolasse, poiché lo Stend-
hal miscredente e cinico che ne veniva fuori non piaceva
agli amici dello scrittore scomparso; né, ancora oggi
piace agll stendhalisri - "une sorte d'offrande empoison-
nee a celui qu'elle prérend honorer", dice il Del Litto. In
quanto al frontespizio "stupefacente" che Félicien Rops
mclse per la ristarnpa, limitata e quasi clandestina, che
quattordici anni dopo si fece a Bruxelles dell'opuscolo, è
posslbile vederlo nell'Album Stendhal pubblicato recente-
mente da Gallimard, ma censurato. Nell'Album, pagina
31S, e rlmasta la testa di cervo dalle robuste corna (che, a
guardar bene, sono anche altre cose), sono rimaste le ini-
ziah H B elegantemente caudate: ma la scena davvero stu-
pefacente cui le iniziali e la testa del cervo sovrastano, la
scena che dà al cervo espressione di stupore, è scomparsa.
La scena e, nella versione che poteva darne Félicien
Rops (e chi ha visto la bella mostra di cose di Rops, che
Sl è tenuta lo scorso anno a Milano, intende), quella che
segnò la rortura dell'annosa e, nonostanre tutto meravi-
gliosa, relazione tra Stendhal e Angela Pietragrua. "Ma-
dame Grua", dice Mérimée: la quale, eccezione alla fama
di fedeltà delle italiane, indegnamente tradiva Henry Bey-
le (che assumerà due anni dopo il pseudonimo del "signor
de Stendhal, ufficiale cli cavalleria", pubblicando il libro
Rome, Napleet Florence en 1817). Questa donna, dice ancora
Mérimée, pur avendo come marito il più compiacente degli
uomini, lo aveva dipinto come un mostro di gelosia: e Bey-
le se ne era convinto al punto da accettare di andarsene a
Torino, poiché la sua presenza a Milano risultava pericolosa
per lei. Ma fosse il dubbio, fosse il desiderio, fece una fur-
tiva puntata a Milano. Forse per sapere come fossero andate
le cose presso i Pietragrua durante la sua assenza, prese con-
tatto con la cameriera di Angela. Questa, memore della ge-
nerosità di Beyle, e a scarico di coscienza, gli rivelava che la
sua signora lo ingannava, che "avait autant d'amants diffé-
rents". Poiché Beyle non voleva credere, gliene offrì la
prova: "lo fece nascondere in un camerino da dove, met-
tendo l'occhio al buco della serratura, egli vide, a tre piedi
da lui, la più mostruosa e convincente prova". E così, cin-
quant'anni dopo, mettendo l'occhio all'altro buco della ser-
ratura che gli offriva Mérimée, Félicien Rops vide, come in
uno spaccato scenografico, Beyle con l'occhio alla serratura
e An~ela col suo ignoto partner in quella che i verbali dei
sottu~ficiali di polizia chiamano flagranza di reato. In ef-
fetti, era stato Stendhal stesso a invitare Rops a questo
giuoco alquanto grossolano: "Beyle mi disse che la singola-
rità della cosa e il ridicolo della situazione gli diedero
un'improvvisa e folle allegria e che a stento, per non allar-
mare i colpevoli, riuscì a trattenersi dallo scoppiare- a ri-
dere". Rops non aveva ragione di trattenersi: ed esplode in
una risata che è il caso di chiamare grassa. Né era uomo da
far caso alla notazione che viene subito dopo: "Soltanto
dopo qualche tempo egli sentì la propria infelicità". Anzi,
una simile notazione poteva, per Rops, aggiungere comico
al comico: un cornuto che rillette e soffre era allora tanto
più comico di un cornuto che ci ride sopra. Ci voleva an-
cora un buon mezzo secolo, e uno scrittore come Piran-
dello, perché le loiche malinconie e pene del "cornuto con-
sapevolefossero comprese e accettate. Per Rops, avulsa dal
contesto stesso in cui Mérimée la registrava, oltre che dal
contesto di quel che Stendhal era stato, di quel che erano i
SUOI hbri, restava la ridevole disavventura: non priva di ec-
cltante amblguità per il disavventurato Beyle, francamente
per Ul, Rops, che appunto in questo senso la si-
glava rafflgurando, in un angolo della scena, un cagnolino
m atteggiamento inequivocabile. Una storia di corna Un
cornuto. Ancora un pretesto per un divertimento, come si
re e Oggl, "porno".
Ma il fatto è che quando Rops disegnava quella scenetta
comlca e oscena, con Stendhal dentro come personaggio co-
mlco, l autore della Certosa di Parma era effettualmente con-
slderato un personaggio pieno di comiche contraddizioni e
mlstlflcazloni, ostentatamente cinico ma in sostanza pate-
tlCO se non addirittura pietoso. Qualche contributo alla cir-
venuto dall~H B di Mérimméaegine di iStdndhal, era appuntO
sere, nel salotti parigini, molte persone che lo ricordavano e
che, nel momento in cui una nuova generazione stava per
rlscoprirne le opere, con deliberata acredine si davano a ri-
dicohzzare l'uomo e lo scrittore
Un siciliano approdato a Parigi subito dopo l'Unità, ala-
cre frequentatore di quei salotti, amico - giovanissimo e tra
gll ultlrnl, se non l'ultimo - della vecchia George Sand
dava agh italiani un breve e vivace ragguaglio su Stendhai
In CUI sono evidentemente condensati i giudizi e i ricordi
che correvano negli ambienti letterari francesi. Il raggua-
gho, pOI pubblicato nel volume Macchiette parigine, si
apnva con un ritratto di Stendhal, rapido e preciso. "Una
bella signora di Milano, - scriveva Emanuele Navarro della
Miraglla, - lo chiamava, scherzando: il Cinese. Difatti, egli
arieggiava, in qualche modo, quei mandarini panciuti e
buffl che Sl fanno vento e fumano su' mobili di lacca Gli
mancava la coda, ma però aveva, in ricambio, un falso
cluffo e portava l'unghie lunghissime, per attirare l'atten-
¨ zione della gente sulla sua mano piccola e bianca. Era pin-
gue, rubicondo, apoplettico, di statura mediocre. Le gam e
corte e un po' storte, sostenevano male il busto troppo ro-
tondo e il ventre che strapiombava molto. Il capo era pian-
i tato solidamente sul collo tozzo. Gli occhi, due occhietti Vl-
vaci e penetranti, si perdevano fra le ondulazlom carnose
I della faccia larga, a cuie labbra somll e contratte avano
j un non so che di sardonico. Egli aveva, insomma, la flslo-
nomia bizzarra del suo ingegno seno e comico ad un
tempo..." E Navarro passa, sempre In punta I penna, a
biografia, al carattere, al comportamento, alle opere. C~gni
tanto, suo malgrado, c'è qualche lampo di slmpatla e a iora
i l giudizío esatto e penetrante: "egli ha scrltto molte pagme
in cui non si sfa se de"bbaelPIaUcertOsa di Parina "il dramma,
nel totale, è condotto con abilità immensa; la luce colplsce,
a grandi sprazzi, il quadro; i personaggl, disegnatl appen
fisicamente, sono dipinti benissimo per via dell'azlone e e
dialogo, la corte di un tiranno m sediceslmo sfila vlva e
vera..", "Pretendeva di agire secondo i dettami della ra-
gione, ma fu perennemente dominato dalla fantasla e ece
ogni cosa per entusiasmo." E si sente che questi gludizl
sono veramente suoi, del giovane scnttore sichiano c e ve-
niva dall'avventura garibaldina; non del suo tempo, non dei
Iotti che frequentava, dei letterati che conosceva.
In società, in quella società che per un giovane, appena
arrivato dalla remota Sambuca Zabut m provmcla di Glr-
enti, doveva apparire circonfusa di un lummoso e ma te-
rabile prestigio, si ricordava uno Stendhal personagglo
buffo, si dava per declinante la fortuna dei SUOI Il n, sl
profetizzava che tra non molto soltanto gll arc eoogi
della letteratura li avrebbero cercati. Navarro non poteva
fare a meno di adeguarsi a quel giudizlo corrente; ma a -
tra parte non riusciva a non appassionarsl a quel I ri, a
quello scrittore, a quell'uomo su CUI non stavano per ca-
dere le tenebre ddell'oblio ma stava per sorgere un culto.
970
NOTE PIRANDELLIANE
Tra Girgenti e Bonn
Adriano Tilgher, il critico che negli anni venti ed oltre
ebbe la plU grande influenza sul pubblico del teatro piran-
delhano e sullo stesso Pirandello, più di una volta, e spe-
clalmente negli anni dell'ultima guerra, scrisse sul caso
nella storia, cloè su quegli eventi fortuiti e al momento
imponderabili che hanno conseguenze sproporzionate alla
loro Importanza. E frequentemente si richiamava a Re-
nan; il quale, meditando-sulla casualità nella storia, era ar-
rlvato alla conclusione che la storia altro non è che "la
plU Ironica e la piU stravagante delle associazioni d'idee":
e c'era arrivato appunto viaggiando in Sicilia, cioè nel
luogo plU adatto a suggerire una simile conclusione.
Ma nel considerare la casualità di eventi che ebbero poi
conseguenze sproporzionate, spontaneamente sorge l,a ri-
flessione sul corso che le cose avrebbero avuto se tali
eventl non Sl fossero realizzati; e lo stesso Tilgher ne
scrisse, sempre insinuando il dubbio che la storia non
fosse una esplicazione nel tempo di un principio spiri-
tuale unico, in analogia alla pianta che è già tutta conte-
nuta nel seme. E questo dubbio sulla storia, questa medi-
tazlone sulla casualità di certi eventi e sulla ironica e
spesso atroce sproporzione dei loro effetti, è alle radici
dell'opera plrandelliana; ma a noi qui serve come più ba-
T anrda hazza IC~
nale pretesto per una considerazione sulla storia della cri-
tica pirandelliana, e precisamente sulle conseguenze al-
quanto sproporzionate che gli anni da Pirandello passati a
Bonn hanno avuto nella riflessione critica sulla sua opera.
Intanto, ecco la casualità dell'evento che portò Piran-
dello a Bonn, così come lo racconta Gaspare Giudice. Pi-
randello seguiva i corsi della facoltà di lettere romana,
dove insegnava letteratura latina Onorato Occioni, che
era anche rettore magnifico. D'Annunzio, che otto anni
prima di Pirandello aveva seguito i corsi dell'Occioni, da
vecchio ancora ne ricordava il "magistero canoro". E da
parte sua, il maestro pare prediligesse l'allievo non meno
canoro, chiamandolo a declamare Orazio in aula. Piran-
dello non sopportava invece lezioni tanto canore nella
forma quanto mediocri nella sostanza; e si può dire che
sotto la barba di Onorato Occioni, sul suo "magistero ca-
noro", vediamo già esplodere le prime differenze tra
D'Annunzio scrittore di parole e Pirandello scrittore di
cose.
"L'Occioni traduceva il Miles gloriosus di Plauto - rac-
conta Giudice - e gli venne fatto, un giorno, di sbagliare.
Se ne accorse, non a tempo, e, senza destrezza, tentò di rl-
parare, ma l'errore era irrimediabile. Pirandello era seduto
nel primo banco accanto a un giovane prete che s'inten-
deva di latino: all'incidente del professore, i due si diedero
di gomito. Il prete non trattenne il sorriso, e l'Occioni di-
venne furioso. Si buttò su di lui e lo coprì di vituperi, at-
tento però a non scoprire la vera ragione della sfuriata. Pi-
randello non resse più e, levatosi in piedi, spiattellò al
pubblico presente i reali motivi di quella rabbia. Dopo di
che s'allontanò con sussiego dall'aula, senza potervi più
rimettere piede. L'Occioni infatti, grazie alla sua autorità
di rettore, riunì per direttissima i professori della facoltà e
Pirandello, deferito al consiglio d-i disciplina, dovette ab-
bandonare l'università."
Da questo incidente venne dunque la decisione di Pi-
randello di trasferirsi in Germania per completare i suoi
studi; ed Ernesto Monaci, che a quanto sappiamo era il
1068 ar~n 1~177
j j La corc~apazza 1 9
solo professore della facoltà di lettere romana che apprez-
zasse il giovane Pirandello, gli consigliò l'università di
Bonn, dove la cattedra di filologia romanza, fondata dal
Dlez, era tenuta dal suo amico Foerster. E non è da esclu-
dere che Pirandello, per la vocazione che allora sentiva
agh studi fllologici, sarebbe ugualmente approdato a una
qualche università tedesca; ma nell'ordine dei fatti fu l'in-
cldente con l'Occioni a portarlo a Bonn. Un evento del
tutto casuale, dunque: e ne discende la conse~uenza, che a
nol pare sproporzionata, di un rapporto assiduamente po-
sto da parte della critica tra la visione pirandelliana della
vlta e la filosofia irrazionalistica che si svolgeva in quegli
anni nella Germania.
Il se paradossale e oziosamente problematico che trova
proverblale applicazione al naso di Cleopatra (se il naso
di Cleopatra tosse stato più lungo...), non è quindi ozioso
e gratulto se applicato al corso della critica su Pirandello
Se Pirandello non fosse andato a Bonn, la critica sarebbe
stata mdubbiamente più cauta a stabilire collegamenti più
o meno precisi con la cosidetta "filosofia della vita" della
Germania imperialista e, conseguentemente, forse sarebbe
stata del tutto evitata quella corsa a spiegare Pirandello
con la filosofia (se non con quella di Dilthey e Simmel,
con quelle di Bergson, di Marchesini, di Séailles) che tut-
tora continua e che si può considerare come una vera e
proprla cavalcata della tigre: con la differenza che quando
ll crltico scende, la tigre non se lo mangia, e per il sem-
phce fatto che è già sazia, che già nel suo apparato filoso-
ICO va maldigerendo l'opera pirandelliana.
Il se è dunque, riguardo a Pirandello, un problema cri-
tiCO preciso: se non fosse andato a Bonn, probabilmente
avremmo avuto un Pirandello più opportunamente colle-
gato a Lulgi Capuana, ad Emanuele Navarro della Mira-
glia e insomma alla tradizione culturale e letteraria sici-
hana, oltre che (e principalmente) alla realtà di Girgenti.
E bastl conslderare questo fatto, di cui non si tiene mai
abbastanza conto: che a Bonn Pirandello pensò a Girgenti
plU di quanto gli sia poi capitato nel resto della sua vita.
E non nella dimensione della nostalgia e malinconia, che
forse mai sentì riguardo al suo paese; ma in quella della
necessità, del lavoro. Prima di partire per Bonn, nel sog-
iorno estivo in Sicilia, si era infatti dedicato a raccogliere
~ia6e, canh popolari e improvvisi che dovevano servirgli per
la tesi sulla parlata della provincia di Girgenti: una gran
raccolta, dice in una lettera al Monaci; e si proponeva di
farla stampare in appendice al suo studio, ma purtroppo
questo proposito non fu realizzato. Una raccolta di cose
popolari, dalle fiabe e dai canti di lunga e complessa tra-
dizione ai canti estemporanei, fatta da Pirandello a Gir-
genti e nel circondario, ci avrebbe offerto il famoso pro-
blema centrale, per cui tanto reo tempo si volse nella cri-
tica pirandelliana, nella forma più probante, più imme-
diata. Senza dire che avremmo avuto anche per l'area di
Girgenti, irreparabilmente trascurata dagli etnografi che
pure erano allora attivissimi in altre zone della Sicilia, una
raccolta di testi popolari condotta con buona filologia.
Sui centri della provincia in cui Pirandello avrà rac-
colto, nell'estate del 1889, fiabe e canti, si possono fare
delle ipotesi. Nellà campagna del Caos quasl certamente;
e poi gli sarà bastato forse andare per qualche giorno ad
Aragona, dove i suoi gestivano una zolfara, per mcontrare
gente proveniente da altri paesi della provincia: Favara,
Comitini, Grotte, Racalmuto, gente estroversa, pronta,
aperta alle sollecitazioni del vino e della poesia; gli zolfa-
tari, insomma, di cui lo scrittore ha poi saputo rappresen-
tare la pena.
Questo periodo di ricerca tra i contadini e gli zolfatari
siciliani, cui immediatamente succede la lontananza, noi
saremmo tentati di proporlo come una specie di punto di
cristallizzazione del sentire popolare nel sentire pirandel-
liano. Ma mancando il documento, l'intuizione non vale
poi molto a sostenere una simile proposta. Si può comun-
que affermare che nel momento in cui parte per Bonn Pi-
randello conosce già della Sicilia, e di Girgenti in partico-
lare, il più profondo modo di essere; quel contraddittorio,
dilacerato e teatrale modo di essere che decantato e varia-
mente declinato costituisce l'essenza più autentica del pi-
randelllsmo. E Sl pUO anche dire di più: quest'uomo di
ventidue anni che parte per la Germania è un personag-
glO totalmente e tipicamente siciliano, quasi - e avanti
lettera - di estrazione brancatiana; e basterebbe trascrivere
in un certo modo la storia dei suoi vagheggiamenti ed in-
contri erotici a Bonn, della sua relazione con Jenny
Schulz-Lander, così come lui la consegna nelle lettere alla
sorella Lma da un lato, nelle Elegie renane dall'altro, per
far scattar fuori un personaggio del tutto brancatiano, e
plrandelhano soltanto per il giuoco, piuttosto gretto in
questo caso, della doppia verità. E una commedia in cui la
sorella e la fidanzata siciliana stanno in un mondo incon-
taminato e mcontaminabile, il chiuso mondo isolano
della castità femminile, dell'onestà. "Parlerei io forse a te
sorella mla, di donne che non fossero oneste?", dice Piran-
dello dopo aver raccontato a Lina di "due diavolette tutte
fuoco", peraltro molto perbene e di famiglia ricca e ri-
spettabile, che vanno a trovarlo nella sua "aristocratica
stanza". E infatti, dopo il racconto del primo incontro con
Jenny Schulz-Lander, di lei non parla più nelle lettere alla
sorella; o almeno non ne avrà parlato se non come di una
delle due donne, madre e figlia, che l'ospitavano: la sua
relazione con la ragazza verrà poi fuori nelle Elegie renane.
Mal per un momento sorprendiamo il giovane Pirandello
a pensare di portare la sua storia d'amore con Jenny al di
là del suo soggiorno a Bonn. Il fatto è che non è, da parte
sua, una storla d'amore. Giustamente osserva Giudice: "è
come se il giovane Pirandello, abituato al comportamento
rlgorosamente casto delle proprie sorelle o delle 'ragazze
per bene' della sua Isola, non riuscisse a custodire una
perfetta stima" di Jenny, e per il fatto stesso che si era ab-
bandonata fiduciosa nell'amore per lui. E anche se nei
versl Sl domanda: "Domani, / se questo amore spezzo
che avverrà mai di lei?", non solo subito si consola del ri-
morso considerando che altri passi nella vita di Jenny ver-
ranno subito a cancellare la sua orma, ma del tutto can-
cella 11 pensiero penoso nella visione della sua casa lon-
tana e sospirando il ritorno. Del resto, lui è dell'isola dei
briganti, del sole e dei serpi; e se lascia in lacrime una
fanciulla, è giustificato e perdonato; senza dire che la la-
scia in compagnia di Mob: "il vecchio mlo buon cane, /
che / son certo / fedelissimo / le sarà, se n'avrà pane". E
questa della fedeltà condizionata dal pane è una nota al-
quanto cinica, a conclusione di una vicenda amorosa. In
effetti, il comportamento di Pirandello in Germania non
è stato molto diverso di quello degli emigranti siclhanl
d'oggi, la cui remora più forte ad una integrazlone nella
vita tedesca è costituita dal pregiudizio che le donne tede-
sche sono facili, mentre inaccessibili se non per leglttlme
nozze restano le siciliane.
Con l'immagine del cane Mob che resta accanto a
Jenny, a tributarle (ma in cambio del pane) quella fedeltà
cui è venuto meno il figlio dell'isola dei brigantl, anche
noi potremmo liquidare la vicenda; ma c'è un plccolo epl-
logo, di quasi mezzo secolo dopo, in America: Jenny tenta
di rivederlo, Pirandello rifiuta l'incontro. "Perché l'Imma-
gine di lei rimanesse collegata al miracolo della primavera
renana', dice il Nardelli. Ma aggiunge: "Pirandello pen-
sava che anch'ella, rivedendo lui altra volta slmbolo della
calidezza del Sud, fosse per ritrovarlo diverso, malgrado la
celebrità: impallidito, calvo..." La calidezza del Sud!
Siamo nell'atmosfera del Don Giovannt tn Stchta di Bran-
cati, anche se sotto c'è l'ansiosa preoccupazione, proprla-
mente pirandelliana, di ncdistruggere la forma del ri-
cordo nell'impietoso flusso della vita.
Prima di partire per Bonn, nell'estate dell'89, Piran-
dello, forse per la prima volta nella sua vita, entra nella
biblioteca Lucchesi-Palli di Girgenti. Aveva promesso al
Monaci una ricerca di "antichi manoscritti", e infattl ce
n'erano "circa cento", ma "ridotti a tale da non poterne in
alcuni casi più far conto e copia". Dell'incuria in CUI e te-
nuto un così prezioso patrimonio, sul quale annl pnma,
ricorda nella lettera al Monaci, per tre mesi interi aveva
lavorato Michele Amari, Pirandello riceve indimenticabile
impressione: se ne ricorderà nel Fu Mattia Pascal, pietosa- Parean giganti d g
mente mventando quel don Eligio Pellegrinotto chesi è Trenta. E dentro al polmom
eroicamente assunto l'incarico di mettere un po' d'ordine tutto
in questa vera babilonia di libri". In realtà, non c'è stato vele fo lipcapp
nessun don Eligio per la Lucchesi-Palli; o se c'è stato, g
comeiPfirandiello temeva, non ne è venuto a capo è di
mGuratredaevocilceclielcpaensando:''
impraticabile per crollo di soffitti e altre devastazioni por- Ma che! Beati.
Giù birra e liquori,
tate dal tempo e dalla incuria. Singolare contributo, la no- e col canto
seguivano la marcia
tizia di questa rovina, alle celebrazioni pirandelliane. Poi, come presi da
improvvisa insania,
Da quella biblioteca messa su da un vescovo illumi- in piedi, coi bicchieri
nato, che già allora altri visitatori non conosceva, dice Pi- levati verso i
tren
randello, che i topi e gli scarafaggi, il giovane girgentano tre volte urlaron
"Viva la Germania!"
passa in un mondo dove le biblioteche sono meticolosa-
mente tenute e assiduamente frequentate, dove è fervore
operoso di classificazioni, di studi, di scoperte. E tuttavia
dell'ordine e dell'operosità germanica non riesce a farsi
quel mlto che pure era allora diffuso in Europa. Anzi ap-
pena dopo la discussione della sua tesi sui Suoni e sviiuppi
dZ suonZ nella parlata del circondario di Girgenti, appena ot-
tenuta la laurea, volta le spalle a Bonn e alla Germania
con una impazienza e insofferenza che mai, a quanto pare
aveva fino allora manifestato "Non solo io non ho in
ammo di fermarml per sempre a Bonn; ma io non vorrò,
una volta partito, neanco rivederla più da lontano. Era di
Roma che io ti parlavo; e là io conto di fermare la mia
stanza per sempre... Io voglio il Sole, io voglio la luce, e
qui non si vedono mai né l'uno né l'altra; qui i giorni s'e-
stinguono come tramonti continui": così scrive alla so-
rella (e la parola sole la mette con S maiuscola). Più tardi
nel i904, in una poesia intitolata Vecchio avviso, esprimerà
meno banale insofferenza nei riguardi del mondo tedesco
dirà di una sua inquietudine che è poi quella che per
mezzo secolo ha assillato l'Europa intera. E la descrizione
di una scena allora non inconsueta in Germania, il con-
certo domenicale di una banda militare:
Questi versi, e più i tre che dicono di una natura spa-
ventata e annientata dal vento di guerra e di morte delle
trombe, sono i più veri e i più belli che Pirandello abbia
scritto in quel periodo, e si levano come premonizlone
dolorosa all'alba di un secolo che conoscerà quella insania
non improvvisa ma lunga, duratura, filosoficamente arti-
colata. La filosofia detta della vita, i cui termini più facil-
mente di quanto si dovrebbe vengono impiegati a definire
il mondo pirandelliano, si avviava a diventare la filosofia
della morte. A noi qui, ora, basta sapere che Pirandello ne
ha avuto il presentimento.
968
Pirandello e la cntica
Nel 1937, in un saggio che resta tra i pochissimi vera-
mente validi che siano stati scritti su Pirandello, Giacomo
Debenedetti così riassumeva i rapporti tra lo scrittore e la
critica: "Di rado si diede, come per Pirandello, il caso di
uno scrittore rivelato e portato all'universale riconosci-
mento dalla critica. Gitica ancella, però; critica, nel mi-
glior senso, complice. La quale, di fronte all'artista di ap-
parente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più
che di caplre; e con le sue lanterne cieche corse e si rav-
volse dietro Pirandello per gli speciosi labirinti di Piran-
dello. Il disastro di chi cerca, ha detto un bello spirito, è
che finisce col trovare. Sulla faccia esterna della sua opera
Pirandello mostrava quella che si chiama unafilosofia, e la
critica sotto, a dare una traduzione, una divulgazione let-
terale di quellafilosofia. Che non era poi se non un'astuzia
della Prowidenza: il.materiale isolante che permetteva a
Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo
poetico e umano. Mancò insomma la critica vera, che è
sempre antagonista..."
Più concitatamente, quasi in un grido di pena, quattro
anni prima, nella commedia Quando si è qualcuno, Piran-
dello aveva tentato di sciogliersi dal soffocante abbraccio
della critica ancella, della critica complice: "Per ripetere ai
slgnorl visltatorl - tutto quello - già fissato - che ho l'ob-
bligo di ripetere a vita. Non perché l'abbia detto io, per-
ché me l'hanno fatto dire gli altri! Cose che non mi sono
mai sognaeo di pensare... Tutto fissato, ti dico. - Perché
io non debbo piú pensare altro - immaginare altro - sen-
tire altro. - Che! - Ho pensato quello che ho pensato (se-
condo loro) e basta! - Non s'ammettono di me altre im-
magini. - Ho espresso quello che ho sentito - e lì - fermo
Ii - non pGSSO plU essere diverso - guai se lo tento - non
mi riconoscono plU - IO non devo più muovermi dal con-
cetto preciso, determinato in ogni intima parte, che si son
fatto di me: là, quello, immobile, per sempre!... Vera-
mente, quando si e QUALCUNO, bisogna che al momento
giusto si decreti la propria morte, e si resti chiusi - così -
a guardia di se stessi".
Il rapporto tra uno scrittore e i suoi critici era dunque
diventato un caso pirandelliano, un dramma che, con do-
loroso paradosso, lo scrittore finiva con l'esprimere nei
termini stessi che i critici gli imponevano, cioè in quella,
come dice Tllgher, famosa o famigerata antitesi di Vita e
Forma". Il Qualcuno della commedia altro infatti non
rappresenta che la Forma, mentre la Vita è nelle altre pos-
sibili immagini che lo scrittore potrebbe dare di sé o che
ancora dà e la critica non riconosce e respinge.
Conviene intanto stabilire che quando Pirandello parla
con insofferenza e rancore dei critici o della critica, in ve-
rità pensa ad un solo critico e ad una determinata inter-
pretazione critica: cioè ad Adriano Tilgher e alla formula
dell'antitesi Vita-Forma da Tilgher lanciata come "pro-
blema centrale dell'arte pirandelliana". Degli altri critici,
c'è da credere non si preoccupasse poi molto, e special-
mente di quelli che nettamente lo avversavano: un po' ci
si divertiva, anzi; e li provocava. Domenico Lanza, critico
della "Gazzetta del popolo", che aveva stroncato prima
della rappresentazione la commedia Ciascuno a suo modo, si
ritrovò tra i critici drammatici che son personaggi della
commedia, a ripetere sul palcoscenico la sua stroncatura.
E della stroncatura di Goce, Pirandello non tenne mai
conto se non per dire, una volta, che tra i tanti Pirandello
che la critica aveva messo in giro, quello di Croce era il
DiU imbecille di tutti.
Non ne faremo conto nemm`eno noi. E tra tutti i critici
che si occuparono di Pirandello prima che Tilgher con
tanto fervore si desse a divulgarlo e prima del successo
mondiale, il solo che ci pare meriti considerazione è Giu-
seppe Antonio Borgese. Bisogna tener presente che l'arti-
colo di Borgese era una recensione del volume di novelle
La vita nuda, pubblicato nel 1910: e che il critico intruppi
Pirandello con gli umoristi del "Travaso" e gli metta ac-
canto Trilussa non meraviglia più di quella specie di
gruppo fotografico in cui, nelle Lettere, Renato Serra cala
il nostro scrittore, appena distinguendolo da Luciano Zuc-
coli, Virgilio Brocchi, la Prosperi e la Guglielminetti, per
"un'intenzione di realismo più penetrante".
Le notazioni che più ci colpiscono, nell'articolo di Bor-
gese, sono queste: la "mediocre filosofia" che scopre nel
saggio di Pirandello sull'umorismo e che possiamo oggi,
in una diversa prospettiva storica e critica, estendere a
tutta l'opera pirandelliana; la definizione di realismo anico,
1076 La corda pazza La corda pazza 1077
che si può discutere e rivoltare quanto si vuole, ma non
lasciar cadere del tutto; il concetto di "romanità mo-
derna" che a prima vista, applicato allo scrittore siciliano
appare alquanto gratuito e in un certo senso repugnante,
anche per la diversa usurazione che il termine "romanità"
doveva poi subire; ma che diventa suggestiva indicazione
se considerata e riflessa col senno delpoi. Borgese aveva di
queste divinazioni critiche: nella Roma burocratica, mi-
cragnosa, accldiosa m cui le croci di cavalieri della corona
si confondevano con quelle familiari e personali nella
Roma che Trllussa traduceva in apologhi e di cui ii "Tra-
vaso" raccontava I fasti, nella Roma che qualche volta Pi-
randello toccava nelle novelle, ecco che intravedeva quella
che sara la Roma dei racconti di Moravia e del Pasticciaccio
di Gadda. Indicazione, questa di Borgese, che qui ci limi-
tlamo a segnare come una seria ipotesi di lavoro critico.
A parte dunque Borgese, il Pirandello autore di ro-
manzi e novelle mcontrò critici piuttosto distratti, né mi-
glior fortuna ebbe dapprima il Pirandello autore di com-
medie. Fu m effetti la critica teatrale a rivelare lo scrittore
al grande pubblico; ma fino a quando sulla facciata dell'o-
pera pirandelliana non apparve una filosofia, anche la cri-
tlca teatrale non fece poi molta attenzione a quelle opere
che, rappresentate negli anni della guerra '14-18 e nell'im-
mediato dopoguerra, oggi cominciano ad apparire come il
nucleo più autentico e vivo del teatro pirandelliano.
Nemmeno Il berretto a sonagli, che è forse la più perfetta
commedia di Plrandello, riuscì a muovere i critici ad un
giudizio di meno generico consenso. Lo stesso Tilgher,
nel 1916, dopo la prlma rappresentazione di Pensaci, Gia-
comino.', pronunciava un giudizio che pareva inappellabile
non solo sulla commedia ma sull'autore: "L'arte di Piran-
dello è arte di ozio e di divertimento, senza contenuto
profondo, senza serletà morale, senza interessamento vivo
allo spirito e ai suoi problemi. Gli sciocchi possono scam-
biare per profondità il sorriso ironico di Pirandello sui
SUOI personaggi, ma chi ha buon gusto non si lascia in-
gannare". Ma qualche anno dopo, ecco la stessa comme-
dia gh~dicata da Tilgher uno "straordinario lavoro", di
"una violenza acerba, aperta, lucidamente logica".
Che cosa era avvenuto, perché il giudizio di Tilgher
mutasse così radicalmente?
Lo abbiamo già detto: era apparsa, velata come la si-
gnora Ponza nell'ultima scena di Così è (se vi pare), la filo-
sofia. E se Silvio D'Amico, con più buon senso tutto som-
mato, ravvisava dietro il "fitto velo nero" i tratti di un
lontano antenato di Pirandello, il siciliano Gorgia, Til-
gher non poteva contentarsi di una così owia e sbrigativa
scoperta. Ed ecco come, nel 1940, riassumeva la storia
della sua ricerca e dei suoi rapporti con lo scrittore: "Non
è improbabile che, per quanto riguarda il problema este-
tico, Pirandello sarebbe rimasto fermo alle posizioni dei
Sei personaggi, se non avesse letto il saggio che io gli dedi-
cai nel mio libro Studi sul teatro contemporaneo ( 1922). In
questo saggio io mostravo che tutto il mondo pirandel-
liano faceva centro intorno a una visione della Vita come
forza travagliata da un'interna antinomia per la quale la
Vita è, insieme, necessitata a darsi forma e, per uguale ne-
cessità, non può consistere in nessuna forma, ma deve
passare di forma in forma. E la famosa, o famigerata, anti-
tesi di Vita e Forma, problema centrale dell'arte pirandel-
liana. La formula oggi, a diciott'anni di distanza dalla
pubblicazione del mio saggio, è diventata ormai una for-
muletta, che si ripete da tutti, dimenticando, o fingendo
di dimenticare, colui che la formulò per primo. A leggere
certi critici di Pirandello, verrebbe fatto di credere che
quella formula si trovi ad apertura di pagina nelle opere
di Pirandello, che basti sfogliarle per darci di naso sopra.
Eh no! Quella formula non si trova affatto nelle opere dt Pl-
randello anteriori al mio saggio, e ad inventarla in quei ter-
mini fui proprio e solo io. Naturalmente non la cavai dal
nulla, se l'inventai in quei termini, adattando al mondo di
Pirandello la terminologia filosofica di Georg Simmel, fu
perché mi parve (come mi pare) che quei termini fossero
eccellenti a caratterizzare in modo sintetico e perspicuo il
centro del mondo pirandelliano; me ne diedero l'addentel-
lato alcune frasi pirandelliane sparse qua e là (nelle no-
velle La trappola, La carriola, Pena di vivere così ecc.) ma
insomma, la formula come tale è mia e non è per niente
affatto di Pirandello, è mio il merito, o demerito, di avere
in essa additato il centro, l'asse della intuizione pirandel-
liana della vita. Quella formula, Pirandello l'adottò e la fece
sua... Ma dopo questo innocente sfogo permesso alla mia
vanità, sono il prlmo a riconoscere che per Pirandello sa-
rebbe stato molto meglio che quel mio saggio egli non lo
avesse mai letto. Non è mai troppo bene per un autore
acqulstare cosclenza troppo chiara di quello che è il suo
mondo interiore. Ora, quel mio saggio fissava in termini
così chiari e (almeno a tutt'oggi) così definitivi il mondo
plrandelhano, che Plrandello dové sentircisi come impri-
gionato dentro, donde le sue proteste di essere un artista e
non un filosofo (e chi mai aveva detto altrimenti? io mi
ero limitato a dire che per capire la sua arte bisognava ren-
dersi conto esatto della sua intuizione della vita e del
mondo, della sua filosofia) e i suoi tentativi di evasione.
Ma più cercava di evadere dalle caselle critiche in cui io lo
avevo collocato e più ci si serrava dentro. Duello dram-
matlco CUI IO asslstevo in silenzio e da lontano, astenen-
domi dal vederlo, dal frequentarlo, dai parlargli, dal par-
larne, dallo scrivergli e (dopo il 1928) dallo saiverne. Ri-
spettavo così 1l gluStO orgoglio del grande scrittore senza
rinnegare di un punto le mie convinzioni di critico".
In verità, la storia dei rapporti tra Pirandello e Tilgher
è, sul piano personale, anche più complicata ed acre: vi si
intrecciano ascismo e antifascismo, il delitto Matteotti
l'adesione di Pirandello al fascismo e la violenta polemica
che divampa da un attacco di Giovanni Amendola allo
scrittore. Ma noi qui ci limitiamo a dire che il resoconto
di Tilgher riguardo ai rapporti con Pirandello è abba-
stanza esatto: le opere di Pirandello successive al saggio
di Tilgher veramente si dibattono nella morsa della "fa-
mosa o famigerata formula". La quale, più o meno varia-
mente monvata, contmuò ad essere ripresa dai critici fino
a quando, dai quaderni del carcere di Antonio Gramsci,
non venne il suggerimento che "l~ideologia pirandelliana
non ha origini libresche e filosofiche, ma è connessa a
esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di
carattere libresco"; che in Pirandello "ci sono punti di vi-
sta che possono riallacciarsi genericamente a una conce-
zione del mondo che all'ingrosso può essere identificata
con quella soggettivistica", ma che questi punti di vista
esistono "nella vita stessa, nella cultura del tempo e per-
sino nella cultura popolare di grado infimo, nelolclore";
ed essendo il pirandellismo in definitiva "giustificato da
modi di pensare storicamente popolari e dialettali", i per-
sonaggi di Pirandello non sono "intellettuali travestiti da
popolani", "popolani che pensano da intellettuaii", ma
"reali, storicamente, regionalmente, popolani slcilianl,
che pensano e operano così, proprio perché sono popolani
e siciliani". Discorso, questo, che Gramsci muove sulle
cose più scopertamente siciliane di Pirandello, ma che si
può cautamente articolare su tutta l'opera dello scrittore
agrigentino.
968
Pirandello e il dialettoolà"
Pirandello scrisse la commedia Lzolà, nel dialetto sici-
liano di Girgenti, in poco più di quindici giorni, tra il 20
agosto e il 10 settembre del 1916. Benché ll teatro allora
lo tentasse poco, il successo cui Angelo Musco aveva por-
tato Pensaci, Giacomino., rappresentata il 10 luglio di quel-
l'anno al Teatro Nazionale romano, lo aveva incoraggiato
a scrivere altre commedie. Al figlio Stefano, prigioniero
in un campo tedesco, già fin dal 20 luglio scriveva di
avere già trama, sceneggiatura e titolo della commedia da
fare per Musco: I iolà, la commedia di un contadino
poeta, ubriaco di sole, come se ne trovano tanti m Slalla.
Ma circa un mese dopo scriveva di avere invece già
pronta un'altra commedia in due atti, di averla conse-
gnata a Musco: Il berretto a sonagli ('A birritta cu' i ciancia-
neddi), Isplrata più che tratta da una novella pubblicata
quattro anni prima, La verità. Perché avesse lasciato mo-
mentaneamente L~olà per scrivere Il berretto a sonagli, non
sappiamo: è probabile ne avesse già portato avanti l'ab-
bozzo; e certamente obbedì a una ispirazione irresistibile
ad un impeto di felicità creatrice che a nostro giudizio re-
sta tra I plU alti della sua opera teatrale. Comunque, il 10
settembre è pronta anche Liolà. Aveva detto al figlio: "E
verrà bene, vedrai". Ora, a lavoro compiuto, conferma:
"Liolà è venuto proprio bene". A quanto pare, identifica
la commedia col personaggio: molto giustamente, nel
caso partlcolare. Venuto bene il personaggio, è venuta
bene la commedia. Più tardi scrive: "... è stata la mia vil-
legglatura. Di fatti si svolge in campagna. Mi pare di
avertl gia detto che il protagonista è un contadino-poeta
ebbro di sole. E COSì gioconda che non pare opera mia...
questa è opera che vivrà a lungo..."
In autunno, alla ripresa della stagione, Musco mette in
scena Llolà. Tra i due testi che Pirandello gli aveva conse-
gnato, il personaggio di Liolà, di vitale allegria, certo lo
attlraVa plU di quello di Ciampa, sottile notomizzatore di
quei motivi d'onore i cui effetti sono ancora contemplati
nel codice penale della Repubblica italiana. 'A birntta cu'
i ciancianeddi, Musco se la riservò per la chiusura di sta-
gione, giugno del 1917.
Pirandello, che insegnava allora al Magistero, ed era
tempo di esaml, dappnma non poté seguire le prove. Co-
noscendo Musco, le libertà che l'attore si prendeva sui te-
5tl, 1l suo gusto all'improvvisazione, si crucciava di non
potere essere presente. "Era difficile", diceva Musco. E in-
~atti alla prova generale Pirandello esplose: tolse il co-
pione dalle mani del suggeritore e se ne andò, deciso a
non permettere la rappresentazione della commedia, che
doveva avvemre quella stessa sera, 4 novembre. Musco gli
corse dietro gridando: "Professore, è inutile che si porti il
copione. Stasera lo recitiamo a soggetto... Non ci serve
con questo o senza questo, stasera si recita lo stesso... Lei
non si è messo in testa che noi siamo come i giannetti: se
non sentono le bombe, non partono". Era vero, 1l para-
gone calzava: Musco e i suoi attori, come già Giovanni
Grasso, erano come quei cavalli che nelle feste patronall
siciliane si lanciano alla corsa appena si fanno esplodere i
mortaretti; avevano bisogno del pubblico per recitare ve-
ramente, il teatro per loro si realizzava nella presenza e
partecipazione degli spettatori.
Per intercessione di Martoglio, Pirandello si placò, re-
stituì il copione; e la sera Liolà ebbe vivissimo successo.
Il testo, con versione italiana a fronte, fu pubblicato
dal Formiggini l'anno successivo. Ma la commedia era
nata in dialetto, in quel dialetto di Girgenti che Piran-
dello riteneva perfetto strumento di espressione letteraria
e che per lui era veramente tale, conoscendolo come lo
conosceva, profondamente, in ogni vibrazione e sfuma-
tura. E qui bisogna toccare un altro punto della contraddi-
zione, della incoerenza pirandelliana; un altro, diciamo, ri-
spetto a quelli in cui vita e opera, azione e riflessione,
azione ed azione, riflessione e riflessione, mutuamente si
contraddicono. Nel 1909, Pirandello aveva scritto un arti-
colo piuttosto aspro sul teatro dialettale siciliano che in
quegli anni veniva affermandosi attraverso i testi scritti da
Martoglio e le rappresentazioni che di questi testi, e di al-
tri, davano Giovanni Grasso e Mimì Aguglia. Premet-
tendo di non essere nemico dell'arte drammatica, "bensì
di quel mondo posticcio e convenzionale del palcoscenico,
in cui l'opera d'arte drammatica è purtroppo, inevitabil-
mente, destinata a perdere tanto della sua verità ideale e
superiore, quanto più acquista di realtà materiale, a un
tempo, e fittizia" e che dunque la rappresentazione sce-
nica di un testo drammatico altro non è che una tradu-
zione, con tutti i guasti e i tradimenti che una traduzione
comporta, Pirandello passa a considerare il "nascente tea-
tro dialettale siciliano, che due valorosissimi attori, il
Grasso e l'Aguglia, portano adesso in giro per il mondo
suscitando a un tempo entusiasmo e ribrezzo". E non sap-
piamo se la parola ribrezzo si riferisce all'emozione e com-
mozlone che Grasso suscitava negli spettatori con le sue
violente interpretazioni o se invece si riferisce al disgusto
che COSI vlolente traduzioni sceniche dei testi suscitavano
in un particolare tipo di spettatore, uno spettatore, in atto
o potenzlalmente, autore.
Per riassumere: le domande che Pirandello si pone, e
alle quali risponde negativamente sono tre Le mettiamo
in ordine d'importanza e non nell'ordine in cui vengono
fuori dall'articolo. La prima: "perché uno scrittore si ser-
virà di un mezzo così limitato, quale il dialetto rispetto
alla lingua", "quando l'attività creatrice ch'egli dovrà im-
plegare sara pure la stessa?" La seconda: quand'anche il
poeta si volgesse al dialetto non perché non conosce la
lmgua o perché la conosce ad un grado insufficiente a
rendere con vivezza e immediatezza il mondo che vuole
rappresentare, ma perché "la natura dei suoi sentimenti e
delle sue immagini è talmente radicata nella terra, di cui
egli si fa voce, che gli parrebbe disadatto o incoerente un
altro mezzo di comunicazione che non fosse l'espressione
dialettale" o che "la cosa da rappresentare è talmente lo-
cale che non potrebbe trovare espressione oltre i limiti di
conoscenza della cosa stessa"; quand'anche l'uso del dia-
letto venisse da queste condizioni com'è possibile, nel
caso del teatro siciliano, raggiungere fuori dell'isola un
pubblico che della Sicilia ha "una conoscenza limitatis-
slma di poche espressloni caratteristiche, violente, dive-
nute ormai di maniera?" Terza domanda: e ammesso che
un autore siciliano superi queste pregiudiziali e decida di
scrivere in dialetto, potrà mai "essere padrone dei suoi ar-
gomenti, dati i gusti e le tendenze del pubblico e le stesse
qualità rappresentative degli esecutori?"
La risposta alla prima domanda è contenuta nella pre-
messa alla seconda: un autore come Pirandello sceglie un
mezzo effettualmente limitato quale il dialetto soltanto
quando "la natura dei suoi sentimenti e delle sue imma-
gini è talmente radicata nella terra, di cui egli si fa voce,
che gli parrebbe disadatto o incoerente un altro mezzo di
comunicazione che non fosse l'espressione dialettale".
Alla seconda domanda si può dire rispondesse il senti-
mento della Sicilia che intorno a quegli anni un ragazzo
di Odessa raggiungeva attraverso gli spettacoli di Grasso
e che doveva più tardi fermare in uno stupendo racconto
appunto intitolato al nome dell'attore. La terza domanda
era piuttosto ingenua in senso generale, poiché la storia
del teatro stava a dimostrare quanto poco influissero le
tendenze del pubblico e la qualità degli esecutori a dispo-
sizione sulla libertà e la forza creativa di un autore; ma
era giusta riguardo a Grasso, e per il semplice fatto che
"il signor Grasso e la signora Aguglia" - dice Pirandello
- non avevano "neanche bisogno di parlare per farsl ap-
plaudire". Del dramma che Grasso rappresentò ad
Odessa, Babel' dice: "era il più banale che si potesse im-
maginare: una storia qualunque, come chi raccontasse che
dopo la notte viene il giorno e dopo il giorno la notte". E
infatti alla fine del primo atto uno spettatore commenta:
"Robaccia". Ma alla finè del terzo, dice Babel', "ci preci-
pitammo alla cassa, nel vicolo dietro il teatro, e ci met-
temmo subito in coda per l'apertura del glorno succes-
sivo. All'alba il 'Corriere di Odessa' informò la popola-
zione che i pochi spettatori del giorno prima avevano Vl-
sto il più straordinario attore del secolo".
Puntualmente, qualche anno dopo, Pirandello contrad-
disse queste sue negazioni: scrisse commedie in dialetto;
ne scrisse alcune che intrinsecamente non avevano neces-
sità di essere espresse in dialetto e altre che legate invece
a questa necessità tradusse in lingua; le scrisse per un at-
tore che proveniva dalla scuola di Grasso e le cui infedeltà
ai testi erano continue e massicce. Ma nessuna di queste
contraddizioni gli si può rimproverare in rapporto alle
opere in cui si realizzarono. Attraverso la grande lezione
di Verga, e provenendo da novelle già scritte m lmgua,
commedie come Pensaci, Giacomino!, Il berretto a sonagli,
La giara, La patente, pur essendo profondamente radicate
nella terra e nel modo di essere dei siciliani, e quindi in-
trinsecamente dialetta!i, raggiungono forma assoluta an-
che nelle versionmn lmgua; altre, come La morsa e Tutto
per bene, sospettiamo accuseranno nelle versioni in dialetto
una certa gratuità, e specialmente la seconda: ma d'altra
parte rappresentano un contributo volenteroso e affettivo
al repertorio non certamente ricco del teatro dialettale si-
ciliano. In quanto a Liolà, non c'è dubbio che nella tradu-
zlone in lingua perde moltissimo, e dunque astrattamente
si può muovere a Pirandello il rimprovero di averla tra-
dotta; ma in pratica noi siamo qui, a parlare di Liolà, a
conslderarla un'opera importante nel teatro pirandelliano
e che arricchisce la personalità di Pirandello, il personag-
gio Pirandello, di un elemento - ancora di un elemento -
contrastante e contraddittorio, per il fatto che abbiamo la
traduzlone m lingua, che è poi la più rappresentata e co-
nosciuta. Se di Liolà fosse soltanto rimasto il testo dialet-
tale, appunto ci saremmo trovati di fronte ad una cosa tal-
mente locale che difficilmente avrebbe trovato compren-
slone al di fuori dei limiti della conoscenza della cosa
stessa, cioè al di fuori del circondario di Girgenti, se non
attraverso attori che non avevano "neanche bisogno di
parlare"; e anche in tal caso il margine di incomprensione
sarebbe stato piuttosto largo. Il dialetto di Girgenti sarà,
come diceva Pirandello, e nelle sue mani è senz'altro, uno
strumento anche letterariamente perfetto; ma è il caso di
ribadire come alle aree linguistiche ristrette e per così dire
tribali corrispondono profonde forze espressive di emo-
zione e sentimenti che appunto in ragione della loro pro-
fondità perdono diciamo di superficie. Infatti, pubbli-
cando la commedia con la versione italiana a fronte, Pi-
randello diceva che alla rappresentazione che ne aveva
dato Musco l'anno precedente, "la maggioranza degli
spettatori, che pure con facilità intende gli altri lavori del
nuovo teatro siciliano, stentò molto (com'ebbe a rileva-
re quasi unanimemente la critica teatrale dei giornali
romani) a intender questo. La ragione è semplicissima.
Quasi tutti gli altri lavori presentano personaggi, usi e
costumi borghesi, e sono scritti, o recitati, in quell'ibrido
linguaggio, tra il dialetto e la lingua, che è il così detto
dialetto borghese, siciliano qui, in altri lavori del genere,
piemontese o lombardo, veneto o napoletano: dialetto bor-
ghese che, con qualche goffaggine, appena appena arroton-
dato, diventa lingua italiana, cioè quella certa llngua ita-
liana parlata comunemente, e forse non soltanto dagli in-
colti, in Italia. Liolà, commedia campestre, fu recitata per
espressa volontà dell'autore, così com'è scritta, in pretto
vernacolo, quale si conveniva a personaggi tUttl conta-
dini della campagna agrigentina". Il che era senz'altro
vero. Ma non ugualmente vera l'affermazlone, pronun-
ciata con un certo disappunto nei riguardi degli spetta-
tori e dei critici romani, che la parlata di Girgenti, più di
ogni altra del dialetto siciliano, fosse per certe sue parti-
colarità fonetiche la più vicina alla lingua italiana. Ma
questo è un punto da lasciare a chi, in materia lingui-
stica, ha più scienza di noi. Vogliamo piuttosto dire che
Pirandello scrivendo Liolà si è compiaciuto di stnngere il
dialetto là dove poteva apnrlo. O forse era talmente im-
merso, scrivendola, nella memoria e nostalgia della sua
campagna, della sua gente, da non tener presente la pos-
sibilità che, senza minimamente indulgere al dialetto bor-
ghese, certe parole, certe espressioni, potevano essere so-
stituite agevolmente con altre più comprensibili. Era la
commedia-vacanza, la commedia-villeggiatura, in quell'e-
state romana del 1916. Ed è curioso che egli riuscisse a
chiudervisi in un modo così totale e perfetto, in mezzo a
una tragedia collettiva e familiare che pure fortemente
sentiva. Gaspare Giudice, nella sua non mal abbastanza
lodata biografia di Pirandello, esattamente dice: "Liolà è
l'unica invenzione di quei giorni, in cui l'autore tenti di
evadere dalla presente disperazione. Scritta fra il pensiero
continuo della prigionia del figlio, la follia della moglie
e il pozzo profondo in cui dirà di avere immaginato Così
è (se vi pare), rivela, ancor più di ogni altra opera e di
ogni altra testimonianza, la possibilità che lo scrittore
aveva di chiudersi ermeticamente in un suo mondo pri-
vato, di fantasia. In Liolà, opera-villeggiatura, egli chiama
a raccolta le cose serene della sua vita: qui (come non era
avvenuto ne I vecche t g~ovani) gli riesce di recuperare
fellcemente ll tempo perduto della campagna della sua fan-
clullezza e, nel personaggio contadino, il processo veloce
e innocente dei movimenti istintivi dimenticati; come
anche, per una volta, riesce a ricreare immediatamente
l'esperienza rasserenante della lettura di certi classici
per esemplo della commedia rusticana umanistica. E
certo, anche in quest'opera, sono in fondo l'amarezza e
lo scettlclsmo che dettano le altre commedie contempo-
ranee, ma qui, quel sentimenti rimangono come invo-
lontari, segreti all'autore, sotto la pelle del suo perso-
naggio vivo".
Finalmente, ecco una commedia di Pirandello che non
contlene probleml, da cui non si possono estrarre for-
mule; tutta versata fuori, nell'intreccio quasi danzante dei
rldevoh mgannl. Nel personaggio è quell'ardita noncu-
ranza che Lavvrence dice avevano i greci ed hanno i sici-
ham: l'abbandonarsi alla vita, al sangue, alla natura, allo
splendore dei sensi. Vita che- non si lascia imprigionare
dalla forma, avrebbe potuto dire Tilgher. Ma non l'ha
detto: una commedia come kolà, commedia-villeggia-
tura, commedia-fuga, non rientrava nello schema teoriz-
zante della sua critica.
Pirandello aveva detto: "questa è opera che vivrà a
lungo". Nei Quaderni Gramsci annota: "kolà mi pare il
suo capolavoro"; e intorno a Liolà muove quel discorso
sulla "dialettalità" di Pirandello cui più sensatamente e
felicemente che alla lucida e perentoria formula di Til-
gher la critica ha attinto in questi ultimi anni. Pur es-
sendo dunque kolà "così gioconda" da non parere opera
sua, di Pirandello, effettualmente invece, e profon-
damente, Sl appartiene al suo mondo, alla sua visione
della vita, ai luoghi delle sue metamorfosi, alle radici
dei SUOI sentimenti, alla sua letteratura: e queste cose
spiega ed illumina nel dirompere delle inibizioni, delle
rimozioni, delle nascoste forze della vita.
Se poi anche per Liolà si vuole una chiave buona ad
aprire nella commedia "il problema", è piuttosto facile
trovarla, per così dire, in portineria, cioè nella cronaca dei
domestici guai da cui Pirandello cominciava ad essere op-
presso: il desiderio inconscio di tenersi i figli, relegando
nell'ombra, fin quasi a cancellarne la presenza, la donna
che li aveva messi al mondo.
1968
Dal mimo alla commedia
Intorno al 1921 Francesco Lanza, scrittore siciliano
oggi poco noto e che merita di essere riproposto a nuova
lettura, lavorando di fantasia o ricreandole, cominciava a
scrivere delle historiettes "d'un umorismo popolare azzar-
dato e denso", come scrìveva ad un amico. Voleva intito-
larle Storie di Nino Scardino, come raccontate cioè da un
narratore popolano. Tra le prime che scrisse, due che si
intitolavano Il buco e All'ombra le mandò, nel febbraio del
1922, a Pirandello. Non sappiamo come furono accolte, e
purtroppo delle due "storie" ci restano soltanto i titoli: e
son titoli da Novelle per un anno.
Il gesto di Lanza, di mandare a Pirandello le due "sto-
rie", ha oggi per noi valore critico: nessuno meglio di Pi-
randello poteva apprezzare quelle "storie" che lo stesso
Lanza definiva popolaresche, azzardate, sornione, di noc-
ciolo duro e letterariamente senza valore. Quest'ultima af-
fermazione - letterariamente senza valore - va intesa "in
decisa opposizione a tutta la letteratura corrente, regolar-
mente catalogata dai criticazzi crociani e non crociani"
dentro i cui schemi, com'è noto, allora non trovava posto
nemmeno Pirandello.
Più tardi, per suggerimento di Ardengo Soffici, quel
centinaio di "storie" che Lanza venne scrivendo presero il
titolo più espressivo e preciso di "mimi": Mimi siciliani
(Alpes, Milano 1928). Nel libro, il narratore popolano
Nino Scardino, era scomparso: le historiettes balzavano im-
mediate, raplde, con un movimento (disse Vittorini) pre-
ciso che evocava ampi spazi di realtà. A parte i Mimi di
Eronda, cui Soffici si era riferito suggerendo il titolo, il
genere veniva a Lanza dalla tradizione orale del popolo si-
ciliano e contava due soli precedenti scritti, letterari uno
cra quel libretto di Avvenimenti faceti di Sicilia scritto da
un anonimo nel Settecento e che Pitrè aveva pubblicato
da un manoscritto della Biblioteca Comunale di Palermo
nel 1883; l'altro era in certe novelle di Pirandello, e più
esattamente nel nocciolo di certe novelle, e che sono poi
quelle novelle che diventarono o che potevano diventare
teatro. E a questo punto conviene ricordare che il "mi-
mo", in origine, è imitazione o riproduzione della realtà
e quel che Giovanni Setti dice del "mimo" di Eronda si
può benissimo applicare a quello di Lanza: "Gli sfondi
delle scene sono appena segnati o delineati; quel che sta a
cuore del poeta è la naturalezza, la verità, la vivacità delle
flgurme che m un modo del tutto drammatico ci mette
sotto gli occhi. E così è semplice l'intreccio, che si com-
pone e si svolge, si direbbe, da sé, quasi senza la coopera-
zione dell'artista, il quale è nascosto dietro alle sue slngo-
lari invenzioni. Son le cose che si muovono e parlano: la
realtà vivente, che in piccoli quadri il poeta ha colto con
rapidità istantanea e collocato davanti agli spettatori I
quali hanno appena il tempo di meravigliarsi di quella
immediatezza di rappresentazione artistica: trasportati
come sono, per tal guisa, proprio 'in medias res'". Col
"mimo" siamo già a teatro, insomma: col "mimo" di
Lanza come col "mimo" di Eronda. E ancor più col
"mlmo" di Pirandello.
Caratteristica dei "mimi" di Lanza è il candore del pro-
tagonista, che di volta in volta viene indicato come "per-
zese" (cioè di Pietraperzia), "piazzese" (di Piazza Arme-
rina), "modicano" (di Modica), "monrealese" (di Mon-
reale), e così via, ma è sempre il contadino siciliano. E
prendiamo la novella di Pirandello che più fa al caso, La
vcntà. Il protagonista, Saru Argentu inteso Tararà, è lo
stesso tipo di contadino candido e ignaro che nei "mimi"
di Lanza subisce invariabilmente una deformazione co-
mica- e la sua storia si può ridurre a poche battute, ap-
punto alle dimensioni del mimo. Tararà, processato per
avere ammazzato la moglie adultera, alla domanda del giu-
dice: "vi era nota, sì o no, la tresca di vostra moglie?", can-
didamente risponde: "la verità è questa: che era come se lO
non lo sapessi"; e in grazia della verità si ebbe una con-
danna per omicidio premeditato invece che la lieve pena
che tocca agli omicidi per onore. E già in questo "mimo"
essenziale c'è la commedia, quella che è per noi forse la plU
perfetta commedia di Pirandello: Il berretto a sonagli.
La genesi delle cose pirandelliane è quasi sempre que-
sta: c'è un "avvenimento faceto", di tradizione o di cro-
naca locale, un "mimo"; Pirandello ne scopre il rovescio
doloroso, pietoso, assurdo: e l"'avvenimento faceto" è gia
dramma. La scena è quasi sempre Girgenti, anche se ap-
pena delineata o alterata o taciuta. Pirandello opera ln-
somma una specie di mediazione tra un fatto realmente
accaduto in quel teatro che è la sua città e la vera e pro-
pria rappresentazione teatrale dello stesso fatto. In questa
mediazione, tra i due fatti egualmente ed equamente tea-
trali, il fatto com'è e il fatto interpretato, la sua condi-
zione d'autore è un po' simile a quella dei persiani di
Montesquieu a teatro.
Pirandello porta dunque gli avvenimenti dal teatro al
teatro, dal "mimo" alla commedia: dal "mimo" che Sl
svolge da sé e cerca un autore alla commedia in cui quel
"mimo" viene interpretato, articolato nella fDrma dram-
matica, portato alle conseguenze per così dire catartiche
dall'autore. Siamo di fronte ad una specie di invenzlone
del teatro, quale Jorge Luis Borges immagina m Averroè
che traduce la Poetica di Aristotele. In tutto l'Islam, dice
Borges, nessuno aveva la più piccola idea di quel che Sl-
gnificassero le parole tragedia e commedia. E anche ai
giorni nostri Girgenti, Agrigento, in questo senso conti-
nua a far parte dell'Islam.
Il cittadino di Girgenti che, nel momento in cui le cose
di Pirandello venivano per la prima volta pubblicate o
rappresentate, vi ritrovava il fatto realmente accaduto e
poteva dare ai personaggi il nome delle persone vere, si
poneva In effetti un preliminare problema critico che la
crltlca plrandelllana non si è mai posto: il problema cioè
del particolare processo creativo, della particolare declina-
zlone fantastlca m cui Pirandello assumeva i fatti. Non è
un problema di "fonti", di spunti, di sollecitazioni quale
variamente lo pongono scrittori come Ariosto o Manzoni
o Stendhal; è il problema della forma stessa dell'opera pi-
randelliana. Noi qui ci limitiamo a proporlo, per come lo
sentiamo e viviamo nel luogo in cui siamo nati, a pochi
chilometri dal luogo in cui Pirandello è nato Potremmo
anche aggiungere un elenco di "mimi" che in questi luo-
ghi ancora si raccontano e che si ritrovano nelle novelle
di Pirandello: da La verità a Laassa riposta, dalla Avema-
ria di Bobbio alla Casa del Granella, dalla Patente al Capretto
nero; ma riteniamo non sia poi difficile, a qualsiasi lettore
nelle cose di Pirandello scoprire il nocciolo del "mimo", ii
piccolo nucleo dell"'avvenimento faceto".
I gG8
"I sei personaggi "
"Sarà strano, signore, ma è così."
E strano - e non è così.
Ma ecco le battute che raccontano la strana situazione
- e incredibile:
IL PADRE ...M'interessai con una incredibile tenerezza della
nuova famigliuola che le cresceva. Glielo può attestare an-
che lei! (Indi~herà lafigliastra)
LA FIGLIASTRA Eh, altro! Piccina piccina, sa? con le treccine
sulle spalle e le mutandine più lunghe della gonna - piccina
così - me lo vedevo davanti al portone della scuola, quando
ne uscivo. Veniva a vedermi come crescevo...
IL PADRE Questo è perfido! Infame!
LA FIGLIASTRA No, perché?
IL PADRE Infame! Infame! (S~bito, con~itatamente, al Capoco-
mi~o, in tono di spiegazione) La mia casa, signore, andata via
lei (indicherà la Madre), mi patve subito vuota. Era il mio
incubo, ma me la riempiva! Solo mi ritrovai per le stanze
come una mosca senza capo. Quelio lì (indi~herà ilfiglio), al-
levato fuori - non so - appena ritornato a casa, non mi patve
più mio. Mancata tra me e lui la madre, è cresciuto per sé, a
parte, senza nessuna relazione né affettiva né intellettuale
con me. E allora (sarà strano, signore, ma è così), io fui in-
curiosito prima, poi mano mano attratto verso la famigliuola
di lei, sorta per opera mia: il pensiero di essa cominciò a
riempire il vuoto che mi sentivo attorno. Avevo bisogno,
proprio bisogno di crederla in pace, tutta intesa alle cure più
semplici della vita, fortunata perché fuori e lontana dai com-
plicati tormenti del mio spirito. E per averne una prova an-
davo a vedere quella bambina all'uscita della scuola!
LA FIGLIASTRA Già! Mi seguiva per via: mi sorrideva e, giunta
a casa, mi salutava con la mano - così! Lo guardavo con
tanto d'occhi, scontrosa. Non sapevo chi fosse! Lo dissi alla
mamma. E lei dovette subito capire ch'era lui. (La Madre
faràenno di sìolapo) Dapprima non volle mandarmi plU a
scuola, per parecchi giorni. Quando ci tornai, lo rividi all'u-
scita - buffo! - con un involtone di carta tra le mani. Mi si
avvicinò, mi carezzò; e trasse da quell'involto una bella,
grande paglia di Firenze con una ghirlandina di roselline di
maggio - per me!
ILCAF~COMICO Ma tutto questo è racconto, signori miei!
ILFIGLIO (sprezzante) Ma sì, letteratura! letteratura!
Il giudizio del figlio è appunto sprezzante: contesta
non soltanto il sentimentalismo, alquanto ipocrita e un-
tuoso, del Padre, ma i sentimenti e le passioni anche; non
capisce e rifiuta la tragedia degli altri personaggi, sia sul
piano della realtà, del possibile, sia sul piano (per così
dire) dell'accadimento estetico; si nega, insomma, anche
come personaggio. In un certo senso, si può dire che anti-
cipa una forma di nichilismo oggi consueta. Ma il giudi-
Z10 del Capocomico ha la esatta ambiguità tecnica e mo-
rale che defmlsce il personaggio e nella commedia non
fatta e nella commedia che si va facendo. Nella commedia
non fatta, m quanto i sentimenti enunciati dal personag-
gio appaiono improbabili e mistificati, o almeno strani e
mcrediblll per come il personaggio stesso li ha definiti;
nella commedia che si va facendo, in quanto semplice-
mente detti, raccontati, e dunque privi anche di una credi-
bilità teatrale. Ma andiamo al fatto - cioè alla commedia
non fatta. Un uomo sente insopportabile la vita con la
moghe: e non tanto, dice, perché costei è una donnetta
apprensiva e oppressiva, quanto perché ha visto stabilirsi
e crescere un'mtesa che somiglia all'amore tra lei e un suo
impiegato. Fa in modo che i due si mettano assieme, for-
mmo una famiglia: e lui se ne rimane col figlio ma senza
riuscire a legare a sé il ragazzo, che in effetti gii somiglia
nell'mcapacità di rapporti affettivi e intellettuali. La soli-
tudine, dunque: una solitudine torbida, inquieta, impo-
tente - non quella che, nella visione pirandelliana, attinge
di solito a uno stato di grazia, libera la creatura dall'invo-
lucro del personaggio. E ad un certo punto comincia a
rlemplrla, questa sua solitudine, del pensiero e del va-
gheggiamento di quella famigliuola che la moglie si era
formata con l'altro uomo: nel sentimento, alquanto inna-
turale nel caso, dell'artista di fronte alla propria opera
("sorta per opera mia", dice). E particolarmente le sue at-
tenzlom sentlmentali si concentrano sulla bambina nata
da quell'adulterio: cui lui ha dato consenso ed agevola-
zlone non certo dalla posizione di una specie di cocu ma-
gnifiq~e (come parrebbe dal suo soffrirne e goderne) ma
da quella di un uomo che soltanto vuol liberarsi dail'afa
che la moglie gli fa intorno e da una situazione piuttosto
amblgua.
Più tardi, a sua insaputa, la famiglia si trasferisce. Ri-
torna dopo qualche anno e dopo che l'altro è morto
Dalla povertà in cui sono caduti la bambina divenuta
donna tenta di uscire: trova lavoro nell'atelier di una
sarta, madama Pace, che si rivela una mezzana; alle cui lu-
singhe e proposte la ragazza cede e così, prostituendosl,
incontra il marito di sua madre. Ed è il punto della trage-
dia. (Particolare curioso: madama Pace, personagglo evo-
cato, parla spagnolo. Pensando forse alla Celestina, nella
fantasia di Pirandello, al momento dell'evocazione, lo spa-
gnolo è diventata la lingua della mezzaneria.)
Nell'atelier di madama Pace esplode dunque la trage-
dia, si compie la fatalità. Ma è una fatalità dai presupposti
gratuiti, e gratuita essa stessa. Né basta, a giustiticare
tanta gratuità, la dichiarazione che i fatti non hanno biso-
gno di essere verosimili poiché sono veri. La verità, anche
quando è colta nei suoi paradossi e nei suoi parosslsml,
non può non assumere forma ("forma" appunto nel senso
che Tilgher didascalizzò per Pirandello: realtà definitiva-
mente e inalterabilmente mutata in se stessa, flssata) di
verosimiglianza. O deve almeno restare - al di qua della
forma - verità: documento, reperto.
Che cosa manca dunque, nei fatti della commedia da
fare, in ordine alla verità e alla verosimiglianza? Qual è
l'anello che non tiene nel concatenarsi dei fatti e sul
piano della verità e sui piano della verosimiglianza? Sol-
tanto quello, per così dire, anagrafico, di stato civile, che
riguarda il rapporto tra il personaggio che Pirandello
chiama il Padre e il personaggio che chiama la Figliastra.
Il Padre deve essere effettivamente padre, deve - ai sensi
della legge come ai sensi della tragedia - avere nella ra-
gazza che incontra nell'atelier di madama Pace, e ricono-
scere dopo la consumazione di quello che il codice chiama
"congresso carnale", una Figlia e non una Figliastra.
Nella misura in cui di fronte alla religione, alla legge e
alle convenzioni, quel che accade da madama Pace è irre-
parabile infrazione di un divieto, peccato e reato, la trage-
dia assume motivazione e senso, si fa vera e veroslmile: e
trova controparte propriamente e profondamente piran-
delliana (del Pirandello cioè che parteggia per la "vita"
contro la "forma", per la "libertà" contro il "divieto" so-
ciale e giuridico) nella "contestazione" avant la lettre,
nella negazione del Figlio.
La tragedia che Pirandello, in autocensura, rifiuta, non
può essere che questa: di un avvenimento che per caso,
per fatalità, per la mercificazione che su ogni cosa opera
la società borghese, scatta in una casa di appuntamenti
quando un uomo anziano e una giovane donna si ricono-
scono Padre e Figlia - e il dramma che dentro e fuori di
loro, autopunizione e punizione, suscita l'infrazione del
divieto. Un momento, un atto: ma irreparabile, irreversi-
bile. Non di fronte alla vita, non nell'imprevedibile e
fluido non consistere della vita, non nell'informe e cieca
brama in cui la vita scorre e si avventa. Irreparabile e irre-
versibile sui registri dello stato civile, nella legge scritta e
nella legge non scritta, nella "forma" che l'associazione
degli uomini ha dato alla vita, e che è poi una specie di
vtvtr desvtvtendose.
"Rimani aperto a tutti i soffii, lasciati penetrare da
tutti i germi; accogli l'ignoto e l'impreveduto e quanto al-
tro ti recherà l'evento; abolisci ogni divieto." Di questa sa-
lutifera prescrizione che D'Annunzio faceva a se stesso e
al suo Claudio Cantelmo, Borgese metteva in corsivo l'a-
bolizione di ogni divieto e ironicamente commentava che
"abolire ogni divieto è impossibile, fin quando ci saranno
i carabinieri". Ma che ci fossero i carabinieri D'Annunzio
lo sapeva bene: solo che non ne faceva un dramma, e anzi
gli servivano a confermare e ad esaltare la propria eccezio-
nalità e immunità, a garantire il copyright del suo "vivere
inimitabile". E invece per Pirandello che i carabinieri rap-
presentano l'inabolibile divieto e catalizzano il dramma:
e, nei Sei personaggi, il dramma dell'Autore più che dei
personaggi stessi; il dramma dell'Autore che è costretto a
negarsi ai personaggi, a rifiutarli nell'evento forse impre-
veduto attraverso cui insorsero nella fantasia: l'infrazione
del divieto, l'incesto.
Così il dispositivo di sicurezza che di solito, nelle altre
commedie di Pirandello, scatta ad eludere la tragedia e a
distrarre e concludere l'evento nella beffarda e grottesca
ricostituzione delle apparenze, nei Sei personaggi è co-
stretto a scattare in anticipo. Il dramma borghese, che se
portato a fondo non avrebbe più permesso la ricostitu-
zione delle apparenze, viene dirottato nel dramma este-
tico, un dramma effettualmente fittizio, che peraltro era
già stato posto e risolto nella storia del teatro.
1970
LA ZOLFARA
In quel sabato 28 aprile del 1787 in cui, tra Girgenti e
Caltanlssetta, Sl trovò ad attraversare un "deserto di fe-
condità", Goethe era particolarmente intento a registrare
le qualità e i colori del terreno, i tipi e i modi delle col-
ture che vi prosperavano: "terreno biancastro", "calcare
antico, commisto a terra gessosa", "pietra calcarea, meno
compatta, giallastra", "più in là si mostra di color rossic-
cio, quasi come il minio, con qualche venatura violetta"
"frammenti quarziferi"; e "dorsi di montagne e di colline
in heve pendio, completamente coltivate a frumento e ad
orzo", "stupende le messi, e d'una purezza quasi incredi-
La sua curiosità geologica e la sua acuta, anche se con-
discendente, attenzione all'umano, sarebbero state ben più
mtensamente sollecitate se si fosse trovato ad attraversare
la diagonale Girgenti-Catania qualche decennio dopo: i
dorsl delle colline sarebbero apparsi tarlati da pozzi, galle-
rle e "calcherom", e intorno rosseggianti di "ginisi", e nei
pendh e nelle valli le messi non sarebbero più state di
quella incredibile nettezza, né di intenso verde nel rigo-
gho o di caldo oro nella maturazione: ma stente, gracili
malate - bruciate dal fiato acre dei "calcheroni". E nei
mutato paesaggio si sarebbe iscritta una nuova, più atroce
e al tempo stesso più libera, condizione umana. La zol-
fara, insomma (o, come allora si diceva, la solfatara): la
nuova realtà della Sicilia interna. Una struttura econo-
mica che veniva a sovrapporsi, senza sostanzialmente mo-
dificarla, a quella del feudo; ma che dalla condizione con-
tadina, cioè dalla solitudine, dal solitario rancore e dolore,
portava l'uomo siciliano ad una forma di vita aggregata,
solidale. Non ancora, e forse non mai, nei termini storici
che altrove sorgevano dalla condizione operaia: ma nei
termini, per così dire, esistenziali: di comune tragedia, di
inalienabile destino. Il perenne incombere della fatalità,
nella vita del contadino disciolto però e come motivato
dalle vicende delle stagioni, delle ore, della terra, si aggru-
mava informe nella vita della zolfara: e ne sorgeva, imme-
diato e disperato, il senso della precarietà. Per cui l'avara
povertà del contadino cedeva alla prodigalità, allo scialac-
quo, e la prudenza, oscuramente vendicativa, alla violenza
rissosa, ai mortali puntigli, ai sanguinosi "punti d'onore".
E in una zona in cui per secoli non erano nati che eruditi
locali e freddi versificatori si preparava l'avvento del
poeta: Pirandello, Rosso di San Secondo, Navarro della
Miraglia, Alessio Di Giovanni, Nino Savarese, Francesco
Lanza. E tre di questi scrittori, Pirandello, Rosso e Di
Giovanni, sarebbero stati legati alla zolfara da diretti mo-
tivi di ispirazione, ne avrebbero rappresentato la vita (cia-
scuno a suo modo, è il caso di dire) con straordinaria in-
tensità.
In Pirandello (la cui famiglia, non bisogna dimenti-
carlo, aveva piantato radici a Girgenti appunto per il
commercio degli zolfi, e da questo commercio ebbe pro-
sperità e poi rovina) la zolfara è vista con un certo di-
stacco: è il punto del dramma nel romanzo I vecchi e i gio-
vani, ma di un dramma che appartiene alla borghesia in-
dustriale girgentana e che incidentalmente va ad esplo-
dere in quella zolfara di Aragona agitata dalle rivendica-
zioni dei Fasci dei Lavoratori. L'esplosione del dramma è
rappresentata anzi per "sentito dire": lo scrittore non ha
voluto dare una rappresentazione diretta della rivolta de-
gli zolfatari, rivolta di cui sono vittime un giovane inge-
gnere e la sua amante. Più intensamente, e dal di dentro
la zolfara, la tragedia che la zolfara è per coloro che vi la-
vorano, trova rappresentazione nella novella Ciàula scopre
la luna: ed è, crediamo, l'unico momento dell'opera piran-
delliana in cui affiori un sentimento di pietà per la gente
della zolfara, e più precisamente per uno di quei "carusi"
Il CUI Implego, ai giorni nostri sostituito da quello dei va-
goncini a trazione elettrica, costituisce una delle più dolo-
rose e vergognose pagine nella storia dello sfruttamento
umano.
E come partendo dallo stupore, dall'attonita e dolente
meraviglia di Ciàula, che uscendo dalla zolfara scopre la
dolce e chiara notte di luna, l'assorta e pietosa trasfigura-
zlone del duro paesaggio consueto, i personaggi di Rosso
di San Secondo scoprono l'avventura colorata del mondo. E
la zolfara così si fa mito, quasi una vivificazione e un ri-
torno del mito plutonico. Nella terra in cui si apriva la
bocca del regno degli inferi, e Plutone ne sortiva per ra-
pire la figlia di Cerere, si apre ora la bocca della zolfara, e
l'uomo che ne esce, lo zolfataro, un po' tiene dell'essenza
plutonica: desiderio, violenza, dannazione, oscura ric-
chezza di sentimenti, gelosa custodia della donna e dell'a-
more. I tratti psicologici dello zolfataro, la realtà del-
l'uomo della zolfara, Rosso trasferisce nel mito: ne fa, ap-
punto, un'avventura colorata, dando al colore quella qua-
lità di delirio e di sogno che può avere in un cieco e in
definitiva portandolo a termine di una dualità dramma-
tica. "Giallo è lo zolfo colato, ma sotto terra è cupo, come
la galera."
Ma di questa galera che è la zolfara, il poeta che più
realmente e intimamente ne abbia vissuto il travaglio, la
tragedia, è senza dubbio Alessio Di Giovanni. E bastino
questi due sonetti:
E vennu a la matina... Li viditi?
Pàrinu di la morti accumpagnati
Vistuti scuru, ca li cunfunniri
'Mmenzu lu scuru di li vaddunati...
A du' a du', o suli, stanchi ed avviliti,
Ni la muntata spúntanu affannati,
Cà nun ni ponnu cchiú... Nun li viditi?...
Yàrinu di la morti accumpagnati!...
Poi, s'assèttanun terra pi manciari,
E cci scula la frunti di sudura:
Li cani misin tunnu a taliari...
Magri, affamati, lesti, stann'accura
Si vídinu la manu arriminari
A lu patruni, eun fannu c'abbajari...
Era il tempo in cui gli zolfatari quotidianamente anda-
vano e venivano a piedi dalla zolfara (soltanto in questi
ultimi anni vecchi autobus o camion sono stati adit)ltl a
portare gli operai dal paese al luogo di lavoro): partivano
che era ancora notte e arrivavano, già stanchi, alle pnme
luci dell'alba; e avanti di scendere nella zolfara consuma-
vano il primo pasto della giornata, circondati da cam fa-
melici (quasi tutti ne avevano uno, forse per non sentirsi
soli nel cammino, di notte). E poi:
Scínninu a la pirrera, e ognunummanu
Porta la solumera pi la via,
Cà no pi iddi, pi l'ervi di lu chianu
Luci lu suli biunnu, a la campía...
Scínninu muti, e cluannu amman'ammanu
Scumt)ariscinun unnu a la scuría,
E si sentinu persi, chianu chianu
Prèganu a San Giseppi ed a Maria...
Ma, ddoppu, accuminciannu a travagghiari,
Grídanu, gastimannu a la canina,
Cà lu stissu Signuri l'abbannuna...
Oh, putíssiru, allura, abbannunari
Dda vita 'nfami, dda vita assassina,
Comu l'armali, n funnu a li vadduna
In cui si vede tornare il motivo della luce, la sete di
quel sole che sorgeva quando loro erano già nelle oscure
viscere della zolfara ed era già tramontato quando, dopo
dodici ore e più, finalmente ne uscivano.
Con più retorici accenti Mario Rapisardi cantava:
Tra cieche forre, tra rocce pendenti
Sul nostro capo entr~oscure caverne
Fra pozzi cupi e neri anditi algenti
Fra rei miasmi, fra tenebre eterne
D'ogni consorzio, dal mondo noi scissi
A nurrir gli ozi d'ignoti signori
Noi picconieri di monti e d'abissi
Sepolti vivi scaviamo tesori.
Erano gli anni dei Fasci Siciliani dei Lavoratori: e il
mondo della zolfara prendeva coscienza di quel che Rapi-
sardi affermava nell'ultimo dei versi che abbiamo ripor-
tato: che proprietari e gabelloti, bestialmente sfruttando i
mmatorl, avevano accumulato grandi ricchezze.
Proprio nel periodo di più acuta tensione, mentre il
Governo stava per decretare lo stato d'assedio contro le
tumultuose rivendicazioni dei Fasci, un giornalista del
nord scriveva: "Nella mia vita giornalistica io ho assistito
in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in
Africa, in America a scene orribili d'ogni maniera: fucila-
zioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d'ogni spe-
cie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo mi aveva
però così profondamente colpito come quello della zol-
fara..." Si chiamava Adolfo Rossi, era stato inviato dal
giornale "La tribuna": e si trovò a scendere nella zolfara
insieme all'onorevole De Felice, uno dei capi dei Fasci.
"Sapevamo ambedue per aver letto la relazioneJacini e al-
tre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i can~si,
ma nessuno scrittore potrà darne mai un'idea sufficiente a
chi non li ha veduti in quelle vere bolge infernali... Ne
avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci
mettemmo a piangere come due bambini."
Questa è stata la zolfara per il popolo siciliano: e di-
ciarno è stata perché in quelle poche oggi in attività le
condizioni di lavoro sono impareggiabilmente plU uma-
ne, mentre altre sono ormai in disarmo, squalllde e de-
serte strutture, oscure bocche sui fianchi delle colline,
spenta terra rossiccia, là dove generazioni di uomini col-
sero, con sudore e sangue, avarissimo pane.
1963
FRANCESCO LANZA
Al centro della tavola di Bruegel in cui centodiciotto
proverbl flamminghi sono raffigurati in altrettante scene
articolate nella unità di una folle kermesse, c'è una donna
glovane e formosa, vestita di rosso, che con espressione di
mallzla nel volto, in contrasto col gesto che è di amorosa
premura, assicura sulla testa e sulle spalle di un uomo
piuttosto avanti negli anni, e cadente, un mantello az-
zurro Identico a quegli scapolari che ancor oggi qual-
che contadmo siciliano porta. Gli studiosi del dipinto
dicono che l'immagine corrisponde al detto: "mettere il
manto azzurro sulle spalle del marito", reperibile nella
tradizione popolare fiarnminga. Il Cocchiara dice che ef-
fettlvamente si usava nei Paesi Bassi imporre il manto
azzurro al marito tradito: e c'è da crederlo, se ai nostri
glorm la cronaca registra, in un paese dell'Olanda, la la-
pidazione di un'adultera. Ma che il manto azzurro fosse
íeroce usanza o soltanto immaginoso modo di dire ri-
guardo alla condizione sociale in cui veniva a trovarsi il
marito tradito, oggetto cioè della curiosità e del di-
sprezzo altrui, distinto dagli altri quasi indossasse una
cappa di colore inconsueto e squillante, qui ci importa
notare come il proverbio figurato da Bruegel immediata-
mente Cl collega al mimo di Francesco Lanza che si inti-
tola 11 cappuccio a pizzo:
Un dì che Re Guglielmo non aveva nulla da fare al solito
suo, fece gettare, per città, castelli e paesi, un bando a suon di
trombe, tamburi e pifferi:
"Signori miei! da oggi in poi chi è becco deve mettersi il
cappuccio a pizzo per non far succedere confusiom. E chi non se
lo mette, c~è la pena della testa e cent'onze di multa."
Dappertutro, quelli che erano in piazza, al sentire il bando,
chi scappava di qua e chi scappava di là, come cascasse il cielo a
pezzi; e tutti tornavano col cappuccio a pizzo, per non pagare la
multa e perdere la testa. Anche il troinese se ne andò a casa sua
di corsa, e tutto ansante e trafelato lo contò alla moglie:
"Lo sapete il bando che ha gettato Re Guglielmo, che tutti i
becchi devono mettersi da oggi in poi il cappuccio a pizzo, per
non far succedere confusioni? Ditemi, moglie mia, me lo devo
mettere anch'io?"
La moglie diventò una furia e andava su e giù sbraitando
contro Re Guglielmo che non aveva nulla da fare e metteva lo
scompiglio nelle case della gente onesta, e il cappucclo a pizzo
doveva metterselo prima lui, come capo di regno per dare il
buon esempio ai sudditi.
"Lui se lo deve mettere il cappuccio a pizzo; e le pianelle,
ché le corna gli escono fin dai piedi; e le brache se le deve allar-
gare per farcele entrare tutte. Ah, matito mio, voi lo sapete s'io
vi ho sempre rispettaro! e quelle di Re Guglielmo sono invece
quanto l~atena del mare! Domandatelo a tutti che cura ho avuto
del vostro nome e come mi sono sempre comportata, e nessuno
ve lo sa dire! Chi mi è venuto appresso per la tentazione non
~li ho rotto il battesimo, e non ve l'ho fatto saper mai per non
~arvi dispiacere. Ah, marito mio, io ci ho pensato per il mio
onore e non voi! e per il vostro ci avete pensato voi e non lo!
Ah, marito mio, lo potete dir forte che vi ho onorato più del
sole nel cielo!"
Il rroinese si ringalluzziva tutto a sentirla fare così, e anche
lui se la pigliava con Re Guglielmo che non pensava ai casi
suoi; ma come se ne usciva per tornarsene in piazza, la moglie
lo richiamò in fretta:
"Sentite, marito mio, per il sì e per il no mettetevelo anche
voi il cappuccio a pizzo, e così leviamo l'occasione."
E il troinese per il sì e per il no si mise anche lui il cappuccio
a pizzo.
1104 1~nrd.l p~l77/ I Lacord,apazza 1105
E come se la scena dipinta da Bruegel avesse acqui-
stato, per così dire, il parlato: l'ambiguo parlato della
donna, che è poi esattissimo calco di un siciliano nativa-
mente ed effettualmente ambiguo. Ma a parte il preciso
rapporto tra questo mimo di Lanza e il proverbio di Brue-
gel, 1l nferlmento al quadro ha per noi un valore non for-
tUitO o di curiosità, ma intrinseco e lato, di una congenia-
lità tematica ed espressiva tra il mondo dei proverbi e il
mondo dei mimi; che è in effetti, di entrambi, un mondo
che sta al vertlce del paradosso, sul punto del rovescio. Il
mondo alla rovescia, insomma: cioè, supremo e greve pa-
radosso, il mondo dell'ignoranza, della stupidità, dell'in-
tolleranza, de! tradimento, della pazzia in cui come climez-
zato l'uomo Irredimibilmente vive. E con l'uomo dimez-
zato ecco che tocchiamo altro tema, conseguente a quello
del mondo alla rovescia, che dalla fantasia popolare è pas-
sato con larga e continua fortuna alla letteratura europea.
Il Cocchiara chiama "coreografia paremiografica" la
rappresentazlone che Bruegel ha dato dei proverbi fiam-
minghi; e "gioiello paremiografico" dice il Pitrè quella
Raccolta dproverbi siciliani di Antonio Veneziano in cui
'con mgegnoso innesto centinaia di proverbi e motti sici-
hanl si legano in settanta ottave a rime alternate". La ta-
vola di Bruegel è del 1559; qualche anno dopo fioriva in
Slchia la poesia del Veneziano. Ma che l'esigenza o il gu-
sto di rappresentare la difficile convivenza degli uomini
attraverso la forma paremiografica si diffondesse dalle
Flandre alla Sicilia per effettiva comunicazione, non è ipo-
tesi che si possa fondatamente avanzare; è ipotesi meno
vaga mvece che tanto il Bruegel quanto il Veneziano si
calassero nel mondo popolare per una più o meno diretta
sollecltazione erasmiana, dell'Erasmo degli Ada~i e dell'E-
logio della pazzia. Per cui il termine paremiografico va sot-
tratto al corso scientifico che ha nel mondo contempora-
neo e restltulto all'umanesimo: una forma cioè attraverso
cui si realizza una contemplazione e conoscenza del-
l'uomo. E questa restituzione non vale soltanto per
quanto riguarda un Bruegel e un Veneziano, che sarebbe
del tutto owia; ma anche per quanto riguarda i Mimi di
Francesco Lanza. La paremiografia contiene infattl ll
mimo: e il proverbio altro non è che la stilizzazione del
mimo (e in mimi effettualmente Bruegel scioglie i pro-
verbi). E non a caso Ardengo Soffici appunto suggerì il
titolo di Mimi alle brevi storie che Lanza pensava di attri-
buire a un narratore popolano, intitolandole Storie di Nino
Scardino.
Ai Mimi di Eronda pensava dunque Soffici; e noi a una
lunga tradizione paremiografica che va da Eronda ai pre-
dicatori medievali, a san Bernardino da Siena, ad Erasmo,
ai pittori fiamminghi, ad Antonio Veneziano, all'ano-
nimo autore di quegli Avvenimenh faceti di Slc~lia di CUI
più avanti parleremo. Intanto, di questi Mimi di France-
sco Lanza che davanti al lettore si compongono fitti e vi-
vidi come il quadro dei proverbi di Bruegel, ci piace no-
tare il rinverdito rapporto col mondo fiammingo, forse
sollecitato in Lanza dall'incontro con l'epopea rabelal-
siana, "drolatique", tenera e insieme violenta, paremio-
grafica in un certo senso, delle leggende fiamminghe di
Charles De Coster. Proprio negli anni in cui Lanza veniva
scrivendo i Mimi, in Italia si pubblicava La le~genda e le
avventure di Thyl Ulenspiegel: e non è improbabile che
Lanza trovasse nella sapiente e fresca ricostruzione dello
scrittore fiammingo, libro di tutti i campanili di Fiandra,
come giustamente si disse, uno stimolo di più a far risuo-
nare nei suoi Mimi, nelle sue novelle, nelle sue descrizioni
di stagioni ed ore ed incontri, i campanili di Sicilia. E po-
tremmo anche portare il confronto sul piano della lingua
e dello stile, che nel fiammingo come nel siciliano risul-
tano da un impasto piuttosto arduo (il che li rende en-
trarnbi quasi intraducibili in altre lingue): ma finiremmo
col perdere di vista le diverse tradizioni culturali in cui i
due scrittori si muovono.
Il precedente più immediato ai Mimi (per noi, ma
molto probabilmente non per Lanza quando li scriveva)
sono quegli Awenimenti faceh di Sicilia che Pitrè trasse da
un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Palermo e
pubblicò in duecento esemplari nel 1885. Il titolo del ma-
noscritto era esattamente questo: Avvenimenti faceti per
mantenere tn amenztà innocente le oneste recreazioni raccolte in
dtverse città e terre di questo Regno. Dalla natura dei fatti
che l'anommo autore racconta, il Pitrè ritenne fosse un
prete o un frate predicatore; dal modo come li racconta
che fosse "uno dei tanti mediocrissimi scrittori siciliani
del secolo scorso, il quale nel suo dettato conserva più o
meno fedelmente le forme del dialetto, senza preoccuparsi
di stlle e di hngua; ma, in compenso, ha un po' di quella
schiettezza ed ingenuità che spesso manca agli scrittori
d'arte"; e riguardo alla materia, nota che è per di più di
un terzo "tradizionale, non pure in Sicilia, ma anche nel
contmente Italiano, in Francia, Spagna, Germania, In~hil-
terra ed in altre contrade: aneddoti, cioè novellette,ace-
zle, burle, motti di spirito più o meno festevoli, più o
meno vlvacl, che ognuno di noi, tra una brigata di arnici
ha molte volte udito raccontare ed ha raccontato egli
stesso come seguiti nel tale o tal altro luogo, in persona
del tal dei tali". E aggiunge: "In vero, questi fatti pote-
rono bene avvenire qua e là, e ripetersi con circostanze si-
mili o analoghe, o non avvennero mai, e furono spiritose
mvenzionl di begli umori, quando per metter in burla gli
abltantl di un paese in voce di sciocchi e grossi di cer-
vello, quando per deridere una classe di gente, quando per
deprezlare 11 prodotto di un suolo. Veri o inventati, unici
o no, si raccontano, e passando di bocca in bocca, di paese
m paese, per la innata tendenza del popolo a personifi-
care, a localizzar tutto, si individualizzarono sempre più,
acquistando colori e circostanze locali". E abbiamo citato
questo passo del Pitrè non tanto per definire la natura dei
Mtmt quanto perché ci offre il modo di dire che questo
processo di tradizione, questo passare di bocca in bocca e
di paese in paese, finisce col trovare in Valguarnera, e
sotto la penna di Francesco Lanza, la definitiva localizza-
zione e individualizzazione; cioè la forma dell'arte. Nel
momento m cui Lanza li ricrea, queste storie o avveni-
menti faceti o mimi che si vogliano dire sono una inven-
zione e sono unici. Per cui sarebbe ozioso esercizio il cer-
care quanti di questi mimi siano venuti a Lanza dalle rac-
colte del Pitrè, del Salomone-Marino, dagli Avventmenh
faceti dell'anonimo settecentesco, dalle tradizioni del suo
paese. Probabilmente non uno solo gli è venuto dalla fan-
tasia, ma al tempo stesso sono tutti, uno per uno e nel-
l'insieme, una sua fantasia della Sicilia. E se diciamo che
gli Avvenimenti faceti sono un precedente è perché ci pare
che l'anonimo prete o frate che li raccolse intorno al 1738
sia stato il primo a tentar di dar forma letterarla, di artico-
lare in libro, con mezzi piuttosto rozzi e inefficaci, la ma-
teria dei mimi. A voler essere sottili potremmo anche in-
serire, tra gli Avvenimenti faceti dell'anonimo e i Mimi di
Lanza, alcune novelle di Pirandello, che altro non sono
che avvenimenti faceti perfettamente localizzati nell'area
girgentana e per immediata tradizione pervenuti allo
scrittore, che ne scorgeva e fissava i risvolti drammatici e
pietosi. Novelle come La verità, da cui venne poi fuori la
commedia Il berretto a sonagli, come La giara, La cassa n-
posta, L'avemaria di Bobbio, Il capretto nero e tante altre, è
facile vederle nell'essenza del mimo, nella tradizione di
avvenimenti faceti locali. Ma non vogliamo essere sottili.
Il nome di Pirandello, comunque, ci porta a guardare
Lanza nel contesto della letteratura italiana contempora-
nea. E diciamo subito che Lanza ebbe la sfortuna di svol-
gersi in un periodo in cui la moda del frammento e 11 ten-
tativo di una specie di restaurazione classica venivano a
confondere le sue cose col frammento da un lato, con I n-
soffiati spiriti classici dall'altro. Questa confusione peral-
tro lo salvava, ma non interamente, dall'accusa di reglona-
lismo (poiché il regionalismo era allora sospetto tanto in
letteratura quanto in politica); ma non l'ha salvato da
quell'indistinto limbo in cui oggi giacciono i rondisti, i
postrondisti, i frammentisti, i capitolisti. E questa sorte,
da Lanza non meritata, è la ragione principale per CUI
stiamo qui a scriverne: noi che rappresentiamo quanto di
più lontano è immaginabile dagli ideali letteran degli
anni venti.
Sbrigativamente, in un ragguaglio sulla cultura italiana
pubbhcato da Prezzolini nel 1927, Lanza è dato come "un
buon scrlttore regionalista". E tuttavia questa definizione
è per noi più accettabile dell'intruppamento tra autori di
frammentl e di capitoli in cui spesso il nostro scrittore si
trova a malcapitare. Probabilmente, nel 1927, l'aggettivo
"buono" stava come una specie di attenuante all'imputa-
zione di regionalismo: è uno scrittore regionalista, ma
buono.
Oggi che abbiamo più avvertita conoscenza e coscienza
della cultura nazionale e del ruolo che in essa ha avuto ed
ha la Sicilia, il termine regionalista applicato a uno scrit-
tore o un artista siciliano lo sentiamo come una specie di
pleonasmo. Che cosa significa "scrittore regionalista"?
Che rappresenta il modo di essere, la realtà, la particola-
rltà di una regione? Che ne mette in luce i problemi, le
remore, i travagli, la cultura, i valori? Ma esiste uno scrit-
tore slciliano, un artista siciliano, uno scrittore o un arti-
sta che possano veramente dirsi tali, che non abbia fatto
questo? Da Giovanni Verga a Renato Guttuso, da Fede-
rico De Roberto a Giuseppe Migneco, da Pirandello a
Mazzaglia, quale scrittore o artista siciliano non è stato re-
gionalista? E se poi al termine regionalista si vuol dare il
senso della ristrettezza d'orizzonte, della mancanza di re-
spiro, dell'angustia, della povertà, i pochi nomi che ab-
biamo fatto e i molti altri che potremmo fare stanno pro-
prio a dire il contrario: se l'arte e la letteratura italiana del
nostro tempo contano qualcosa nel mondo, il merito è pe-
culiarmente di scrittori e artisti siciliani, di scrittori e arti-
sti regionalisti. E basti pensare che il più grande successo
letterario che sia stato registrato nel mondo in questi ul-
timi anni è quella summa del regionalismo che è ll gatto-
pardo di Tomasi di Lampedusa.
Accettiamo dunque per Francesco Lanza il termine re-
gionalista come quello che lo immette nella tradizione
letteraria siciliana, e quindi in un fenomeno europeo, sot-
traendolo al piccolo e propriamente provinciale fenomeno
dei frammenti, degli elzeviri, dei capitoli in cui per circa
vent'anni si svolge e si involge la letteratura italiana. E c'è
da chiedersi anzi come uno scrittore della vena di Lanza,
così vivo e vitale, così corposo, così irresistibile e godi-
bile, non abbia fatto spicco anche allora, non abbia tro-
vato un suo pubblico, frammezzo all'anemica fioritura di
prose d'arte, di raccontini da terza pagina, di romanzetti
che non avevano nemmeno il merito di essere "rosa". Sor-
prende, tra l'altro, che nei quaderni del carcere di Antonio
Gramsci non ci sia una scheda che riguarda i Mimi di
Lanza, libro che avrebbe dovuto apprezzare quanto, e per
certi versi più, di quanto apprezzò il Malagigi di Nino Sa-
varese: ma l'informazione che Gramsci riusciva ad avere
in carcere era alquanto irregolare e fortuita, né d'altra
parte i nomi di coloro che recensivano i libri di Lanza go-
devano di qualche prestigio ai suoi occhi. Il che, forse, è
ancora oggi una specie di diaframma tra l'opera di Lanza
e il pubblico che meriterebbe di avere.
Abbiamo nominato Nino Savarese: e qui cade in taglio
di dire che l'abbinamento costante tra Savarese e Lanza è
pure un motivo di confusione. E dobbiamo confessare che
per tanto tempo siarno stati anche noi intenti a cogliere le
somiglianze tra i due scrittori, i punti di contatto, mentre
un'operazione inversa, intesa a coglierne le differenze, sa-
rebbe per entrambi, in un certo senso, liberatoria. Stretta-
mente conterranei ed amici, con in comune la passione
per la storia, i miti, le tradizioni della Sicilia, Savarese e
Lanza sono tra loro diversi nella visione della vita e negli
intendimenti: religioso, "speculativo" (l'espressione è di
Lanza), contemplativo, inteso a una casta mltografla,
Nino Savarese, beffardo, irnverente, ironico, llbertmo,
pieno di contrasti, Francesco Lanza. E si badi che usiamo
l'espressione libertino e nel senso corrente e nel senso orl-
ginario di "colui che pensa liberamente". Per cui se ad
uno scrittore siciliano Lanza è veramente vlcmo, non e a
Nino Savarese, ma a Vitaliano Brancati che immediata-
mente lo segue. La commedia erotica siciliana comincia
coi Mimi e coi racconti di Lanza. E non staremo a ricor-
dare quei mimi in cui si agita il gallismo, che tra l'altro
sono i più; ma teniamo a ricordare quel racconto, tra i più
perfettl, tra i più vivi della letteratura italiana contempo-
ranea, che s'mtltola Re Porco. E che Lanza abbia avuto an-
che una certa inf!uenza, oltre che nello scoprire all'autore
del Don Gtovannt tn Sicilia la dimensione della Sicilia ero-
tlca, anche nella formazione della sua lingua e del suo
stlle, pare di poterlo affermare fondatamente. E anche
certl squarci, certi tagli, certe tenerezze e malinconie che
afflorano a contrasto dell'erotismo più acceso, sono di
Lanza prima che di Brancati.
E non è poi un caso che una battuta del mimo intito-
lato Lu ma faccia da epigrafe a quel capitolo del Bell'An-
tonto Ill CUI esplode il fierissimo caso da Sacra Rota in cui
Antomo Magnano, la sua famiglia, la sua parentela preci-
pltano fmo all'annientamento.
FONDAZIONE DI UNA CITTA
Ad Anzio, il 12 ottobre del 1925: "Quando partecipo
ad una cerimonia che consiste nella posa di una prima
pietra, io sono generalmente grigio, perché ho constatato
che talvolta l'erba cresce sulla prima pietra prima che Vl Sl
posi la seconda". Ma negli archivi dell'istituto Luce ci sa-
ranno a migliaia scene in cui Mussolini appare tutt'altro
che grigio alla posa di una prima pietra, e anzl con allegra
destrezza, ad alluderè a quella sua esperienza di muratore
in Svizzera, di cui si leggeva nei libri di scuola, maneggia
la cazzuola a chiudere nella pietra il buco in cui la perga-
mena con la sua firma era stata calata. Da dove dunque
gli veniva ad Anzio quella nota così malinconica e scet-
tica? Un presentimento? Una notizia?
Non pare fosse uomo da presentimenti. Forse gli era
arrivata la notizia che su quella prima pietra che l'anno
avanti aveva posato in territorio d-i Caltagirone, a fondare
una città di nome Mussolinia, l'erba cresceva rigogliosa
all'ombra delle querce da sughero; e aggiungendosl la no-
tizia al ricordo degli incidenti che avevano punteggiato il
suo breve soggiorno nella città di don Sturzo, l'umor gn-
gio trovava piena giustificazione. Incidenti che nella qua-
lità e nel ritmo fanno pensare alle comiche finali di allora:
e si dispiegarono dalla sostituzione della bombetta (po-
sata per un momento, ripresa: e il duce si ritrovò in testa
un cappelluccio a caciotta da clown) a una salve di fischi,
è il caso di dire, inaudita. A fischiare erano stati i caprai
corporazione allora incredibilmente numerosa e di tale va-
lentia nel fischio da disgradare quello delle locomotive
ferroviarie. Paragone non gratuito: ché appunto i caprai
erano venutl aischiare il capo del governo per la deci-
slone, che Sl diceva ll governo avesse preso, di sospendere
I lavorl della linea ferroviaria Gela-Caltagirone. Perché
pOI i caprai avessero tanta sensibilità al riguardo, è un mi-
stero: forse vagheggiavano le erbose scarpate demaniali su
cui avventare i loro avidi branchi; forse subivano l'in-
fluenza di qualcuno che a Mussolini voleva dimostrare
quanto poco valesse la fazione locale cui aveva dato fidu-
cla e quanto forte fosse invece l'altra che aveva respinto.
Pare sia da escludere che nei caprai agissero sentimenti e
risentimenti sturziani: l'avvenire della città, le sue fortune
future, ormai si confidavano a colui che nato a Caltagi-
rone come Giacomo Barone, sposando a Forlì Camilla
Paulucci di Calboli, era diventato Paulucci di Calboli Ba-
rone Giacomo, marchese e conte (così negli atti dell'Uffi-
cio di Stato Civile di Caltagirone). In quel periodo, Gia-
como Barone era capo di gabinetto del ministro degli
esteri, che era Mussolini: e "Il messaggero siciliano"
quindicinale locale, pubblicava alla vigilia della festa una
fotografia in cui l'illustre concittadino, in piedi alle spalle
del duce seduto, con un sorriso di rispettosa confidenza si
china sul foglio che il duce sta leggendo. Inutile dire che
Glacomo Barone aveva parenti a Caltagirone; e tra questi
uno Z10 che nella fazione fascista trionfante aveva un peso
ovviamente considerevole. Ma veniamo alla cronaca della
festa.
Proveniente da Catania, il treno presidenziale arrivò a
Caltagirone la sera dell~ll maggio. Erano ad attenderlo il
commlssarlo prefettizio onorevole Benedetto Fragapane
il senatore Gesualdo Libertini i deputati Pennavaria e Li-
bertini, il grande ufficiale Siivio Milazzo, il conte Gra-
vina, i baroni Libertini, Chiarandà e d'Urso... Si formò un
corteo di sette automobili che attraversando la città fasto-
samente illuminata, sotto una pioggia di fiori e manife-
stini tricolori che veniva dai balconi "rigurgitanti di si-
gnore", si fermò alla casa del fascio e proseguì pOI fino
alla casa del barone d'Urso, dove "il Presidente si intrat-
tiene a conversare con le dame e i gentiluomini che gll re-
cano i loro omaggi, mentre vien servito un sontuoso e rlc-
chissimo trattamento". Più tardi, in municipio, l'onore-
vole Fragapane proclama il duce cittadmo onorarlo di
Caltagirone; il duce ringrazia, attacca addirittura un di-
scorso, dice "Il messaggero siciliano", che elettrizza il
pubblico e provoca applausi schietti e reiteratl. Non
meno schietti e reiterati, dalla piazza, i fischi dei caprai:
ma il cronista non li registra. C'è poi la visita a una mo-
stra di ceramica e la deposizione di una corona di flori da-
vanti al busto di Giorgio Arcoleo, che tanto meritava per
essere stato assertore della ricostruzione dello Stato e per
aver prediletto tra i suoi allievi Giacomo Barone. Infme,
un pranzo di cui vanno segnalati il "consumè al Trico-
lore" e il "dolce di stagione", cioè una cassata gelata. E
non era poi tanto di stagione, se dalle fotografie si vede
Mussolini sempre in cappotto e, l'indomani mattina, m
coppola di pelliccia o velluto, a sostituire la bombetta
scomt~arsa.
"La nuova città-giardino, - dice il giornale, - apparve
al Presidente ed al numeroso seguito tutta inondata di
sole tricolore." Non che la città ci fosse: in quella vasta
pianura fitta di querce e di ulivi (ottantamila alberi d'u-
livo, e più erano le querce), soltanto si levavano due delle
sedici torri che dovevano sorgere intorno alla piazza cen;
trale, a punteggiare un colonnato circolare. La clttà, COSI
come l'architetto Saverio Fragapane l'aveva conceplta, era
su una medaglia che venne offerta al duce e alle autorità
presenti. Erano circa le nove del mattino quando si venne
alla posa della prima pietra. Passando da una mano all'al-
tra, arrivò all'onorevole Fragapane il tubo metallico che
conteneva la pergamena con la scritta in latino che Mus-
solini doveva firmare. L'onorevole aprì il tubo: la perga-
mena non c'era più. Allo smarrimento successe una frene-
tica ricerca. Mussolini s'innervosì: strappò un foglio da
non si sa quale registro e scrisse quelle frasi che qualcuno
fece in tempo a copiare prima che la pietra le inghiot-
tlsse: e Sl leggono alla pagina duecentosessantanove del
ventesimo volume dell'opera omnia. Alle dieci, in automo-
blle, Mussolini partiva per Ragusa: piuttosto grigio, ma
non dimenticando Il bellissimo mazzo di rose, della va-
rletà Remtgia, che gli aveva offerto la baronessa Grazietta
di San Marco.
La pergamena scomparsa diceva, nel latino dell'ispet-
tore ferroviarlo cavalier Nicolò Vitale e di un professore
suo omonlmo, che 11 feudo di Santo Pietro, dove Mussoli-
ma doveva sorgere, era stato donato dal re Ruggero "ai
fedeli cittadini di Caltagirone". E già la prima pietra
avrebbe dovuto contenere un falso: ché i fedeli cittadini
quella terra l'avevano pagata quarantamila tarì, più la pre-
stazione annua di altri cinquemila, più duecentocinquanta
marmai da tener pronti alla chiamata del re. Ma il feudo,
che Sl estendeva m clrca cinquemila ettari di fertilissime
terre, valeva l'enorme prezzo pagato: come diceva don
Sturzo, Caltagirone si poteva considerare, in rapporto agli
abitanti, il più ricco comune d'Italia; e forse ancora oggi
nonostante le spartizioni e i rosicchiamenti.
"Principio sì giolivo ben conduce", direbbe il Boiardo.
Quella falsificazione, quegli incidenti preparati come
"gags" da fllm comlco, la presenza di quei baroni, la bor-
data di fischi tutto portava alla coronale beffa di una
cltta della cul eslstenza soltanto Mussolini per qualche
tempo fu illuso e Le cento città d'Italia dell'editore Sonzo-
gno Illustrarono. E pare che Mussolini ci tenesse molto, a
quella cltta cul aveva dato nome, e continuamente chie-
desse notlzle e rapporti: per cui ad un certo punto, a pla-
care l'Impazlenza del duce, fu montato un album che di-
splegava Mussolmia in tutto il suo splendore. Forse Mus-
solinl ebbe una certa sorpresa, a vedere una città di vil-
lette ftn deiècle al pOStO di quella, alquanto piacentiniana
avantl lettera, che l'architetto Fragapane aveva concepita;
ma la soddisfazlone per l'opera in suo nome compiuta do-
veva esser tale da superare l'insorgere della critica o della
diffidenza. Ma ecco che gli venne da Caltagirone, dalla fa-
zione fascista refoulé (e che pare fosse vicina a Starace),
una fotografia in cui la città appariva in riva al mare, e
con la dicitura che non solo Caltaglrone aveva la sua
città-satellite, la sua città-giardino, ma il mare anche, che
batteva alle sue mura.
Ne venne un'inchiesta, condotta dall'avvocato De Mar-
sico, i cui atti e risultati restano finora segreti. Sole Vlt-
t ime furono l'onorevole Fragapane, che pago con l'a on-
tanamento dalla vita pubblica, e il comune di Caltaglrone,
che pagò il debito contratto col Banco di Siciha. Ma pare
che il Fragapane, che ufficialmente veniva ad essere 11
maggior responsabile della beffa, in realtà non ne fosse
stato l'autore, e tanto meno il proflttatore. I veri pro itta-
tori non furono puniti: bisognava troncare, sopire; che
più non si parlasse di Mussolinia. E chissa se tra qua c e
secolo, imbattendosi nel fascicolo dedicato a Caltaglrone
dalla casa Sonzogno, un archeologo non Sl dara a scavare
nel bosco di Santo Pietro, alla ricerca della citta giardino.
1969 QUADIA
Paolo Giudici nacque a Mussomeli nel 1887. Era della
famiglia di quel Paolo Emiliani Giudici (Emiliani per essere stato adottato,
esule dalla Sicilia, da Annibale Emi-
llani) nella cui Stona delle belle lettere in Italia, dice Bor-
gese, "11 Me~zoglorno entrava nella critica romantica ita-
llana, e Vl portava la sua propria qualità spirituale la fa-
colta slstematlca e costruttiva". E come l'autore deila Sto-
r~a delle belle lettere, giobertiano, partecipò degli avveni-
mentl civili e politici del risorgimento na~ionale, così
l'autore di Quadíá, nazionalista, degli avvenimenti succes-
SiVI alla prima guerra mondiale, in cui da "ardito" aveva
combattuto. E questo particolare biografico non richia-
mlamo gratuitamente, ma per cogliere una fondamentale
condizlone della prolifera e varia attività di questo scrit-
tore, per il quale può anche valere l'avvertimento di No-
venta, che rlteneva fosse da correggere l'idea corrente
plUttOStO sbrigativa e in un certo senso pericolosa, di un
fasclsmo portato avanti dagli italiani peg.iori, l'idea cro-
clana del fasclsmo "onagrocrazia", delascismo "igno-
ranza attiva", che Brancati poi riprese e impareggiabil-
mente dispiegò in racconti, romanzi e commedie, invol-
gendo però le manifestazioni più appariscenti e grotte-
sche di un fenomeno che era stato anche l'errore degli ita-
hanl migliori. Il fatto che il fascismo si dichiarasse e van-
tasse ''antlcultura'' appunto dice di una sua componente
La corda pazza 1117
culturale; e che poi, effettivamente, fosse anticultura, è di-
scorso che sarebbe da svolgere a fronte di certi movlmenti
attuali, che pur partendo da tutt'altra direzione rischiano
di resuscitarne i miti e gli errori. Il fascismo, msomma, e
stato sì movimento di reazione: ma all'interno della bor-
ghesia è stato anche una specie di "rivoluzione culturale ';
e quando, anche in nome della cultura, ci si rivolta contro
la cultura, non si sa mai dove si va a finire. Ma non è 11
caso di soffermarci su questo punto, se non per notare
come negli scrittori più validi e nelle opere megho riu-
scite, le istanze "rivoluzionarie" di tipo nazionalista e fa-
scista avessero, nella rappresentazione narratlva, una resa
contraddittoria e controproducente: come cioè la catarsl
patriottica e guerriera, di un combattentismo selezionato
e purificato dall'immane sacrificio della grande guerra e
sempre pronto alla difesa e all'espansione dei valori cui
quel sacrificio era stato votato, non riuscisse minima-
mente ad effettualizzarsi ed esaltarsi nel contesto della
realtà rappresentata; ed anzi dall'umiltà e squallore di essa
realtà venisse smorzata, arnmortizzata, resa mcongruente
e, in definitiva, falsa. E ciò soprattutto negli scrittori me-
ridionali, che avevano alle spalle una tradizlone con la
quale erano tenuti a fare i conti e di fronte una condi-
zione umana refrattaria a ogni mistificazione. Non era fa-
cile calare D'Annunzio in Verga, far sorgere !a nuova au-
rora dannunziana sul biviere di Lentini: da C10 il sovrap-
porsi artificioso e ineffettuale delle soluzioni o nsoluzioni
di un combattentismo di trincea o di piazza alla realtà di
un paese povero e arretrato non solo, ma mteso a una cru-
dezza di rapporti, esclusioni, inibizioni e sconfitte da cui
ben altri miti, di superstizione e di violenza, sorgevano.
Queste osservazioni valgono però fino a un certo
punto per Paolo Giudici e per Quadíá. In un altro ro-
manzo, Il manto della donna moderna (Firenze l920), la so-
luzione, per così dire, combattentistica ci dà modo di co-
gliere, dal di dentro, una peculiarità del fascismo che
Brancati coglierà dal di fuori e rovescerà nel grottesco e
nella satira. Ecco come il protagonista, un professore, rl-
I 1 18
solve i suoi borghesissimi travagli: "Tirò da un armadio
la sua uniforme d'ufficiale e la indossò. Giubba aperta da
ardito, con le fiamme nere al bavero e le stellette d'ar-
gento ai polsi delle maniche, pantaloni larghi, stretti al
gmocchio da mollettlere nere, cravatta nera sulla camicia
grigio verde, berretto con due filetti d'argento torno
torno e una gran fiamma sopra la visiera, cinturone di
pelle da cui pendeva la fondina con la pistola e sulla pan-
cia un pugnale. Così vestito Maurizio pareva un altro.
Sembrava più alto e più robusto: il suo viso, così bonario,
aveva un aspetto veramente bello di virilità marziale. L'u-
niforme lo rendeva più giovane, più svelto e fiero... Se do-
manderanno di me - rispose lui - dirai che sono partito
che sono andato al fronte". Questa vestizione ricorda esat-
tamente quella che, circa un quarto di secolo dopo, darà
luogo ad effetti del tutto diversi in casa Piscitello: "Con
l'aiuto di Dio, Aldo Piscitello riusciva a mettersi in piedi
e, indossata la giacca d'orbace, si affibbiava il cinturone di
CUOIO sulla pancla magra: poi andava allo specchio, men-
tre la moglie con un sospiro diceva alla figlia: 'Cerca lo
strofinaccio!' ", poiché Piscitello invariabilmente elargiva
uno sputo alla propria immagine marziale. Questo per
dire come, malgré lui, Pao~o Giudici ci offra una specie di
documento di prima mano su una componente che non
secondariamente contribuì all'affermazione del fascismo
m Itaha: 11 perdere m bonarietà e guadagnare in bellezza
virilità, fierezza da parte di individui umili o umiliati. Ma
in Quadíá la soluzione arriva più coerentemente: l'andar
soldato, e in guerra, per Vanni Lo Manto che esce dal car-
cere e, tornando al paese, prende coscienza di quanto do-
lente, feroce e meschina sia la vita in quel luogo che pure
è legato a memorie di momenti felici e di affetti, l'andar
soldato è l'unica risorsa economica, sociale ed umana che
il paese allora poteva offrire ad uno della sua condizione
poiché l'altra risorsa, di andarsene in America, non si pro-
spettava a chi non aveva quel tanto da pagarsi la traver-
sata (che m quel momento, peraltro, aveva un prezzo
piuttosto esoso). E abbiamo detto "allora": ma Vanni Lo
La corda bazza
La corda pazza
Manto si può considerare addirittura il prototipo dell'ita-
liano disoccupato o spostato che corre all'offerta d'im-
piego che la patria generosamente gli largisce (e ce ne sa-
ranno poi a migliaia nelle guerre di Etiopia e di Spagna).
Paolo Giudici ripete insomma, nel suo libro migliore, il
caso di un Verga, le cui convinzioni politiche, approssi-
mativamente definibili come crispine, cedevano alla forza
della realtà e questa restituiva nell'opera quasi sempre in-
tegramente, senza omissioni o manomissioni.
Nella storia dello scrittore, Quadíá (il titolo viene da
una contrada di rigogliosa campagna nel territorio di
Mussomeli ) sembra pure ripetere un momento che in
Verga ebbe lungo ed intenso effetto, quasi una conver-
sione (e sarà peraltro coincidenza costante nella stona di
quasi tutti gli scrittori siciliani): il momento di un ri-
torno e di una presa di coscienza appena presagiti nell'o-
pera precedente, un salto quahtativo forse lmprevedibile,
se non si giudicasse col senno del poi. Quasi di una con-
versione, appunto: ad una rivelazione improvvisa, all'im-
provviso insorgere della fiamma della memoria (o della
coscienza). "La fiamma che scoppiettava, troppo vicina
forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che
avevo visto ardere nell'immenso focolare della fattoria del
Pino, alle falde dell'Etna": è l'attacco della storia di
Nedda, e della storia di Verga grande scrittore. E la
fiamma è come un simbolo: a illuminare la riscoperta di
un mondo ben conosciuto e vissuto e sofferto, e appunto
perciò, e anche nell'illusione di evadere dalla condanna di
origine al regionalismo, rimosso. Rimosso accuratamente,
implacabilmente disinfestato e depurato fino a ridurlo al-
l'astratta nostalgia, alla vaga e generica malinconia; e con
un che di masochistico, a recidere una parte di sé, della
propria esistenza, della propria mente. "Sta lì, maledetto
paese": appena passato lo stretto, come Renzo appena tra-
ghettata l'Adda. E poi improvvisamente si scopre che in
quel maledetto paese stanno tutte le ragioni che la ra-
gione conosce e non conosce: e vengono fuon le creature
oppresse e dolenti, i personaggi prepotenti e grotteschi, la
lucida follia che scatta dalla pena di vivere, le passioni più
grette e le più nobili, tutti gli estremi in cui l'uomo si di-
batte E vien fuori il paese, la casa, la campagna: gli
oscuri drammi che vi si agitano; le esplosioni dell'amor
proprio - l'acre avarizia, il disperato erotismo, il sopruso
spietato - che le squassano.
Che nell'autore di Quadíá si sia verificata una simile
conversione non possiamo dire. Ma il salto di qualità c'è
di tutta evidenza. I due romanzi pubblicati dieci anni
prima, 11 marito della donna moderna e Bocca su bocca, non
molto si discostano dalla categoria "rosa": con l'ingre-
diente dell'arditismo (tema specifico di altri libri, di ri-
cordi di esaltazlone e di storia, che il Giudici scrisse) il
primo; dell'erudizione (una ricerca sull'abate Lami che
l'autore veramente condusse, pubblicando un paio di opu-
scoli) il secondo. Purtroppo, la sua conversione fu di poco
momento: e diede frutto soltanto in Quadíá. Tre anni
dopo, pubblicava il romanzo La tribù distrutta, attribuen-
dolo ad un arabo di nome 'Omar el-Bedaui e dicendosene
traduttore ed interprete: gustosa mistificazione, nel cui in-
ganno persino cadeva un arabista (ombra dell'abate
Vella!), che ci ricorda quella di un Giuseppe Bennici, au-
tore di una deliziosa mimesi che attribuiva all'ultimo
poeta arabo di Sicilia, da un codice che diceva rinvenuto a
Cordova. E bisogna dire che Giudici l'arabo lo conosceva
davvero, e persino aveva scritto una grammatica della lin-
gua parlata: e forse il suo andare alla tribù distrutta e ad
'Omar il beduino era un cercare le radici della sua in-
quieta natura. Perché fu certamente un uomo inquieto: e
nella sua vita, e tra i tanti suoi libri, Quadíá è (per ser-
virci ancora dell'immagine verghiana) come il momento
del focolare: un momento di compiuta verità, un libro
che resta.
DON GIOVANNI A CATANIA
Trascorrono lunghe ore in certe straducole oscure, ac-
quattati come scarafaggi. Passano parte delle loro gior-
nate nelle chiese, cautamente muovendosi sotto i piedi
dei santi, tra gli altari e le colonne, per avvicinarsi ai con-
fessionali a carpire il sussurro dei segreti più gelosi. Gui-
dati da uno strano vecchio che li istruisce e consiglia cam-
minano per i vicoli bui della città, s~infilano in bui por-
toni, salgono scale buie e maleodoranti. Si nascondono
dietro la portiera di velluto, a soffocare di polvere e sfi-
lacce, nell'ufficio di un ispettore generale. Si riuniscono
nel retrobottega di una farmacia notturna. Si dedicano,
anche fuori della loro città, a misteriosi pedinamenti. E di
tanto in tanto uno di loro lancia - gemito delle viscere,
lamento profondo - un uhuuu! di cui risuonano le pro-
spettive barocche e la volta notturna.
Chi sono? Che cosa cercano che cosa spiano che cosa
complottano? A che tanto impegno tanta dedizione tanto
sacrificio? E da quali mali dell'esistenza della storia della
società erompe quell'uhuuu! da licantropo?
Adolescenti alla fine della prima guerra mondiale, uo-
mini maturi quando sta per scoppiare la seconda, negli
anni tra le due immani tragedie è il ricordo di quella e la
premonizione di questa che li muove, che li agita, che li
unisce nella travagliata cospirazione? O è contro il fasci-
smo trionfante che cospirano, contro lo Stato fascista,
Don Giovanni in Sicilia. Don Giovanni a Catania.
Ma è propriamente dongiovannismo, e nel senso origi-
nale e radicale e nel senso caricaturale e svagato, la dedi-
zione assoluta e ossessiva che questi catanesi offrono alla
donna? Intanto è appunto un'offerta, un rito d'offerta più
che una pratica di conquista, un giuoco di immaginazione
più che d'azione: e vien meno quella che si può conside-
rare la primaria qualità dei don Giovanni, cioè il genio
della pratica, il machiavellismo. Se poi il dongiovannismo
è antipetrarchismo, quello dei siciliani è puntualmente il
contrario: una forma quasi patologica di petrarchismo.
Giovanni Macchia, nel saggio Vita avventure e morte di
Don Gio~anni, così definisce il dongiovannismo originale:
E la plU vlolenta protesta al culto della morte instaurato
vittoriosamente tra il Cinquecento ed il Seicento. Nella
simbologia amorosa è la più forte ondata antipetrarchesca
che abbia concepito la letteratura. Dei due poli del Cin-
quecento, petrarchismo e machiavellismo, è il secondo
che riporta la sua vittoria. Il senso, reso autonomo dalla
passione, si stacca, come la scienza della politica, anche
dalla morale. Nella formazione di don Giovanni l'ateismo
contro la Chiesa che si è accordata al fascismo? 1 è elemento costitutivo e
rappresentativO, ma non reclama
Niente di tutto questo. Siamo a Catania, e sì negli anni più, come tra i
libertini, alcun ossequio. Per nulla affasci-
delle guerre fasciste in Etiopia e in Spagna, della pace sal- nato da dispute
teologiche o soltanto teoriche, don Gio-
vata a Monaco e affogata a Varsavia un anno dopo, a due vanni ha altro cui
pensare. E un genio della pratica. Al
passi dal biviere di Lentini, dell~immutato mondo ver- momento buono per omaggio
alla pratica, potrà anche,
ghiano di malaria e di fame; addirittura dentro la più stra- quando gli farà
comodo, rinnegare il suo ateismo e fin-
ziante miseria e promiscuità dei quartieri popolari che si gere di credere (come
accade appunto in Molière) Ma
nascondono e crescono come tumori dietro le splendide egli resta sempre se
stesso". E di quello oggi corrente dice
quinte del barocco estremo. Ma questi giovani, figli del- che è una mezza
caricatura, poiché "quell'esagerazione
I aglata borghesia dei negozi, questi giovani che ormai che un tempo
violentemente lo caratterizzava, nella sua
sfiorano il "climatérico lustro de la vida(quando, ag- sfida alla società, alla
morale, ai sentimenti onesti, è di-
giunge Góngora, il piede messo in fallo è caduta e la ca- ventata accurata ed
elegante deformazione", espressione
duta precipizio) e che ancora vivono come figli di fami- d~una società
invecchiata"; e di questo dongiovannismo
gha, altro non pensano, non sognano, non spiano, non corrente trova modelli in
qualche quadro di Boldini, nei
fanno oggetto dei loro discorsi, delle loro trame, delle romanzi di Brancati.
Ioro ispirazioni e disperazioni che la donna, la Donna, la Ma i personaggi di
Brancati non sono caricature più di
quanto il ritratto di un gobbo sia caricatura di un gobbo.
Non sono deformazione elegante ed accurata (e tanto
meno divertita, come altri ha creduto) di un tipo umano,
quale appunto nel segno di un Boldini di un Helleu o,
più intensamente, di un Lautrec. E non rappresentano
una società estenuata, invecchiata, valetudinaria. Sono
PersOnaggi reali, ma di una realtà caotica, imprevedibile e
folle che mai è riuscita a costituirsi in società. E se il don-
giovannismo presuppone l'esistenza di una società - l'an-
tico don Giovanni per profanarla e irriderla nei suoi miti
e riti religiosi e morali, quello di oggi per godere parodi-
sticamente, ridicolmente fuor di stagione, gli estremi ri-
flessi di quella profanazione - la peculiarità dei perso-
naggi brancatiani appunto consiste nel venir fuori da una
non-società e, paradossalmente, nel fatto di realizzare una
forma cli società, o almeno di comunione, unicamente su
quel punto: la donna, l'insostituibile piacere "del discor-
rere sulla donna" (non sostituibile, e aqui está el busilis,
dalla donna stessa).
Dice Dominique Fernandez nel suo vivissimo libro
Mère Mediterranéé: "In Calabria, in Sardegna, la conversa-
zione s'impernia sul vento, sulle pecore, sulla nascita e
sulla morte. Poche cose contano all'infuori di questi prin-
cipi elementari e assoluti. Ogni volta, invece, che avvi-
cino un siciliano, è come se affrontassi una battaglia il cui
esito si presenti incerto. Con chi ho a che fare? Quale
corda devo toccare? La sottigliezza greca, la brutalità PU-
nica, il fatalismo musulmano, l'orgoglio spagnolo, la fur-
beria napoletana?... Il siciliano, che raccoglie in sé tutti i
caratteri dell'uomo del Sud, ci tiene a distinguersi dagli
altri meridionali: la ricchezza stessa delle sue doti gli con-
ferisce una suscettibilità morbosa e gli impedisce di accet-
tare di essere identificato con una sola delle componenti
della sua polimorfa natura"; e se soffre non è per malin-
conia, come il calabrese e il sardo, ma per l'impossibilità
di "vivere nello stesso tempo tutti i suoi personaggi". Ma
dimentica, Fernandez, il "discorrere sulla donna" il punto
dell'identità, il punto in cui sottigliezza, brutalità, fatali-
smo, orgoglio, furberia, gioia e malinconia, commedia e
tragedia, slancio vitale e contemplazione della morte, con-
vergono e si fondono. Applicando il calcolo delle probabi-
lità alla polimorfia dei siciliani, ovviamente gli incontri
tra loro (a qualsiasi livello e su qualsiasi questione ideale
o pratica, come anche i più recenti avvenimenti ci dimo-
strano) quanto più sono numerosi tanto più riducono la
possibilità di una combinazione - per servirci approssima-
tivamente e banalmente della specificazione di Fernandez
- "spagnola" o "musulmana" o "greca", e via dicendo
unitaria o almeno maggioritaria. Ma nel "discorrere sulla
donna" si realizza un fenomeno di attrazione e aggrega-
zione che attinge alla perfezione e al prodigio; si stabili-
sce una specle di campo magnetico che coinvolge, con ef-
fetti telepatici e di richiamo, anche coloro che sono lon-
tani dall'epicentro dove il discorso sulla donna si svolge.
E in questo senso, magnetico e magico, subito dopo il
"discorrere sulla donna" (che è il piacere supremo), si co-
stituisce come epicentro l'apparizione di una donna parti-
colarmente bella o particolarmente formosa o particolar-
mente scomposta a lasciare intravedere quelle parti del
suo corpo che le vesti dovrebbero coprire e nascondere.
Quando in un caffè di Caloria (lasciatemi chiamare così la
città siciliana di cui facilmente indovinate il nome), quando in
un caffè di Caloria vedete un gruppo che, d'un tratto, rimuove
brutalmente il tavolo per essere più srretto intorno al narratore,
e colui che sonnecchiava sgrana gli occhi, lampeggiando attra-
verso le lacrime del sonno non ancora asciugate, e Il vecchio Sl-
gnore si passa fortemente la mano sulla bocca contorta, e il ra-
gazzo di liceo tiene, come un confetto, la lingua fra i denti, e
tutti sono curvi in avanti con le facce piene di sangue; allora
siate certi che si parla della donna.
E la prima fase del fenomeno, il primo moto di aggre-
gazione. Ed ecco che si propaga in onde concentriche o,
di una parola che si leva ad esplodere nell'aria e ricade in
una pioggia di faville, altri gruppi incendia dello stesso
discorso:
Il narratore, a questo punto, non dice più nulla: si volta sulla
sedia in modo da poggiare il braccio destro sullo schienale, di
colpo si sdraia lungo il vicino, e difendendosi la bocca col dorso
di una mano, con l'altra accarezza nell'aria la forma invisibile di
un mento o forse di un naso. Tutti all'intorno, anche se seduti a
un tiro di pietra, si accorgono che il narratore impersona una
donna sdraiata. Eh, non c'è dubbio: quella è una donna sdraiata!
Gli uomini, che seggono soli, si chiedono: "Chi sarà?" E qual-
cuno si sente battere il cuore al pensiero di una donna così. Co-
loro invece che seggono con le donne della propria famiglia, ab-
bassano gli occhi e borbottano fra i denri: "Non puoi condurre
tua moglie in mezzo a questi facchini di porto!"
Per colmo di misura, non è da un solo punto del caffè che ar-
rivano queste abbozzate scene d'amore: ecco, a destra, un si-
gnore di mezza erà, basso e tarchiato, che, con le dita divaricate,
disegna nell'aria un gran globo e, lasciatolo così sospeso davanti
agli occhi spiritati dei suoi amici, si abbandona nella poltrona
di vimini e, storcendo in fuori le labbra, gira più volte la destra
a mestolo, come a voler dire sgomento, meraviglia, cose dell'al-
tro mondo, cose da pazzi. Ed ecco, più avanti, un ragazzo sottile
che si mette le mani aperte a un palmo dal petto, e sporge an-
ch'egli le labbra serrate, strabuzza gli occhi, e scuote il capo
come a uno stupendo e doloroso ricordo. Ed a sinistra, un capi-
tano di cavalleria, che cerca di allargare, col gesto delle mani, la
misura dei fianchi e della propria schiena, finché al suo
tutn non vedono una vasta e grassa odalisca. Gli ascoltat
col fiato sospeso, si tengono il petto e si guardano fra loro, di
cendogh col moto dei sopracigli: "Fortunato capitanoFelic
capltano! Che notte meravigliosa!... Una notte come questa e
Vltd Qualcuno si alza perché, dice, non sta bene e dePvè'n la
non appena ¨~sara pà5sato~g ° per distrar5i coi cigni, e tomerà
Ma non è solo la gente seduta che s'intrattiene su questa ma-
Ed ecco una variazione del fenomeno all'apparire di
Una sera mentre sedevano in via Veneto, guardando una
princlpessa ungherese, ferma e dritta come una palma a pochi
passl a oro, un facclone rosso entrò, da un tavolo accanto, fra
a spa a di Muscara e quella di Scannapieco, e disse "Come la
mettereste voi quella lì?..." Era Monosola, un vecchio amico si-
Ci lano. Egh annunclo che tUttO un gruppo di Catania, i Leoni
ce ata, i Re, Il Glgante di cartone, il Sorcio martoglio e
ucerto one, era arrlvato un'ora avanti, e avrebbe dormito
nella stessa pensione di Muscarà e Scannapieco.
E i particolari effetti che il fenomeno esercita sulla me-
Le loro tre memorie fiorirono insieme di episodi molto strani
e placevoli: sebbene non si fossero mai intesi prima, eran sem-
pre d'accordo nel ricordare i minimi particolari di un fatto che
m ventà, non era mai accaduto
Mentre sedeva dietro il banco, ad ascoltare il rendiconto del
casslere, Glovanni 51 voltava a sinistra e, con un profondo so
splro, mormorava all'orecchio del cugino: "Sentirti dire. Gio-
vanm, m amore, tU sei un dio!"
Se poi si interrogava Muscarà intorno a quella frase di Gio
vanni, Muscarà era in grado diaccontare come fu e quando fu
e dove fu che una donna disse a Giovanni quelle parole deli-
I dongiovanni in Sicilia sembra si muovano quasi inde-
fettibilmente nella concezione leopardiana del piacere e
dei piaceri. E di ciò Brancati avrà avuto precisa consape-
volezza. "Il piacere è sempre passato o futuro, e non mau
presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e
non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mal as-
soluta... Tutti hanno provato il piacere o lo proveranno,
ma niuno lo prova. Tutti hanno goduto o godranno, ma
niuno gode... Il piacere è un ente (o una qualità) dí ra-
gione, e immaginario... A noi pare bene spesso di provar
del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri, che ne ab-
biamo provato... Moltissimi piaceri non son quasi piacen,
se non a causa della speranza e intenzione che si ha di rac-
contarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Que-
sta rende piacevoli le cose che non lo sono, anche le di-
spiacevoli ec. ec. Questi effetti però ponno riferirsi all'am-
bizione, al desiderio di parere interessante, ec. non a
quello di comunicare e dividere le proprie sensazioni."
Quest'ultimo, è l'unico punto in cui i Percolla e i Mu-
scarà, e Brancati stesso, contraddicono Leopardi: l'effetto
più importante, nel vivere o immaginare il piacere erotico
con la speranza e intenzione di raccontarlo, appunto con-
siste nel comunicarne e dividerne le sensazioni. Che è poi
l'effetto cui tende ogni forma di rappresentazione erotlca
e tout court la pornografia; e in questo senso 1 personaggi
di Brancati sono dei pornografi. Con un precedente "lo-
cale" di inesausta e ricca tradizione quale quello di Dome-
nico Tempio, nei cui versi si realizza una specie di petrar-
chismo fisiologico, di voyeurisme esistenziale.
Francesco Guglielmino (professore di letteratura greca
e poeta d'amore di cui Brancati dirà che "è forse l'unico
poeta romantico della letteratura dialettale") disse una
volta a Verga, parlando dei siciliani di sé e dello stesso
Verga: "Siamo romantici". E Verga: "Ma che romanticl,
figlio mio: siamo ingravidabalconi". Espressione, è il caso
di dire, pregnante. Ed anche Verga era un "ingravidabal-
coni" (e si noti nelle sue lettere alla contessa di Sordevolo
1
come, ad ogni tentativo che questa fa per avvicinarglisi,
egli anche bruscamente si svincola e allontana a rimettere
le cose alla distanza tra la strada e il balcone). Ed anche
Guglielmino. Ed anche Brancati. "Questo avere i sogni, e
la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente
abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla
presenza di lei." Nessuno.
"Di 'na finestra s'affacciau la luna": da quanti secoli la
luna-donna, la luna-donna arnata della lirica araba, s'affac-
cia a regalare splendore ("su' tanti li splenduri ca mi
duna"), a suscitare il viscerale uhuuu! dei Muscarà, ad ali-
mentare pensieri fantasie sogni discorsi? C'era il caid, in
Sicilia ("c'è lu Gaitu, e gran pena mi duna"), quando la
luna-donna si affacciava alla finestra; ma non è meno lon-
tana e splendida la ragazza che dieci secoli dopo si affaccia
dal predellino di un tram "e getta nella strada uno
sguardo sfavillante" nella cui sfera velocemente tre vite
ardono e si consumano: "I tre amici si mettono subito nel
punto della strada in cui cade lo sguardo della ragazza,
come si fa con certi ritratti; e, godendo quivi di una
scialba e falsa attenzione da parte di lei, sprofondano i
loro occhi nei suoi, sorridono, si grattano la fronte, fan
cenni con la bocca e con gli orecchi. Già l'amano, la chia-
mano a bassa voce con un vezzeggiativo, in un baleno vi-
vono tutta una vita con lei: viaggi, notti insonni, amabili
litigi, serate estive in terrazzo, bagni di mare con lanci di
sabbia e spruzzi d'acqua. La loro fantasia non dimentica
nulla: essi sentono il terribile e soave lamento con cui
ella, nella camera accanto, li rende padri di un bimbo per-
fetto. . ."
"Ma che romantici, figlio mio: siamo ingr~idab~ni."
1970
LA LOMBARDIA SICILIANA
Nel palazzo palermitano che fu sede dell'Inquisizione
(il famoso Steri che va in indescrivibile e incredibile ro-
vina), ancora ci sono tre celle e due camere le cui pareti
sono fitte di immagini e di scritte, a carboncino o graffite,
dei prigionieri. Oggetto di particolare studio sono state,
da parte di un geografo, due disegni che raffigurano la Si-
cilia; ed uno, il più completo e leggibile, è come postil-
lato da questa dichiarazione ed invito. La traduciamo dal
dialetto: "Chi fece questa Sicilia non la completò né ci
mise le città e terre di montagna per non sapere i loro
veri nomi e siti. Chi li sa, può aggiungere il resto a me-
moria".
Questa scritta può fare da epigrafe a Lcittà del mondo
di Elio Vittorini: un libro incompiuto, una carta della Si-
cilia cui possiamo aggiungere il resto a memoria; e scritto
ad una distanza e in uno stato d'animo che si può anche
assomigliare a quello del prigioniero dell'Inquisizione di
tre secoli addietro. Perché queste carte della Sicilia, se non
per rivederla e ricantarla nei siti e nei nomi - da lontano?
Il prigioniero che non sa se rivedrà quei paesi e ne ricorda
l'aria, la luce, le architetture, i colori; e così lo scrittore
che ne è lontano da trent'anni, in una terra diversa e di-
versamente amata: la terra del nord che è ordine anche
quando si accende di conflitti; coscienza, società, storia -
in contrapposizione all'isola natale che è caos, dispersione,
negazione della storia. E questa dualità, questo conflitto
che Vittorini si porta dentro, ecco che ad un punto trova
una sintesi illusoria, simbolica, mitica: la Lombardia sici-
liana, i paesi lombardi della Sicilia. E sono poi, sulla carta
disegnata a memoria, nella memoria, le "città belle": "e
più la città è bella e più la gente è bella come se l'aria vi
osse plU buona..."
Città belle sono Aidone, Piazza Armerina, Nicosia: e
sono quelle in cui è avvenuto un coagulo di gruppi etnici
detti lombardi. Ma sono belle anche Enna, Caltagirone,
Scicli: Enna col suo Castello di Lombardia, Caltagirone
che segna il suo municipio con lo stemma di Genova, Sci-
cli che venera San Guglielmo; città, insomma, alla cui
storia diedero apporto uomini del nord. Brutte sono in-
vece Alimena, Resuttano, Licata, Regalbuto, Raddusa,
Mirabella Imbaccari: "Io non vorrei esser nato da una
donna brutta come sono le donne delle città brutte. Di
Alimena, per esempio. Che schifo! O di Resuttano. Che
schifo di schifo! O di Licata. Che schifo di schifo di schifo
di schifo. Fortuna che mia madre era di Aidone... Tra un
bel posto e uno brutto per i quali puoi passare tu scegli
sempre di passare per il brutto. Tra Piazza Armerina e
Imbaccari non v'è dubbio che tu non scelga Imbaccari.
Tra Aidone e Raddusa non v'è dubbio che tu non scelga
Raddusa... Ora non vuoi passare per Agira ch'è un bel po-
sto...." E non è un caso che le città brutte abbiano in pre-
valenza nomi arabi; c'è anzi da credere che non tutte -
belle e brutte - Vittorini le conoscesse, e che dunque le
distinguesse in base al nome alcune, nel ricordo della geo-
grafia elettorale prefascista tutte. La Lombardia siciliana,
la carta delle città belle, coincide in effetti con le circoscri-
zioni elettorali in cui il partito repubblicano aveva preva-
lenza: certe zone che allora appartenevano alle province di
Caltanissetta e di Siracusa e che furono poi costituite in
province autonome, Enna e Ragusa. Quella che è oggi la
provincia di Enna appunto era la roccaforte repubblicana
di Napoleone Colajanni: l'uomo che riassumeva l'idea
vittoriniana del Gran Lombardo; l'uomo che era nato in
un "posto lombardo" della Sicilia, che era alto e grande,
forte e non soddisfatto di sé e del mondo - e soprattutto
che "pensava ad altri doveri" (perciò nell'edizione di Con-
versazione in Sicilia "illustrata a cura dell'autore con la col-
laborazione fotografica di Luigi Gocenzi", le pagine in
cui si discorre del Gran Lombardo, e si tenta di definirlo
somaticamente e moralmente, portano tre fotografie del
monumento a Colajanni che si trova in una piazza di
Enna). "Altri doveri", poiché "questi nostri doveri di ora
sono troppo vecchi", "sono marci, morti e non vi è soddi-
sfazione ad adempierli." E chi sente e porta questi altri e
nuovi doveri è un Gran Lombardo anche se è nato in un
posto non lombardo. "Anche se era nato in Cina" - dice
il protagonista di Conversazione, parlando del nonno che
non ha conosciuto - "sono sicuro che era un Gran Lom-
bardo." E il punto della tipica contraddizione vittori-
niana: un Gran Lombardo che può nascere anche in Cina,
una Sicilia che "solo per avventura è Sicilia; solo perché il
nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Vene-
zuela" - e mentre ribadisce, nel 19$3, questa sua dichiara-
zione di astrazione geografica, ecco che dispiega in un
centinaio di fotografie (e dodici riproducono addirittura
cartoline) "gran parte degli elementi di cui il libro s'in-
tesse". La verità è che attraverso il Gran Lombardo, e rita-
gliando una Sicilia lombarda, Vittorini tentava di risol-
vere quella profonda e drammatica contraddizione che è
nei siciliani migliori, nei siciliani che non partecipano di
quella che Lampedusa chiama la follia siciliana (la follia
di credere la Sicilia perfetta e se stessi portatori di un
modo di vita impareggiabile); la contraddizione, per dirla
con antiche parole, del "nec tecum nec sine te vivere pos-
sum.
La Sicilia lombarda, dunque: un'astratta sintesi, una il-
lusione, un mito. E tuttavia, in sé e singolarmente, gli ele-
menti di cui Vittorini si serviva per costituirla erano ben
concreti: esistono i paesi lombardi; esistono i paesi di tra-
dizione repubblicana, ci sono, anche a distanze brevi, le
città belle, aperte, ariose e quelle brutte, chiuse, oppri-
menti; c'è una Sicilia mafiosa e una Sicilia non mafiosa.
Ma è difficile trovare un paese che abbia insieme queste
qualità: lombardo, bello, repubblicano, non mafioso. "Né
questo fiore di città ti lascia dubbi - dice il padre al figlio
nelle Città del mondo - sul suo carattere di metropoli di
una repubblica..."; e invece sì, te li lascia.
Ma restringendoci ai paesi propriamente lombardi - a
quelli cioè che furono detti lombardi in una nozione della
Lombardia che comprendeva tutta l'Italia settentrionale -
c'è da notare una peculiarità che vien fuori dalle manife-
stazioni di folklore e dalle espressioni di poesia: una risen-
tita coscienza delle condizioni sociali, un'aspirazione ci-
vile, un'attenzione dolorosa e ironica alla vita quotidiana.
L'ironia e la satira sono anzi la forma che le cose, i senti-
mentl e i rlsentlmenti, assumono nell'espressione del
poeta popolare o semicolto o colto. E sarà magari una
suggestione che viene in parte dal dialetto (irto di conso-
nanti e con due, tre o addirittura quattro vocali di se-
guito, e ciascuna con suono distinto): ma i poeti di San
Fratello o di Nicosia più fanno pensare al Porta che al
Meli. Diceva Luigi Vasi, presentando nel 1881 un'antolo-
gia di poesie sanfratellane: "sono ottave dettate la più
parte a diletto, a sfogo d'umori mordenti". Ora di questi
umori mordenti nella poesia siciliana, in dialetto siciliano
soltanto ne troviamo o nelle cosiddette canzoni di sdegno,
che son quelle dell'amante abbandonato o tradito, o in
certi canti in cui, dal carcere, il condannato inveisce con-
tro i propri nemici e le spie. Un canto come quello che
un poeta di San Fratello scrisse in morte di un mafioso, è
impossibile trovarlo nella poesia siciliana. Bisogna arri-
vare a Ignazio Buttitta, cioè a un poeta dei giorni nostri,
per trovare tanto coraggio civile. Il poeta di San Fratello
ne aveva già nel secolo scorso: e non si creda che attaccare
un mafloso morto comportasse meno rischio che attac-
carlo da vivo.
Il canto trascorre dalla satira all'invettiva con imma-
gini concentrate ed efficaci. Comincia col fingere com-
pianto per il mafioso strappato alla vita: "Morte, come ti
affretti stamattina / a strappare il garofano dal suo ca-
lice!", elenca i meriti del defunto, il dolore del paese; e in-
fine esplode: "Il cancro ai polmoni / venga ai nostri con-
cittadini! / Se al sessanta avessero ammazzato questi bric-
coni, / sarebbe valso meglio che la pioggia a maggio pei
seminati". Tanta destrezza nel maneggiare la satira fa
pensare a un poeta colto (probabilmente lo stesso Vasi);
ma anche in altre poesie, evidentemente di autori popo-
lari, non manca la satira: più o meno diretta, più o meno
cruda. E così è anche in quel La Giglia, farmacista poeta
di Nicosia, che in due volumi di versi ha dato un raggua-
glio della vita paesana nei primi due decenni di questo se-
colo: solo che in lui la satira si discioglie in toni crepusco-
lari, a volte; e con l'effetto di riportare personaggi e mo-
menti della vita del paese a una "pena di vivere COSi ' Im-
mutata e immutabile. Così la Sicilia lombarda entra nella
condizione siciliana; e un diverso modo di vedere le cose
e di reagire ad esse, per tanti secoli conservato come in vi-
tro, s'incrina a lasciare intravedere un cielo baluginante
dei segni del destino e della morte.
1970
LA VERA "STORIA" DI GIULIANO
Non ripeterò qui quel che del Salvatore Giuliano di
Francesco Rosi ho scritto in una breve, sommaria storia
del rapporto tra il cinema e la realtà siciliana: e non preci-
samente del film (che a mio parere è il migliore, assoluta-
mente, tra i tanti che in questi ultimi anni della Sicilia
hanno declinato fatti, aspetti e problemi), ma delle rea-
zlom di un certo pubblico - di contadini, di zolfatari sici-
liani: del pubblico, cioè, tra cui vive la leggenda del ban-
dito cavalleresco, nobile, pietoso, reazione di consenso
alla invisibilità di Giuliano nel film: quasi che Rosi avesse
voluto, a sua volta, consentire al mito popolare, ponendo
nella invisibilità una specie di dato mistico, agiografico, e
non invece un dato di giudizio, di condanna - umana, ci-
vile, storica - sulla classe dirigente da cui il bandito, per
SCOpi di conservazione pa*onale ed elettoralistici, era
mosso. E ben diversa reazione avrebbe suscitato il film in
quel determinato tipo di spettatore, se Giuliano fosse
stato visibile: piccolo, triste personaggio; senza leggenda,
senza mlto.
Ignazio Buttitta, in questa Vera stona di Giuliano ha
invece puntato sul personaggio: ma condizionata com'è
la sua poesia, dal sentire popolare, poesia propriamente
popolaregglante, voce che ha come elemento naturale la
piazza dei paesi siciliani, anche il suo Giuliano non è del
tutto sottratto al mito. Si capisce che Buttitta non è Cic-
cio Busacca o Orazio Strano, le cui storie debbono obbe-
clire a una precisa richiesta, non contrastare al sentimento
della piazza, muoversi senza scarti nella leggenda; né del
resto potrebbero. Buttitta ha coscienza civile netta, netto
giudizio morale e politico: e dice vera la storia di Giu-
liano in funzione della coscienza, del giudizio; là dove la
verità del cantastorie è invece quella del sentimento cui ri-
sponde, dell'antica affermazione e rivolta dell'individuo
contro la società, contro lo Stato; del diseredato contro il
ricco; del docile che finalmente scatta contro il prepo-
tente, della vendetta sociale, insomma, che di volta in
volta prende figura in Antonino Di Blasi detto Testa-
longa, nei fratelli La Mattina, in Francesco Paolo Varsa-
lona, in Giuliano. E c'è da credere che per autocensura, a
non sconfinare nell'apologia diretta del crimine, le storie
di Giuliano che corrono per le piazze abbiano subito una
specie di alleggerimento, sortendo a volte ad effetti di in-
volontaria, singolare raffinatezza: come per esempio in
quel sesto episodio della storia di Giuliano cantata da Bu-
sacca, quello del bandito e della duchessa di Pratameno;
dove la duchessa viene derubata di tutti i gioielli, e per-
sino dell'anello che porta al dito, con una cerimoniosità
da parte di Giuliano in cui è una specie di ironico con-
trappasso, di parodia, dei modi che son propri al mondo
cui la duchessa appartiene; e viene da pensare alla pagina
finale di Una manciata di polvere di Evelyn Waugh, con
quel capotribù che parla come un gentiluomo inglese a
quel gentiluomo inglese che si tiene prigioniero.
Il sentimento che Buttitta ha verso Giuliano è di pietà,
non di ammirazione: pietà, a dirla semplicemente, per il
"figlio di mamma". E già nella Storia di Turiddu Carne-
vali egli aveva creato una straziante figura di ma*e: la
ma*e del giusto. Qui, a non invadere di pietà la storia,
appunto perché non è la storia di un giusto, ha saputo te-
nere in secondo piano la ma*e di Giuliano: e gli sarà co-
stato un certo sforzo non abbandonarsi, nel nono episo-
¨ dio, quello della morte del bandito, all'onda della lamen-
tazione, del llanto; a tenere e contenere dentro sei versi,
peraltro di grande forza, l'arrivo della ma*e a Castelve-
trano:
E vennu li parenti e la famigghia.
Prima la matri cu li vrazza jsati
E a cu la vidi pari c'assumigghia
A la Madonna di la piatati:
La matri d'un briganti matri resta:
Lu lampi luci, e porta la timpesta!
Ma sembra appartenere al lamento della ma*e questa
straordinaria immagine che precede la sua apparizione, in
cui la natura, attonita, si sveglia a quella morte:
L'arba a Castelvitranu s'arruspigghia
Cu Giulianu tra l'occhi e li gigghia,
Giuliano come un grumo di sonno, come un grumo di
morte, tra le ciglia dell'alba. E così in tante altre imma-
gini in cui il poeta assume gli eventi dolorosi, i fatti tra-
gici, le violenze, i morti ammazzati in un sentimento che
si può dire materno: poiché ma*e è in definitiva la Sici-
lia, cui assolutamente e profondamente quel peso di mor-
te, quella dilacerazione, quelle pene appartengono. La Si-
cilia-ma*e è anzi la chiave della poesia di Buttitta (non
soltanto in questa storia): entità a volte astratta e sperico-
lata sull'orlo del sentimentalismo, più spesso concreta
nelle dolorose antinomie, nelle sanguinose contraddizioni;
e nella sempre più chiara coscienza delle proprie antino-
mie, delle proprie contraddizioni; della propria storia, in-
somma, in cui anche la storia di Giuliano si iscrive con
quella verità che il poeta ha voluto e saputo darle. "La
matri d'un briganti matri resta": e così la Sicilia.
Nel saggio su Meli e la poesia popolare, il Cocchiara ar-
riva all'esatta conclusione che il poeta, "pur avvalendosi
dei matenali che il popolo gli offre, generalmente, non li
inserisce nella sua opera come frammenti più o meno raf-
fazzonati; ma li rivive, li rielabora interiormente, li in-
forma della sua ispirazione e perciò li ricrea. Si tratta, in
questi casi, di una contaminazione letterario-popolare, la
¨ I quale accusa la pura natività e la schietta originarietà
della forma popolare. Senonché laddove il linguaggio del
popolo è maturo per l'arte (e quindi per una determinata
forma di elaborazione) nel senso che in esso c'è quel li-
mite espressivo che è lo stesso limite dell'anima popolare,
nel linguaggio del Meli tanto la struttura metrica quanto
quella ritmica hanno, invece, una elaborazione che è pro-
pria in ogni matura fantasia letteraria". Il rapporto tra
questa storia di Buttitta e le forme propriamente popolari
del genere, si può anche porre in questi termini. La strada
di Buttitta è lunga, la sua è esperienza complessa: ed oggi
la sua è una matura fantasia letteraria. Solo che la conta-
minazione letterario-popolare si svolge su un terreno ben
diverso da quello del Meli: non è una contaminazione di
forme se non in funzione di una contaminazione, per così
dire, civile. Attraverso forme popolari o popolareggianti,
Buttitta insinua nel sentimento popolare la propria co-
scienza civile, la propria ideologia. Operazione piuttosto
complicata ed ardua, a considerarla nei termini della vo-
lontà; ma Buttitta la svolge con assoluta naturalezza, con
precisa necessità: esperienza che appartiene alla sua storia
- di uomo, di poeta - e non scelta di una forma letteraria.
Nel 1952, nella introduzione all'antologia della poesia
dialettale del Novecento, Pasolini poteva ancora intrup-
pare Buttitta in "quel gruppo, in certo modo interessante,
per quel suo misticismo francescano (tra D'Annunzio e
Godoy!), di siciliani fattisi per residenza lombardi e
quindi esposti da una parte alla nostalgia dall'altra a ambi-
zioni nazionali"; e poteva escluderlo dall'antologia, pur
notando che le ultime poesie, ancora inedite in volume (e
formarono poi Lu Pani si chiama pani), fossero "assai me-
glio". Ed altro che, se erano assai meglio! Erano la nuova
poesia, di nuovo e diverso poeta; una poesia di rivolta e
di speranza, un grido inconsueto nella poesia dialettale si-
ciliana, solo paragonabile a certi canti di affocata rivolta
del popolo: e pensiamo precisamente a quel canto della
messe pubblicato da Serafino Amabile Guastella parecchi
anni or sono, e rimasto sconosciuto al di fuori della cer-
chia degli specialisti. In forza degli accadimenti civili - la
guerra, il dopoguerra, il nuovo insorgere del problema
meridionale - il poeta prendeva coscienza della storia sici-
liana e nazionale, scopriva la realtà della sua terra al di là
degli schermi georgici, arcadici, pseudofrancescani (e, na-
turalmente, dannunziani). La sua poesia, insomma, con
Lu Pani si chiama pani veniva ad inscriversi, e tra le voci
più autentiche, nel nuovo realismo italiano. Poi venne
genuina storia popolare, intensa poesia, la Morti di Tu-
riddu Carnevali: uno dei più felici incontri tra poesia let-
teraria e poesia popolare che si possano finora registrare
(Baronessa di Carini a parte); e ora La vera storia di Tu-
riddu Giuliano. Vera, drammatica storia; ardita mimesi
del sentimento e delle forme di espressione del popolo ro-
vesciata in un giudizio non popolare. Un giudizio, cioè,
non ancora popolare: ma che può, in forza della poesia di
Buttitta, diventare popolare.
1963
LE SOLEDADES DI LUCIO PICCOLO
il
l
,
Recentemente, in una intervista apparsa sul "Corriere
della sera", nel modo più reciso Lucio Piccolo ha detto
quel che da qualche anno tentava di far capire. Non ri-
cordo le parole precise, ma il senso era questo: Piccolo
non è il cugino di Lampedusa, Lampedusa era il cugino di
Piccolo. Battuta in cui non c'è malanimo né vanità, ma
soltanto l'esigenza di mettere finalmente le cose a posto.
Questa èsigenza sappiamo bene che continuerà ad es-
sere elusa e delusa, e non soltanto sul piano giornalistico.
Anche il critico letterario difficilmente ormai rinuncerà a
trovare rispondenze tra Il gattopardo e le poesie di Piccolo.
Rispondenze che innegabilmente esistono, ma che vanno
valutate con cautela, con discrezione, e soprattutto te-
nendo d'occhio elementi di fatto quale quello della data
in cui le 9 liriche di Piccolo uscivano in un libriccino
"stampato da una sola parte del foglio e impresso in ca-
ratteri frusti e poco leggibili" dallo Stabilimento Tipogra-
fico Progresso di Sant'Agata. La data è quella del 1954; e
precisamente l'8 aprile, in grazia di una difettosa affranca-
tura postale e di una tassa di 180 lire che aveva dovuto
pagare, Montale leggeva le g liriche.
Sulla vi~ile fiscalità delle nostre poste, assurta in que-
sto caso aatalità o provvidenza, qualcuno ha fatto anche
ironia, e su Montale che candidamente ammetteva, due
anni dopo, nella nota introduttiva ai Canti barocchi pub-
blicati da Mondadori, di aver salvato il libriccino di Pic-
colo dal limbo in cui di solito lascia cadere i libri di versi
che riceve, forse perché voleva appurare se valesse 180
lire. E non che non ci sia da fare ironia: ma a più vasto
raggio, e coinvolgendo tante cose nostre e noi stessi.
Comunque, le 9 liriche valevano le 180 lire, e anche
più, se Montale decideva di presentare il poeta ad un in-
contro che si tenne quell'anno a San Pellegrino e poi con
una introduzione al volumetto in cui alle liriche stampate
a Sant'Agata altre erano state aggiunte.
In questa introduzione, molto bella e di buon giudizio
Montale riportava un brano della lettera con la quale Pic-
colo aveva accompagnato l'invio delle g linche: "... era
mia intenzione rievocare e fissare un mondo singolare si-
ciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova
adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere
avuto la ventura di essere fermato da un'espressione
d'arte. E ciò, s'intende, non per una mia programmatica
scelta d'un soggetto, ma per una interiore, insistente esi-
genza di espressione lirica. Intendo parlare di quel mondo
di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate
a questi luoghi, qui trascorse senza lasciar traccia. Ho ten-
tato non quasi di rievocarlo ma di dar di esso una inter-
pretazione su ricordi d'infanzia".
La lettera era parsa a Montale "piuttosto generica e
tale da far temere una poesia puramente descrittiva", e
appunto per la sua genericità, nel 1960, quando alcuni dei
molti lettori del Gattopardo la scoprirono nel volume
dello "Specchio" mondadoriano in cui ai Canti barocchi si
univa, col titolo di Gioco a nascondere, altro gruppo di liri-
che, non ci volle altro per mettere nella scia di Lampe-
dusa Lucio Piccolo che dopotutto per estrazione, per con-
sangumeità e per età offriva più agganci di Federico De
Roberto, i cui Vicerè, dopo più di mezzo secolo, erano
statl lanciati a far da satelliti al Gattopardo.
Debbo dire che questa lettera a Montale a me pareva
che contenesse più Il gattopardo che le liriche di Piccolo; e
ln questo senso ne ho scritto a Piccolo qualche mese fa.
Mi rispose, imprevedibilmente ma senza sorprendermi,
che la lettera era stata scritta da Lampedusa. Questa pic-
cola rivelazione conferma la genericità avvertita da Mon-
tale e spiega la ragione per cui la "descrittività" promessa
o minacciata non trovasse riscontro nelle liriche. Avrebbe
avuto riscontro nel Gattopardo, si può dire ora. Ma liqui-
dato questo punto, puramente esterno ed aneddotico, re-
sta come luogo di più stretto rapporto tra Piccolo e Lam-
pedusa il tema di "un mondo singolare siciliano" ora
"sulla soglia della propria scomparsa"; ma direi che è pro-
prio qui che si pone una fondamentale differenza. Lampe-
dusa declina il tema nel romanzo, in un "genere" cioè la
cui storia è legata all'insorgenza e allo sviluppo di una
classe nemica alla sua, quella che altrove si chiama bor-
ghesia e qui in Sicilia (dobbiamo purtroppo convenire
con lui) altro non è che un'accozzaglia di sciacalli; e per
di più fa il romanzo storico, un po' pirandellianamente
mutuando la sostanza negli accidenti, l'essere della storia,
per così dire, nelle sue apparenze qui più inerti e sgrade-
voli. Piccolo invece ha confidato il tema alla lirica; e non
è poi il solo tema della sua lirica. Mi diceva: "Io invece,
senza alcuna prevenzione, mi ascoltai en poete e perciò, in
fondo, assai più semplicemente". Tra Piccolo e Lampe-
dusa, insomma, c'è la differenza che tra la buonafede e la
malafede.
Ma tornando alla nota di Montale, in sé di esemplare
giustezza, ecco che siamo all'origine di quella corsa, che
ancora continua, a far rameggiare dalla poesia di Piccolo
ascendenti e collaterali. Montale faceva questi nomi:
Campana, Dylan Thomas, D'Annunzio, Pea, Hopkins,
Yeats. Gli altri critici aggiunsero: Montale ovviamente e
altrettanto ovviamente Lampedusa; e poi: Quasimodo e
Clemente Rebora; Lucrezio; Luca Pignato, Enrico Cardile,
Antonio Corsaro, Bartolo Cattafi, Nino Gimi; e così via.
Da Natale Tedesco venne poi un nome che meraviglia sia
sfuggito a Montale, ed è senza dubbio quello del poeta
contemporaneo che Piccolo può sentire più vicino: Jorge
Guillén. Piccolo dirà forse che non è così, che più di
Guillén lui sente vicino Montale, ma a me pare che ap-
punto Guillén sia il poeta che permette di tracciare la più
attendibile genealogia barocca della lirica di Piccolo E si
sa che Guillén appartiene a una generazione poetica parti-
colarmente compatta negli intendimenti, oltre che nei
rapporti personali, che è denominata "generazione del
'27" poiché appunto nell'anno 1927 essa raggiungeva e
formava, dice Damaso Alonso, "como un sistema che el
amor presidia". Questo sistema, questa unità, trovò
espressione direi figurativa nella celebrazione del centena-
rio della morte di Góngora: una messa funebre in una
chiesa quasi deserta, gli officianti che sospettosamente
guardano quelle dodici persone, undici giovani poeti e un
vecchio professore, che nel rito funerario cattolico in me-
moria di un certo don Luis de Góngora pareva celebras-
sero un loro diverso e segreto rito. Il quadro, così come ce
lo dà Damaso Alonso, è straordinario: e credo ci starebbe
benissimo dentro Lucio Piccolo, fisicamente, oltre che per
congenialità e affinità poetica. E se, a Leonetta Cecchi,
Piccolo pare un personaggio del Greco, io starei piuttosto
per Velázquez, che è poi il pittore che ci ha tramandato
l'immagine di Góngora. Il Greco è troppo mistico, e Pic-
colo, nonostante tutto, non lo è. O meglio: lo è, e pecu-
liarmente, nel senso che Salinas indicava in Góngora: mi-
stico della realtà materiale. Ma questo è un punto cui vor-
rei arrivare come conclusione. Conviene intanto spiegare
perché mi pare che egli stia perfettamente collocato in
quel gruppo di poeti spagnoli che celebrano Góngora, e
accanto aJorge Guillén.
Leggendo, come ho fatto in questi giorni, le liriche di
Piccolo in continuità, dai Canti barocchi a Pl~melia, la
prima impressione è che insieme formino qualcosa di si-
mile a un poema narrativo. Ma tornando a leggerle nello
stesso o in diverso ordine, ecco che l'assunto narrativo ap-
pare come un pretesto che serve ad organizzare e colle-
gare una catalogazione di elementi e fatti della natura.
L'assunto narrativo, che facilmente può richiamare Il gat-
topardo, scompare, viene assorbito dal tema: che è la realtà
materiale, esterna, sensoriale. Ma la realtà è, per un poeta
barocco specialmente, insufficientemente poetica: e viene
perciò sottoposta a un processo di "degnificazione". Vale
a dire che la realtà viene per troppo amore soppressa, li-
quidata, nel punto stesso della massima esaltazione.
Questo schema, che è poi quello che Salinas applica
alle Soledades di Góngora, credo che ogni lettore sia in
grado di ricostituirlo, e più o meno consapevolmente lo
ricostituisce, sulle liriche di Piccolo. E non c'è bisogno di
chiarire, ritengo, che il processo di "degnificazione" non
si dispiega nella poesia di Piccolo come in quella delle So-
ledades, ma è contratto, invisibile, già avvenuto insomma.
Non per nulla quel gruppo di poeti celebrava il terzo cen-
tenario della morte di Góngora e non il trigesimo. Si può
anche dire di più: che questo processo di "degnificazione"
che si potrebbe anche dire, per come Salinas suggerisce,
araldica, in Piccolo trova una nascosta controparte di iro-
nia.
Questa esaltazione della realtà fino al limite del nulla
(non del "nada" poetico, come arrivava a dire Menéndez
y Pelayo, ma del "nada" esistenziale), c'è chi, dopo Gón-
gora, la spingerà oltre quel limite; ma Guillén a quel li-
mite la ferma, la conclude; e se guarda oltre quel limite è
per chiederne altra più perfetta: misure astrali, presenze
senza anni, montagne di eternità.
Presentando, nel 1951, una sua traduzione di poesie di
Guillén, Curtius diceva che se ogni poesia, come voleva
Aristotele, all'inizio è lode o è biasimo, quella di Guillén
non soltanto all'inizio, ma interamente e assolutamente, è
un canto di lode. Il solo canto di lode del nostro secolo,
diceva Curtius.
Io direi che è un canto di lode anche la poesia di Pic-
colo. Ma bisogna intendersi. Sette secoli di poesia italiana
stanno tra due canti di lode totale: la laude di Francesco
d'Assisi e la laude di Gabriele d'Annunzio. Ed è il caso di
dire che c'è lode e lode. La lode di Piccolo s'appartiene ad
altra linea. E dopo averlo avvicinato a Guillén, bisogna
ora segnare il punto della differenza. E la fisserei rove-
1144 Lacordapazza lr Lacordapazza 114S
sciando quel verso di Guillén che dice "l'aria non è
umana, l'aria è il cielo". Che dispiaccia o no a Lucio Pic-
colo, debbo dire che io nella sua poesia trovo invece che il
clelo è l'arla e che l'arla è umana.
Tutti sanno che ha circolazione giornalistica un Lucio
Piccolo dedito a libri esoterici e di magia, ad evocazioni
spiritiche, a dimestichezza con le ombre dei trapassati. E
Sl può anche dare per autentico questo personaggio, an-
che per certi riscontri che offrono le sue liriche, solo che a
me pare che a queste letture e pratiche, a queste credenze
Piccolo non chieda una certificazione dell'al di là, ma una
certificazione della vita, della realtà. Falsa o vera che sia
questa certificazione, egli ne ha bisogno per sentirsi vivo
nel perfetto, assurdamente perfetto, labirinto della vita.
Quella che in altri tempi sarebbe stata la gravissima ac-
cusa di magia, e che oggi egli stesso alimenta poiché in
altro effetto non si risolve che in quello, per così dire, di
accusa di poesla, cade su un uomo non molto diverso da
quello che nel secondo secolo dopo Gisto irrideva a tutte
le magie, a tutti i misteri: Luciano dico.
Non mi è mai capitato di pariare con Piccolo di Lu-
ciano; ma leggendo gli ultimi versi della lirica che s'inti-
tola Guida per salire al monte,` presumendo che il monte
fosse il monte Pellegrino, ecco che i versi
... e questo
Awenne una volta: nell'ora
Che sulla città è una coltre in caligini
E scende, né la ferma spranga o chiavistello
E posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre
Da un'intacca della rupe sprizzò la scintilla:
Saio barba cappuccio, il fagotto d'orbace e stopl~a
Fu tutto ruore di fuoco sbocchi di fumo... l'ombre
Dell'energumeno su le pareti di roccia
Come di notturni avvoltoi in turbinio d'ali !
Più delle fiamme paurose... tardi dal mucchio
Si partirono in volo dintorno maligne
Pirauste, lampiri - e dalla pianura
Di giù se alcuno vide il bagliore
Pensò forse: accende il capraio a conforto
La fiammata, ora che autunno avanza...
ecco che questi versi improvvisamente mi ricordarono la
1morte di Peregrino che Luciano racconta al suo amico
Cronio: "Lo sciagurato Peregrino... finalmente è divenuto
fuoco". Sono due avvenimenti consimili: l'eremlta cn-
stiano che brucia sul monte, il filosofo ammirato dai cri-
stiani che brucia ad Olimpia; e registrati, I due avveni-
menti, direi con uguale allegria da uomini in condizione
di sorridere, come diceva Renan per Luciano, di tutte le
follie umane, che alla follia umana ormai oppongono un
"esprit charmant". Questa condizione è quella che Savl-
nio, appunto parlando di Luciano, chiama di "uomini
della fine": la fine di un mondo, di una credenza o di plU
credenze, di una società, di una classe. "L'uomo, - dice, -
arriva alla perfezione quando nulla più lo lega all'am-
biente nel quale vive, né è più implicato nelle cose del
suo tempo e sta veramente sopra le cose." Affermazione
che bisognerebbe così correggere: ci sono uomlm che in
determinate epoche arrivano alla perfezione sclogliendosi
dall'ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo,
assumendo coscienza della fine e salvandosene nel di-
stacco, nella superiorità, nell'autosufficienza. E in questo
senso Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua
vita come nella sua poesia.
FESTE RELIGIOSE IN SICILIA
Dal S al 7 febbraio del 1783, la città di Messina fu de-
vastata da violente ondate di terremoto. Perirono circa
settecento persone e i danni, specialmente nel porto e
nella zona della città che vi si addensava, furono ingentis-
simi. In conseguenza del luttuoso avvenimento, e del
danno economico che ne derivava per la città e per tutta
l'isola, parve al vicerè Domenico Caracciolo di dover ri-
correre a misure che oggi diremmo di austerità. Egli pre-
diligeva Messina come la città più alacre e produttiva
della Sicilia, vagheggiavà addirittura di farne la capitale
del Regno. Ma, a parte questa predilezione, era oggettiva-
mente giusta misura di governo imporre, per soccorrerla e
ricostruirla, qualche sacrificio alla comunità nazionale
(non va dimenticato che la Sicilia si considerava, ed era
nazione; ed anche Stato a sé, Regno). Gedette tra l'altro
vlcerè, di potere imporre una decurtazione, da cinque a
tre giorni, della dispendiosa festa che in onore di santa
Rosalia celebrava la città di Palermo. E fu forse il suo più
grande errore di governo.
Questo vicerè riformatore, che era già riuscito ad an-
nientare il Tribunale dell'Inquisizione e si accingeva a
scardinare l'usurpazione e il privilegio feudale, appena si
attentò a toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò
a perdere il favore di tutti i ceti alla cui affrancazione la
sua opera tendeva: e i nobili subito ne approfittarono per
assumere il patrocinio della massiccia e totale reazione. La
"cultura siciliana" (quella che Giovanni Gentile caratte-
rizza e definisce nel saggio Il tramonto della ct~lt~ra sici-
liana) pure contribuì con alti lai, con rampogne e satire; e
persino in sede storica, per tutto il secolo successivo ed ol-
tre, non fu risparmiato al Caracciolo, a proposito di que-
sto episodio, biasimo e vituperio. Con orgoglio il barone
Vincenzo Mortillaro ricorda: "Il barone Giovan Ciro
Mortillaro, rappresentando il senato di Palermo in tale
congiuntura, ne sostenne presso re Ferdinando l'usanza, e
l'inalterabile perennità, sorretto com'era dalla propria so-
rella Camilla moglie di Antonino Abaurre de Salazar mar-
chese di san Carlo e di Montevergine... Quella distinta
donna ardente di amore municipale stimava affronto alla
terra natia e irriverenza alla patrona il pensiero caracciole-
sco".
E il Pitrè, cent'anni dopo, gode dello scorno di Carac-
ciolo quasi ne fosse stato spettatore: "Caracciolo, benché
sicuro del fatto suo, non senza inquietudine aspettava le
sovrane risoluzioni: e col suo indispensabile occhialino,
da uno dei grandi` balconi del palazzo non si stancava di
lanciare sguardi di fuoco sui passanti nella piazza, napoli-
tanescamente mormorando parole di sprezzo contro que-
sti incoscienti del progresso filosofico d'oltralpe, indegni
de' tempi. Quando il suo decreto venne tacitamente abro-
gato, fu visto mordersi le labbra e giurare di farla costar
cara al Pretore ai Senatori, ai nobili, al Clero, ai commer-
cianti, a tutte ie classi di Palermo, non risparmiando nep-
pure Sua Maestà".
Né con minore irritazione ricorda l'episodio lo storico
Isidoro La Lumia: "Entro il proprio palazzo, presso alla
sua camera da letto, il vicerè ebbe a trovare cartelli, ove
leggevasi scritto: o festa, o testa. Nella intollerante sua col-
lera pensò di arrestare il pretore principe di Partanna e il
sindaco duca di Camastra; né il consultor Simonetti e il
segretario Gargano, per paura che ne nascesse qualche
diavoleto, dovettero sudar poco a distoglierlo: lo svizzero
comandante delle armi, generale Virtz, marchese di san
Pasquale, protestò nettamente che in ciò non lo avrebbe
obbedito. La festa ebbe luogo come per l'addietro..."
Ed è curioso vedere questi due ultimi studiosi, risorgi-
mentali e presumibilmente massoni, levarsi in postuma in-
dignazlone contro una disposizione, motivata e giustifi-
cata, che tendeva più a ridurre, come misura di contin-
genza, un dispendio che ad abolire una tradizione. Tutto
sommato, più sereno è il giudizio del benedettino Gio-
vanni Evangelista Di Blasi, testimone diretto della vi-
cenda: e ne parla come di un errore politico, che costò al
Caracciolo la perdita del favore popolare, e non come di
un'offesa deliberatamente tentata, in nome del progresso
fllosoflco d'oltralpe, contro il sentimento religioso dei pa-
lermltann
Quest'errore, comunque, si sono ben guardati dal ripe-
terlo i successivi vicerè e luogotenenti, i prefetti savoiardi
e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali,
I sociahstl, l comumstn I cortei dei Fasci Siciliani si apri-
vano con le bandiere dell'Internazionale e le immagini dei
santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi
tra I prlml e plU zelanti sostenitori delle feste religiose. in
ciò precorrendo, a modo loro, quella restaurazione di va-
lori rehglosi, quella liquidazione dei "residui illumini-
stici" (espressione testuale, da un "fondo" dell"'Unità")
che a più alto livello viene svolgendosi nei partiti marxi-
Stl .
Ma la santa per cui tanto reo tempo si volse intorno al
marchese Caracciolo, la vergine giovinetta dal nome flo-
reale, alla devozione dei palermitani si era affacciata in
tempi relatlvamente recenti: precisamente nell'anno 1624
e nell'infierire di una terribile pestilenza. Fino a quel-
l'anno, era stata patrona di Palermo santa Cristina, e com-
patrona santa Ninfa (santa, quest'ultima, di incerta estra-
zlone: da far coppia con san Satiro). Ma nel 1624, flagel-
lata dalla peste, letteralmente non sapendo a che santa vo-
tarsi, venne prodigiosamente fuori santa Rosalia. Dice il
Di Blasi: "Alle sante protettrici, che furono implorate, fu
allora unita santa Rosalia, che poi prese il principal luogo
anche sopra santa Cristina, che era la prima padrona della
città". E accozzando i resoconti dei contemporanei, e met-
tendoli in una certa luce, si potrebbe cavare una pagina
degna di Bayle o di Voltaire: tanti, e così originali, sono i
concomitanti prodigi per cui santa Rosalia riuscì a sop-
piantare santa Cristina. Non senza slealtà, bisogna am-
mettere, con scherzi degni più dell'Olimpo degli dèi falsi
e bugiardi che della rosa dei beati. Il Pirro racconta che
proprio mentre venivano portate in processione le reli-
quie di santa Ninfa, improvvisamente e inaspettatamente
i preti attaccarono a cantare "Sancta Rosalia ora pro no-
bis", preghiera che fino a quel momento mai si era levata;
e che nello stesso tempo un cacciatore, di nome Bonello,
rinveniva sul monte Pellegrino le ossa della santa. La
quale subito si premurava di comunicare personalmente,
apparendo in sogno a una certa Girolama Gatto e a un sa-
ponaro non meglio identificato, l'autenticità delle ossa
rinvenute. Ma il cardinal Doria, che si fidava più dell'opi-
nione dei dotti che delle visioni della Gatto e del sapo-
naro, diede a studiare le ossa a una commissione: che ci
sudò sopra per sette mesi, e diede positivo responso
quando già la mortalità toccava basso indice. E se ne fece
così solenne festa nella città, e con tanto concorso dei so-
pravvissuti, che naturalmente la peste ripullulò.
Candidamente il Di Blasi si meraviglia che "non siesi
per allora mai ricorso al Redentore, ch'era il più potente
di tutti", la devozione dei palermitani (in tempi succes-
sivi, da considerare come periodi di prova) esclusiva-
mente rivolgendosi alla Madonna, a santa Cristina, a
santa Ninfa, a santa Rosalia. Non sa tener conto, eviden-
temente, che nelle sante, e nella Madonna stessa, si ravvi-
sano quegli elementi terreni e carnali, di istintiva preoc-
cupazione e ansietà, che nel Redentore e nel santi Sl sup-
pongono invece più remoti ed astratti; il rapporto stesso,
insomma, in cui una società patriarcale pone l'uomo e la
donna: la donna vicina alla natura, a custodire e difendere
il seme della vita; e l'uomo che si astrae fino a fare della
La corda pazza I anr~a t)a77.a
morte un emblema e un dato della sua nobiltà, un ter-
mine dialettico della sua speculazione. Senza dire che, per
un siciliano, deve pur esserci nella Madonna e nelle sante
un'ombra di sessualità: e ne abbiamo comprova nel tipo
d'eresia che più ebbe diffusione in Sicilia, cioè un certo
rozzo quietismo che registra casi davvero inimmaginabili
(come quello di frate Antonino di Mistretta, che "a di-
verse persone di diverso stato e conditione" insegnava, e
con successo, un esercizio onanistico per cui "l'huomini
con la Santissima Vergine e le donne con Gesù Christo
Signor nostro, consumassero il matrimonio mentalmente
nella medesima manera e forma che lo consumano carnal-
mente gli huomini con le donne").
La vicenda della destituzione di santa Cristina e della
elezione a patrona di santa Rosalia è meno eccezionale di
quanto si può credere. La stessa santa Rosalia, che a Pa-
lermo prendeva il luogo di santa Cristina, a Vittoria ve-
niva poi sostituita da san Giovanni Battista; il quale, a
sua volta, aveva la peggio a Gioiosa di fronte a san Ni-
colò e a Butera di fronte a san Rocco; e san Rocco subiva
degradazione a Pietraperzia nei confronti della Madonna
della Cava; e san Nicolò, vittorioso a Nicosia su san Luca,
restava sconfitto a Noto da san Corrado (che peraltro non
era ancora santo). E così san Vitale ha la meglio su san
Giorgio a Castronovo, san Vito su san Lorenzo a Chiara-
monte Gulfi (ma si rifà, san Lorenzo, su san Leone: ad
Aidone), san Paolo sulla Madonna d'Odigitria a Palaz-
zolo Acreide. In più veloce sequenza, a Santa Caterina
Villermosa, in provincia di Caltanissetta, dopo che la
santa da cui prende il nome il paese si è insediata al posto
di san Giulio, viene sostituita con la Madonna delle Gra-
zie. A volte una Madonna viene chiamata al posto di
un'altra: come a Niscemi, dove alla Madonna della Let-
tera succede la Madonna del Bosco. Più raramente Gesù
Gisto, trionfante o crocifisso, entra in questo giuoco: ma
a Montelepre gli capita di scalzare addirittura la Madonna
del Rosario.
"Se guardiamo alle date di questi scambi, - osserva il
Pitrè, - le troveremo durante o poco dopo la pestilenza
del 1624 (Palermo, Monreale, Gangi, Naro, Caltanissetta,
ecc.), o dopo quella del 1743 (prov. di Messina), owero
in seguito a qualche improvviso disastro (eruzione del-
l'Etna, tremuoto): ordinariamente nel Seicento, secolo di
fioriture di leggende e di conseguenti patronati, prote-
zioni e patrocini." Ma anche prima, nel secolo XVI, avve-
nivano di queste sostituzioni.
Non sappiamo fino a che punto le autorità religiose
abbiano resistito, o tenuto mano, a queste cose. E difficile
governare spiritualmente, dal punto della Chiesa di
Roma, un popolo in cui la donna di casa che va alla
prima messa della domenica crede di saperne, per quanto
attiene alla propria devozione, più della Congregazione
dei riti, del Sant'Uffizio e del papa in persona. E si consi-
deri che proprio nel Seicento, quando più freneticamente
si verificarono le vicende dei patronati, l'Inquisizione era
atrocemente attiva in Sicilia: ed era attenta, sappiamo, a
queste cose, quando qualche prete vi indulgeva; ma la-
sciava evidentèmente correre quando a furore il popolo vi
si pronunciava. Il culto dei santi, della Madonna, del Cri-
sto stesso, era dunque, più che dalla Chiesa, governato da
persone dell'estrazione di una Girolama Gatto, di un Bo-
nello cacciatore. Bastava che gente simile avesse, o dicesse
di aver avuto, una visione: e l'inquietudine di una popola-
zione, nell'infuriare della peste, sotto la minaccia di una
eruzione, nelle angosce di una carestia, si oggettivava in
un santo da ripudiare, in un altro santo in cui sperare.
Che i santi avessero, tutti, uguale potere di intercessione e
che il Redentore fosse il più potente di tutti, non era no-
zione che potesse aver corso in un popolo vessato da una
particolare feudalità. Sulla quale feudalità, in pratica, ve-
niva esemplata la gerarchia celeste: e come i gabelloti, gli
sbirri, i famigli erano, per la loro stessa vicinanza e pre-
senza, più potenti del feudatario chiuso nella sua dorata
dimora cittadina o nel castello inaccessibile; come il vi-
cerè era effettualmente più potente del re (un antico pro-
La cordapazza Ta rnr~a ha77.a 115,
verbio dice: "'ncapu a lu re c'è lu vicerè", al disopra del re
c'è il vicerè), così i santi, più vicini alla terra per il fatto
stesso di essere stati mortali, dovevano indubbiamente es-
sere più potenti di Dio.
La confidenza coi celesti arrivava ad estremi veramente
inconcepibili. E ancora oggi, nonostante il rigore delle au-
torità ecclesiastiche (rigore che, bisogna pur dire, più fa-
chmente che nel passato riesce ad imporsi per il semplice
fatto che anche nel più remoto paese della Sicilia soltanto
in particolari circostanze, e più precisamente quando le fe-
ste tradizionali vengono a cadere in periodo elettorale, c'è
ancora gente disposta a sollevarsi per una modifica o per
un'abolizione di certi dettagli della consuetudine o del
rito). G sono santi patroni che ancora son fatti bersaglio
di violenti lanci di pani e di frutti (san Calogero, sant'An-
gelo); o che sono essi stessi lanciati, con tutto il loro fer-
colo, contro certe case, contro certi portoni (san Cono, nel
paese omonimo, ne riporta tali lesioni che ogni due o tre
anm c'è blsogno di un nuovo simulacro), o che sono mi-
nacciati di essere affogati, se prontamente non interven-
gono a produrre quelle variazioni climatiche di cui le col-
ture del luogo hanno bisogno.
Ecco come è raccontata, da un personaggio del rac-
conto Padre Leonardo di Serafino Amabile Guastella (deli-
zioso narratore e acuto studioso dei costumi popolari)
una tradizione del genere: "Una domenica ero in casa di
lei {cioè della fidanzata, a Monterosso in provincia di Ra-
gusa], ed ecco che nella via sottostante si fa udire uno
spaventevole frastuono, un battere di tamburi, uno
squillo piagnucoloso di tromba, e un assordante grido di
mille grida: Viva le Cinq~e Piaghe santissime.' .. Viva la Mi-
sencordia di Dio! Si corse a furia alle finestre. O che scena
fra' Liborio mio! che scena! Un migliaio di villani, con
corona di spine, e due migliaia di villane, urlanti e a piedi
scalzi, seguivano un altro villano, che portava un Ecce-
homo di carta pesta. Le donne, come vi ho detto, urla-
vano e si picchiavano il petto; gli uomini scotevano le di-
scipline di ferro sulle loro misere spalle. Ed ove portavano
il Cinque Piaghe? domandai ad uno di quei sette giganti.
Dove lo portano? mi rispose quel maledetto Golia, oh
bella!... Dove han da portarlo? Lo portano al beveratoio; e
starà lì in mezzo all'acqua finché non venga la grazia di
Dio. Che volete, fra' Liborio? Non potei frenare la lingua,
e dissi ridendo come un pazzo: O che bestie matricolate!
ma nello stesso momento intesi sette urli tremendi, e po-
scia mi ruinò sulla testa, sulle spalle, su tutta la persona
una grandinata di pugni, tal che caddi di peso e quasi
privo di sensi. Intesi però che i sette giganti andavan di-
cendo: E un eretico! è uno scomunicato! e bisogna far be-
nedire la casa; e intesi anche che la mia fidanzata sog-
giungeva: E mi voleva per moglie? Meglio un terremoto
che un marito di quella fatta! Poscia mi ruzzolarono dalla
scala, e serrarono l'uscio lasciandomi nella via tutto san-
guinoso e ammaccato".
Questo personaggio del Guastella, don Cola di nome,
è una specie di razionalista: e i santi sono la sua croce,
poiché ogni volta che sta per prender moglie ecco che
una discussione sui santi manda tutto per aria. "Ben pre-
sto venne combinata ogni cosa; ma un giorno, proprio
alla vigilia della prima denunzia tcioè della prima pubbli-
cazione}, la fidanzata tutta vezzi e sorrisi, ebbe la male-
detta tentazione di domandarmi: siete voi per sant'Anto-
nio, o per san Bartolommeo? Ed io ebbi la maledetta stu-
pidezza di rispondere: sono per sant'Antonio, perché, Dio
del cielo, non trovo un cibo che sia più gustoso del porco.
Non l'avessi detto! La fidanzata divenne bianca come un
lenzuolo, poi rossa come una fiamma, e, ricompostasi al-
quanto, mi disse: Sentite: nella mia famiglia siam tutti
per san Bartolommeo, e io più di tutti; e sputiamo in fac-
cia ai seguaci del porcaio. Perciò fuori di qui, e cercatevi
altra sposa." In nota il Guastella chiarisce che sant'Anto-
nio (abate), in quanto proKttore degli animali, e dei
porci in particolare, poiché nel ragusano molti se ne alle-
vavano e se ne allevano, era spregiativamente chiamato il
porcaio dai devoti di san Bartolomeo; e i devoti di san-
t'Antonio chiamavano san Bartolomeo il capretto, per il
fatto che fu scorticato.
Questa faziosità devota, che accendeva feroce campani-
lismo e ancor più ferocemente opponeva, in uno stesso
paese, il quartiere di una parrocchia a quello di un'altra,
ritroviamo del resto nella novella di Verga Guerra di
santi: una zuffa cruenta, tra i devoti di san Rocco e i de-
voti di san Pasquale; e nel bel mezzo di una festa. "Tutto
ciò per l'invidia di que' del quartiere di san Pasquale, per-
ché quell'anno i devoti di san Rocco avevano speso gli oc-
chi della testa per far le cose in grande, era venuta la
banda dalla città, si erano sparati più di duemila morta-
retti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato
d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo
alla folla sembrava una spuma d'oro addirittura. Tutto ciò
urtava maledettamente i nervi ai devoti di san Pasquale
sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a
urlare, pallido dalla bile: 'Viva san Pasquale'. Allora s'e-
rano messe le legnate. Certo andare a dire viva san Pa-
squale sul mostaccio di san Rocco in persona è una provo-
cazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o
come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che
avete sotto il braccio. In tal caso non c'è più né cristi né
diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si
ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tut-
t'una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle
processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a
tavola volano le scodelle."
E non si può dire che questi fatti accadessero ancora ai
tempi del Guastella e del Verga, e non più ai giorni no-
strn In questo dopoguerra, per esempio, personalmente
siamo stati spet-tatori di una devota zuffa tra gli abitanti
di due paesi vicini, che si contendevano, da portare a
spalla, il simulacro della Madonna di Fatima che certi
preti portavano in giro per la Sicilia (si era, pura coinci-
denza, in tempi di elezioni). E mai come in quel giorno
nel furore della mischia, unanimemente, dai contendenti
dei due paesi, la Madonna è stata bestemmiata in un
modo così barocco e rutilante. Né si può dire che la devo-
zione individuale, privata, abbia carattere più rispettoso.
E famosa ormai, grazie all'esplosiva comicità di Angelo
Musco, la devozione particolare che mastro Agostino Mi-
ciacio, protagonista della commedia di Martoglio San
Giuvanni Decullatu, tributava al santo in questione. E tro-
viamo un personaggio da stare in pari a mastro Agostino
nel libro di Salvatore Salomone-Marino (interessantissimo
libro) che studia Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia:
quel Vincenzo Lojacono, "burgisi (cioè contadino agiato)
onestissimo, buon padre di famiglia, rigoroso osservatore
di tutti gli atti e precetti religiosi, fanatico adoratore del
suo san Benedetto e di altri santi suoi personali protettori,
pe' quali ebbe spesso a dare e ricevere busse e fu largo di
cerei, di offerte votive, di orazioni"; ma bastava gli an-
dasse a male il raccolto o incogliesse un accidente alla sua
mula o gli piombasse in casa una malattia perché si scate-
nasse contro san Benedetto e gli altri suoi patroni, e con
un rito bestemmiatorio assolutamente originale: si cavava
il berretto, e stringendolo tra le mani in modo da lasciarvi
una stretta imboccatura, in questa soffiava i nomi di san
Benedetto e di altri santi di cui era devoto; dopo di che,
chiudendolo ermeticamente, per suggellar dentro il soffio
di quei nomi, se lo poneva sotto i piedi, a pestarlo: e in-
tanto sputava e bestemmiava. "Finito l'empio e grottesco
sfogo, tornava calmo come se nulla mai fosse accaduto, e
solo mormorava, scotendo il berretto pria di riporlo in
capo: 'Vedremo se ora metteranno giudizio!' "
Q~cs[o modo, assolu~amentc irrcligiot, di intcndcrc c
professare una religione che pure è fermamente, rigorosa-
mente e minuziosamente codificata in ogni atto del culto
interno ed esterno, ha radice in un profondo materiali-
smo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero,
invisibile rivelazione, metafisica. Già il Gentile notava
come il materialismo fosse il carattere originale e pecu-
liare della cultura siciliana: ma fermava il suo discorso
alla cultura espressa, per così dire, in opere di inchiostro;
I
non spingeva la sua indagine alla cultura degli strati po-
polari infimi (i quali riteneva non avessero grande impor-
tanza storica; e invece, riecheggiandone l'espressione
"cultura popolare di grado infimo", Gramsci ne faceva
il punto di partenza per una spiegazione del mondo pi-
randelliano). In tali strati il materialismo (e, si può an-
che dire, ogni ismo che i siciliani originalmente hanno
espresso ed esprimono in opere letterarie e figurative) si
trova come allo stato di natura. E si può dire, dei siciliani
di fronte alla religione cristiana, quel che Sainte-Beuve di-
ceva di Montaigne: che poteva benissimo essere apparso
come un buonissimo cattolico, ma il fatto è che non era
per niente cristiano.
Personalmente, a noi i siciliani non sembrano nem-
meno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una
visione più rigorosa di quella che ne hanno gli alti pre-
lati, i quali proclamano (e fino all'anno scorso, da parte
del cardinale arcivescovo di Palermo, in una lettera pasto-
rale largamente discussa dalla stampa) cattolicissima la Si-
cilia. Certo è, comunque, che cristiana la Sicilia non può
dirsi; e rifacendoci, questa volta direttamente, a Montai-
gne, a quel che Montaigne scrive dell'imperatore Giu-
liano, possiamo dire: "da lungo tempo covava nel suo
cuore il paganesimo; ma, poiché..." Poiché...? Ecco: poi-
ché il cristianesimo consentiva quelle esplosioni propria-
mente pagane, nel senso più corrente che ha la parola pa-
ganesimo; quei riti, quelle feste, quella proiezione e per-
sonificazione di materiali e carnali istanze nei miti, quella
scelta e designazione di mitici, ma al tempo stesso fami-
liari, protettori; quella partigianeria e faziosità che si ac-
compagnava al culto di quei miti, e che in Sicilia si può
considerare come una specie di surrogazione delle lotte
politiche cittadine che si svolgevano in altre parti d'Italia
poiché tutto questo era tacitamente, se non ufficialmente
tollerato dalla Chiesa cristiana e cattolica, la Sicilia è stata
ed è - ma solo in questo senso - cristiana e cattolica Né
si può dire sarebbe stata, con più sostanziale adesione
protestanre. Chi, da certo propagarsi di ondate luterane
nel passato o dal recente progredire del proselitismo evan-
gelista, fosse portato a riconoscere religiose inquietudini
nell'animo dei siciliani, sbaglierebbe di grosso.
Il luteranesimo, al tempo della sua prima diffusione,
nei siciliani risvegliava e motivava una congeniale avver-
sione a certi sacramenti e precetti della Chiesa cattolica
(alla Confessione soprattutto); e, in tempi più recenti, il
propagarsi dell'evangelismo ha avuto ragioni del tutto
esterne e fortuite. E basti un solo esempio: quello di
Riesi, dove, crediamo, si trova una delle più fiere e com-
patte minoranze protestanti della Sicilia. Riassumiamo il
racconto che dell'importazione del protestantesimo a
Riesi fa uno storico locale, il professor Ferro: nel 1871 il
sindaco di quel comune, il cavaliere Giuseppe Jannì, forse
per ragioni di personale antagonismo coi preti, forse fa-
cendosi portavoce di un'avversione popolare al clero cat-
tolico, chiamò a Riesi il pastore della chiesa valdese Teo-
filo Malan. Il pastore arrivò in paese nel pomeriggio del
24 marzo 1871: trovò ad accoglierlo, alle porte, il sindaco
con tutta la sua fazione al seguito, guardie municipali e
bandiere. Entrando in paese, il pastore espresse il deside-
rio di poter predicare in un locale chiuso. "Lì per lì, -
scrive il professor Ferro, - l'avvocato Trapani propose la
chiesa di San Giuseppe. Tutti si riversarono verso la
chiesa, ma essa era chiusa, e le chiavi le teneva il canonico
don Luigi Golisano, che trovavasi in campagna. La folla
sostava lì sull'altura quando il sindaco, cinta la sciarpa, or-
dinò ai Reali Carabinieri presenti di far scassinare le
porte. Chiamato ilfabbro ferraio mastro Stefano Matera,
questi aprì la chiesa e tutto il popolo vi entrò." E una
scena impagabile: con quel sindaco che cinge la sciarpa
tricolore, con quei Reali Carabinieri che eseguono un or-
dine del tutto arbitrario, un vero e proprio reato anzi. E
da quel punto Riesi ha una minoranza protestante.
Ancora Montaigne (e lo citiamo ad abuso perché ci
pare che l'irreligiosità dei siciliani muova da un fondo in-
vincibilmente scettico, quale ad alto livello, e con su-
prema consapevolezza, nell'autore degli Essais): "Non
Abbiamo, del resto, di questa fondamentale refratta-
rietà al cristianesimo, una specie di piccola summa: Le pa-
ntà e le storie morali dei nostri villani raccolte, tradotte e ar-
ticolate in un disegno narrativo dal barone Serafino Ama-
bile Guastella e pubblicate a Ragusa nel 1884.
"Parità", nel dialetto del circondario di Modica, signi-
fica parabola. E poiché la parola immediatamente ri-
chiama il Vangelo, possiamo subito dire che le "parità"
raccolte dal Guastella compongono, precisamente, un or-
ganico antivangelo. E crediamo sia difficile trovare, nell'a-
nimo e nella cultura di altri popoli, una visione della vita
così rigidamente e coerentemente in opposizione al mes-
saggio evangelico. Si può dire di più: nessun popolo al
mondo, tra quelli considerati ufficialmente cristiani, ha
forse mai operatò dall'interno una così totale disgrega-
zione dei valori cristiani. In questo senso, a parte ogni
considerazione sulla validità letteraria dell'operetta, l'im-
portanza delle Pantà è grande. La loro verità, singolar-
mente e nell'insieme, è indiscutibile, ancora oggi verifica-
blle: e plU volte, e quasi tutte, a noi è capitato di sentirle
raccontare da donne religiosissime, cioè che si reputavano
ed erano reputate perfettamente osservanti di ogni co-
mandamento, precetto e regola della Chiesa cattolica.
Nessuna di loro è mai stata turbata dal sospetto che le
"parità" e le storie che usano raccontare siano di senso
terribilmente opposto a quello della religione di cui mi-
nuziosamente praticano il culto esterno
Poiché il libretto del Guastella è quasi introvabile, vale
la pena trascriverne qualcuna. Ecco la prima: "Dicono gli
antichi che una volta in Roma ardea una fierissima perse-
l ar h~77~1
La corda pazza 1159
temo di confessare che io facilmente porterei, se occor- cuzione contro i
cristiani; né sapean più cosa inventare
resse, una candela a san Michele e un'altra al suo ser- per istraziarli: li
squartavano, li arrostivanO, li bollivano
pente". Ma per quanto riguarda i siciliani bisognerebbe nelle caldaie. Le spie e
gli sbirri camminavan° notte e
così correggere: che indifterentemente porterebbero una giorno per la città, ma
invano si arrabattavano per cono-
candela a san Michele o al suo serpente; ma a patto che scere chi fosse e chi
non fosse cristiano Certo non lo por-
portandola all'uno ci sia modo di azzuffarsi con quelli che tavano scritto in
fronte, né eran tanto bestie da spifferare
p a ro, o viceversa. sul muso degli sbirri Afferrateci, ché siam cristiani. Ma
le
cattive genti non mancano: ed ecco che si presenta il capo
sbirro al Re di Roma, e gli dice: Sacra Corona, volete co-
noscere i seguaci di Gesù Cristo? Fate agguantare tutti
quelli che hanno la barba così e così. Allora il Re ordinò
che fossero scannati tutti coloro che avean la barba così e
così; e ci fu uno scanna scanna, tanto che in un fiat il san-
gue correa per le vie come un fiume. San Paolo Apostolo
si trovava in Roma, ma non sapeva ancora di quell'or-
dine, né d'altronde temea per se stesso, perché, essendo
l'uomo più dotto di tutto il mondo, era amico del Re e di
tutta la corte reale. Or dunque essendo intento a leggere e
a scrivere vede presentarsegli innanzi due poveri cristiani,
tremanti come foglia, i quali gli dissero: 'Tu solo puoi
salvarci. I birri uccidono tutti quelli che hanno la barba
come l'abbiam noi. Tu che sai far di tutto, tu che hai
letto ogni libro, è facile che sappi anche radere. Ràdici
dunque per l'amore di Gesù Cristo'. San Paolo trasse il ra-
soio e l'arrotò; poi fece la saponata; poi si sede' innanzi
allo specchio, e cominciò a menar colpi alla sua barba. I
due poveri cristiani atterriti e con la morte nell'anima, gli
dissero: 'Potenza di Dio! Ti radi tu? Ma non sai che
siamo inseguiti? Non sai che forse ci han veduto entrare
in tua casa? Tu, sei amico del Re, né potresti avere ti-
more; ma noi saremo squartati. Non hai dunque carità?'
'La vera carità comincia da noi, - rispose l'Apostolo. -
Egli è vero che sono amico del Re, ma alle volte... Chi sa!
E meglio che mi metta in sicuro. Se poi resterà tempo, e
non sarete scannati, raderò anche voi.' " Dove si vede la
comunione dei cristiani, clandestina e perseguitata, por-
tata al livello di una cosca mafiosa; e san Paolo assumere
le caratteristiche di un capo mafia accorto e cinico.
E quest'altra è la storia di fra Illuminato, santissimo
uomo ma ignaro della legge dell'omertà: "Fra Illuminato
era un monaco di tal santità, che nel mondo non ci era il
simile: il suo non era suo, e per soccorrere il prossimo si
sarebbe fatto sparare. Come dico, era così santo che gli
animali, anche i più selvatici, gli leccavano i sandali
quando lo vedean passare; ed egli ne comprendeva il lin-
guaggio, e, dove potea, li salvava dalla fame e dai caccia-
tori. Or dovete sapere che il convento era in campagna,
anzi in mezzo ad un bosco; ed egli ogni giorno con le bi-
saccette su le spalle andava in città per la cerca. Un
giorno di quelli, mentre andava camminando bel beLlo
intese voci aspre di alterco, poi un colpo di fucile, poi un
grido acutissimo, poi un furioso galoppo, poi vide fuggire
a cavallo un giovane prepotente della città, e il compagno
ucciso convellersi negli ultimi squassi dell'agonia. Si acco-
stò al morto, gli chiuse gli occhi, pregò a lungo per lui;
ma dopo aver pregato un bel pezzo decise di denunziar
l'assassino. Avea appena fatto un centinaio di passi,
quando vide un comgllo, che un giorno aveva posto in
salvo dai lacciuoli, e il coniglio saltando di gioia al ve-
derlo, gli chiese soavemente: 'Dove vai, fra Illuminato?'
'Dove vado? Vado a dènunziare l'assassino'. 'Guardatene
bene! - replicò il coniglio. - Non sai forse che la famiglia
di quell'omicida è stata ed è la benefattrice del tuo con-
vento, e che ove tu lo denunziassi non darebbe più un
soldo? Guardatene bene! Il padre guardiano ti metterebbe
a pane e ad acqua, e ti farebbe marcire in una celletta
priva di aria e di luce.' 'Sia come si voglia, - replicò il mo-
naco. - Il mio dovere è di denunziarlo.' 'Va' dunque o
spione!', gridò incollerito il coniglio, e s'internò nella bo-
scaglia. Fra Illuminato proseguì a camminare: ma dopo
aver fatto un altro centinaio di passi, incontra un cagnac-
C10, che un tempo avea guarito da una sozzissima piaga.
'Dove vai, fra Illuminato?' gli domandò leccandogli i
piedi e le mani. 'Dove vadoi Vado a denunziare l'uccisore
di quel povero giovane.' 'Scaccia codesto pensiero, o mo-
naco santo, scacclalo come suggerimento infernale. Non
sai forse che colui ha più dobloni, che tu capelli sul capo?
A via di buttar l'oro a rotta di collo, non sai tu che cor-
romperà la giustizia e ne uscirà bianco come la neve, lad-
dove tu saresti tenuto in conto di testimonio falso, e con-
dannato a pena infamante?' 'Sia come destina il Signore, -
rispose fra Illuminato. - Gli aLtri faran come vogliono, io
farò come devo.' 'Va' dunque, o spione!', urlò il cagnac-
cio, e si involò rapidamente. Il monaco proseguì a cammi-
nare; ma passando a pochi passi da una mandria, vide
sbucare un agnello, il quaLe, belando di gioia, gli do-
mandò: 'Dove vai, fra Illuminato?' 'Dove vado? Vado a
denunziare l'uomo micidiale, che testé ha ucciso il com-
pagno.' 'Non te ne venga il pensiero! - gridò spaventato
l'agnello. - E chi sei tu, che vorresti togliere la podestà a
Domineddio? Lascia a lui, a lui solo la Nra di punirlo in
questa vita o nell'aLtra. Va', ritorna al convento; chiedi
perdono a Dio del maligno pensiero che ti offuscava il
giudizio; e tieni in mente, che ove tu lo denunziassi, tutti
quanti avrebbero orrore di te.' 'Il mio dovere è di denun-
ziarlo, - rispose fra Illuminato, - e avvenga di me quel
che piace al Signore.' 'Va' dunque, o maledetto spione!
Va', vendi la carne battezzata!', gridò indignato l'agnello,
e ritornò alla mandria senza rivolgersi indietro. Il frate era
intanto pergiunto innanzi la porta della Città, sopra la
quale si erigeva una statua congegnata per arte magica in
siffatto modo, che all'appressarsi di un pericolo o di un
nemico dava fiato alla tromba per dar l'aLlarme ai citta-
dini. Fra Illuminato stava già per entrare, quando vide la
statua muoversi furiosamente e porsi in bocca la tromba;
sicché meravigliato le chiese: 'Perché vorresti sonare? Son
io forse un nemico della città?' 'Ne sei il principaLe, - gli
rispose la statua. - Perché sei venuto qui? Perché hai
sprezzato i consigli degli animaLi? Sappi, o scellerato, che
il giovane che tu vorresti punito diverrà col tempo un
gran santo; lascerà tutte le sue ricchezze ai poverelli di
Dio, e ritirato in un deserto piangerà notte e giorno la
colpa sua.' Fra Illuminato pensò, pensò a lungo, sì a
lungo, che quasi annottava. Poi ritornando lentamente al
convento sclamò: 'Dio non vuole che lo denunzi!' E nel
ritornare che fece, l'agnello, il coniglio e il cagnaccio gli
leccarono i piedi".
Singolarissima storia (non "parità", ché "parità", spie-
ga il Guastella, il contadino chiama quella narrazione
che è vera nella morale e non nel fatto, mentre la storia è
un fatto realmente accaduto: e dunque anche questo di fra
Illuminato): in cui da una condizione sociale indubbia-
mente oggettiva, anche attualmente verificabile (vedi il
caso di quel Paolo Gallo, della cui scomparsa fu imputato
il fratello e come omicida condannato: e minacciati di in-
criminazione furono coloro che testimoniarono di averlo
visto vivo, come di fatto il Gallo era ed è), si risale alla
volontà di Dio e al cosmo che di questa volontà si fa
voce.
E tutte le altre "parità" e storie contengono crudi rove-
sciamenti della morale cristiana, prescrivono - avallati dai
santi e dal Signore in persona - comportamenti inflessi-
bilmente asociaLi e antisociali: il Signore che confida ai
poveri che il principale loro male è lo sbirro e che racco-
manda ad Adamo di usare sulla moglie il bastone (che
per questo servlzlo non si chiamerà più bastone, ma Ra-
gione); san Gerlando che fa il ladro di mestiere, san Giu-
seppe che va a rubare fichi con Gesù Bambino per mano,
san Martmo la CUI santltà non vlen meno anche se ecces-
siva è la sua dedizione aL vino; san Francesco di Paola che
a cuor leggero fa testimonianza falsa, san Cristoforo, per
sua parte parricida, che consiglia sant'Elmo di praticare il
contrabbando; e così via.
Ma una festa religiosa - che cosa è una festa religiosa
in Sicilia?
Sarebbe facile rispondere che è tUttO, tranne che una
festa reli~iosa (ma con una grande eccezione, come ve-
dremo). E, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l'e-
splosione dell'es collettivo, in un paese dove la collettività
esiste soltanto a livello dell'es. Poiché è soltanto nella fe-
sta che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo,
che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io
(stiamo impiegando con approssimazione i termini della
psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe,
di una città. In questo senso, oggi ha valore di festa il pe-
riodo che immediatamente precede la consultazione elet-
torale, e la giornata elettorale stessa (ma venata di quella
malinconia che si insinua nel disfarsi e spegnersi di una
festa): che è il momento in cui il partito politico, i partiti
politici, la politica insomma, effettualmente esiste; così
come un tempo, nelle feste patronali o liturgiche, veniva
a configurarsi, anche attraverso una eccezionaLe esplica-
zione di poteri (la liberazione di condannati, la licenza di
potere insultare o colpire persone di più alto ceto), l'esi-
stenza di una corporazione, di un ceto, di una classe. Per
cui il voto, spesso, e dai più, viene usato come un tempo
il contadino e il pastore di San Fratello, mascherato da
"giudeo", usava la disciplina di ferro per colpire i signori;
come il popolano di Prizzi, impersonando la morte, fa-
ceva il ricco bersaglio delle sue frecce. Con immunità, ma
ad ogni buon conto mascherati.
Ma a proposito dei "giudei" di San Fratello c'è da fare
una piccola digressione. Le interpretazioni che si dànno di
questa tradizione, da parte di studiosi del folkLore, sono,
per così dire, interne: riconoscono cioè un ruolo non del
tutto eterodosso, ai "giudei" di San Fratello, rispetto alla
liturgia cattolica. I "giudei" sono gli uccisori di Cristo:
perciò, nella rappresentazione della Passione, nelle ore in
cui Cristo viene condannato e crocifisso, essi demoniaca-
mente si scatenano, fanno carnevale. E ritengono, gli stu-
diosi, che in definitiva si tratti appunto di un confluire
del carnevale nella Pasqua cristiana. Ma si dovrebbe anche
tener conto del fatto che a travestirsi da "giudei" sono i
contadini e i pastori, e che per l'occasione, sotto quel tra-
vestimento, in passato più che attualmente, venivano a
godere di certi privilegi, di certe libertà. La parte più con-
culcata, più oppressa, più misera della popolazione di San
Fratello, mettendosi per quel giorno nel ruolo di un po-
polo non meno oppresso e perseguitato, si levava a bef-
feggiare, a insultare, a colpire; e ad irridere al sacrificio
della croce. E ci chiediamo se alla formazione di una tale
tradizione non abbiano concorso, più delle ragioni caLen-
dariali e liturgiche, ragioni psicologiche, sociali e stori-
che; se cioè la tradizione non stabilisca un'analogia tra la
condizione degli ebrei e quella dei diseredati, se simboli-
camente non rappresenti la rivolta degli uni e degli altri
contro i poteri sul cristianesimo fondati. Perché non va
dimenticato che la Sicilia è forse stata l'unica terra dove
gli ebrei siano stati difesi al momento in cui se ne decre-
tava la cacciata; e con espressioni così commosse e toc-
canti che mai, crediamo, siano state per loro usate da cat-
tolici: li si dice "mundi" del crimine di far proseliti, per
come erano accusati; che, "livati alcuni particulari chi su
richi et alcuni altri chi si stannu mediocri lu restu su tanti
poviri" che, se davvero saranno cacciati, "unu grandi nu-
mero di li dicti Iudey verranno per pura necessitati ad
moririsi de pura fami", e che dalla perdita di gente così
laboriosa il Regno di Sicilia ne avrebbe avuto incaLcola-
bile danno.
Ma questa nostra interpretazione della festa di San Fra-
tello potrebbe anche apparire forzata, se non del tutto ar-
bltrarla.
E si potrebbero dire tante altre cose, sulle feste sici-
liane, ed anche più sottili: solo che non varrebbero, qui
le immagini che Fernando Scianna ne ha colto e che
fanno, di per sé, discorso. E il nostro discorso, se discorso
si può chiamare, non vuole né può essere altro che un'an-
notazione marginaLe: in margine, appunto, a queste
straordinarie fotografie. Le quali riguardano un numero
limitato di feste, trascelte (ad eccezione di quella di santa
Rosalia) tra le meno note e tra le meno toccate e restau-
rate e contaminate da quelle nefaste associazioni che ora
anche nei paesi sorgono con l'intento di chiamare o incre-
mentare il turismo. E si possono, secondo la classifica-
zione del Polese, così distinguere le feste qui rappresen-
tate: sette su tema liturgico (la Settimana Santa, il ve-
nerdì in particolare, a Collesano, San Fratello, PetraLia,
Prizzi, Ventimiglia, Ciminna ed Enna); tre su tema leg-
gendario e di fondo miracoloso (la Madonna del Monte a
RacaLmuto, san Rocco a Butera, santa Fortunata a Bau-
cina), due a carattere stagionaLe (l'Assunta a Bagheria,
san Giuseppe a Misilmeri); una di acculturazione etno-
grafica (santa Rosalia a Palermo); una a carattere proces-
sionaLe-espiatorio (sant'Alfio a Trecastagni e a Lentini).
Ma questa distinzione è valida fino a un certo punto: per-
ché, per esempio, non si può negare che la festa di santa
Rosalia è, come vuole il Polese, di acculturazione etnogra-
fica (espressione che vuol significare la presenza di ele-
menti etnici, mitologici, interregionali, leggendari, che,
nel processo di trasformazione e riadattamento, perman-
gono quali testimonianze d'influssi religiosi e civili ante-
riori), ma è anche di tema leggendario e di fondo miraco-
loso; e così la festa di sant'Alfio a Trecastagni e a Lentini,
che ha carattere espiatorio, ma sorge da un tema leggen-
dario e si svolge su uno sfondo miracoloso. Tutte le clas-
sificazioni, insomma, sono pericolose; e più quando se ne
tenta l'adattamento ad una realtà così sfuggente e con-
traddittoria come quella siciliana. Ma qui una tale classifi-
cazione serve, secondo uno schema che riteniamo accet-
tato da tutti gli studiosi di folkLore, a dare una generica
caratterizzazione delle feste rappresentate; ed anche a ren-
dere più evidente la preponderanza di una festa su tema
liturgico (la Passione) rispetto a feste patronaLi di varia
istituzione e declinazione. Preponderanza che è nella
realtà: perché non c'è paese, in Sicilia, in cui la Passione
di Cristo non riviva attraverso una vera e propria rappre-
sentazione, in cui persone vive o gruppi statuari non fac-
ciano delle strade e delle piazze il teatro di quel grande
dramma i cui elementi sono il tradimento, l'assassinio, il
dolore di una madre.
Ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo
che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo? O non è
invece il dramma dell'uomo, semplicemente uomo, tra-
dito dal suo vicino, assassinato dalla legge? O, in defini-
tiva, non è nemmeno questo, ed è soltanto il dramma di
una madre, il dramma dell'Addolorata?
Indubbiamente, in queste rappresentazioni, si sente che
più del Cristo stesso è la figura di Maria Addolorata che
colpisce e commuove. Gisto, dal momento della cattura
è già nella morte. E il morto è morto, come si dice in
tutti i proverbi che consigliano pace, rassegnazione,
omertà. Ma la madre è viva: dolente, chiusa nel nero
manto della pena, trafitta, gemente, immagine e simbolo
di tutte le madri. Il vero dramma è suo: terreno, carnale.
Non il dramma, dunque, del divino sacrificio e dell'u-
mana redenzione; ma quello del male di vivere, dell'o-
scuro viscerale sgomento di fronte alla morte, del chiuso e
perenne lutto dei viventi.
E parrebbe che, comunque intesa, la Passione susciti
nel popolo siciliano un momento di autentico afflato reli-
gioso: ma in realtà si appartiene a una contemplazione della
morte quale può esprimere un mondo assolutamente re-
frattario alla trascendenza. Se è possibile parlare di reli-
gione senza il trascendente, allora è religiosa questa con-
templazione della morte che trova nella Passione la sua più
acuta rappresentazione.
Del senso della morte, e della familiarità con essa dei
siciliani, abbiamo pagine esemplari nel Gattopardo. Ma ne
troviamo espressioni anche nella cultura popolare di
grado infimo: come di ogni cosa, abbiamo già notato, che
con durevole significato, come direbbe Américo Castro,
nella letteratura e nell'arte esprime questo modo di essere
univocamente e universalmente riconosciuto come sici-
hano.
1965
RAPPORTO SULLE COSTE SICILIANE
1039 chilometri di coste - 440 sul mare Tirreno, 3l2
sul mare d'Africa, 287 sull'Ionio: ma questa grande isola
del Mediterraneo, nel suo modo di essere, nella sua vita,
sembra tutta rivolta aLl'interno, aggrappata agli altipiani e
alle montagne, intenta a sottrarsi aL mare e ad escluderlo
dietro un sipario di alture o di mura, per darsi l'illusione
quanto più è possibile completa che il mare non esista (se
non come idea calata in metafora nelle messi di ogni
anno), che la Sicilia non è un'isola. Che è come nascon-
dere la testa nella sabbia: a non vedere il mare, e che così
il mare non ci veda. Ma il mare ci vede. E sulle sue onde
porta alle nostre spiagge invasori d'ogni parte e d'ogni
razza. E porta, continuo flagello per secoli, i pirati alge-
rini che devastano, depredano, rapiscono.
Il mare è la perpetua insicurezza della Sicilia, l'infido
destino, e perciò anche quando è intrinsecamente parte
della sua realtà, vita e ricchezza quotidiana, il popolo rara-
mente lo canta o lo assume in un proverbio, in un sim-
bolo, e le rare volte sempre con un fondo di spavento più
che di stupore. "Lu mari è amaru" (Il mare è amaro).
"Loda lu mari, e afferrati a li giummarri" (Loda il mare,
ma afferrati alle corde). "Cui pò jiri pri terra, nun va~a pri
mari" (Chi può andare per terra, non vada per mare).
"Mari, focu e fimmini, Diu nni scanza" (Mare fuoco e
donne, Dio ci salvi). "Cui nun sapi prigari, vaja a mari"
(Chi non sa pregare, vada a mare). E non è, quest'ultimo
proverbio, dettato dalla meraviglia e dal rapimento: chi
andrà a mare non apprenderà a pregare nel senso della
lode, ma nel senso della paura e della superstizione.
Sulle più che duemila pagine degli Usi, costumi, credenze
e pregi Zi del popolo slcillano di Giuseppe Pitrè, appena
dieci toccano del mare: il che è da segnare nella doppia
partita e di una oggettiva carenza o difficoltà di reperi-
mento della materia folcloristica nei paesi di vita mari-
nara e di un'attrazione che lo studioso, nato in una città
di mare e figlio di marinaio, più sentiva verso il mondo
della Sicilia interna, della Sicilia contadina. E come lo zol-
fataro altro non era che il contadino strappato alla campa-
gna, in effetti il marinaio altro non è che il contadino co-
stretto al mare dalla necessità: il contadino che più non ri-
trova alle sue spalle la terra da coltivare, e ha davanti il
mare. E non è un caso che la più grande opera letteraria
che il mare abbia mai ispirato a un siciliano, diciamo I
Malavoglia, sia stata scritta da un siciliano del feudo e che
in essa si muova una gentuccia che ha della vita il senso
tragico e rassegnato, scandito in una vicenda immutabile,
che è proprio al mondo contadino, ed è assolutamente
sprovvista di quel tanto di noncuranza e di ardimento, di
avventuroso, di imprevedibile, che è peculiare alla gente
di mare e alla rappresentazione che di essa hanno dato al-
tri scrittori. I Malavoglia soltanto racconta l'oscura rabbia
del mare contro le fragili speranze dell'uomo, il mare
come essenza stessa della fatalità, come elemento di una
introspettata nemesi nella storia dell'umile che vuole sa-
lire e sempre ricade al di sotto del punto di partenza.
Il mondo dell'Odissea è lontano: lo stupore delle albe
marine, il senso della libertà e dell'avventura. Il mare è
amaro. Dalle coste dell'isola, dai porti, nessun siciliano è
mai partito per una conquista, per un'avventura. La sola
vittorla marinara in cui la Sicilia ebbe parte, fu la batta-
glia di Lepanto: ma con oro e con festa più che con san-
gue e gloria. E dei pochissimi uomini di mare siciliani al-
tri non ci avviene di ricordare che quel messinese che si
fece turco, e fu temibile corsaro contro la cristianità medi-
terranea, e quel Federico Gravina di Montevago che si
fece spagnolo e al comando della flotta spagnola, contro
Nelson a Trafalgar, ebbe mortali ferite. Ci imbattiamo
anche in un paradosso estremo: che una città come Calta-
girone, a venti miglia dal mare, città di contadini e di pa-
stori, dava marinai alla flotta dei re di Sicilia, mentre è
più che probabile non ne desse Terranova, sorta nel luogo
dell'antica Gela per volontà di Federico II. E certamente
l'imperatore assegnava alla nuova terra una funzione mari-
nara, ma Gela sempre, ostinatamente, vi si è negata: e
sulla sua spiaggia si costruirono carretti e non barche; e
l'acqua con cui la gente ebbe a che fare era quella avara
della piana, nei campi assetati, e non quella del mare che
batte alle sue case.
Nel 1573 il Senato di Palermo acquistava a Firenze una
fontana marmorea, opera degli scultori Francesco Camil-
liani e Michelangelo Naccherino. La fontana, che il Va-
sari dice "stupendissima" e descrive, è quella che ancora
oggi si ammira nella palermitana piazza Pretoria. Ad "as-
settari li marmori", che erano in 644 pezzi, venne da Fi-
renze Camillo Camilliani, figlio dello scultore. Sistemata
la fontana, il giovane Camilliani "si rimase indi in Sicilia,
e mercé il nome, che avea di esperto ingegnero e matema-
tico, ottenne la carica d'ingegnero del regno, affidatagli
l'importante incumbenza di perlustrare il littorale dell'i-
sola", di esaminare "lo stato, le condizioni e i pericoli
delle spiagge", di farne relazione e di proporre le oppor-
tune misure di custodia e di difesa.
Intorno al 1584, il Camilliani compie la sua missione e
presenta la sua Descrizione dell'isola di Sicilia cominciando
dalla città di Palermo, seguendo il lito verso Ponente. E non
sappiamo quali effetti la relazione abbia poi avuto, se chi
la commise all'ingegnere fiorentino tentò di dar mano
alle opere da costui suggerite. Probabilmente, una volta
consegnata al corso burocratico, la relazione in quei
meandri si smarrì fino ad approdare, in due copie mano-
scritte, al fondo della Biblioteca Comunale palermitana
da dove nel i877 l'infaticabile Gioacchino Di Marzo la
trasse e pubblicò.
Il Carnilliani comincia dunque il suo viaggio da Pa-
lermo: sommariamente descrive la città, le sue strade
dritte, gli edifici bellissimi "drizzati con somma architet-
tura" che "rendono tanta commodità ai popoli ed amenità
al SltO, che può stare al paragone di qualsivoglia città d'I-
talia"; e dalla città esce dalla parte del molo, che era stato
m quegli anni costruito in modo che non esita a definire
perfetto. Particolare degno di nota: presso il molo sorgeva
"un copioso fonte con statue di marmi sculti sicché l'o-
pera meravigliosa, l'ameno sito e il dilettevoi fonte ren-
dono sommo diletto ai riguardanti"; e tanto più questo
partlcolare rlsalta, in quanto recentemente abbiamo visto
sorgere sul mare di Palermo la cosidetta piazza del Voto
in cui statue della Madonna e delle Sante protettrici della
città sono state piantate, dice giustamente Cesare Brandi
come birilli: e l'effetto è tale che "persino il mare se ne
vergogna".
Appena fuori dalla città, il Camilliani si imbatte nella
prima tonnara, poi trova, in una concavità del lido, la
chiesetta dell'Acquasanta: e da questo punto comincia
una scoghera rocciosa, piena di grotte e "ridotti", che
s'interrompe in una caletta arenosa, l'Arenella, dove ora
sorge uno stabilimento chimico, e prosegue per qualche
mlgllo fmo a un'altra tonnara. Ed ecco la spiaggia di
Mondello; e di nuovo rocce ed anfratti, la cala di Sferraca-
vallo, la punta detta Malpasso, un'altra tonnara, la spiag-
gia in faccia alla piccola Isola delle femmine, che conti-
nua scoperta e arenosa fino a Carini. E siamo allaunta
del Rais, dove ora sorge il fortunoso aeroporto di Pa-
lermo.
Registrando rocce, piccole cale in cui possono trovare
riparo i brigantini, torri di guardia, fonti d'acqua dolce
cui i marinai possono rifornirsi, il trappeto di Partinico
(che doveva essere allora molto importante, al centro di
una cospicua zona olearia), la foce del fiume Jato, il Ca-
milliani arriva alla lunga spiaggia scoperta tra Alcamo e
Castellammare del Golfo. Ritrova un lido roccioso, acci-
dentato, pieno d'insidie: rare le aperture arenose, ancora
più le fontane. Finché, dopo tre miglia in cui le rocce si
addolciscono nella spiaggia aperta, arriva ad una "piega-
tura" in cui sorge la chiesa di San Vito, "devotissima e
forte", una tonnara, una torre a far buona guardia. E biso-
gna tener presente che in quel tempo il pericolo delle in-
cursioni dei corsari era continuo, quotidianamente incom-
bente: e sempre nella sua descrizione il Camilliani tien
conto di questa minaccia.
Siamo in territorio di Erice, che allora si chiamava
Monte San Giuliano, a far dimenticare la Venere Ericina
del cui culto la città era centro nel Mediterraneo. Il Ca-
milliani, che di Veneri se ne intendeva, e qualcuna ne
aveva collocata in piazza Pretoria, tira avanti senza so-
spetto; passa tre o quattro tonnare ancora, entra in territo-
rio di Trapani, spiaggia tutta arenosa in cui abitazioni e
chiese si succedono fino alla città. La quale ha di fronte,
su "uno scoglio assai commodo", la fortezza detta della
Colombara, e poi le isole di Santa Margarita e di Salina.
Uscendo da Trapani verso Marsala, ancora tonnare e torri,
rocce e calette, tratti di arena scoperti, la foce di una fiu-
mara, un miglio di spiaggia talmente coperto di alghe da
essere pericoloso, le Grottille, la punta della Cinisìa da
dove comincia il territorio di Mazara del Vallo. Il lido ser-
peggia, algoso, insicuro, fino al capo che è, dice il Camil-
liani, il più vicino all'Africa; poi si fa arenoso e ghiaioso,
interrotto da una foce stagnante, fino alla città. Il ritmo di
rocce, arene, seccagne, piegature, insenature, cale, torri,
continua oltre Selinunte, oltre la foce del Belice, oltre la
punta del Palo. Siamo in territorio di Sciacca, ricco di ac-
que dolci. L'ingegnere nota il fiume Caribi o Garbo (oggi
Carboi), i ridossi, le punte; e il lido che poi corre tutto
arenoso e scoperto. A quattro miglia da Sciacca, svoltata
la punta di Galate, ecco una insenatura "pericolosa e so-
spetta", un luogo che "per esser lontano dal commercio e
dalle genti, ascoso ed abbracciato ad alcuni colli che at-
torno ci si trovano, dà occasione e comodità ai corsali d'a-
verclsi ad assicurare tuttavia" e che oggi offrirebbe, se già
non l'ha offerta, comodità ai corsari di quella edilizia di-
sordinata e avventurosa che purtroppo invade certe
splagge dell'isola. Di luoghi simili il litorale è ricco, fino
al fiume Verdura che scorre nella piana di Ribera ed ir-
riga vlgnetl ed orti fin sul mare, in consociazione alla col-
tlvazlone delle fragole che è forse la più intensa e pregiata
della Slchia. Il paesaggio litoraneo scorre dolcemente, tra
ll verde del campi e il mare. In alto, la rocca di Caltabel-
lotta. Presso lo sperone di Capobianco e la foce del Pla-
tanl erano le rovine di Eraclea Minoa, allora non del
tutto, e anzi incertamente, note (gli scavi ebbero inizio
nel 1907). Stranamente, contro la comune opinione della
sclenza anllquar~a, così come si protrasse fin quasi ai
glorm nostri, e che tendeva ad identificare Eraclea Minoa
nelle vestlgla di Gela, con Tito Livio e Diodoro Siculo
alla mano, il Camilliani arriva al segno giusto. All'altezza
di Eraclea, verso Siculiana, la spiaggia è una delle più sug-
gestive dell'isola. E qui c'è da dire che una chiave per de-
clfrare le bellezze del litorale nella descrizione a tutt'altro
mteressata del Camilliani si può forse trovare nei suggeri-
mentl, plUttOStO frequenti, di stabilire in certi punti torri
o postl di guardia; corrispondendo peraltro questa esi-
genza alla facilità degli approdi, e quindi oggi a possibi-
Il paesaggio litoraneo si fa più drammatico nei pressi
del "carlcatore" di Girgenti, che probabilmente era dove
sorge ora Porto Empedocle: il Caos, "lu causu", dove tre
secoh dopo nascerà Luigi Pirandello affiora dal mare, sale
a coinvolgere I templi greci, la vecchia Girgenti alta sul
colle. Oggi quel caos di natura e di rovine appare come
schermato dal caos edilizio.
Così caotica, drammatica, corsa da vene di bitume che
il Camilhani attribuisce a una zolfara da cui si cava "zolfo
mlrablle'', la splaggia continua fino all'altezza di Palma
Montechiaro e oltre. Poi viene un tratto arenoso. Ed ecco
l'Alicata, che il Camilliani ritiene sorta sulle rovine di
Gela; Licata, cioè, col suo porto che fino a pochi anni ad-
dietro, soprattutto per il carico degli zolfi, era tra i più at-
tivi della costa. Ancora spiaggia aperta fino al ridosso
della Falconara, che è attualmente lo sfogo balneare di
Gela e di tutta questa zona della Sicilia. Da Terranova,
oggi Gela, che il Camilliani dice "doppia" - case "terrane
e basse" e case grandi e nuove: constatazione che sembra
segnare il destino della città qual è oggi, nettamente di-
visa tra tecnocrazia e miseria - attraversando un lido di
arene e "timpe", una fiumara con foltissime selve alla
foce, rocce, "seccagne", si entra in territorio di Ragusa.
Camarina, col suo fiume, con la sua abbondanza di pesca,
con un suo canale artificiosamente scavato, apparve al Ca-
milliani molto diversa di quanto può oggi apparire a noi.
C'era anche, a poca distanza, una grande salina. Rupi, poi;
e "boschi molto folti ed ombrosi, i quali rendono molto
spavento a chi li mira". Inutile dire che il paesagglo sl
presenta oggi molto diverso.
La spiaggia si svolge con lo stesso ritmo lungo il terri-
torio di Scicli, di Modica (Vittoria non era stata ancora
fondata), fino a tutto il promontorio di Pachino. Il porto
di Marsamemi. La linea dei due mari che si incontrano e
fondono. L'Jonio. Ora è il territorio di Noto (il Camil-
liani vedeva una città molto diversa da quella, peraltro
splendida, che noi vediamo: era la vecchia Noto araba che
alla fine del secolo successivo un terremoto doveva radere
al suolo), quello di Avola dolce di frutteti fino alla riva. Il
lido si fa accidentato. Il fiume e la punta di Cassibile. Si-
racusa. "Ben è vero, che di questa città oggi non se ne ve-
dono che per tutto il contorno le stupende reliquie, le
quali dànno vero segno della potenza e grandezza de' sira-
cusani. Non si vede al presente altro che l'isola, la qual,
fortissima di sito, di porto e di abitazione ornata, ritiene il
nome di Siracusa."
Le calette, le rocce, le grotte, si alternano alle spiagge
aperte. E fonti d'acqua dolce. E torri di guardia, rldotti,
castelletti. Finché si entra nel "gran Seno Megario", vale
a dire nel porto di Augusta. La spiaggia che tira verso Ca-
rania, attraversando il territorio di Lentini, nella descri-
zione del Camilliani sembra non differire molto da quella
del versante africano. Sei miglia e due terzi di spiaggia
aperta nel territorio di Catania. La città bellissima, orna-
tlsslma, copiosa di fontane, ben protetta da muraglie e ba-
luardi. "Asprissime e precipitose balze per spazio di tre
mlglia'' partendo dalla città, ancora rupi fino ad Aci Ca-
stello, ma con molte "aperture". Fino a Taormina. Fino a
Mazzarro (Mazzarò). Spiaggia arenosa nel vallone di Le-
tolanm. Il promontorio di Santo Alessio. La spiaggia di
Savoca: la quale spiaggia è stata nel secolo scorso ragione
della morte di Savoca, bellissimo paese a monte che ha ce-
duto progressivamente le sue forze al nuovo comune di
Santa Teresa Riva, appunto sorto sulla spiaggia, lungo la
ferrovla. Il fiume Nisi. La spiaggia di Alì. Scaletta. La
foce del Gioanpiliere (Giampilieri, paese anche). Messina
mumtlsslma, amena di giardini e di acque, con bellissime
e adornate abitazioni. Il Faro.
Non staremo a seguire il Camilliani in quest'ultimo
rratto della sua esplorazione, cioè dal Faro a Palermo. Di-
remo che registra più frequenza di fiumare che scendono
dal Pelorltanl al mare; e miglior guardia di fortificazioni
(il che, a nostro intendimento, dice di una più pronun-
clata bellezza del lido, come già si è detto). I monti decli-
nano al mare ricchi di oliveti; le cale "sono abbracciate da
rocche altlssime e precipiti"; i tratti arenosi sono come re-
frigerati dalla vegetazione che a pochi metri dal mare
esplode e profuma. C'è qualche "malpasso", un che di or-
rendo come nelle acque sotto il Tindaro (e tutt'altro che
mlte - "Tindari, mite ti so" - è questo luogo).
Ricominciano, per il Camilliani, le tonnare. Per noi
non più. E appare tra le rocce ripide Cefalù. Un pezzo di
"plaia" scoperta, quella tuttora detta di Santa Lucia. (E ci
chiediamo perché il Camilliani usi il termine "plaia", spa-
gnolo, mvece che spiaggia o lito come di solito: perché
poco più avanti c'è il Capo di Plaia o perché il termine
mplica una frequentazione umana, quasi balneare, come
tuttora a Catania?)
A Palermo l'ingegnere fiorentino rientra dalla spiaggia
di Spina Santa. L'Acqua dei Corsari (e il nome dice tutto)
che è oggi dentro la città. "Verdi e belle rive, piene di va-
ghi fonti e di bellissimi arbori domestici" dove ora Cl
sono brutte case e maleodoranti scarichi.
Quanti mesi ci sono voluti al Camilliani per compiere
il giro litoraneo della Sicilia? Molti c'è da presumere, se
ha svolto una descrizione così accurata. E l'avrà fatto per
mare o a cavallo, ricorrendo però alla barca nei cosiddetti
"malpassi"? E più probabile questo secondo modo, ché se
fosse andato per mare gli ci sarebbe voluta la scorta di
una flotta - o la sua relazione avrebbe finito con lo scri-
verla in Algeri, magari in compagnia di Cervantes e di
Antonio Veneziano ma in condizione di schiavltù. Un
viaggio così lungo nel tempo, fatto per mare, non sarebbe
arrivato a compimento: per elementare calcolo delle pro-
babilità. E torniamo così al tema della insicurezza, co-
stante tema della vita di questa grande isola. Torniamo al
punto di partenza anche noi, insomma.
Due secoli dopo, la diffidenza del siciliano di fronte al
mare e l'insicurezza delle coste non pare siano sostanzial-
mente mutate se non in peggio. Quei pochi che erano
riusciti ad attraversare lo stretto di Messina, andata e rl-
torno, erano considerati figli della fortuna: e il berretto
che avevano indossato durante la traversata Si riteneva
avesse virtù taumaturgiche, e specialmente per le parto-
rienti. In quanto alle coste, le torri e i ridotti di difesa
funzionavano peggio che ai tempi del Camilliani. Era in-
valsa l'abitudine di navigare costeggiando, per cui all'ap-
parire di una squadra piratesca i marinai prendevano terra
e trovavano scampo nella campagna, lasciando tranquilla-
mente in mano ai pirati le navi con tutto il carico intatto.
Una circolare a stampa del 1797 lucidamente avvertiva
che "tali frequenti volontari abbandoni, nell'atto che pri-
vano i proprietarj de' loro bastimenti e delle merci di cui
sono carichi, aumentano le forze del nemico, che, con il
considerevole guadagno che ricava dalla vendita di essi, si
alletta vie più alla pirateria; per cui si vede di giorno in
giorno crescere il numero dei corsari", e consigliava che
nell'impossibilità di resistere, la nave abbandonata venisse
affondata o incendiata. Non si poteva imporre ai marinai
una reslstenza del tutto inutile, se da terra sarebbe loro
mancato l'aiuto delle popolazioni costiere, sparute e or-
mai, dopo secoli di incursioni, adusate a sistemi di fuga e
di mimetizzazione, e considerando che non ci sarebbe
stata una torre, un ridotto, una fortezza in grado di spa-
rare una sola cannonata (nella stessa Palermo, nel 1779, ci
vollero due ore perché i cannoni della fortezza che difen-
deva 1l porto rispondessero al saluto di una nave francese
che entrava).
Ma nei primi anni dell'Ottocento la situazione è del
tutto diversa. A tal punto che Giuseppe De Welz, un co-
masco "pratico" di affari economici e di problemi finan-
ziari, in un suo Saggio su i mezzi da moltiplicare prontamente
le ricchezze della Sicilia stampato a Parigi nel 1822, vedeva
nell'eccessivo popolamento del litorale la causa della de-
gradazione dell'interno e della miseria della stessa popola-
zione costiera. L'afflusso dall'interno al litorale si sarà ve-
rificato negli anni in cui i francesi erano arrivati alla
punta estrema della penisola italiana e la corte borbonica
le truppe inglesi, i plenipotenziari e gli uomini d'affari in-
glesi davano alla Sicilia un momento di splendore econo-
mlco scoprendone e sfruttandone le risorse minerarie e
agricole, gli zolfi e i vini in particolare. Protetti dalla
flotta inglese, furono più sicuri i traffici, e più sicuro e
alacre tutto il litorale dell'isola. Cessata però la tempesta
napoleonica, tornata la corte a Napoli e gli inglesi rite-
nendo sufflciente a far buona guardia nel Mediterraneo
l'isola di Malta, le popolazioni costiere gravemente ne ri-
sentirono: e da ciò la constatazione del De Welz, e il suo
consiglio di lasciare la vela e di tornare all'aratro. Consi-
gllo non gratuito, e così validamente fondato e articolato
da rendersi a tutt'oggi apprezzabile. Ma in questo senso:
che la Slcilia non richiede altra politica economica e fi-
nanziaria che quella, per usare l'espressione del De Welz
del "valore delle terre"; e che una industrializzazione che
prescinda da tale valore o, peggio, che provochi una sva-
lorizzazione delle terre è una illusione pericolosa, un va-
neggiamento di demagoghi o di incompetenti che già nei
primi tentativi di realizzazione mostra gravissiml effetti,
danni forse irreparabili. Le industrie sorte in questi ultimi
anni sul litorale (Augusta-Priolo, Gela, Porto Empedo-
cle), offrendo come contropartita l'impiego di una mano
d'opera bracciantile non superiore, reputiamo, alle quat-
tromila unità, hanno depauperato dell'acqua vaste zone
agricole che stavano per essere vieppiù valorizzate da
opere di invasamento e di canalizzazione predisposte dal
governo regionale siciliano. Ma non è il caso di fermarci
su questo punto se non per notare, per far notare, che al-
l'imponenza delle strutture industriali che affiorano in
qualche punto del litorale siciliano corrisponde la più
cieca svalorizzazione della terra, la definitiva degradazione
della Sicilia interna; e che ha piena ragione il De Welz
quando vede il vantaggio del litorale costituirsi sul valore
delle terre, cioè su un'agricoltura condotta in modo tale
da "sostener la preferenza de' suoi prodotti nel mercato
generale".
1968
PITTURE SU VETRO
Non sappiamo dove e quando in Europa cominciò la
pittura su vetro (che più propriamente sarebbe da dire
sotto vetro, poiché della lastra dipinta si offriva, incorni-
ciaro con un certo splendore, il rovescio: e dunque il pit-
tore lavorava a modo dell'incisore xilografo o acquaforti-
sta). Gli esperti dicono che già nel Seicento si praticava
ne trovano esemplari in qualche collezione. Ma certo è
che la grande fioritura l'abbiamo nel Settecento, come
partecipe di quel movimento di stupenda "degradazione"
dell'arte nella natura, nella materia, negli oggetti d'uso.
La pittura su vetro è effettualmente una invenzione "ma-
terica": la pennellata, di solito piuttosto povera, si impre-
ziosisce incorporandosi al vetro, acquista luce, riflessi, in-
tensità, smalto; e un che di minerale, quasi che il colore
fosse immemorabile secrezione e cristallizzazione, e così,
prodigiosamente, l'immagine.
E conslderata arte popolare. In prevalenza lo è senz'al-
tro: ma in prevalenza quantitativa, poiché è evidente che
ad un certo punto questo modo di far pittura passò dal-
l'artista all'artigiano, il quale per far fronte alla richiesta
cominciò a servirsi di pochoiYs, cioè di quegli stampini tra-
forati che si usavano per riprodurre le immagini di Epi-
nal, o comunque di cartoni e veline per sinopia. Ma nella
sua estrazione e nella sua prima destinazione la pittura su
vetro è tutt'altro che popolare. Per quanto riguarda la Si-
cilia, giustamente è stata formulata l'ipotesi che "a somi-
glianza di altre nazioni europee, il costume di dipingere
su vetro si sia venuto a determinare in area culturale ari-
stocratica, fra la fine del Seicento e gli inizi del Sette-
cento"; e la "notevole differenza stilistica e contenutistica
delle pitture su vetro dei secoli XVIII e XIX" si spiega col
fatto che "mancando una piccola borghesia contadina, nel
Settecento l'artigianato viveva all'ombra dei ceti agiati",
mentre "con il lento trasformarsi, poi, della struttura so-
ciale, e col conseguente costituirsi di un ceto intermedio,
nasce e si sviluppa un tipo nuovo d'artigianato, che imita,
sì, come il nuovo ceto è portato a fare, i modelli culturali
delle classi più elevate, ma risolvendoli secondo i dettami
della cultura tradizionale del popolo, al quale il nuovo
ceto e l'artigiano restano inconsapevolmente ma stretta-
mente legati" (Antonino Buttitta, Cultura figurativa popo-
lare in Sicilia, Palermo 1961).
La pittura su vetro non ebbe mai, dunque, una destina-
zione propriamente popolare: almeno in Sicilia (ma forse
anche altrove, se in un museo polacco che moltissime ne
raccoglie si segnala come curiosità, a quanto ci dicono, il
fatto che simili quadri fossero segreto ricettacolo del de-
naro). Ad un certo punto, tra la fine del Settecento e i
primi dell'Ottocento, entrò nelle case dei "borgesi", cioè
dei contadini agiati, dei contadini piccoli proprietari; mai
in quelle dei contadini poveri, dei braccianti. Ne tro-
viamo prova nelle descrizioni che studiosi e narratori del-
l'Ottocento ci hanno lasciato delle abitazioni dei "vil-
lani". Giuseppe Piaggia (1853): "sul capezzale affisse
delle immagini del Cristo, della Madonna e di Santi"; e
che fossero immagini a stampa, attaccate al muro senza
cornice, confermano Salomone-Marino, Guastella, Na-
varro della Miraglia. Quest'ultimo, nel romanzo La
Nana, così descrive il cosiddetto capizzali: "c'era un ramo-
scello di ulivo secco e un palmizio ornato di nastrini az-
zurri; tutt'all'ingiro si scorgeva una lunga schiera di santi
in litografia, appiccicati, senza cornice, al muro". Le pit-
ture su vetro comportavano, come abbiamo detto, cornici
di un certo pregio: e la condizione del "villano" era di in-
crediblle mlsena, raramente passava dalle sue mani il de-
naro, delle sue giornate di lavoro i due terzi almeno, da
un raccolto all'altro, andavano a scomputo delle derrate
che il padrone gli anticipava per il sostentamento della fa-
mlglia (e delle usure che su quell'anticipo crescevano).
Contrariamente all'impressione che si può avere fre-
quentando le marché aux puces di Palermo, dove le pitture
su vetro sembra affiorino continuamente (ma raramente
capita ormai all'intenditore di fare il buon colpo), la pro-
duzlone, anche al momento della più larga diffusione era
non solo limitata ma localizzata. Nella Sicilia orientaie se
ne trovano pochissime e certamente importate dai centri
di produzione della parte occidentale dell'isola, che dove-
vano pOl trovarsi tra Palermo e Trapani. La presenza nelle
pitture di certi santi patroni, e l'assenza o la scarsa fre-
quenza di altri, può servire a localizzare i centri. Per esem-
plO: abbonda santa Rosalia, protettrice di Palermo, ed è
mvece rara sant'Agata, alla quale i catanesi sono devoti
ugualmente rarl sono i famosi tre santi Alfio, Cirino e Fi-
ladelfo che tra la provincia di Catania e quella di Siracusa
godevano e godono di un fanatico culto, manca san Calo-
gero, che nell'agrigentino è patrono di ben sette paesi, ca-
poluogo compreso. Né contraddice a questo tentativo di
locahzzazlone la rilevante presenza di santa Lucia (Sira-
cusa) e di san Michele (Caltanissetta): ché la prima, nel
coro celeste, ha la taumaturgica esclusiva degli occhi ed è
dunque m ogm luogo venerata; mentre il secondo bello
forte, armato è stato sempre e da tutti invocato contro le
tentaziom.
I soggetti più frequenti sono la Sacra Famiglia, le Sacre
ConVersazloni (Sacra Famiglia con aggiunta di santi), la
Natività, la fuga in Egitto; la Madonna col Bambino (a
volte riconoscibile come patrona di un determinato
paese); Gesù buon pastore (o san Giovannino); san Giu-
seppe; santa Rosalia. Si trovano anche dei soggetti bi-
blici; e non è rara la caduta di san Paolo. Il che conferma
l'estrazione non popolare di questo tipo di pittura, poiché
gli avvenimenti biblici sono pochissimo conosciuti a li-
vello popolare (e a maggior ragione in passato); e così la
caduta di san Paolo. Tutti questi soggettl m realta pro-
vengono (tranne, beninteso, i santi patroni e le Natlvità)
da modelli figurativi estranei alla tradizione e ai senti-
menti locali. Sarebbe da vedere, per esempio, in che rap-
porto stanno tante fughe in Egitto con la diffusione delle
incisioni di Gian Domenico Tiepolo sullo stesso soggetto
(che peraltro si presentavano come un invito alla frui-
zione artigianale: Idee pittoresche sopra la fuga in Egitto).
Questo nome, e più quello del padre, Giovanni Batti-
sta, ci ricorda che l'aria, le tonalità, il movimento di certe
pitture su vetro del Settecento siciliano hanno qualcosa di
tiepolesco, o forse è soltanto di un manierismo ritardato
che ovviamente acquistando di trasparenza, sciogliendosi
nella luce del vetro, più fa pensare agli affreschi di Gio-
van Battista Tiepolo che alle pale d'altare del Sozzi, del
Serenario, del D'Anna, pittori attivi in Sicilia nel pieno
secolo XVIII e ai quali probabilmente si devono alcune
delle pitture su vetro di fattura "artistica". Perché è certo
che per tutto il` secolo, e forse fino ai primi dell'Otto-
cento, alla pittura su vetro si dedicarono pittori di valore
o di fama, né questo modo di far pittura doveva essere già
diffuso in campo artigianale se un pittore di scarso ta-
lento ma di estrema arroganza come Giuseppe Velasco,
autore degli affreschi in quella sala detta d'Ercole in cui
oggi si celebrano i fasti del siculo parlamento, fece e
firmò qualche vetro (e si firmava, con modestia Impareg-
giabile, Velázquez). Ma la pittura su vetro, per così dire,
"colta" non ci interessa poi molto; è quando diventa arti-
gianale e popolare che comincia a interessarci. E si di-
rebbe che succeda un curioso fenomeno: a livello "arti-
stico" la pittura su vetro è quanto mai impersonale, gene-
ricamente classificabile più per i contenuti, per i soggetti,
che per qualità di esecuzione, di stile (basta, per esempio,
che un soggetto sia se non propriamente galante di un
certo realismo perché la pittura venga classlficata come
francese); ma a livello artigianale non solo è facilmente
classificabile come francese o tedesca o slovena o siciliana
ma offre anche, a chi riesce ad acquistare una certa fami-
liarità con la produzione locale o a chi si trova ad esami-
nare una raccolta magari non eccessivamente numerosa
gli elementi che permettono di identificare in due o più
quadri la stessa fantasia, lo stesso sentimento, la stessa
mano. E sarà magari un'impressione: ma ci sono due o tre
vene, nella produzione siciliana dell'Ottocento, che non
sarebbe difficile seguire attraverso le diverse collezioni
due o tre personalità di un qualche rilievo che è possibile
identificare stilisticamente. Non mai anagraficamente, be-
ninteso. Ed è un peccato: che sarebbe bello poter raccon-
tare la vita di uno di questi pittori popolari su vetro, rico-
struirla, come Jean Giono ha fatto con Charles Frederic
Brun detto il disertore, pittore candido e povero come i
plttori slchiani suoi contemporanei che sul vetro vivida-
mente raccontano la Natività, la fuga in Egitto, la Pas-
sione di Cristo o fermano l'immagine gloriosa di un santo
guerriero, di una santa martire.
1968
EMILIO GRECO
Ricorrendo nel 1932 il secondo centenario della morte
di Giacomo Serpotta, le celebrazioni che si tennero in Pa-
lermo fecero divampare tra due eruditi locali, Filippo
Meli e Nino Basile, una polemica violentissima che durò
quanto la loro vita. Il Meli, celebratore ufficiale (mentre
l'altro dalle celebrazioni era stato escluso), perseguendo
una sua idea che approssimativamente potremmo definire
di un Serpotta senza il barocco, idea senz'altro apprezza-
bile ma al cui sviluppo conveniva più una cultura vasta e
libera che una minuta erudizione (che peraltro finiva con
l'inciampare in se stessa), a climostrarla aveva proceduto a
raffronti tra la Venere di Siracusa, la Ninfa che si trova
nello stesso Museo, la figura muliebre in terracotta prove-
niente da Solunto che si trova nel Museo di Palermo, e
sculture di Serpotta quali la "Verità" dell'Oratorio di San
Lorenzo e la "Carità" e l"'Umiltà" dell'Oratorio del Rosa-
rio. Immediatamente, a colpo d'occhio, il raffronto sem-
brava dargli ragione; ma ecco che il Basile saltava su con
le date alla mano: la Venere era stata ritrovata nel l804, la
Ninfa era stata pubblicata dal Serradifalco nel 1840, la ter-
racotta di Solunto era stata rinvenuta nel 1872. Le statue
erano sottoterra, diceva trionfante il Basile, quando Ser-
potta era vivo, ed era sottoterra il Serpotta nel secolo in
cui erano venute alla luce. Quello che entrambi non capi-
rono (e forse nell'aldilà, come l'inquisito e l'inquisitore di
un racconto di Jorge Luis Borges, avranno scoperto di es-
sere stati la stessa persona) è che le statue greche erano sì
sottoterra quando Serpotta era vivo, ma erano anche nel-
l'aria: e che l'idea di un Serpotta senza il barocco (se mai
il Meli l'ebbe chiara) bisognava articolarla non sui reperti
archeologici e sulla loro cronologia; non sulla ipotesi di
un Serpotta che non si era mai allontanato dalla Sicilia, in
assenza di documenti gratuita quanto quella avversa di un
giovanile viaggio a Roma per fare apprendistato dal Ber-
nini - ma su una tradizione locale, siciliana, in cui le
forme che posano (che s'appoggiano, che pesano) tenace-
mente sopravvivevano all'avvento delle forme che volano
e anzi stupendamente vi si fondevano. Di una tale tradi-
zione, purtroppo, non c'è storia: e gli studi cui si può at-
tingere per tentarla sono pochi e dispersivi, in gran parte
frutto di quella erudizione di cui abbiamo ora dato un
esempio. La storia delle arti in Sicilia è ancora da fare
Dopo quasi un secolo, quel che il Di Marzo diceva nella
pre~azione alla sua opera su I Gagini e la scultura in Sicilia
nn secoli xv e xvl è ancora vero: "Sia per l'assoluto difetto
di accurati illustratori del paese, contemporanei o di poco
posteriori a quei felici tempi, o per l'estrema topografica
giacitura dell~isola quale ultimo lembo d'Italia, o per la
costante ed imperdonabile trascuratezza di quanti general-
mente delle arti italiane trattarono senz'avere mai esteso
al di là del Faro le loro ricerche, non mai questa terra fu
tolta all'uopo ad oggetto di gravi investigazioni, né chia-
mata a partecipare a quell'altissima gloria e rinomanza
onde numerosi e spesso insigni scrittori le vicende delle
arti stesse illustrarono nelle fioritissime e celebrate scuole
di terraferma". Tutto il periodo dei Gagini (in cui anche
operò Francesco Laurana), infatti, nonostante il monu-
mentale lavoro documentario dello stesso Di Marzo, non
si può dire abbia finora tròvato luogo conveniente nella
storia dell'arte italiana: né Giacomo Serpotta, indubbia-
mente il più grande scultore del Settecento, è stato giusta-
mente valutato e acquisito. E manca poi del tutto una do-
cumentazione sul periodo che corre tra i Gagini e il Ser-
potta, e che riserva qualche sorpresa a chi vorrà ricercarlo
con una certa attenzione. E tanto per fare un solo esem-
pio: il Carlo V in bronzo di Scipione Li Volsi, nella
piazza Bologni di Palermo, più è guardato per la ironica
trascrizione di fiscale avidità che il popolo ha fatto del
suo gesto che giura la costituzione del Regno di Sicilia
che per l'intrinseco valore del ritratto, in CUI la paranola
del personaggio, surrealmente accentuata dal costume ro-
mano, è colta con non minor vigore che in quel ritratto in
pittura, di anonimo, che si trova nella Pinacoteca di Siena
e che per noi è più interessante di quelli di Tiziano.
Questa breve nota sulla scultura in Sicilia può apparire
piuttosto vaga e generica come avvio ad un discorso su
Emilio Greco; ma la sua formazione e i suoi mtendi-
menti, i suoi risultati fondamentalmente la giustificano.
Del resto mai nessun discorso è possibile, su un artista o
uno scrittore siciliano, se non partendo dalla Sicilia, e per
tante ragioni. Per dirla con le parole del poeta brasiliano
Murilo Mendes, "la fusione e compenetrazione delle di-
verse culture, il carattere stratificato e incrociato della sua
civiltà" fanno della Sicilia un tale nodo di contraddizioni
che a districarlo si è già sul più arduo "banco di prova di
una esperienza universalizzatrice". Di questa esperienza
vedremo di cogliere in Emilio Greco, nella sua arte, i mo-
menti più essenziali, servendoci anche di due suoi rapidi
testi autobiografici (una nota, un gruppo di poesie).
"Sono nato a Catania l'11 ottobre del 1913 in una casa
posta sotto il livello stradale e ricordo vagamente i grap-
poli enormi di uva nera del pergolato antistante ad essa.
Tre anni dopo la mia nascita - eravamo in otto tra i gem-
tori, i figli ed una vecchia sorella di mio padre - an-
dammo ad alloggiare in un piccolo appartamento sette-
centesco situato nei pressi dell'Università. Vlcino, dietro
la Cattedrale e il ponte della ferrovia, era il mare." Così
comincia la nota autobiografica (pubblicata nel Greco di
Fortunato Bellonzi edito dall'Istituto Grafico Tiberino
nel l949 e poi - o prima - come premessa al catalogo di
una mostra). Una nota che è quasi un racconto veloce ed
intenso, una sequenza di accensioni della memoria, di sen-
sazlonl ancora vibranti: e ne vien fuori, indimenticabile
la rappresentazione di una infanzia povera in cui si iscrive
la treplda scoperta delle cose e dei sentimenti, il sorgere
di una sensualità avida e luminosa. E a sfondo di questa
evocazione, malinconica e insieme gioiosa, del tempo non
perduto, si intravede la città in cui la dura e nera lava si
solleva e trasfigura nelle aeree prospettive del barocco
estremo, che tra la montagna e il mare apre le quinte
delle sue strade alla tragedia e alla farsa, l'umanissima
città di Verga e di De Roberto, di Nino Martoglio, di
Giovanni Grasso e di Angelo Musco (e, più tardi, scena
della commedia erotica di Vitaliano Brancati). "Se mi af-
facciavo sulla via Cestai - ricorda Greco - vedevo spesso
la madre di Giovanni Grasso seduta sul ballatoio con le
mani sul ventre, un sorriso bonario e pingue": che è già
un pezzo di scultura (e un po' ricorda "La chiromante"
che Greco scolpì una ventina d'anni addietro: ma, per
l'atteggiamento del corpo, non per l'espressione del volto
che nella chiromante è invece di affilata e impassibile
astuzia). E nel quartiere popolare, in quella via Cestai do-
mmata dalla immobile serenità della vecchia madre, Gio-
vanni Grasso che dall'opera dei pupi era arrivato a reci-
tare davanti allo zar, sarà stato un mito sfolgorante di ve-
rlta e di passlone, come apparve a Isaak Babel' in un tea-
tro di Odessa, oltre che di gloria e di ricchezza. Perché
Catania ama ll teatro ed è teatro: ma in una accezione
prevalentemente plastica, di scultura. Da Giovanni Gras-
so a Turi Ferro, si direbbe che la peculiarità della tradi-
zione mimica catanese consista nella creazione del mo-
vlmento drammatico o comico attraverso una serie di im-
mobilità. Quello che Alain nega alla mimica teatrale in
contrapposizione alla scultura, la capacità cioè di racco-
ghere m un movimento tutta una serie di movimenti, pa-
radossalmente l'attore catanese la realizza. Di fronte a
Glovanm Grasso, Babel' ci pare sia riuscito a fermare que-
sta impressione; anche quando Grasso "vola" da un
punto all'altro della scena, è come se si aprisse a ventaglio
una serie di momenti immobili in ciascuno dei quali si
raccoglie una serie di movimenti. Ma questo è un argo-
mento che ha a che fare con Greco soltanto per una sen-
sazione che ci viene dai suoi ricordi d'infanzia; la sensa-
zione che egli abbia scoperto la scultura dentro quel tea-
tro che è a Catania la vita. "Frequentavo ancora le ele-
mentari quando trascorrevo intere ore del pomeriggio da-
vanti la porta del negozio di un barbiere che aveva una
bella testa di apostolo. Egli stava seduto vicino alla porta
e dipingeva degli ingrandimenti ad olio tratti dalle foto-
grafie per tessera di defunti. Stava a punzecchiare molti
mesi sulla tela tenendo incastrata all'occhio destro una
lente da orologiaio": ed è teatro, con quell'attore dalla
bella testa di apostolo. E ancora un ricordo in cui un fatto
teatrale fa da presupposto a un fatto plastico e in esso si
oggettivizza: "Una volta questo scalpellino si mise in te-
sta di fare un modello di angelo in ginocchio e costruì un
troncone adoperando un sacco di canapa immerso nel
gesso, al quale applicò la testa, le mani e i piedi calcati
dal vero, dalla propria moglie, e innestandoli come i fale-
gnami innestano i piedi dei tavoli", dove l'accensione
della fantasia viene dall'elemento di commedia erotica di
quel "vero" da cui il calco è stato tratto e da cui l'angelo
che vien fuori, prototipo di una serie che popola il cimi-
tero di Catania, prende un senso quasi pirandelliano. E in
Greco sarà sempre vivo questo senso della scultura come
forma in cui la vita per un momento e per sempre Sl è fer-
mata: con malinconia e pena, a volte; come consolazione
e compenso alla vita che fugge, all'amore che si consuma,
più spesso. "Io ho fermato questo istante della tua bel-
lezza per averti sola con me, compagna del miel pensleri
/ L'altra... non m'appartiene." Che è poi 11 dramma di
Diana e la Tuda, non più dramma dalla parte dell'artista,
ma sentimento di un trionfo sulla vita appena venato di
solitaria malinconia. E a questo punto la domanda, appa-
rentemente banale, del perché Pirandello abbia scelto, I
come massima esemplificazione del suo "problema cen-
trale", cioè del conflitto tra la vita e la forma, il dramma
della modella Tuda che si vede per sempre fermata e
chiusa nella statua di Diana, assume una certa impor-
tanza. Perché una statua e non una pittura? E una do-
manda così banale in apparenza non può avere che una ri-
sposta apparentemente owia: perché la scultura è forma
del corpo umano, la forma dell'avvenimento umano "nel
suo centro". Non per nulla le statue sono state sempre
adorate e, nelle civiltà primitive, sono considerate in così
vitale rapporto con l'essere che raffigurano che il gesto
magico o omicida consumato su di esse non può non su-
scitare una determinata passione in quell'essere o spe-
gnerne la vita.
Di scultura vera e propria, della grande scultura, Cata-
nia non offriva però che pochissimi esempi, forse nessuno
che effettualmente conti nella formazione di Greco. Qual-
che terracotta arcaica della raccolta Biscari; la Venere di
porfido dell'ex Museo dei Benedettini, il mausoleo del vi-
cerè d'Acuna nella cattedrale. Ma Siracusa è vicina a Cata-
nia: il grande Museo Archeologico che si dispiega, fitto
fmo alla congestione, intorno alla Venere Landolina
(sulla quale Maupassant ha scritto delle pagine che bene
Sl adatterebbero a certe recenti cose di Greco), una città
in cui epoche, civilta e stili si scoprono in una prodigiosa
stratificazione. E tuttavia crediamo che la vera e piena ri-
velazione della scultura, della scultura assoluta, Greco
l'abbia avuta a Palermo. Gli etruschi, le metope di Seli-
nunte, Francesco Laurana, i Gagini, il Serpotta E sarà
forse, quel che stiamo per dire, generalizzazione di una
esperienza eccessivamente personale: ma crediamo che
pochissime opere, e per noi questa primamente, valgono
a dare idea della scultura in assoluto, della scultura "og-
getto eterno" per così dire, quanto il busto di Eleonora (o
Isabella) d'Aragona di Francesco Laurana che si trova
nella Galleria Nazionale. Senz'altro ci sono sculture più
grandi, più importanti, c'è il sarcofago di Ceneteri, c'è la
Vittoria di Samotracia, il Marco Aurelio del Campidoglio
quelle di Donatello, di Michelangelo: ma nessuna, a no-
stra impressione, meglio di questa del Laurana dice "per-
ché la scultura", la sua essenza, il suo mistero; come e
perché "possa sgorgare, di contro alla natura, la forma
della scultura", e partendo da una condizione "che si pone
così simile a quella della natura". La ragione per cui He-
gel metteva la scultura appena più su dell'architettura e al
di sotto della pittura cioe il fatto che la scultura gli pareva
non riuscisse a risolvere la materia in immagine dello spi-
rito, davanti ad un'opera come questa di Laurana si rove-
scia ad affermare una identità, una peculiarità, una sintesi:
la scultura è immagine dello spirito appunto perché in
essa i corpi, le membra, i volumi sono dati (come dice
Brandi) in modo assolutamente analogo a quelli dell'og-
getto naturale e si accampano nello stesso spazio a tre di-
mensioni e nella stessa luce in cui noi che la guardiamo
siamo contenuti. In definitiva: la vita che pensa, sicura,
appoggiata in sé, in pieno accordo con se stessa - defini-
zione che Alain applica alla Venere di Milo e che a noi
pare estensibile a tutta la scultura delle "forme che po-
sano", che cioè non aspirano alla condizione della pittura
o della musica - è peculiarità consentita alla scultura dalla
materia, dalle sue tre dimensioni e diremmo anche dal
suo peso. E la straordinaria forza del pezzo di Laurana sta
proprio in questo: che totalmente obbedendo alla materia
e totalmente esprimendola, "facendo del marmo quel che
il marmo voleva", stupendamente ha espresso la norma
della "vita che pensa". E c'è da credere che questa espe-
rienza, di un'assidua e attenta contemplazione delle scul-
ture di Laurana che si trovano a Palermo, sia stata per
Greco fondamentale. Il busto di Eleonora, la testa mulie-
bre, il sarcofago di Cecilia Aprile, i bassorilievi della
chiesa di San Francesco, il ritratto di Pietro Speciale che
ancora negli anni in cui Greco stette a Palermo era consi-
derato di Laurana ed ora, chi sa perché, attribuito a Do-
menico Gagini: cose che si sono come incorporate alla
città, alla sua luce (e persino il nome, Laurana, suona così
consueto - e non è - che quando lo si ritrova in Jugosla-
via come Vranjanin, Franjo Vranjanin, ci sentiamo vit-
time di una usurpazione, di una frode). E tra Laurana e
Serpotta sembra ci sia un abisso, i due poli della scultura
le due nozioni della scultura che a vicenda si negano, le
due alternative: e invece si corrispondono sulla linea della
"vita che pensa", che in sé si appoggia e si accorda, nono-
stante 1l vento barocco che investe e solleva il mondo ser-
pottiano. Ma qui il discorso si farebbe complesso e forse
svagato. Lasciamo dunque il Serpotta al barocco, e di-
ciamo che in Greco, pur così saldamente legato alle forme
che si appoggiano, la tentazione barocca, la componente
anzi, è da tenere in conto.
Il pnmato della scultura italiana d'oggi, da Martini a
Perez, risiede nel fatto che dal punto morto (o mortale)
cui questa arte era arrivata, gli italiani hanno saputo ope-
rare un collegamento vitale con l'antico. Questo collega-
rnento Greco l'ha operato, per sua parte, attraverso una
visione del mondo essenzialmente erotica, di armonia ero-
tica. Sorgente di quest'armonia è, naturalmente, il corpo
della donna; e da lei si irradia in tutte le cose: forma
ritmo, misura del mondo. Viene da ricordare quel canto
indiano che dice: "Il desiderio, che fu il primo seme dello
Spirito, il nodo tra l'Essere e il Non Essere, nel loro cuore
scoprì il desiderio della saggezza". E in questo senso è da
intendere la saggezza di cui dice Greco in una poesia de-
dicata a Siracusa: "Nel loro alveo calcinano / queste pie-
tre che l'erba solleva / con cunei lenti. / Attorno un an-
tico silenzio / sfiora la mia fronte come una grande ala. /
Qui son vissuto per millenni: / la saggezza m'è stata
compagna / in questo lungo viaggio". E una tappa di
questo lungo viaggio è da considerare l"'Ars amatoria"
che Greco ha disegnato sul testo di Ovidio. Le edizioni
Propylaen di Francoforte hanno trovato l'artista più con-
geniale: forse soltanto Greco, oggi, poteva rendere, attra-
verso la rappresentazione in figure, intatto il senso del-
l"'Ars amatoria:" quell'erotismo objectal compatto e lumi-
noso come un corpo celeste in cui la donna si inscrive e in
cui il piacere in se stesso ruota e si inebria librato sulle
passioni e sulle angosce, intangibilmente sereno e armo-
nioso; quella saggezza erotica insomma, in cui le compo-
nenti fisiche e psichiche dell'amore perfettamente si equi-
librano: e le prescrizioni tattiche e strategiche - d'ordine
psicologico, comportamentale, cosmetico e posittonnel -
non dicono di una guerra ma di un giuoco. Il giuoco del-
l'amore: di quando l'amore non era legato alla morte e al
male.
Di questa saggezza erotica Greco è oggi uno dei pochis-
simi eredi. Da Ovidio forse bisogna fare un salto fino a
Boucher per trovare una rappresentazione dell'amore così
radicalmente refrattaria alla morte e al dolore, così total-
mente assorta nel piacere, così non dialettica; e da Boucher
ad oggi le cose si son fatte tanto più difficili, tanto più
complicate.
In Boucher - e riassumiamo tutto il suo sentire in
quella "nascita e trionfo di Venere" della collezione Roth-
schild - la dea dell'amore non nasce dal mare ma dal
letto, e il suo trionfo è tutto in un lenzuolo che i putti
sollevano da lei, svelandola nuda ad una specie di conver-
sazione tattile (lo schema compositivo fa un po' pensare
alle sacre conversazioni). Il mare, in basso nell'ovale, è
rappreso in pura decorazione; tanto Boucher voleva te-
nersi sicuro da quella agitazione che appena qualche anno
dopo comincerà a trascorrere nel mondo di Fragonard.
Con altri mezzi, con altro segno, nello spazio e nelle
dimensioni della scultura anche quando disegna, Greco ri-
pete questa nascita, questo trionfo, questa conversazione
tattile assoluta e suprema con la donna, con le donne.
"D'une seule caresse / je te fais briller de tout ton éclat"
- e carezza, ci insegna il vecchio Tommaseo, è propria-
mente atto materiale, che rare volte ha dei traslati (e del
resto ha radici etimologiche nella carne). E questo evento
tattile da cui l'eros trionfalmente nasce e splende, e che
Boucher aveva bisogno di rappresentare o di suggerire, in
Greco si compie ben diversamente: quasi che l'éclat eluar-
diano esploda sul foglio bianco, di una sola carezza, di un
solo segno, ogni volta che se ne fruisca. Non è già avve-
nuto, insomma: avviene sotto i nostri occhi, e per i nostri
occhi. Un éclat che ci appartiene. Ed Ovidio porge incan-
tevoli didascalie a questo lampeggiante "farsi" delle fi-
gure amorose: "Quae facie praesignis erit, resupina ia-
ceto; spectentur tergo, quis sua terga placent... strata pre-
mat gembus, paulum cervice reflexa, femina per longum
conspicienda latus... cui femur est iuvenale, in obliquo
fusa sit ipsa toro... nec tibi turpe puta crinem solvere, et
effusis colla reflectere comis..." - e i segni stupendi di
Greco corrono sul fo~lio bianco a far sorgere il dorso per-
fetto, l'ammirevole fianco lungo, la gamba giovanile, le
sciolte e libere chiome... E come il poeta di duemila anni
fa, Greco può dire che né da Febo né da Clio né dalle so-
relle di Clio ha appreso quest'arte: "usus opus movet
hoc". Che è il senso profondo di ogni ars amatoria, di
ogni umana arte di amare: né gli dei né le muse possono
insegnare agli uomini l'amore, e anzi gli uomini debbono
insegnarlo agli dei.
In questa saggezza legata al corpo femminile come alla
fonte della vita, dell'armonia dell'accordo con se stessi e
col mondo, è la fondamentaie originalità e vitalità della
sua arte. E può sembrare completamente owio e privo di
particolarità il fatto che uno scultore rappresenti ed esalti
il corpo femminile, se l'idea stessa della scultura, il mito,
nel mondo mediterraneo pare si sia disvelato e affermato
nella rappresentazione del corpo femminile, ancora più
indietro che in quel quinto secolo prima di Cristo in cui i
greci scoprirono il nudo come "forma d'arte", come "stu-
dio della forma ideale". Ma riguardo a Greco il discorso è
più complesso e particolare. C'è Catania da un lato, gran
teatro dell'eros; il recupero del nudo come oggetto della
scultura, dall'altro.
Di Catania, dei catanesi i cui sogni, la mente, i di-
scorsi, il sangue stesso sono perpetuamente abitati dalla
donna, Brancati ha scritto pagine impareggiabili; solo che
scorrono in una dimensione comica, eccessivamente co-
mica per un tema che impegna e arrovella intere esi-
stenze; più che un tema, anzi: addirittura un modo di esi-
stere. E l'evocazione della donna, il ricordo, il racconto, è
a Catania un fatto plastico. "Il narratore, a questo punto,
non dice più nulla: si volta sulla sedia in modo da pog-
giare il braccio destro sullo schienale, di colpo si sdraia
lungo il vicino, e difendendosi la bocca col dorso di una
mano, con l'altra accarezza nell'aria la forma invisibile di
un mento o forse di un naso. Tutti all'intorno, anche se
seduti a un tiro di pietra, si accorgono che il narratore im-
persona una donna sdraiata. Eh, non c'è dubbio: quella è
una donna sdraiata! Gli uomini, che seggono soli, si chie-
dono: Chi sarà? E qualcuno si sente battere il cuore al
pensiero di una donna così. Coloro invece che seggono
con le donne della propria famiglia, abbassano gli occhi e
borbottano fra i denti: Non puoi condurre tua moglie in
mezzo a questi facchini di porto! Per colmo di misura,
non è da un solo punto del caffè che arrivano queste ab-
bozzate scene d'amore: ecco, a destra, un signore di mezza
età basso e tarchiato, che, con le dita divaricate, disegna
nell'aria un gran globo e, lasciatolo così sospeso davanti
agli occhi spiritati dei suoi amici, si abbandona nella pol-
trona di vimini e, storcendo in fuori le labbra, gira più
volte la destra a mestolo, come a voler dire sgomento,
meraviglia, cose dell'altro mondo, cose da pazzi. Ed ecco,
più avanti, un ragazzo sottile che si mette le mani aperte
a un palmo dal petto, e sporge anch'egli le labbra serrate,
strabuzza gli occhi, e scuote il capo come a uno stupendo
e doloroso ricordo. Ed a sinistra un capitano di cavalleria,
che cerca di allargare, col gesto delle mani, la misura dei
fianchi e della propria schiena, finché al suo posto tutti
non vedono una vasta e grassa odalisca ed egli già preso
dalla scena che incarna, agita il viso verso l'alto e, deposto
il chepì, si passa la mano sui corti capelli, continuando
però giù per le spalle e dietro le gambe fin sui calcagni,
fino al punto cioè in cui tremola la nera chioma immagi-
nata..." Il teatro, le statue. Di statue di donne modellate
nell'aria, Catania è popolata; e Greco ne realizza la subli-
mazione, le riscopre nell'antica purezza e saggezza. Tra il
corpo della donna e il suo occhio si consumano senza
traccia i secoli del peccato e dello scandalo, delle inibi-
zioni e delle nevrosi; e diventa inconcepibile, guardando
le sue opere, un tempo della vita umana, della storia, che
dal corpo femminile suscitava la condanna dell'uomo al
dolore, alla violenza, alla fatica. E da ciò anche l'iconocla-
stia cui la scultura stava per soggiacere e in parte soggiace
(ma in un processo diverso, che soltanto in qualche punto
sfiora quello della iconoclastia sessuofobica) nelle sue
cose si dissolve e l'uomo, il corpo dell'uomo, integral-
mente si riafferma come oggetto della scultura. E qui bi-
sognerebbe tracciare la storia di quella corrente della scul-
tura italiana moderna, in cui Greco si inserisce, che parte
da Arturo Martini: il quale, come dice Fortunato Bel-
lonzi, "nonostante le molteplici direzioni cui lo sospin-
geva una fantasia avventurosa, additò in opere tra le più
alte della scultura d'ogni tempo, il 'Sonno', la 'Sete', la
'Donna al sole', la 'Pisana', la 'Convalescente', la 'Donna
che nuota sott'acqua' ed altre, come l'immagine plastica
potesse sussistere, in tutta la sua pienezza, nella immer-
sione luminosa, come dunque la predilezione moderna dei
partiti luministici potesse non soltanto coesistere ma liri-
camente congiungersi con la tensione alla forza chiusa e
al moto potenziale". Salvava la scultura insomma, dalla
iconoclastia dell? luce. E oggi scultori come Manzù, Ma-
rino, Fazzini, come Greco, la salvano dalla iconoclastia in-
formale e materica. Ma forse bisognerebbe, per Greco,
fare un passo più indietro: a recuperare certi scultori del
liberty siciliano, non dimenticando il Rutelli della fon-
tana dell'Esedra. Ma con discrezione, con giudizio.
Una visione erotica del mondo è dunque quella di
Greco, attraverso la quale il mondo viene restituito alla
sua oggettività. L'oggettività di cui parla Lavvrence a pro-
posito dei greci antichi e dei siciliani di Verga, l'oggetti-
vità del "vecchio, antico mondo, di quando l'uomo era in-
tensamente conscio di quello che gli apparteneva" e non
era così sciocco "da abbandonarsi al sentimento della pro-
pria anima". "Sembra che i siciliani siano quanto di più
vicino ai greci antichi esista oggi; siano cioè i discendenti
terreni più diretti degli antichi greci. In realtà gli abitanti
della Grecia odierna non sono greci. I discendenti più di-
4 La corda pazza
retti degli antichi greci sono i siciliani, specie quelli che
vivono nel sud e nel sud-est della Sicilia... Splendida Sici-
lia, così limpida nella sua bellezza, così vicina alla bellezza
fisica dell'antica Grecia!... E presi uno per uno, anche gli
uomini hanno qualcosa della particolarità noncurante ed
ardita dei greci antichi. E nello stare insieme come cltta-
dini che diventano gretti. In campagna sono prodigiosi e
di cervello fino come i viandanti dell'Odissea... Curiosl e
immediati, oggettivi nei loro rapporti. Così poco consci
di sé, e tanto intelligentemente consci di quello che fan-
no. Tutto dipende da quello che cercate."
Ecco, appunto: tutto dipende da quello che cerchiamo.
Se ancora cerchiamo quello che ci appartiene, un rapporto
sicuro con le cose, l'armonia, l'accordo con noi stessi, la
bellezza, l'amore, le sculture e i disegni di Emilio Greco
splendidamente si dispiegano a darci misura del mondo.
1970
GLI ALBERI DI BRUNO CARUSO
Il contadino siciliano non ama gli alberi "belli a ve-
dersi" che non dànno frutto o che lo dànno vanamente o
avaramente. "Arbulu di bellu vidiri" è espressione che in-
dica l'inutile bellezza, la vuota bellezza; spesso la bellezza
senz'altro, delle persone e delle cose. Un uomo bello, spe-
cialmente, è sempre un albero bello a vedersi, da cui non
puo venire frutto di sentimento e di intelligenza. Tanta
diffidenza e tanto disprezzo nei riguardi della bellezza ma-
schile prmcipalmente (mentre l'ideale della bellezza fem-
minile chiama a paragone la cassata, cioè una grazia ab-
bondante densa e colorita) e secondariamente di ogni cosa
in cui si realizza la bellezza al di fuori della sfera econo-
mica e utilitarlstica, appunto viene dalla campagna e dai
rapporti istituitisi sulla campagna tra contadini e padroni.
Perché i padroni, estremo sopruso e dispetto, amavano gli
alberi belli a vedersi, gli alberi senza frutto, e ai contadini
per patto ne commettevano la cura; una delle tante corvéés,
e forse la plU pesante: ché di ogni altra se ne vedeva il
frutto, anche se era il padrone a goderselo
Quest'odio all'albero bello, che orna e dà ombra e re-
spiro, si è trasferito dalla campagna alla città. Gli alberi
plantatl SUI marciapiedi conoscono le notturne furie e i
segreti veleni degli abitanti delle case davanti alle quali
sono stati piantati; e anche i passanti non trascurano scor-
tecclamentl mutilazioni e quell'altro più sottile oltraggio
e attentato che nasce, più che da un istinto somigliante a
quello dei cani, dalla persuasione che l'ammoniaca sia per
le piante tremendo veleno. E persino i baroni e i grossi
borghesi che in campagna impongono ai contadini scru-
polose cure agli alberi belli a vedersi, se un'amministra-
zione comunale ne fa piantare qualcuno a filo della loro
casa, così come il barone Puglisi, nel Bell'Antonio di Bran-
cati, quando il comune di Catania fece piantare dei pla-
tani "tutto intorno alla piazza, e davanti alla facciata del
palazzo, alberi possenti che si abbandonarono subito alla
felicità di crescere verso il più luminoso cielo del
mondo". Malinconia e collera spinsero il barone ai passi
più disperati: "Protcstò, mandò lettere ai giornali, sco-
modò il prefetto, il questore, l'onorevole Carnazza e il suo
avversario onorevole De Felice, sebbene si sentisse arros-
sire fin dentro il petto nel salire le scale di questi uomini
che rappresentavano la volontà dei pescivendoli e dei por-
tinai". Finché una notte il vecchio cameriere di casa Pu-
glisi "uscì intabarrato e circospetto dal cancello del pa-
lazzo e s'avvicinò ai tronchi degli alberi che, uno dopo
l'altro, fece oggetto di certe sue cure misteriose. Questa
cerimonia si ripeté per un mese; ed ecco che quegli alberi
dritti, flessibili, cui soltanto il fulmine poteva impedire
di raggiungere il duemila, cominciarono a ingiallire pro-
prio nei punti da cui bevevano la luce. La felicità del ba-
rone, a questi segni di stanchezza che egli fu il primo a
cogliere dal suo balcone centrale, cui gli alberi poggia-
vano la bellissima testa, non conobbe misura. Le disgra-
ziate piante languirono lentamente, vedendo, al di là dei
vetri, in cui nelle giornate di vento erano solite riflettere i
mille giuochi delle loro fronde, una faccia umana diven-
tare tanto più allegra quanto più esse si avvicinavano alla
morte..."
Ma bisogna dire che questo barone che odiava le
piante quanto i libri era di quelli con la gleba attaccata
ancora ai piedi, una specie di Sedara arrivato al titolo
prima che i Borboni se ne andassero o appena dopo che i
Savoia erano arrivati, anche se Brancati dice della nobiltà
del sangue e che non si sapeva quale re lo avesse nomi-
nato barone di Paternò (titolo che nella realtà era dei
Moncada). I veri baroni amavano le piante, alberi ed
erbe; le ricercavano e Importavano, le acclimatavano, le
studiavano, le catalogavano; e le imponevano. "Si prote-
gea da' nobili a' tempi del Cupani con tanto studio la bo-
tanica, che noi troviamo presso il principe di Villafranca
tutte le tavole dell'Orto Cattolico ben disegnate e colo-
rate al naturale raccolte in tre volumi che portano l'anno
i698, e l'intitolazione a Giuseppe del Bosco principe della
Cattolica con una breve prefazione latina dello stesso Cu-
pani" - dice lo Scinà. Il Cupani, amico e discepolo di Sil-
vio Boccone, aveva dedicato cura e studio all'orto bota-
nico stabilito a Misilmeri dal principe di Cattolica, e forse
il libro di cui parla lo Scinà è l'Hortus Catholicus. Successi-
vamente, anche il principe di Villafranca "in un vasto suo
e delizioso podere vicino a Palermo fece il suo orto bota-
nico, né a spese né a diligenza veruna perdonando, ed
ebbe assai nome l'orto secco, che vi volle disposto". Era
un secolo in cui si gareggiava in ogni cosa, quello che si
apriva negli ultimi anni di vita del Cupani: orti botanici
giardini in città, ville in campagna si moltiplicarono. E ii
secolo si chiudeva lasciando Palermo in quel verde che
centocinquant'anni dopo sarebbe stato invaso annientato
sepolto dal cemento.
Alla fine del Settecento, il pretore di Palermo (cioè il
sindaco) principe di Regalmici creava La Flora, quella che
oggi è detta Villa Giulia (ma anche allora), a lato della
Flora, il vicerè principe di Caramanico faceva sorgere
l'orto botanico. Il luogo era quello detto del piano di San-
t'Erasmo, dove si celebravano gli auto da fé dell'Inquisi-
zione. Rievocando questo scorcio di vita della Palermo
settecentesca, Pitrè dice: "Vedeteli con che premura s'av-
viano alla Flora. Si direbbero preoccupati di perdere un
istante dello svago che li attende; si direbbe che in mezzo
a tanto rigoglio di alberi non sorga neppure il ricordo
delle cataste di legna che quivi si alzarono in orrendi auto
da fé; ed al profumo di tanti fiori sentano imbalsama-
re l'aria, non più pregna dei sinistri vapori delle carni
bruciate". Il che si può ripetere anche per quel giardmo,
profumato e rigogliosissimo, che più tardi sorse dentro
la piazza Marina, dove tanta storia dolorosamente passò,
atti di fede e spietate esecuzioni di giustizie e di rappre-
saglie.
Negli alberi che rappresenta, e specialmente nei fcus
magnolioides di cui a Piazza Marina, nella villa intitolata a
Garibaldi, esistono esemplari stupendi, Caruso coglie e
comunica quest'aria sinistra, questo sentore di cenere e di
sangue. Rispetto alle piante belle a vedersi in lui forse
agisce la remota avversione del contadino e una specie di
coscienza dei luoghi orrenda memoria e civile esecrazione,
uguale a quella dei Pitrè quando si meravigliava che nello
svagato e galante passeggio la gente non rlcordasse gh
umani sacrifici che nella Flora l'intolleranza aveva cele-
brato e non sentisse nell'aria, commisti al profumo, i va-
pori della carne bruciata. Nelle piante che egli dipinge ed
incide c'è sempre un che di demoniaco e di carnivoro. Sol-
tanto là palma - non quella bassa, da cui spesso affiora il
volto del mafioso o del voyeur, ma quella alta, che svetta a
immagine dell'uomo - se ne salva. E forse anche in ciò
agisce il sentire popolare, le vecchie radici arabe. Abu-Ha-
tem il Segestano, nel suo Libro intorno alle palme, dice:
"Dio volle formare la palma con quel limo istesso col
quale poco prima aveva foggiato Adamo. La palma è ri-
servata al vero credente, nel paradiso: sotto ad essa potrà
carezzare le vergini dagli occhi neri e casti. L'albero eccel-
lente. Immagine e similitudine dell'uomo, immagine
dello spirito umano... Il palmizio è un dono accordato da
Dio ai soli paesi governati dall'Islam".
Ed è forse perciò che la palma, anche se in Sicilia non
dà frutto, il contadino la rispetta: e sempre la iscrive
come elemento scenografico negli incontri d'amore, e a
volte paragona a lei la donna amata. "Parmuzza d'oru",
dicono i canti. Piccola palma d'oro: araldica, d'oreficeria.
E si pensa a quel verso di Machado: "La palma d'oro e
La corda pazza
l'azzurro sereno". E si rasserena, nella presenza della
palma, 1l mondo da metamorfosi, in cui l'umano e il ve-
getale sembrano sul punto d'imbestiarsi, e così d'incon-
trarsi orrendamente, che Bruno Caruso rappresenta.
LA SICILIA NEL CINEMA
Una felice intuizione della Sicilia è nel racconto di
Isaak Babel' intitolato Di Grasso. I traduttori italiani dei
racconti, Poggioli e Lucentini (edizione Einaudi), avreb-
bero forse dovuto prendersi la libertà di eliminare quel Di
che probabilmente, in Babel', è un inganno della memo-
ria: poiché nel racconto si tratta dell'attore siciliano Gio-
vanni Grasso, di quella sua tournée in Russia di cui a Ca-
tania, e spècialmente nel quartiere in cui è nato, resta an-
cora memoria: per le onorificenze e i doni ricevuti dallo
zar in persona, per le manciate di denaro che al ritorno
l'attore rovesciò in grembo alla vecchia madre.
"Avevo quattordici anni, - comincia il racconto, - e
appartenevo all'intrepida congrega dei rivenditori di bi-
glietti di teatro." A Odessa, naturalmente. E un bel
giorno arriva, come nel secondo atto del San Giovanni De-
collato, Giovanni Grasso con la sua compagnia: "Arriva-
rono all'albergo in carri zeppi di bambini, di gatti, di gab-
bie con dentro saltellanti uccellini... Appena arrivato, l'at-
tore se ne andò al mercato con una borsa. La sera arrivò al
teatro con un'altra borsa. In teatro non c'erano più di cin-
quanta persone. Avevamo provato a vendere i biglietti a
metà prezzo, ma non s'erano trovati amatori".
Il lavoro, un dramma popolaresco d'ambiente siciliano,
era banale: "una storia qualunque, come chi raccontasse
che dopo la notte viene il giorno e dopo il giorno la
notte". "Robaccia", si commenta alla fine del primo atto.
Ma alla fine del terzo gli spettatori si precipitano alla
cassa, a mettersi in coda per lo spettacolo dell'indomani.
Nel corso di quella visita Grasso ci recitò il Re Lear, l'0-
tello, la Morte civile e il Parassita di Turgenev, conferman-
doci con ogni parola e con ogni gesto che c'è più giustizia
e speranza nella frenesia d'una generosa passione che nelle
squallide regole del mondo."
Nella serata d'addio, Grasso ripresenta il dramma che
aveva dato in debutto. Ma il giovane rivenditore di bi-
ghetti va a vederlo con la morte nel cuore: poiché ha de-
ciso di lasciare Odessa l'indomani, a causa d'un orologio
d'oro del padre, che aveva impegnato da Kolja Schwarz e
che ha perduto ogni speranza di riavere. Ma Kolja, queila
sera, ha avuto la cattiva idea di portare a teatro la moglie.
una povera donna "con un visetto sbattuto e assonnato in
clma al grosso corpo avvolto in uno scialle viola con la
frangia" che però prende fuoco a contatto della passione
di Grasso. Uscendo dal teatro dice al marito: "Disgra-
ziato! Adesso hai visto che cos'è l'amore..." E poi:
Kolja camminava. mogio accanto alla moglie, soffiando pian
piano sotto i baffoni di seta. Io lo seguivo piagnucolando, con
la forza dell'abitudine. Madame Schwarz, che aveva interrotto
un Istante le sue recnminazioni, mi senrì e si voltò
"Disgraziato, - dissè al marito strabuzzando i suoi occhi di
pesce, - mi venga un colpo se non restituisci subito l'orologio a
questo ragazzo!"
Kolja restò un momento a guardarla a bocca aperta, poi si
declsc e mi passò di sghembo l'orologio, con un pizzico da
farml saltare m aria.
"Che cosa ho, - continuò la donna mentre s'allontanavano,
con la sua grossa voce sconsolata e piangente, - che cosa ho io
da luI? Cose da bestie oggi, cose da bestie domani... Io ti
chiedo, vagabondo, quanto credi che possa resistere una donna,
m questo modo?"
Arrivarono all'angolo e voltarono in via Puskin. Io restai lì
stringendo l'orologlo, solo. E d'un tratto, con una chiarezza
straordmaria, mau provata prima, vidi le colonne slanciate del
palazzo della Duma, gli alberi illuminati del Boulevard, l'in-
certo riflesso della luna sul bronzeo busto di PuVskin; vidi, per la
rima volta, la mia città come realmente era: silenziosa, e d'una
bellezza che non so desaivere.
Che, attraverso Grasso, Babel' intuisca la Sicilia, un
luogo in cui la passione vittoriosamente contrasta alle
"squallide regole del mondo", non c'è dubbio. Di un per-
sonaggio sulla scena dice che "le pieghe del suo panciotto
brillano sotto il sole di Sicilia"; e un pezzo di Sicilia di-
venta, pff la presenza di Grasso e delle sue attrici, il vi-
colo del teatro. Una Sicilia quale si poteva intuire attra-
verso Grasso: la faccia appassionata, generosa, un tantino
convenzionale della Sicilia.
In questo senso, noi diciamo che la Sicilia entra nel ci-
nema con Giovanni Grasso protagonista del film Sperduti
nel buio: gente che gode e gente che soffre. Un film che pos-
siamo dire siciliano, oltre che per l'interpretazione di Gio-
vanni Grasso e di Virginia Balistrieri, anche lei attrice del
teatro siciliano, per la regia di Nino Martoglio. "La pre-
sentazione di due ambienti contrastanti, - dice Umberto
Barbaro, - quello del fasto e del vizio e quello della mise-
ria, ha portato il regista del film, il drammaturgo siciliano
Nino Martoglio, a intuire e ad applicare, fin dal prologo,
una delle più potenti forme di montaggio, il montaggio
di contrasto e di parallelismo; anticipando così non solo
Griffith ma anche, quasi di due lustri, i grandi risultati ar-
tistici e le limpide teorie del Pudovkin... L'inquadratura e
la fotografia di Sperduti nel buio sono assai belle, e addirit-
tura stupefacenti se ci si riferisce al tempo in cui il film fu
prodotto: assai semplici, appaiono costantemente, come si
conviene, determinate dalle esigenze della narrazione: il
rilievo plastico è grandissimo come vuole la drammaticità
dell'assunto etico e artistico del film, e l'inquadratura, mai
vanamente preziosa, dà stacco al particolare necessaria-
mente più evidente, con una crudezza luministica che as-
sai bene armonizza col generale realismo cui tutta l'opera
è improntata. Con perfetta coerenza stilistica, il realismo
si accentua via via fino a divenire ossessione e a superare uno stato d'animo di
cui si può avere intuizione, e in
se stesso per farsi slgnlficato e simbolo. E si è già dunque qualche modo è
possibile darne ragguaglio d arte, di poe-
al di là di una maniera artistica, ma è una maniera di ve- sia, anche senza una
diretta visione e conoscenZa
dere il mondo che si fa, nell'esprimersi, arte." Ma quella di Ugo Falena non era
la prima (népur-
Quel che manca, nel preciso saggio di Barbaro su que- troppo, l~ultima) versione
cinematografica di Cavalleria
sto fllm, è 1l nome di Verga. Perché bisogna pur chiedersi rusticana. Nel
gennaio del 1912, Verga scriveva a De Ro-
come mai nel 1912, in piena stagione dannunziana e den- bertoFigurati che di
Cavalleria rusticana ne fecero una
tro una fiorente industria del cinema prevalentemente in- rappresentazione che
io non arrivavo a capire quando an-
dirizzata al film in costume, al film "storico" (e nell'anno dai per curiosità a
vederla. Ma tant è così serviva a loro A
successivo si sarebbe toccato il vertice della fortuna com- sceneggiare le mie
novelle o romanzi ed anche il mio tea-
merciale col Quo vadis?), sia nato un film come Sperduti tro, figurati! A quello
scopo io dunque non sono adatto e
nel bu~o. E la rlsposta non può essere che questa: che in , non saprei fare.
Vedi se riesce a te E qualche mese
Italia c'era, benché in disparte, benché quasi miscono- I dopoNon mi sento di
metterci mano nei miei lavori,
SclutO, Glovanni Verga; e che Martoglio, Grasso, la Bali- ner il diverso valore
e intendimento artistico dato al qua-
strieri (di lei Barbaro dice: "Nessuna Greta Garbo potrà dro, spesso disegnato
di scorcio, di sottinteso, quasi, con
mai fare altrettanto") provenivano da quel mondo, da I sobria pennellata che
sarebbe sciupata altrimenti dallin-
quella esperienza, da quella verità. Che il soggetto fosse I grossamentO
fotografico. Figuratevi le mie viscere paterne
del napoletano Bracco, e napoletano l'ambiente, conta ed anche un poco il mio
amor proprio di autore, se vo-
poco E poco conto avrà fatto, lo spettatore di allora, dei lete Per me è
questione di probità letteraria quasi Non
valori di regia del film, e che regista fosse il siciliano Mar- posso quando ho
visto Cavalleria rusticana! Ma forse an-
toglio. Ma Grasso, Grasso che si portava appresso la Sici- dava rappresentata
così, pel cinematografo
lia anche ad Odessa, in Sperduti nel buio era - "perentoria- Ma il lS maggio
1913, alla contessa Dina di Sordevolo:
mente siciliano", come qualcuno ha detto - l'elemento ca- "Vi spedisco oggi
stesso raccomandatO, per maggior sicu
talizzatore della cruda realtà che il film declinava, del rea- rezza, il
manoScritt° della Storia di una capinera pel cine-
p a strada matografo che mi par riuscita abbastanza bene. Fatemi
però il piacere di non mandarlo tal quale, prima di tutto
t~erché i miei sgorbi sono di tal difficile lettura che chi ci
fosse obbligato si seccherebbe facilmente e farebbero
certo torto al contenuto, in secondo luogo perché non vo-
glio confessarmi autore di simili contraffazioni artistiche,
buone soltanto a cavarne qualche utile, se potesse a voi
servire. Fatemi dunque il gran favore di tenermi il se-
greto, e di ricopiare, quando ne avrete il tempo, il mano-
scritto che dareste come cosa vostra, per cui e stato fatto,
difatti, cara amica mia".
Ma "la mania cinematografica frutta enormemente più
del teatro ormai": e Verga non riesce a starne lontano. E
convinto che nel cinema "l'ingrossamento del quadro e
Le opere di Verga non ebbero, negli anni del cinema
muto (e tutto sommato nemmeno dopo), la fortuna che
toccò a Roberto Bracco con Sperduti nel buio. Ma è attra-
verso Verga, nella realizzazione della Cavalleria rusticana
diretta da Ugo Falena, che la Sicilia entra nell'occhio del
cinema: la terra siciliana, il paesaggio. Un giornale dell'e-
poca dice che gli interni sono "una fedele ricostruzione
dell'ambiente" e gli esterni siciliani di "incomparabile
bellezza". Noi abbiamo qualche dubbio sul fatto che gli
esterni siano stati effettivamente girati in Sicilia: ma
tant'è che apparvero e significarono Sicilia. Del resto la
Sicilia è, come la Spagna, un luogo, un modo di essere,
della sintesi è necessario e necessariamente brutale" e ras-
segnato abbandona nelle mani dell'amica, di De Roberto
di altri le sue cose. "Io ve l'abbandono ac cadaver " Caval-
leria rusticana, Storia di una capinera, Caccia al lupo, Tigre
reale, L'amante di Gramigna... Ma "del Mastro don Ge-
sualdo e dei Malavo~lia sembra anche a me che non c'è da
far nulla pel gusto di questo pubblico"
Non c'era da far nulla: ma non soltanto per I Malavo-
glia e per Mastro don Gesualdo; non c'era da far nulla, nel
cinema, per la realtà, per la condizione umana, per i pro-
blemi della Sicilia e del Meridione d'Italia. E non soltanto
nel cinema: poiché mentre Verga teneva corrispondenza
in fatto di cinema con De Roberto e con la contessa di
Sordevolo, il marchese di Sangiuliano, cui De Roberto si
era ispirato per il Consalvo dei Vicerè, era ministro degli
esteri del Regno d'Italia - tanto per fare un esempio, e
l'Italia usciva dalla guerra di Libia, con Tripoli bel suol d'a-
more che ancora vibrava negli ottoni delle bande munici-
pali, e stava per entrare nella grande guerra.
Sugli schermi cinematografici la Sicilia riaffiora col
volto, la mlmlca e la parola di Angelo Musco: tra il 1932
e il 1937, in una decina di film prevalentemente tratti da
commedie m dialetto del suo repertorio. Un grande at-
tore e come Giovanni Grasso era la faccia tragica della
Slchia, Musco ne offrlva il rovescio grottesco e comico.
Ma il cinema non seppe, né allora poteva, conveniente-
mente sfruttarlo: Musco fu il comico di una certa dialetta-
lità di genere, di maniera; che era del resto la sola espres-
slone reglonale che il fascismo tollerasse Anche Pensaci
Giacomino! di Pirandello e L'aria del continente di Nino
Martogho, due commedie che nella trasposizione cinema-
tograflca avrebbero permesso un approfondimento della
realtà siciliana, non si distinguono dagli altri film di Mu-
sco. Una fotografia di Mussolini, mentre guarda Musco
che per lui sta mimando una scena del Feroce Saladino, è
m questo senso eloquente: Mussolini ride francamente
spensleratamente. Si diverte. E Musco era un attore che
aveva in sé tante possibilità per non divertire il dittatore.
Un film che avrebbe dovuto invece impensierire Mus-
solini, o comunque non essere gradito ai fascisti, è tuttora
considerato 1860 di Blasetti. Racconta la storia di un pa-
store siciliano che lascia la giovane sposa e scappa a Ge-
nova ad arruolarsi tra i Mille: e sbarcando con loro m Sl-
cilia, la sua storia si fa storia di popolo, dell'intero popolo
meridionale, nell'epopea garibaldina.
Corrado Alvaro scrisse: "Tecnica interessante in quan-
to lega a una esperienza personale e a un fatto singolo un
evento collettivo, e il personaggio di una vlcenda diviene
capo di un movimento, ingigantisce con le stesse dimen-
sioni della folla, e il corso d'una avventura si trasforma ma-
terialmente in una corrente rovinosa d'uomini e d'idea"; e
faceva richiamo alla Corazzata Potemkin. Ma noi il film lo
abbiamo visto parecchi anni dopo: e riconosciamo, con
Mario Gromo, che "il vero pregio del film è di affidare al-
l'obiettivo la responsabilità maggiore"; che c'è in esso,
come vuole Lizzani, "la straordinaria scoperta del paesag-
gio, la coraggiosa ricerca di personaggi e ambientl popo-
lari, il crudo realismo delle pagine plU felici, ll tentatlvo di
dar vita a uno stile severo e a un'atmosfera inconfondibil-
mente italiana, la scelta dei tipi, l'uso ardito del dialetto, la
tecnica scarna e limpida": ma tutti questi pregi non sono
in effetti che di dettaglio relativamente all'assunto "sto-
rico", fondamentalmente falso. Quel Carmine pastore, Bla-
setti non l'ha certo trovato nella storia siciliana, nella realtà
(nella realtà trovò invece i due protagonisti del film: Aida
Bellia e Giuseppe Gulino, siciliani presi dalla strada, se
non addirittura dalla campagna). Il film cade appunto
nella "esperienza personale", nel "fatto singolo", nel perso-
naggio: ché Blasetti ha mutuato l'esperienza di un Gla-
cinto Carini o di un Narciso Cozzo in quella di Carmine
pastore. Negli eventi del 1860, i contadim e I paston SlCI-
liani facevano in realtà ben diversa esperienza: e quanto sia
difficile, se non pericoloso, dare testimomanza cinemato-
grafica di una tale esperienza, lo sa bene Florestano Van-
cini. Blasetti ha potuto, negli anni del fasclsmo, realizzare
il suo 1860; Vancini non riesce, nell'Italia democratica e
in un momento in cui il partito socialista in qualche
modo condiaona il governo dello Stato, a realizzare quel
film che appassionatamente ha preparato sui "fatti di
Bronte" (e chi voglia farsi un'idea della materia su cui
Vancini ha lavorato cerchi il saggio Nino Bixio a Bronte di
Benedetto Radice e rilegga la novella di Verga Libertà). Il
fascismo, insomma, non aveva di che preoccuparsi relati-
vamente al film di Blasetti: democratico e antidemocra-
tico come per "dottrina" si definiva, poteva tutt'al più
mettere il 1860 in conto del primo termine; peraltro usato
non ad Indicare un sistema, una costituzione, un diritto
ma una certa vena di sentimento populistico cui il capo e
una parte della base qualche volta si abbandonavano
Il film di Blasetti avviò il cinema italiano di allora ad
una "scoperta della Sicilia", ma con incidenza ed effetti
non paragonabili a quelli dell'attuale riscoperta. Amleto
Palermi realizzò una nuova Cavalleria rusticana, il cui me-
rito era principalmente quello di una colonna sonora che
invece della solita musica di Mascagni, utilizzava motivi
popolari siciliani. Da due novelle di Pirandello, sceneg-
giate da Corrado Alvaro, Mario Baffico traeva il film
Terra di nessuno: e parve allora opera di un certo ardi-
mento, e con sospetto fu guardata dai fascisti, tanto che
Corrado Alvaro si trovò costretto a dichiarare: "il film
non ha nessuno sfondo politico, non ha nulla da dimo-
strare poiché il problema oggi non sussiste". Il problema
era quello del latifondo: e non sussisteva soltanto per il
fatto che il governo aveva fatto affiggere manifesti in cui
si vedeva un contadino che dava di vanga su un pezzo di
terra e la dicitura "assalto al latifondo" (bisogna qui ag-
giungere che queste piccole debolezze Alvaro non se le
perdonò, come si vede dai suoi diari; mentre altri scrittori
se ne sono perdonate e ne hanno dimenticate di più
grosse). Il film parve a Gino Visentini "singolare e corag-
gioso", pieno di "quel senso di fatalità e di cupa forza na-
turale che è nello spirito del soggetto, di un Pirandello
che più risente del clima e delle tradizioni della Sicilia".
Dal romanzo di Capuana Il marchese di Roccaverdina
Ferdinando Maria Poggioli trasse il film Gelosia: in cui gli
elementi ambientali del romanzo venivano del tutto tra-
scurati, ma i personaggi, la loro psicologia, trovavano non
comune risalto. E Luigi Chiarini, storico e teorico del ci-
nema, realizzava La bella addor~nentata, dalla commedia
omonima di Rosso di San Secondo: un film nei particolari
accuratissimo, ma nell'insieme incoerente e disperso.
(Stiamo a questo punto sperimentando la difficoltà in cui
viene a trovarsi il critico e lo storico del cinema o chi,
come noi, tenta un particolare e occasionale ragguaglio su
cose cinematografiche: non ha altro aiuto che la memo-
ria, e a distanza di anni è un aiuto tutt'altro che slcuro.)
Questo film di Chiarini è del 1942. Nello stesso anno
uscivano il Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati e
la raccolta di poesie Ed è subito sera di Salvatore Quasi-
modo. L'anno precedente Brancati aveva pubblicato Gli
anni perduti, e nel l940 era uscito Conversazione in Sicilia
di Elio Vittorini.
In una nota Vittorini dichiarava: "Ad evitare equivoci
o fraintendimenti avverto che, come il protagonista di
questa Conversazione non è autobiografico, così la Sicilia
che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sici-
lia, solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome
Persia o Venezuela. Del resto immagino che tutti i mano-
scritti vengano trovati in una bottiglia". Ma nel 1953, a
giustificare una edizione del libro con fotografie di luoghi
siciliani, aggiungeva una seconda nota: "Ma anche una
bottiglia, posso aggiungere ora, è un oggetto di questo
mondo..." La Sicilia di Conversazione non era dunque "solo
per avventura Sicilia", e i lettori del 1940 lo avevano già
capito. Il libro segnava anzi il ritorno ad una conversaz~one
che aveva già, per dirla con Auden, i suoi "sacred meri-
dian names: Pirandello, Verga, Bellini", i suoi sacri nomi
meridiani; una conversazione (sulla condizione umana,
sulle dilacerazioni dell'essere, sul dolore, il destino, la bel-
lezza, l'eros) che gli strati e gli incroci della storia, delle
civiltà, deputavano alla Sicilia.
Verga e Pirandello: gli ultimi cento anni della lettera-
tura italiana hanno un senso e un valore soprattutto per
la loro opera. E ci sono anche De Roberto e Capuana; e
Nino Savarese e Francesco Lanza che negli anni tra le due
guerre sommessamente continuarono la conversazione in
Sicilia ripresa poi con maggior libertà da Vittorini Quasi-
modo e Brancati (e da Guttuso, Greco, Mazzuilo, Mi-
gneco, Caruso nelle arti figurative).
Il cinema non poteva non inserirsi in questa conversa-
zione: e l'ha fatto a suo modo, generalmente con quell'in-
grossamento del quadro e della sintesi che Verga paventava
cogliendone i tratti più pesanti, i toni più accesi, ripor-
tando alla "particolarità" (al folclore, al costume: singo-
larl di una gente singolare, e quindi con un tanto di di-
stinzione razziale) quegli elementi stessi che gli scrittori e
gh artlstl siciliani assumevano sotto specie di universalità
che estraevano dalla storia e nella storia li dichiaravano
cioè dall'esperienza e nell'esperienza universale.
Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno
direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema La Sici-
lia come "mondo offeso"; la Sicilia come teatro della
commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di
verità. Quest'ultimo tema è stato, per così dire, il più
sfortunato: appunto perché è il più difficile, il più arduo
da rendere, da articolare, da motivare al di fuori della con-
dizione e grazia della poesia, qual è appunto in Quasi-
modo. Si consideri che il più recente frutto di un tal tema
è l'ignobile film di Negulesco che s'intitola Jessica: in cui
un prete francese e una levatrice americana trovano a
Forza d'Agrò, in provincia di Messina, le ragioni della
loro vita; cioè, rispettivamente, una popolazione canora e
ballerina, un improbabile castellano
Ma gli altri due temi - la Sicilia "mondo offeso", la Si-
cilia comico-erotica - hanno dato al cinema italiano opere
tra le più significative dalla fine della guerra ad oggi: da
La terra trema di Visconti a Divorzio all'italiana di Germi,
da Anni diffi~ili di Zampa al Salvatore Giuliano di Rosi.
Naturalmente noi, qui, consideriamo queste opere per il
loro contenuto, per l'effettuale rapporto che esse hanno
(o non hanno) con la realtà siciliana: queste opere ed al-
tre, di buona levatura o scadenti che siano. E in questo
senso diciamo subito che il film di miglior resa, relativa-
mente a tale realtà, è il Giuliano di Rosi. Ma conviene se-
guire l'ordine cronologico.
1947: dal racconto di Brancati ll vecchio con gli stivali,
Luigi Zampa realizza il film Anni difficili. Oggi, col Gat-
topardo di Visconti all'orizzonte, molto si discute sul rap-
porto tra film e opera letteraria: e si è pregiudizialmente
tutti d'accordo, pare, nel considerare come sintomo di
crisi, di stanchezza, di esaurimento del cinema il ricorso
che si va facendo più frequente alle opere narrative; ma
non tutti d'accordo sulla natura del rapporto, sui modi,
sulla fedeltà o libertà dell'autore del film nei riguardi del-
l'opera narrativa. Anni difficili è il caso di un film assolu-
tamente fedele all'opera letteraria.
Sulla rivista "Cinema", prima della guerra, Giacomo
Debenedetti recensiva i film in base a un criterio che può
anche apparire peregrino ma che in effetti obbediva a sen-
sata considerazione: autore del film, veniva ad affermare
Debenedetti, è colui che, nel lavoro di collaborazione da
cui sorge l'opera cinematografica, impone agli altri la pro-
pria personalità o che comunque, fortuitamente o meno,
li sovrasta; per cui, ad esempio, autore della Buona terra
poteva essere considerata l'attrice Luisa Rainer e di Par-
nell il fotografo Karl Freund, e così via. Ora, anche senza
adottare in ordine generale tale criterio, autore del film
Anni difficili può essere considerato Vitaliano Brancati:
soggettista e sceneggiatore. E non si vuole con ciò to-
gliere merito a Zampa, anzi: poiché, a veder nostro, il
rapporto tra l'opera letteraria (quando si tratta di un'o-
pera letteraria perfettamente articolata e conclusa, rac-
conto o romanzo che sia) e il film deve o risolversi nella
fedeltà di questo a quella o non porsi neppure. E s'in-
tende che non si vuol dare al termine fedeltà il significato
di una pedante e minuziosa trascrizione, di illustrazione
cinematografica di un testo: fedeltà, come si suol dire,
allo spirito, all'idea. E ci riesce difficile, in proposito, ca-
pire le ragioni per cui Visconti abbia voluto realizzare 11
gattopardo (da quel che se ne dice e dalle dichiarazioni del
regista stesso: senza ancora aver visto il film): ché ll risor-
gimento in Sicilia di Rosario Romeo avrebbe potuto offrir-
gli più coerente materia d'ispirazione del Gattopardo
stante l'idea che Visconti ha (che noi abbiamo) di questo
momento della storia siciliana e nazionale. Senza dire che
I vicerè di Federico De Roberto era un libro già più vicino
alle sue idee, anche se lontano dal suo temperamento E
qui cadrebbero in taglio, sulla personalità di Visconti; le
definizioni che, da punti di vista diversi, ne hanno dato
Barbaro e Arbasino: e a queste definizioni possiamo in
parte rifarci per motivare le nostre perplessità anche nei
riguardi della Terra trema ( 1948).
Lasciando da canto il nostro personale pregiudizio nei
riguardi della cosiddetta "libera ispirazione" dall'opera
letteraria, e in questo caso da un'opera come I Malavoglia
non riusciamo a spiegarci quale ragione (al di fuori, be-
ninteso, del suo temperamento) abbia portato Visconti a
rovesciare linguisticamente il Verga così come, pare, ab-
bia ideologicamente rovesciato il principe di Lampedusa.
Perché il vernacolo (non si può nemmeno parlare di dia-
letto), un vernacolo così stretto e concitato da riuscire, in
parte, di difficile comprensione agli stessi siciliani? Quali
i motivi che lo portano nel 1948, ad operare una "regres-
sione" nel vernacolo dei mondo verghiano?
Nel Verga di Russo e in un'acuta noterella di Pier
Paolo Pasolini (in "Galleria", VI, 5-6) sono considerati i
motivi di una breve polemica tra Alessio Di Giovanni e il
Verga. Non si può nemmeno dire una polemica: il Di
Giovanni si era chiesto perché mai il Verga non avesse
scritto I Malavoglia in dialetto, e il Verga aveva risposto
con una lettera "teoricamente alquanto incerta, sentimen-
talmente poco persuasiva", come giustamente dice Paso-
lini. La risposta di Verga era in effetti il libro stesso
quella di Pasolini è che "Verga - per quanto inconscia-
mente e intuitivamente - era più moderno del Di Gio-
vanni: c'era in lui meno ritardatario romanticismo". E
poiché Visconti ha voluto cinematograficamente riscri-
vere I Malavoglia, così come Di Giovanni riscrisse La
lupa di Verga nei versi di Lu fattu di Bbissana, possiamo
anche mettere in conto di Visconti un certo "ritardatario
romanticismo". La terra trema è opera meno moderna dei
Malavoglia, anche se più moderni ed attuali sono gli "ac-
cidenti" della storia, della vicenda.
A questo giudizio si può opporre, naturalmente, l'esi-
genza documentaria che è alla radice del film: ma sarebbe
un far torto all'artista che Visconti è. E in quanto alla resa
della realtà noi, da semplici spettatori, abbiamo avuto
l'impressione che quel mondo, fisicamente siciliano, fosse
toccato da un che di nordico: come se all'ispirazione di
Visconti avesse presieduto John Millington Synge e non
Giovanni Verga. Ciò non toglie che il film abbia messo a
fuoco un conflitto economico tipico della società siciliana:
e con notevole forza drammatica, con vigore di stile. Il
film, in definitiva ha ceduto proprio nella ragione stessa
da cui, stando alia dichiarazione di Visconti, era nato:
"Un film nasce da una condizione generale di cultura.
Non potevo partire volendomi accostare alla tematica
meridionale, che dai più alto livello artistico raggiunto
sulla base di tale contenuto: Verga".
Una Sicilia più remota, la Sicilia del feudo, della mafia,
appare sugli schermi col film In nome della legge di Pietro
Germi, tratto dal libro Piccola pretura di Guido Lo
Schiavo. Del libro il senatore Simone Gatto, in un di-
scorso del 26 aprile 1961, disse che "soltanto la cattiva co-
noscenza del fenomeno, anche da parte delle sinistre, poté
far scambiare per un libro contro la mafia", "libro da cui
fu tratto il film In nome della legge, libro e film sostanzial-
mente benevoli verso la mafia". Giudizio che, alleggerito
di quel sostanzialmente benevoli, va così motivato: il Lo
Schiavo, ma istrato partecipa di un'opinione sulla mafia
piuttosto diffusa neila classe colta siciliana, la mafia come
forza eslege ma con profonda aspirazione alla legge, alla
giustizia, e dunque disponibile per una trasmutazione in
forza d'ordine; Germi, trovandosi di fronte ad una inter-
pretazione della mafia come quella del Lo Schiavo o, più
esattamente, a una materia narrativa improntata a un so-
stanziale ottimismo e nei riguardi dell'uomo in generale e
della mafia in particolare, veniva a scoprire che il West il
cinema italiano lo aveva in casa, a portata di mano, che la
mafia, tutto sommato, e la Sicilia del feudo, potevano es-
sere assunte nei moduli del western: con personaggi un
po' fuorl della legge ma pronti a rientrarvi, il buon pre-
tore al posto del buon sceriffo, la plaga del feudo in luogo
delle selvagge solltudini dell'ovest.
Il film operò suggestivamente a stabilire sulla mafia
una "idea corrente", come tutte le "idee correnti", lontana
dalla effettuale realtà del fenomeno (in un dizionario alla
Flaubert la voce mafia, come corre nella società italiana
potrebbe essere così registrata: "In nome della legge.
Montanelli ha avuto un colloquio con don Calò. I sici-
ham la legge se la fanno da sé"). Quella che Aristarco
chiama "la pacificazione della mafia con la legge dello
Stato", una specie di lieto fine sociale, finiva col soddi-
sfare tutti: tranne, s'intende, i siciliani che della mafia
avevano ben diversa esperienza e facevano opposto giudi-
ZlO. E sarebbe bastato spingersi, non diciamo alle analisi
di Leopoldo Franchetti o di Salvatore Francesco Romano
ma alle pagine di Cesare Mori, per accorgersi che la paci-
ficazione della mafia con la legge dello Stato non poteva
nemmeno porsi "come una specie di augurio del regista,
un invito alla legalità" (Aristarco). La società siciliana ha
bisogno di ben altro augurio: che la legge dello Stato si
instauri contro la mafia e non coll'aiuto della mafia.
Germi, socialdemocratico in politica, è nell'arte incline
ad un ottimlsmo in CUI mdividuali rivoluzioni sentimen-
tali vengono a surrogare e ad elidere istanze rivoluziona-
rie collettive. Come Frank Capra rispetto al new deal, egli
ha fede nella nuova democrazia italiana, nei governi con
l'onorevole Saragat alla vicepresidenza: che, è vero, non
tirano fuori mente di simile al new deal, ma comunque
I a corda bazza 1215
4 La corda pazza
consentono compromissioni tra la bontà e la legge, tra i
bisogni e la speranza. Così, appunto, nel Cammino della
speranza (realizzato nel 1950): storia dell'espatrio clande-
stino di un gruppo di zolfatari siciliani, reso possibile
dalla inosservanza del proprio dovere da parte di una
guardia di frontiera. E come nel film In nome della legge
era la mafia che abdicava alla propria legge per pacificarsi
con quella dello Stato, nel Cammino della speranza è la
legge dello Stato che scende a pacificarsi con i diseredati.
E non è, in effetti, la guardia di frontiera che lascia pas-
sare in Francia gli zolfatari di Capodarso: è lo Stato
stesso, è l'Italia che si prepara al cosiddetto miracolo eco-
nomico, che chiude gli occhi mentre le sue masse disoccu-
pate fluiscono nelle campagne francesi, nelle miniere del
Belgio e della Germania (il cammino della speranza fi-
niva anche a Marcinelle).
La scoperta della Sicilia da parte di Germi equivale alla
scoperta di una frontiera della storia nazionale, una specie
di frontiera americana nella storia d'Italia: e diciamo nel
senso che la nozione di frontiera ha assunto passando in
America dalla storia, e dalla teoria storica, al cinema: un
mondo, cioè, di sentimenti primordiali che esprime e co-
stituisce da sé la legge e che a suo modo, nella speranza,
cammina verso la Costituzione. Nobilissimo intendi-
mento, e non del tutto astratto: solo che i problemi della
Sicilia nella storia d'Italia hanno diversa articolazione.
Tre anni dopo, Germi tornava alla Sicilia: a riportare
sullo schermo, ancora col titolo di Gelosia, 11 marchese di
Roccaverdina di Capuana; un film che, a parer nostro, non
è niente meglio di quello di Poggioli. Resta comunque si-
gnificativo il fatto che Germi abbia mutuato la Sicilia
frontiera sociale con la Sicilia frontiera passionale: prelu-
dio a quel Divorzio alPitaliana che è indubbiamente il suo
film migliore, il più felice; in cui la materia passionale è
deliziosamente rovesciata sotto i segni dell'eros comico
brancatiano; in cui la Sicilia si fa teatro di una commedia
della società italiana.
La corda pazza La corda pazza
La Sicilia come luogo della passione sollecita quasi
contemporaneamente Roberto Rossellini e William Die-
terle: con risultati disastrosi e per la Sicilia e per i due re-
gisti. E non tanto per Dieterle, il cui Vulcano vale quanto
qualsiasi altro suo film, quanto per Rossellini che forse
aveva più alte ambizioni: e voleva probabiimente, in
Stromboli, terra di Dio, dare nuova declinazione della dua-
lità nord-sud. Tema già, in ogni senso, scontato: da Goe-
the a "Lorenzo in Taos" (in Taormina), da Rosso di San
Secondo a Gide. E già il titolo dichiarava la partita per-
duta, il film risolto nell'ennesima convenzionale vittoria
del sud in quanto natura, in quanto terra di Dio Un
luogo comune letterario, che non può reggere nemmeno
in un racconto da terza pagina: e Rossellini ha voluto
farne un film d'impegno, interpretato dalla più grande at-
trice del momento.
Il film Stromboli fu prodotto da Rossellini e dalla Berg-
man; Vulcano dalla Panaria Film, siciliana, e dall'ameri-
cana Artisti Associati. E curioso che una società siciliana,
sorta con una certa stabilità di capitali (altre società sorte
nel dopoguerra m Sicilla si erano subito bruciate: la OFS
la Epica Film, la Hidalgo Film), nel clima dell'autonomia
reglonale fmalmente guadagnata, invece che impegnarsi
ad una produzione siciliana, di film che dessero della Sici-
lia, della sua vita, dei suoi problemi vero e profondo rag-
guaglio, abbia commclato con un film falso e sciocco E
si consideri che alla sceneggiatura fu chiamato Erskine
Caldwell, mentre scrittori siciliani come Brancati e Patti
erano in piena attività cinematografica. Né altri film che
la Panaria Film produsse toccarono più la Sicilia, anche se
il livello artistico di essi si levò di molto su Vulcano: La
carrozza d'oro di Jean Renoir, Vacanze d'amore di Jean
Paul Le Chanois. E un'altra società siciliana, la Faro Film
di Messina, nel 1951, produsse ll cappotto.
Il nord-sud, nella briosa dualità di un caso di bigamia
torna nel film di Castellani E primavera. E succede una
pausa, una battuta d'aspetto.
Ricomincia Michelangelo Antonioni: con una Sicilia
calligrafica, una Noto che sembra colta attraverso il dia-
framma di una pagina di Cesare Brandi ("Codesta città
dunque, s'incontra ancor più come una cosa morta che
come cosa viva, restituita da un naufragio, risollevata da
un cataclisma... L'effetto di finta prospettiva, insieme con
questo senso di entrare in una pittura... Queste strade
dunque, nonché risolversi, come certa facile critica po-
trebbe dedurre, in un effetto più decorativo che struttu-
rale, esasperano la qualità stessa dell'architettura, di creare
una spazialità propria e di precluderla all'esistenza, che vi
sarà solo tollerata": che pare, quest'ultima frase, una defi-
nizione del mondo di Antonioni; un mondo in cui l'esi-
stenza è solo tollerata). Noto, dunque, e la Sicilia, sol-
tanto come elementi di quella complicazione del gratuito
cui accanitamente Antonioni è dedito: come quegli ele-
menti che fanno del berretto di Carlo Bovary un oggetto
maledettamente complicato e metafisicamente stupido.
Ricordate? "Era un copricapo d'ordine composito, in Ni
si potevan riconoscere gli elementi del Nffiotto di pelo,
del ciapska, del cappello tondo, del caschetto di lontra e
del berretto di cotone, una di quelle povere cose, in-
somma, che hanno nella loro muta bruttezza non so che
profondità d'espressione, come il volto di un imbecille.
Clvoidale, tenuto su da stecche di balena, esso cominciava
con tre salsicce arrotolate; vi si alternavano, poi, separate
da una fascia rossa, delle losanghe di velluto e di pelo di
coniglio; indi veniva una specie di sacco che terminava in
un poligono cartonato, coperto da un intricato ricamo di
galloni; donde pendeva, in capo a un lungo cordone
troppo sottile, un gomitolino di fili d'oro, a modo di nap-
pina..." Ma si capisce che noi a questa povera cosa, a que-
sta muta bruttezza, a questa stupidità Ni l'umano si ri-
duce nei film d'Antonioni non manchiamo d'attribuire
"profondità d'espressione", e in senso diverso da quello
che Flaubert attribuisce al berretto di Carlo Bovary. Ma la
Sicilia, comunque, vi ha incidenza soltanto figurativa e
non di contenuto.
Abbiamo alluso, è evidente, all'Avventura: che corre
dall'isola di Panarea a Noto a Taormina, ma come su un
tapis-roulant (riprendendo ancora una immagine di Bran-
di) entro una fmta prospettiva.
Nel 1960 Mauro Bolognini, regista che a quanto pare
non può fare a meno di un'opera letteraria per realizzare
un film, dà ll bell'Antonio di Brancati: film mediocre e fa-
tuo, da un libro piuttosto arduo e complesso. (Brancati è
uno scrittore profondo: e ci affranca dalla repugnanza con
CUI solitamente usiamo per uno scrittore questo aggettivo
ll fatto che abbla avuto tanti lettori superficiali, Bolo-
gnini incluso.)
Intanto nella vita politica italiana qualcosa si muove
forse sta accadendo quel cambiar tutto per non cambiar
niente che il principe di Lampedusa ha scoperto come
una costante della storia siciliana (e nazionale). Fatto è
che si comincia a parlare di cose la cui esistenza, appena
un paio d'anni prima, veniva celata o negata. La mafia
per esempio; le complicità e implicazioni politiche e am-
ministrative, le compromissioni dello Stato, nel caso del
bandito Giuliano; le ciniche soluzioni individuali opposte
all'indissolubilità del matrimonio
Il film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi segna que-
sto trapasso (mentre in televisione avviene qualcosa di si-
mile con Enzo Biagi alla direzione del giornale e col dira-
darsl della raccomandazione di mandare a letto i bam-
bini). Sembrò, ad un momento, che il film dovesse rima-
nere bloccato dal veto censorio: ma nel giro di un paio di
mesi le cose erano quasi del tutto mutate. E si doveva
giungere, da parte del governo, non solo ad ammettere
l'eslstenza della mafla, ma ad accettare la richiesta dell'As-
semblea Regionale Siciliana (votata all'unanimità!) di
una commissione d'inchiesta.
Il film di Rosi noi l'abbiamo visto in mezzo a un pub-
blico straordinario, eccezionale: e per l'assunto di questo
scritto, il cinema e la Sicilia, dalle reazioni di un tal pub-
blico ci pare di poter cavare elementi di giudizio Un pub-
blico in gran parte di contadini non abituati a frequentare
i cinematografi, per età e per ritmo di vita lontani da
quella dimestichezza col cinema che consente di deci-
frarne la scrittura senza ritardi, senza remore. In questo
tipo di spettatore la comunicazione tra l'occhio che coglie
le immagini e la mente che le riceve, le decifra, le orga-
nizza, è talmente lenta e discontinua che la storia finisce
col rapprendersi, oltre che in significazioni confuse, in
una massa di azioni diverse da quelle effettivamente rac-
contate. Contadini capaci di dare giudizio intelligente
sulle cose della vita, di raccontare con coerenza e con stile
antiche storie, mimi di ieri e di oggi, vedono nel cinema
una specie di evasione onirica, il film come un lungo so-
gno i cui significati vanno "smorfiati", cioè interpretati e
distinti, ripensandoci nelle interminabili giornate in Ni
stanno chinati sulla terra. Un pubblico simile è talmente
primitivo che riconoscendo in un film la rappresentazione
della realtà di cui quotidianamente partecipa, reagisce ri-
dendo: per assentimento, per soddisfazione. Uno spetta-
tore non siciliano, che si fosse trovato a vedere il Giuliano
di Rosi in mezzo a questo pubblico, sarebbe rimasto ester-
refatto a sentire scoppiare risate nel momento in Ni sullo
schermo la madre piange il figlio morto. A quella scena
straziante, il pubblico in effetti reagiva come chi non
avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si
trova di fronte: lo stupore per la verità raggiunta, per la
"forma" di questa verità, superava la commozione che il
"contenuto" indubbiamente comunicava. Le risate che
sottolineavano certi momenti, certi passaggi, certe battute
del film di Rosi, esprimevano dunque omaggio alla verità
rappresentata: il più competente elogio, tutto sommato,
che poteva toccare a un film di così prodigiosa verità. I
contadini si riconoscevano nei contadini del film, nei ca-
prai, negli imputati che stavano nella gabbia dell'Assise;
riconoscevano il pianto della madre, il furore delle donne;
e l'eterna arroganza della "legge", l'eterno tradimento che
gli uomini della "legge" seminano con oblique prote-
zioni, con sinistri compromessi. Capivano tutto, senza
nemmeno lasciarsi intrigare dal montaggio: piuttosto ar-
1220 La corda pazza La corda pazza 1221
duo, piuttosto "difficile". L'unico punto a lasciarli dub-
blosi era Portella della Ginestra: si chiedevano se Giu-
liano l'avesse fatto davvero, e perché. Se ne erano dimen-
ticati o non l'avevano mai saputo. Ma il fatto che, a ve-
dere nel film l'episodio, non ne fossero persuasi e paresse
loro un'invenzione, ci diede da pensare.
Per noi Giuliano andava bene: bellissimo, intenso film
mai la Sicilia era stara rappresentata nel cinema con COSì
preciso realismo, con così minuziosa attenzione. E ciò di-
scendeva da un giusto giudizio - morale, ideologico, sto-
rlco - sul caso Giuliano. E tuttavia i contadini siciliani ve-
devano un film diverso, con diverso giudizio, con diversa
morale, da quello che Rosi aveva effettualmente fatto: e
non, stavolta, perché sprovveduti dell'alfabeto delle im-
magim m movlmento, non per il "ritardo" della loro
mente. Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva
dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di sco-
prirla nella "invisibilità" di Giuliano.
Per Rosi, crediamo, l'invisibilità era una specie di dato
immaginifico del giudizio: non Giuliano contava, ma le
forze, gli interessi, le persone che lo muovevano. Per il
nostro spettatore l'invisibilità diventava invece un dato
mlstlco: Giuliano come idea della rivolta contro lo Stato
della vendetta sociale, della redenzione del povero. Un
Impermeabile bianco e un binocolo, quasi attributi dell'i-
dea: il bianco, la lontananza. E diventa corpo, il bandito
sulla polvere del cortile De Maria, sull'ovale marmo della
squalllda morgue, sotto il pianro e le mani della madre
Una deposizione dalla croce, un Gisto. E Pisciotta che
era stato il Giuda, eccolo sbavare e contorcersi di veieno.
E il "confidente", il corruttore di Pisciotta, eccolo fulmi-
nato dalla lupara in un giorno di mercato, in piena luce:
come Sl conviene ad una vendetta esemplare, solenne, "re-
llglosa''. Il contadino è soddisfatto: e gli resta osNro quel
punto, se ha davvero sparato a Portella della Ginestra, e
perché. Rosi spiega perché l'ha fatto: ma evidentemente
la splegazione è valida per noi, per qualunque spettatore
che ha netta coscienza civile o che almeno ha buona me-
moria dei fatti, del processo di Viterbo, delle declinazioni
parlamentari del caso; non è per niente valida, resta anzi
oscura ed incongrua, per quell'altro spettatore.
Ora, ne siamo ben coscienti, non si può generalmente
imputare a difetto di un'opera la particolare interpreta-
zione che un certo tipo di spettatore ne trae; e, se mai, lo
si può fare al di fuori della naturale sede in Ni un'opera
d'arte va giudicata. E così, fermo restando il giudizio sul
film di Rosi come sull'opera più vera che il cinema abbia
mai dato relativamente alla Sicilia, diciamo: poiché il film
proponeva alla coscienza della nazione un fatto in Ni le
carenze e i vizi della nazione stessa, e dello Stato che ne
emana, giunsero ad ignobili estremi; e come il mito della
"legge", l'autorità dello Stato, una certa concezione del
parlamentarismo ne uscivano di per sé disgregatl, biso-
gnava didascalicamente, didatticamente, disgregare il
mito di Giuliano. E sarebbe bastato fare di Giuliano un
personaggio, un triste e feroce megalomane mosso da
mani abili, da precisi interessi padronali ed elettoralistici:
politici, in definitiva. Relegandolo nell'invisibilità Rosi
ha reso più dura l'acNsa verso la classe dirigente che lo
muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano,
non faceva che confermare un mito.
La mafia, il suo meccanismo, per così dire, giudiziario-
esecutivo hanno ispirato ad Alberto Lattuada il Mafioso:
film che, anche se cinematograficamente valido (nel senso
che lo si vede senza noia: come del resto tutti i film inter-
pretati da Alberto Sordi), non lo si può considerare un
contributo alla conoscenza della realtà siciliana e del triste
fenomeno della mafia. Di fronte a questo film, anzi, noi
che più volte ci siamo ocNpati della mafia, in libri ed ar-
ticoli, siamo stati presi dal dubbio se il continuare a par-
larne non finirà col rendere alla mafia quell'utile stesso
che prima le rendeva il silenzio.
Nel film di Lattuada tutto è mafia. Vien fatto di pen-
sare che la rivoluzione dei tecnici profetizzata da James
Burnham finirà con lo svolgersi sotto i segni della mafia
La corda pazza
siciliana. Mafioso è il dirigente di una grossa industria del
nord (per di più, riconoscibile, un'industria che lavora in
collegamento con altra grande industria europea); di ma-
fia partecipano dogane e compagnie aeree; sicario della
mafia è un "cronometrista" di quell'industria del nord.
Per cui lo spettatore è portato a chiedersi non più che
cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è.
E poiché la Sicilia è terribilmente di moda nel cinema,
crediamo che questa domanda dello spettatore è destinata
nei prossimi mesi, ad investire tutta la realtà siciliana: che
cosa la Sicilia non c?
1963