[Ebook ITA]Dozois Gardner INVERNO 1995


Gardner Dozois (a cura di).
MILLEMONDI (INVERNO 1995).



Titolo originale: "The Year's Best Science Fiction Seventh Annual
Collection; Part 2".
Copyright 1990 Gardner Dozois.
Copyright 1992 e 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.

I nomi dei traduttori sono indicati al termine di ciascun racconto.










INDICE.


Alexander Jablokov, IL MARE PIU' PROFONDO: pagina 3.
Michael Swanwick, IL MARGINE DEL MONDO: pagina 98.
Megan Lindholm, LA DAMA D'ARGENTO E L'UOMO DI MEZZA ETA': pagina 127.
Alan Brennert, IL TERZO SESSO: pagina 168.
Neal Barrett Jr., INVERNO SULLA BELLE FOURCHE: pagina 205.
Robert Silverberg, ENTRA UN SOLDATO. PIU' TARDI: NE ENTRA UN ALTRO:
pagina 238.
Robert Sampson, RELAZIONI: pagina 310.
John Varley, PROPRIO UN'ALTRA BELLA GIORNATA: pagina 324.
Janet Kagan, IL MOSTRO DEL LOCH MOOSE: pagina 349.
Brian Stableford, IL PROIETTILE MAGICO: pagina 423.
Nancy Kress, 1937: ANDATA E RITORNO: pagina 461.
Mike Resnick, UNA VOLTA HO TOCCATO IL CIELO: pagina 517.






Alexander Jablokov.
IL MARE PIU' PROFONDO.


Orbita Jupiter, gennaio 2033.

Il capodoglio emise un grido di paura e le vibrazioni sonore del suo
terrore si diffusero attraverso le acque calde che circondavano Ilya
Stasov. Egli se ne stava, con i muscoli tesi, nel cunicolo a pressione
zero della Stazione di Ricerca Spaziale "Jupiter Forward". Stasov si
era nascosto in un acquario che riproduceva lo stesso paesaggio
ecologico dei banchi di corallo del Mar dei Caraibi. Se ne stava lć,
facendo articolare le sue squame artificiali e ascoltando il grido
della balena che giungeva dalle fredde distanze dello spazio
interplanetario. I pesci multicolori intorno a lui si erano adattati
alla mancanza di orientamento gravitazionale, e con il movimento delle
loro pinne dorsali vagavano in ogni direzione, indifferenti al
richiamo del cetaceo.
Il capodoglio grid• ancora. Stasov si rannicchi• su se stesso, come
per evitare il suono, poi si raddrizz• e, con un dito, attiv• sul
computer di "Jupiter Forward" il menu delle immagini. La stazione
spaziale orbitava lungo il circuito troiano di Ganimede e la balena
fluttuava vicino a essa. Invece di abbandonare l'acquario e inoltrarsi
nello spazio per affrontare il cetaceo, Stasov port• il sistema di
Giove nell'acqua.
Giove, con le sue striature splendenti, apparve nell'acquario come un
sughero da pesca affondato. Una murena, da una crepa, osservava
attenta, cercando di giudicarne la commestibilit. Stasov immagin• il
gelo dello spazio interplanetario che penetrava le acque tropicali.
Ganimede scivol• tra gli anemoni marini, come una lumaca a
propulsione.
Inal• acqua iperossigenata attraverso gli allacciamenti branchiali
della sua carotide e cerc• il capodoglio androide.
- Calma - gli mormor• attraverso il microfono che aveva impiantato
nella gola. - Calma. - Egli era sintonizzato direttamente con i centri
uditivi della balena.
L'immagine del capodoglio non era ancora visibile. Un altro gesto con
il dito, e Giove rimpicciolć, mentre Ganimede si ingrandć. L'acqua
nell'acquario si oscur• e le stelle fecero capolino al di sopra del
corallo. I pesci continuarono a ignorare queste manifestazioni
astronomiche limitandosi a vagare in tutta tranquillit. L'immagine di
Ganimede crebbe a tal punto che Stasov ebbe la sensazione di sorvolare
egli stesso la sua ruvida superficie. Non vedeva pi la vasca dentro
cui galleggiava.
Il capodoglio fendette, all'improvviso, la superficie oscurata ed
emerse fuori dall'invisibile ombra di Ganimede. I jet del razzo
lanciavano fiamme per tutta la sua lunghezza. Raggi di sole
luccicarono lungo tutta la sua poderosa forma rugosa e brillarono sul
mosaico della rete a microonde che ricopriva la sua schiena.
Ma dov'era il maledetto delfino? - Weissmuller - chiam• Stasov. -Parla
con Clarence. - Silenzio. - La balena ha bisogno delle tue parole. -
Silenzio. - Maledizione, Weissmuller, dove sei? - La sua mano sinistra
si strinse in un pugno spasmodico.
L'unica risposta che ebbe fu il sibilo poderoso del campo magnetico di
Giove, e il sommesso mormorio degli ingegneri che controllavano il
funzionamento dei motori del capodoglio. Stasov richiese al computer
ulteriori dati astronomici. Ganimede divent• delle dimensioni di una
pallina. L'intero sistema di Giove galleggiava, ora, nella vasca, con
le orbite stellari in rilievo, e la percezione diretta della loro
gravit che li faceva affondare in prospettiva profonda. La Stazione
Spaziale di "Jupiter Forward" apparve sulla traiettoria troiana di
Ganimede, come un punto luminoso. Il computer localizz• il delfino e
lo mostr• come una scintilla. Stasov osserv• la posizione di
Weissmuller e imprec•.
Il delfino si era tuffato nel pozzo gravitazionale dell'"Id", ed era
stato lanciato verso l'Europa. La profondit del pozzo gravitazionale
di Giove si spalanc• davanti agli occhi di Stasov ed egli ebbe la
sensazione di essere risucchiato da un mulinello. Cerc• di reagire
all'animo di terrore. Il punto luminoso del delfino salć lentamente
verso di lui. Weissmuller spingeva sempre il gioco fino al limite.
Sarebbero passate delle ore prima che il delfino fosse potuto tornare
verso "Jupiter Forward".
Stasov esamin• l'immagine di Clarence, desiderando di poterlo
confortare con colpetti sul dorso. Un pesce-scatto osserv•
l'ologramma, sorpreso di vedere un capodoglio delle sue stesse
dimensioni, poi schizz• via, con uno scatto di pinne. Il vero
Clarence, tristemente solo nello spazio, non percepć nulla di tutto
questo. Malgrado le considerevoli modificazioni apportate al suo
corpo, Clarence rimaneva pur sempre un cetaceo, pur possedendo ora
vasti e complessi piani di controllo che lo guidavano attraverso
l'atmosfera di Giove e che lo facevano sembrare un capodoglio decorato
come un carro da parata. Stasov gli si rivolse con parole suadenti che
potessero calmarlo, ma non aveva una conoscenza adeguata del
linguaggio proprio dei cetacei. Non era questa, per altro, la ragione
per cui si trovava l. La balena continuava a emettere segnali di eco-
locazione, attraverso la fascia microonde, incapace di capire come
avesse potuto perdere conoscenza su di un'isola delle Maldive,
nell'Oceano Indiano, e risvegliarsi qui, in questo posto misterioso,
di cui non aveva mai sentito parlare, un luogo totalmente privo di
acqua e di pesci, cosparso da una dozzina di sfere prive di
fisionomia.
Scoppi irregolari di razzi apparirono lungo i fianchi di Clarence,
facendolo vorticare. Dati si riversarono nella vasca, affollandosi
intorno al pesce: uno di carburante, accelerazioni, status dei
circuiti. Voci borbottarono termini tecnici. Stasov ebbe la stessa
sensazione che aveva provato quando, da ragazzo, messo a letto presto,
gli giungeva attraverso la porta chiusa il mormorio indistinto degli
amici dei suoi genitori impegnati in conversazioni.
- Erika - chiam•, aprendo un'altra linea di comunicazione.
- Linea del Direttore Morgenstern - rispose una forte voce maschile.
- Miller. - Stasov non si aspettava di udire la voce del Capo di
Sicurezza. Ma se l'aveva... - Perch‚ il delfino sta girando
incontrollato attraverso l'"Id"?
- C'Š qualcosa che non va nel suo "comm", Colonnello. La sua voce
risuona come se venisse da sott'acqua. Dovrebbe controllare.
Stasov continu• a seguire con un occhio i movimenti sempre pi agitati
del capodoglio. - Non sono Colonnello - dichiar• perentoriamente. -
Non appartengo a tale rango. Per favore, mi passi il Direttore
Morgenstern. Ci occuperemo della sua trascuratezza professionale pi
tardi.
- Trascuratezza professionale, Colonnello? - La voce di Paul Miller
aveva uno strascico d'indolenza che Stasov associava ai sicari
politici e alle guardie dei campi di prigionia, americani, russi o
giapponesi. - Il delfino desiderava andarsene. I miei uomini non sono
funzionari del Kgb - concluse con voce strozzata. Stasov conosceva
bene quel suono: la risata dell'inquisitore che metteva il soggetto a
suo agio, prima di colpirlo ancora. Aveva avuto modo di sentirlo e
risentirlo durante i mesi trascorsi al Campo Homma. Aveva cominciato a
considerarlo come parte integrante della tortura. - Avremmo dovuto
trattenerlo con la forza? Si sarebbe trattato di violazione del
trattato. Vuole che ordini ai miei uomini di commettere una...
- Al diavolo, Miller. La smetta di farfugliare e mi passi il
Direttore!
Stasov cerc• di simulare con la collera la sua improvvisa paura.
- Si controlli, Colonnello. - La voce di Miller risuon•
improvvisamente fredda. - Nessuno di noi Š subordinato ai suoi ordini.
Siamo lontani da Uglegorsk. Il Direttore Š occupato. Non devo...
- Ilya. - La voce di Erika Morgenstern s'intromise. - Cosa succede?
- Fermate immediatamente tutti i comandi della balena - disse Stasov,
perentoriamente. - Non si tratta di problemi tecnici. Lui non Š
responsabile. Weissmuller sta vagando da qualche parte dell'"id" e io
non posso occuparmi della balena da solo. So che interferisce con il
programma. E con il budget. Ma fatelo.
Morgenstern non esit•. Il concitato sfavillio di luci intorno al
capodoglio si spense, lasciando il pesce a galleggiare inerte. - Fatto
- ella disse. Stasov udć, a livello inconscio, le esclamazioni di
sorpresa e di frustrazione degli ingegneri che controllavano il
velivolo. Il velivolo. Clarence, la balena computerizzata, sospesa in
orbita intorno a Giove, era lć. Stasov poteva vederla, ma non sapeva
ancora se crederci o no. I livelli di controllo scesero a zero.
Stasov nuot• lentamente alla superficie della vasca e si sporse
attraverso la barriera di tensione che tratteneva la sfera liquida, e
sentć sulla sua pelle la forza della pressione in modo quasi
dolorante. Si lev• nell'aria, le ultime gocce d'acqua che scivolavano
gi dal suo corpo per ricadere nella larga, tremolante sfera
dell'acquario. Una volta staccata la carotide annessa ai canali di
ossigenazione, egli trasse un respiro profondo e faticoso
nell'atmosfera a lui non pi consona, per riattivare il fluire della
ventilazione nei suoi bronchi. Il suo diaframma si contrasse
dolorosamente, essendo rimasto troppo a lungo in stato di inattivit
durante l'apnea.
Un piccolo pesce, trascinato con lui fuori dall'acqua, fluttu•
nell'aria. Stasov lo diresse nuovamente nella vasca. L'aria fredda gli
intirizzć la pelle ed egli rabbrividć. Si diresse verso un obl• e
scrut• lo spazio. Clarence galleggiava, circondato da veicoli ed
esseri umani, che lo affliggevano cosć come avevano fano i parassiti
che gli si erano attaccati addosso nei mari della Terra. Sarebbero
passate delle ore prima che Weissmuller fosse tornato. Doveva fare
qualcosa. Stasov prov• una sensazione spiacevole nelle viscere. Era
passato tanto tempo dall'ultima volta in cui aveva torturato un
delfino. Sapeva che, se lo avesse fatto ancora, sarebbe stata la sua
ultima azione. Ma non vedeva altra via d'uscita.
- Ilya - disse Erika Morgenstern, esasperata. - Non devi dimenticare
l'opinione che questa gente ha di te. Come ti chiamano...
- Lo squalo di Uglegorsk. Io e te ne abbiamo gi parlato. Non
capiscono niente.
Morgenstern lo fiss• con i suoi occhi verde-marrone, dallo sguardo che
poteva sostenere con uguale efficacia sia l'oscurit sia il chiarore
abbagliante. La prima volta che aveva visto quegli occhi, aveva
captato in essi la propria salvezza. E aveva cercato di non
dimenticarlo mai pi. - Sei tu che non ti rendi conto di niente. Sono
io che devo mantenere l'equilibrio tra duecentocinquanta persone
provenienti da venti paesi diversi, su questa stazione spaziale, e,
contemporaneamente, portare avanti un lavoro di ricerca. Odio e paura
non sono cose immaginarie.
Stasov si strofin• la mano sinistra mutilata e ricambi• lo sguardo
della donna. La stanza era nella penombra, cosć come preferiva lei,
dando alla sua testa, dalla faccia appiattita e dai corti capelli
ramati che cominciavano a ingrigire, l'aspetto di un essere extra-
terrestre. Ella presiedeva con uno stile imperiale che avrebbe
sconcertato i suoi superiori alla Sede Direttoriale della Esplorazione
Planetaria Un, se ne fossero stati informati, protetta da accoliti
come Miller, solitario, inaccessibile, ma attento a tutto quanto
avveniva a bordo della "Jupiter Forward". Stasov a volte non poteva
trattenere un moto di meraviglia osservando quanto fosse cambiata.
- Dovrebbero ugualmente essere all'altezza dei loro compiti -disse. -
O devo pensare che la tua autorit su di loro sia insufficiente?
Ella non batt‚ ciglio. Non sarebbe stato un tale commento a farle
perdere il controllo. Socchiuse gli occhi con fare autoritario,
facendogli capire che aveva ecceduto. Egli sostenne lo sguardo, con i
suoi pallidi occhi blu privi di espressione, come a comunicarle che ne
aveva passate di molto peggio di quanto ella potesse infliggergli.
Un ologramma di Giove gett• tutta la sua luce nella stanza. Il pianeta
fu selezionato e mostrava i suoi campi magnetici e le sue cellule di
trasporto, come se Morgenstern potesse, con la stessa facilit,
ordinare una modificazione nel tragitto del Grande Corpo Rosso cosć
come poteva cambiare la pressione dell'aria negli spogliatoi o il menu
al ristorante.
- Noi due abbiamo fatto tanta strada, insieme - ella disse. - Dai
tempi di Homma. Ora stiamo per lanciare un capodoglio computerizzato
nell'atmosfera di Giove. - Scosse la testa. - Mi Š difficile crederlo.
Ma non posso rischiare l'ira della Delegazione Delfina. Sono loro i
nostri maggiori finanziatori. Tu lo sai. Miller Š un idiota, ma ha
ragione. Non possiamo frenare un cetaceo intelligente. Viola il
Trattato di Santa Barbara.
Si poteva cogliere nella sua voce un'inflessione tipica della sua
terra d'origine, la Nuova Zelanda.
- Articoli 12 e 13 - sentenzi• Stasov. - Mari aperti e Libert a ogni
essere. Certo che lo so. Pi di chiunque altro. E ai delfini piace
molto la definizione della Legge. La considerano la cosa pi stupida
che abbiano mai sentito, ma ne fanno uso tutte le volte che fa loro
comodo. Si possono permettere dei buoni avvocati.
- Esatto. Non posso rischiare di rovinare il progetto. N‚ ora n‚ mai.
La Delegazione Delfini tiene gi abbastanza alle briglie la
sponsorizzazione.
- Miller non si Š schierato contro di me per il Trattato. - Stasov
sput•. - L'ha fatto perch‚ pensa che i delfini siano delle
meravigliose creature innocenti, e perch‚ mi odia per ci• che crede
che io abbia fatto. Non c'Š niente di pi pericoloso di un sicario
sentimentale. Permettendogli di opporsi a me, sei "tu" che comprometti
il progetto. Quella l fuori non Š soltanto una macchina. E' un essere
percettivo, intrappolato in un guscio di metallo e trascinato in un
mondo che non capisce. Sta impazzendo. Weissmuller Š "gi" pazzo.
Anche per un delfino. Guarda attentamente, Erika. Il progetto potrebbe
finire qui.
Ella lo guard•. Egli non aveva pi niente da dire. Guardare
attentamente era quello che lei faceva meglio. L'aveva fatta avanzare
da un lavoro di principiante, dopo la laurea, come osservatore in una
Commissione Crimini di Guerra Un, a una delle posizioni di maggiore
prestigio nel Direttoriale Esplorazione Planetaria Un. Ed era stato lo
sguardo negli occhi di Stasov, nei giardini di Campo Homma, che le
aveva fatto capire quale era la direzione da prendere.
- Va bene - disse, finalmente. - Fai quello che devi fare. Ne sei
convinta?
- Certo che ne sono convinta! - ribatt‚. - L'ho detto, no? Ti sto
conferendo i pieni poteri, e dovrai risponderne solo a me. Fai quello
che vuoi con il tuo delfino messia e il suo accolito. Basta che porti
avanti il progetto.
- Non ridere di me, Erika - disse Stasov serio. - Non ti azzardare mai
a farlo. - Si alz• lentamente, nella bassa gravit. Il terminale di
comunicazione aveva continuato a guizzare, e senza dubbio si erano
accumulate una dozzina di crisi, mentre lei si era attardata a
chiacchierare con il suo impopolare, ma essenziale Legame Cetaceo. -
Il progetto andr avanti.
Ella lo guard•: improvvisamente ancora una volta era la donna giovane
e insicura che lui ricordava. - Ilya, che cosa intendi fare?
Non me lo chiedere - rispose, con voce priva d'espressione. - Far•
soltanto quanto Š necessario.


Uglegorsk, ottobre 2019.

- Lei non mi d l'impressione di essere un uomo che si possa
interessare alle storie, Colonnello - disse Georgeos Theodoros, mentre
risaliva i gradini di pietra bagnati, avvolto in un lungo cappotto che
non serviva a proteggerlo contro il vento che soffiava nello Stretto
di Tatar.
Il Colonnello Stasov sorrise. La terza larga stella che si era
aggiunta sulle sue spalline era sufficientemente recente da
provocargli tuttora un certo compiacimento di fronte al nuovo saluto,
anche da parte di uno straniero civile. - Non Š soltanto una storia,
vero? E evidente che quello che stiamo facendo ora Š gi stato fatto
prima.
- Non ne sono sicuro. E' tutto cosć allegorico, allusivo. - Theodoros,
un greco dagli occhi sognanti e dalla barba da asceta, si ferm• in
cima ai gradini, fingendo di osservare il panorama, ma in verit per
riposarsi. C'era davvero poco da guardare. Il mare davanti a lui era
grigio, percorso da onde taglienti. Nuvole pesanti lo sovrastavano,
cancellando l'orizzonte. Non somigliava assolutamente al caldo Mare
Egeo, dove si trovavano i suoi laboratori di ricerca sui delfini.
L'isola Sakhalin era un posto selvaggio e inospitale. Ecco perch‚
questo Colonnello russo dagli occhi blu sbiaditi era cosć assorbito
dal suo lavoro. Ma, a volte, i suoi occhi brillavano di gioia a una
nuova scoperta, ed era questo sguardo che aveva automaticamente spinto
Theodoros ad accettarlo come amico.
- No - stava dicendo Stasov con forza. - Quello che Š intercorso tra
gli uomini e i delfini, durante il regno della Tessalocrazia Cretese,
Š importante per noi. E' per questo che l'abbiamo fatta venire. Non
solo per ascoltare racconti. Tremilacinquecento anni fa l'uomo
svilupp• la tecnologia mentale per affrontare il problema. Io credo
che lei abbia portato con s‚, qui a Uglegorsk, le vestigia di quella
tecnologia. - E si port• agli occhi i binocoli che aveva intorno al
collo.
- Loro asserivano di parlare con i delfini - mormor• Theodoros. -Forse
Š vero. - Per anni, nessuno aveva voluto ascoltare queste sue teorie,
e ora che qualcuno era disposto a farlo, si scopriva quasi riluttante,
timoroso delle conseguenze. I sovietici non erano interessati a mere
teorie. Loro avevano l'intenzione di tramutarle in fatti reali.
I laboratori di ricerca di Uglegorsk si stendevano davanti a loro.
Ritenendo astrusa l'idea di preoccuparsi dell'estetica tra le fredde e
grigie rocce di Sakhalin, sembrava quasi che fosse stato impiegato un
particolare sforzo nel costruire qualcosa di estrema bruttezza,
eccellendone in maniera tutta sovietica. I capannoni di metallo,
relitti della seconda guerra mondiale, erano arrugginiti e rattoppati.
Sulla spiaggia si allineavano vasche affollate da delfini in un
guizzare incessante. Tutta la base era sovrastata da una volta in
cemento.
Theodoros era un esperto sulla interazione delfino-uomo del secondo
millennio Bce, un soggetto di ricerca troppo vago per gli scienziati e
troppo pragmatico per gli studiosi del mondo classico e della
mitologia. Era rimasto, perci•, sorpreso nel ricevere l'invito
ufficiale dell'Istituto Oceanografico di Vladivostok di volare a
Uglegorsk per parlare con Ilya Stasov. La sua non era stata una
semplice guida di cortesia attraverso la base, seguita poi da un
colloquio di un'ora. Era stato interrogato per tre giorni. Nella Sala
dei Convegni stava ora appesa la mappa del Mare Egeo, in cui erano
segnate le citt cretesi con una grande stella posta su Thera, l'isola
che rappresentava l'ultima testimonianza della civilt cretese, dopo
la grande eruzione del vulcano. Gli scienziati sovietici erano tutti
riuniti, presi dalla foga della discussione, nel loro russo chiassoso.
Lui e Stasov parlavano in inglese.
Il corpulento Colonnello sedette su di un muretto e fiss• il mare. -
Mi pu• raccontare la storia, Georgeos? Non si preoccupi se le sembra
insignificante.
Quest'uomo si era davvero arrampicato quass per ammirare le diverse
sfumature del grigio? E attraverso dei binocoli? Theodoros rabbrividć
e sedette accanto a Stasov.
- Accadde a Delos, tanto tempo fa, ancora prima che ci fossero i
faraoni in Egitto, e vi si costruisse con le canne. Su questa isola
viveva un cantore, suonatore di lira, che aveva dedicato la propria
vita al culto di Apollo, al cielo e al mare. Dopo una tempesta, il
cantore scese sulla spiaggia per vedere cosa il mare avesse lasciato.
Sulla spiaggia giaceva una balena, che sospirava aspettando la morte.
Piangeva lacrime copiose e amare.
"'Perch‚ sei qui, fratello?' chiese il suonatore di lira. 'Perch‚ non
sei al largo, a solcare i mari, come fanno le balene?'
"'Sono venuta ad ascoltare le tue canzoni' rispose la balena. 'Canta
per me mentre muoio.'
"Il cantore cant• per la balena per tre giorni, mentre gli uccelli
volteggiavano gracchiando sopra di loro, e il sole sorse e tramont• e
le carni della balena cominciarono a imputridire. Alla fine del terzo
giorno la balena morć. L'uomo pianse e spruzz• d'acqua la testa della
balena, poich‚ la sabbia sarebbe stata sconveniente, e gli augur•
buona caccia nel mondo in cui le balene vanno, non credendo che
l'Inferno fosse il posto a lei destinato.
"Guard• al largo e vide un delfino che danzava. Il delfino saltava
allegramente, senza curarsi della balena morta. Quando vide l'uomo
sulla spiaggia, dapprima lo ignor•, poi gli si avvicin•.
"Vuoi cantare una canzone per il tuo fratello morto?' gli chiese il
suonatore di lira. Il delfino rimase in silenzio. 'La sua anima ha
bisogno delle tue canzoni per farlo giungere in fretta all'oscuro
mare, verso il quale si sta dirigendo.' Ma il delfino rimase ancora in
silenzio. 'Egli piange nel desiderio di udire la tua voce.' Il delfino
rimase in silenzio. Infuriato, il musico alz• la sua lira e la ruppe
sulla testa del delfino. 'Non parlare, allora, bestiaccia muta, e vai
alla morte come un ignoto.'
"Del sangue sgorg• dalla ferita del delfino ed esso grid•: 'Perch‚ mi
tormenti cosć?'
"'Per insegnarti la sacralit della morte e i canti che a essa si
devono' disse il cantore.
"'Ti ascolter•, allora' disse il delfino. 'Insegnami i canti, se non
vuoi lasciarmi nel mio silenzio.'
"E cosć l'uomo insegn• al delfino a cantare i canti ritmici degli avi,
quelli cantati dai pastori all'alba, dai pescatori nel ritirare le
reti cariche, e dai sacerdoti all'avvicinarsi delle tempeste. Il
delfino prese i canti e li fece suoi, aggiungendovi i suoni del mare.
"Apollo, udendo le canzoni, scese dall'Olimpo sorridendo, anche se le
sue mani avevano l'odore del sangue e della corruzione. Era un dio
asiatico, della Licia di allora, ma si dirigeva verso i greci.
"E disse loro: 'Ho distrutto il mostro Tifone, a Crisa, ai piedi del
Parnaso coperto di neve. Il mio tempio e il mio altare saranno eretti
l. Ora che tu sai cantare, mio caro delfino, mi aiuterai. Trova i
miei sacerdoti'.
"'Il mare si muove' rispose il delfino. 'La terra Š solida. Li
cercher•.'
"Il delfino nuot• attraverso i mari fino a che vide una nave di
sacerdoti cretesi diretta verso Pilo. Cant• a loro dal mare e loro lo
seguirono, fino ai piedi del Parnaso, che da allora fu chiamato Delfi,
in onore del delfino che li aveva guidati. E da allora, uomini e
delfini cominciarono a parlare tra loro."
Theodoros sentć svanire la calda luce dell'isola egea, e si ritrov•
seduto sulla pietra fredda, davanti allo Stretto di Tatar.
- C'Š qualcosa - disse Stasov, passeggiando avanti e indietro davanti
a Theodoros. - Lo so che c'Š qualcosa. Ma perch‚ smisero poi di
parlare? - I suoi pallidi occhi fissarono Theodoros, come se
sospettasse che il greco gli stesse nascondendo qualcosa.
- La storia non lo dice. La mia opinione Š che influć l'eruzione di
Strogyle, il grande vulcano di Thera. Che ne sia stata la causa o no,
questo avvenimento sembra segnare la fine della civilizzazione
cretese. Quando gli uomini smisero di parlare, smisero di parlare
anche i delfini.
- E da allora si sarebbero rifiutati solo per rappresaglia? Forse,
forse. Ma io penso che ci sia dell'altro. Il vulcano...
interessante... - Stasov continuava a passeggiare, poi si ferm•,
fissando lontano, verso le acque. Alz• il binocolo agli occhi.
- Che cosa vede? - chiese Theodoros.
- Vedo la necessit della sua cooperazione - rispose Stasov. Punt•
l'indice. Nella foschia, all'orizzonte, Theodoros pot‚ appena scorgere
una nave scura. - Quella Š una nave giapponese. Gli americani hanno
lasciato loro costruire navi da battaglia. E stato un errore. I
giapponesi rivendicano la parte meridionale di Sakhalin, lo sa?
Theodoros non poteva immaginare come si potesse essere interessati a
un posto del genere, ma non fece alcun commento. - Non credo che gli
americani possano fare molto per fermarli, Colonnello Stasov.
- Vero. Comunque, gli americani si troveranno presto coinvolti in una
guerra che non vogliono. - Stasov fece una pausa. - Sa se i delfini
hanno una religione?
- Colonnello Stasov, forse sarebbe meglio imparare prima a parlare con
loro, e soltanto allora preoccuparsi della loro religione.
- Giusto, forse - Stasov replic• fissando il mare e riflettendo.
-Anche se, forse, questo potrebbe essere il sistema sbagliato. - Si
alz•. - Scenda con me, allora. Potremo bere insieme un'ultima volta,
prima della sua partenza. Lei mi ha dato diverse cose a cui pensare.
Theodoros, con lo stomaco in rivoluzione al pensiero di un'altra orgia
massiccia che, insieme alle discussioni, sembrava essere l'unica forma
di trattenimento a Uglegorsk, seguć Stasov gi per le scale.
Il centro di ricerca sui delfini era vasto come un hangar aereo. Il
pavimento era sempre bagnato e l'aria era impregnata dell'odore di
alghe e iodio. Cavi come serpenti attraversavano il pavimento,
intralciando il passaggio. Theodoros continuava a inciamparvi, anche
da sobrio, mentre i russi non avevano problemi, neanche quando erano
ubriachi fradici.
La festa d'addio si svolgeva intorno alle vasche, come avveniva
sempre, come se gli scienziati volessero farvi partecipare anche i
delfini. Stasov e Theodoros cercarono un angolo quieto dove terminare
la loro conversazione. Stasov bilanci• una bottiglia di vodka su di un
audio-analizzatore e porse all'altro un sottaceto da un vasetto privo
di targhetta. Il greco aveva l'impressione che ogni cosa, lć, fosse
messa sottaceto: cetrioli, cavoletti, peperoni, il pesce e gli
scienziati. Butt• gi un sorso di vodka, dette un morso al sottaceto e
mostr• i denti in una smorfia a mo' di sorriso.
Stasov ridacchi•. - Lei ha imparato a farlo come un russo. Il segreto
Š di non mostrare mai che ti piace.
- A me non piace.
- Ah, lei Š un vero russo.
La poderosa mole del Generale Anatoly Ogurtsov li sovrast•. - Ancora
un altro di questi maledetti computer stranieri per te, Ilya? - E
sventol• un pacco di bollette d'ordinazione verso di lui. - Come pu•
permetterselo il nostro budget?
Stasov si strinse nelle spalle. - Siediti, Antosha. - Vers• un
bicchiere di vodka al generale. - Ho bisogno di apparati d'analisi
sofisticati. E chi altro li fa, se non i giapponesi?
- Che siano maledette le loro anime gialle - esclam• Ogurtsov, in un
anatema cerimoniale. - Non si pu• negare che fabbrichino buoni gadget.
Spero che potremo comprarne abbastanza da sconfiggerli quando
entreremo in guerra. - Sospir• poderosamente. - Si tratta di
analizzatori per l'immagine. Perch‚ ne ha bisogno?
- Credo di sapere come captare i delfini - disse Stasov. - Immagini
uditive.
- Idea interessante - disse Theodoros. - Che genere di immagini?
- E' qui che avr• bisogno del suo aiuto. Ho bisogno di buone mappe
sonore dell'Egeo e le migliori opinioni di archeologi oceanografici
sulla conformazione del fondo marino nel 1500 circa avanti Cristo. Pu•
farlo?
- Credo di sć. - Theodoros fu ancora una volta sorpreso. Quando era
arrivato e aveva osservato le rudimentali vasche di cemento scadente
gi segnate da crepe, i tecnici ubriachi, l'antiquato macchinario
elettronico straniero, raccolto o rubato da altri laboratori di
ricerca, aveva avuto la certezza di essere venuto a perdere il suo
tempo. Confrontato alle vasche pulite di "red-wood" e allo zelo degli
studenti universitari di Santa Barbara o agli eleganti istituti di
Monaco, questo posto era come una bolgia infernale. Eppure...
- Lo faremo, sa - brontol• Ogurtsov. - Ilya riuscir a farcelo fare.
- Generale - Theodoros rispose. - Non ne dubito minimamente.


Gli Aleuzi, settembre 2022.

Era stato sorprendentemente difficile per gli americani difendere la
loro frontiera in Alaska, ma si erano battuti selvaggiamente, passo
dopo passo. L'assalto all'isola Nagalaska, che doveva essere un
attacco a sorpresa, aveva incontrato una durissima resistenza fin
dall'inizio. Tali operazioni erano nuove per la marina sovietica.
Stavano imparando gradualmente come pianificare assalti terrestri solo
ora. Il prezzo da pagare era alto.
Molto prima che la sua nave giungesse entro il raggio, il Colonnello
Ilya Stasov aveva ascoltato i resoconti delle prime perdite.
- Morte, morte, morte - lamentava il delfino. - I vigliacchi m'hanno
lasciato indietro. Le loro vite hanno trovato completezza. Sono morti.
- La voce della femmina sovrastava il rombare di fondo, ed era quasi
incomprensibile.
- Calmati, Harmonia - le disse Stasov, conscio del fatto che fosse
facile fare simili esortazioni, standosene fuori dall'area di
battaglia. - Cosa Š successo?
-...esplosione di uova. Non ci ascoltano pi. Tu, Stasov, seme di
squalo, tu hai detto che avrebbero ascoltato!
- Deve trattarsi di un altro tipo di mina, Harmonia - grid• Stasov in
risposta, mentre i rumori nella sua cuffia aumentavano. - Qualche
detettore magnetico nuovo. C'informeremo...
- Pesce, pesce. Non vado via finch‚ non mi dai un pesce.
- Non devi tornarci, ora. Vieni fuori. Faremo un'analisi del campo
magnetico...
- Io voglio una pancia piena di pesce in cambio, mangiatore di
escrementi! - E con questo, la linea cadde. Allo stesso tempo, la nave
d'atterraggio vibr• sordamente e il boato di un'esplosione rimbomb•
gi nel boccaporto dall'esterno. Aspett• che il fragore si
estinguesse, invece aument• in modo pazzesco, riverberando. Era il
fragore dell'attacco, e non sarebbe finito. Si precipit• su per la
scala della cabina.
- Priblyudov! - grid• all'ufficiale, al di sopra del fragore. - Gli
americani hanno seminato la spiaggia con un nuovo tipo di mina. Ho
perso quasi tutta la prima ondata di delfini. Manda questa
informazione al Novgorod. - Sventol• un foglio ricoperto di note.
L'ufficiale lo fiss• ottusamente. - Sbrigati!
Mentre Priblyudov ubbidiva inciampando, Stasov innest• la sua cuffia
alla consolle e cosć collegato salć con i suoi microfoni sul ponte,
nella fredda luce del sole nordico. Stasov guard• con orrore verso la
nuda roccia di Nagalaska, che si profilava al di l del lungo ponte
d'atterraggio, in un turbine di fumo. Razzi sfolgoravano sopra la sua
testa e i 76 millimetri tuoneggiavano da prua sulla riva.
Sottocoperta, egli lo sapeva, un battaglione di truppe era schierato
con carri armati e veicoli d'assalto. Due navi d'atterraggio avevano
gi colpito l'isola. Stasov ascoltava nella sua cuffia.
L'acqua grigia era coperta d'olio in fiamme. I delfini, i "suoi"
delfini vi stavano soffocando, le grida della loro morte fendevano
l'aria al di sopra del fragore dei motori e allo stritolio delle
eliche. L'aria artica nebbiosa era impregnata dell'acuto lezzo di olio
e carne bruciata. Le altre due navette d'atterraggio avevano riversato
il loro carico e la spiaggia rocciosa era ricoperta di truppe
d'assalto, pullulanti come isopodi. Stasov chiuse gli occhi,
ascoltando le grida di morte attraverso la sua cuffia. Il tonfo del
siluro americano che colpiva la pane indifesa della nave d'atterraggio
fu un'assordante agonia nelle sue orecchie.
La navetta rallent• come se avesse urtato contro un banco di sabbia, e
cominci• a sbandare. Stasov scivol• lungo la ringhiera, la scavalc• e
piomb• in acqua. Ne sentć il gelo sulla faccia, ma la sua uniforme
d'assalto serviva da termostato e manteneva caldo il suo corpo.
Un'altra esplosione, che percepć con il suo corpo, e la navetta
d'atterraggio col• a picco, come se una gigantesca mano la tirasse dal
di sotto. Stasov si allontan• a lunghe, frenetiche bracciate per non
essere trascinato gi nel risucchio.
Si tolse la cuffia, che era ormai inutile, e mise in azione il
microfono che aveva in gola. Lanci• il suo richiamo ai delfini che
ancora sopravvivevano. Erano ormai pochi.
Improvvisamente Stasov udć il richiamo di un'orca in cerca di preda
che avanzava veloce attraverso le agonizzanti truppe d'assalto che
avevano abbandonato la nave, dicendo: - Parlate, cibo! - e divorando
coloro che non rispondevano. Raggiunse Stasov. - Parla cibo! Sono Ilya
Stasov - rispose nel dialetto dei delfini, per insultarla. - Va' a
farti un tricheco. - Era incredibile come svaniva l'antica proibizione
di comunicare con gli umani, una volta violata, qui a Uglegorsk.
L'orca lo urt• una volta, fratturandogli diverse costole, lo dichiar•
con disprezzo "cibo avariato" e svanć nell'oscurit pullulante.
Il fragore dell'assalto diminuć, mentre le truppe americane venivano
respinte dalla spiaggia. I corpi degli uomini e dei delfini giacevano
sparsi sulla roccia, lasciati dalla bassa marea. Sulla spiaggia, l
dove giungeva l'alta marea, vi si era disegnata una linea nera d'olio
e di sangue. Stasov si arrampic• tra i corpi. Un passaggio era stato
frettolosamente aperto e i carri armati vi si inoltravano. Bulldozer
sulla spiaggia stavano gi aprendo una pista d'atterraggio. Pochi
gruppi di resistenza venivano ancora sospinti verso il retroterra, ma
l'isola era nelle mani dei sovietici. Stasov si fece strada verso la
temporanea sede del Quartiere Generale del Comandante.
- L'incrociatore americano "Wainwright" si sta avvicinando alla testa
degli "Aegis". Vengono da Kodiak - dichiar• il Generale Lefortov. Il
bianco dei suoi occhi era diventato giallo ed egli aveva l'aspetto di
un cadavere. Le truppe d'assalto avevano subito debilitanti perdite.
Erano lontane dalla base e la portaerei "Nizhni Novgorod" non era
sufficiente a fermare la forza invadente di un "Aegis". - Che cosa
possono fare i suoi delfini?
- Ci• che Š rimasto di loro?
Il Generale Lefortov fiss• i suoi occhi moni su Stasov. Aveva perso
abbastanza uomini da rimanere assolutamente indifferente al destino
dei preziosi delfini di Stasov. - Abbiamo perso due sommergibili
d'attacco nel Mare di Bering. Il nemico avanza senza trovare
resistenza. Che cosa pu• fare lei?
- Fare? - ripet‚ Stasov stancamente. Pens• ai delfini e
all'equipaggiamento che aveva lasciato. - Possiamo affondarli. Ci
coster...
- Ci pu• costare la guerra se non lo facciamo. Prepari le sue truppe.
Trascriver• l'ordine.
- Sissignore.


Bataan, Filippine, maggio 2024.

Stasov avanz• cautamente attraverso il parquet del portico, nella
cocente luce del sole. Si muoveva lentamente, con le giunture
intorpidite, come una biciclettina lasciata troppo a lungo sotto la
pioggia da un bambino. Le guardie giapponesi alla porta delle baracche
gli sorrisero mentre passava, con un'espressione che ormai aveva
rinunciato a interpretare. Comunicare con i delfini era stato pi
facile. Egli aveva distaccato la sua percezione mentale dalle
condizioni ambientali che, per le percosse, le celle di punizione e i
cibi guasti, avevano modificato il suo comportamento esteriore. Non
cercava pi di capire il mondo esteriore, vi reagiva soltanto. E
questo gli permetteva di mantenere intatte le sue facolt razionali.
Avevano cominciato a nutrirlo meglio alcune settimane prima, un
segnale, questo, del suo imminente rilascio. Egli si era rifiutato di
abbandonarsi alla speranza. Non era al di l delle loro tattiche usare
l'illusione della libert per indurlo a tradirsi. Il giorno prima gli
avevano concesso un'ora nei bagni caldi giapponesi e oggi gli avevano
fatto indossare un completo di seta blu piuttosto elegante. Era troppo
largo, confezionato, forse, secondo le misure riportate nei documenti,
al momento della sua cattura. Le sue dita avevano faticato ad annodare
la cravatta, e una delle guardie lo aveva gentilmente fatto per lui.
Non era il nodo che il regolamento militare richiedeva, per lo meno
non nella sua arma, ma era abbastanza accettabile. Il colletto alto
nascondeva le cicatrici sul collo, dove un tempo era attaccato
l'ossigenatore della carotide. Solo quando si ritrov• fuori a
camminare sotto il sole cominci• a credere di essere libero.
Fuori dalle baracche c'era un patio pavimentato a mattonelle dove gli
ufficiali del campo davano spesso feste notturne invitando le donne
del luogo. Una donna lo aspettava lć ora. Non era una delle brune
bellezze locali, che erano state il principale prodotto d'esportazione
di Luzon per secoli, ma una donna dalla pelle chiara e dai capelli
color rame, che faceva parte della delegazione Un dalla Nuova Zelanda
a Campo Homma. Teneva in mano un blocco di note.
- Colonnello Stasov? - chiese, alzandosi. Aveva un viso comune, dai
contorni piuttosto duri. - Mi chiamo Erika Morgenstern.
Si strinsero la mano. - Non Colonnello - mormor• lui. - Non pi. - Il
calore del sole gli dava le vertigini e il forte profumo delle
"bougainville" che erano tutt'intorno sembr• soffocarlo. Le ginocchia
gli tremarono e si sedette.
Ella lo osserv• a occhi socchiusi. - Ha bisogno di assistenza medica?
- Egli scosse la testa - No, assolutamente. Mi hanno curato.
- Gli americani non sono soddisfatti di Campo Homma - disse lei,
scarabocchiando nel suo taccuino. - Qualunque informazione lei possa
fornire sar molto utile alla Un. Qualunque violazione delle norme sul
trattamento degli esseri umani.
La guard•. - Se sono stato rilasciato, vuol dire che il Campo Homma
sta per essere chiuso. I giapponesi hanno un nuovo impero da
contendersi. Compreso Sakhalin, per quanto io possa dedurne. Le
preoccupazioni degli americani rappresentano un problema secondario. -
Stasov era stato catturato a Uglegorsk, in seguito alla sconfitta
nell'ultima battaglia navale sovietica nel mare di Okhotsk, dalle
truppe giapponesi assetate di vendetta contro le atrocit
dell'occupazione sovietica di Hokkaido.
I giapponesi avevano scelto Bataan come campo di concentramento per i
loro crimini di guerra, poich‚ dispiegavano in ugual misura la loro
vittoria sugli alleati americani nella guerra del Pacifico, come sul
nemico sovietico. Avevano nominato il campo Homma, in onore del
generale giapponese che aveva comandato l'invasione delle Filippine
nel 1942, un insulto provocatorio a cui gli americani non avevano
avuto il potere di replicare.
- A ogni modo - disse lei. - Se lei Š stato maltrattato...
- Se sono stato maltrattato Š stata solo giustizia - replic•. - Gli
americani sono vincitori inermi. Sono troppo magnanimi. I giapponesi
sono pi simili ai russi. Loro chiedono giustizia, e forse un po' di
pi. O lei ha dimenticato che sta parlando con lo Squalo di Uglegorsk?
Ella trasalć. - Avere un soprannome non Š un crimine. I giapponesi
l'hanno accusata di genocidio e di schiavit, crimini da lei commessi
contro quella stessa specie la cui intelligenza era stata dimostrata
dalle sue ricerche. Queste accuse, comunque, sono "ex post facto", le
Š familiare il termine?
- Temo che la legge sovietica non sia cosć sofisticata.
Una guardia giapponese servć loro del tŠ in graziose tazzine di
terracotta. Deliberatamente, Stasov vers• il tŠ per terra e lasci•
cadere la tazzina, che si frantum• sulle mattonelle. La guardia
s'inchin•, con aria impassibile, e raccolse i pezzetti, allontanandosi
poi lentamente.
- Che cosa volevano da lei? - chiese Morgenstern. - Che cosa volevano
sapere?
- Volevano informazioni sul mio lavoro, sui miei metodi. I miei
segreti.
- Che cosa sanno, ora?
Stasov sorrise - Ho saputo pi io da loro che loro da me. I giapponesi
non amano i cetacei. Li uccidono con pi indifferenza di quanto non
facciano i russi. La loro curiosit aveva soltanto scopi pratici. Ho
detto loro poco, e quel poco gli Š costato molto tempo. E io so quanta
importanza questo abbia per loro. Mi sono trovato a mia volta nella
stessa situazione. Ma loro mi hanno fatto capire che la mia vita non Š
ancora finita. Continuer• a vivere. E non Š cosa da poco scoprirlo, e
dovrei esserne grato. - Il fruscio di un ratto su di una palma lo fece
sobbalzare. Ci volle un po' perch‚ il suo cuore si calmasse. - Si
occupa anche lei di ricerche sui delfini, Miss Morgenstern?
- No. Il mio interesse Š l'esplorazione planetaria. Poco richiesta in
questo momento, temo. Dopo la Guerra del Pacifico, il mondo sar
troppo povero per poterla finanziare.
Egli la guard• a lungo, tanto a lungo che la donna cominci• a
preoccuparsi che fosse in preda a un attacco traumatico da stress. -
Interessante - disse egli, infine, senza che la sua voce tradisse
alcuna emozione. - Davvero interessante. No, non ce lo possiamo
permettere. Ma altri probabilmente sć.

Due giorni dopo attraversavano la Baia di Manila e giungevano a
Cavite, dove li attendeva la delegazione sovietica. I gabbiani
incrociavano l'aria calda e umida. A un tratto l'acqua liscia come una
superficie di vetro fu squarciata da una tumultuosa orda di delfini.
Saltavano fuori dall'acqua, lasciando occasionalmente la via libera
allo stesso battello. Stasov sedeva in poppa, sotto la bandiera del
"Rising Sun" che sventolava, e li guardava.
Il pilota giapponese dalla giacca bianca acceler•, virando a destra e
a sinistra, non era chiaro se per evitarli o per ucciderli.
- Sono felici di vederla vivo? - grid• Morgenstern, al di sopra del
fragore dei motori.
Stasov era soprappensiero. - Contenti non Š la parola. Essi sanno che
non Š stato portato a termine qualcosa. Aspetteranno.
- Non accade sempre che qualcosa sia lasciata incompleta, Ilya? Non
capisco.
- Se qualcosa fosse sempre lasciata incompleta, allora non sarebbe
permesso mai a nessuno di morire.
Morgenstern rinunci• a capire e torn• a guardare i delfini. La maggior
parte di loro era di un grigio-blu scuro, la pelle liscia e lucente al
sole, ma alcuni di loro avevano degli allacciamenti ruvidi sui
fianchi, le modificazioni elettroniche che li rendevano strumenti di
guerra.
- Quelli sono delfini militari sovietici - disse Morgenstern. - Che
cosa fanno nella Baia di Manila?
Stasov scosse la testa. - Non Š un problema mio, ora. Che se ne
preoccupino i giapponesi e gli americani.
- Perch‚? Le forze sovietiche sono state demobilizzate.
- E' vero. La flotta del Pacifico non esiste pi, i giapponesi hanno
occupato Vladivostok, e non esiste nessuna unit dell'Armata Rossa a
est della Lena. Ma i delfini non sono cittadini sovietici, no? E non
hanno firmato nessuna dichiarazione di resa. - Si appoggi•
all'indietro sulla sua sedia e si strinse il nodo della cravatta.
Non avevano parlato molto di delfini negli ultimi due giorni. Avevano,
invece, parlato per lo pi di esplorazione spaziale, delle ambizioni e
dei sogni di Morgenstern, come se Stasov fosse entrato nella sua vita
per salvarla. Come se egli e i suoi delfini potessero in qualche modo
farle raggiungere lo spazio.
Guardava i delfini che guizzavano fuori dall'acqua e ricordava le
immagini della TV: la forma piatta della portaerei giapponese "Hiryu"
in fiamme, nella Battaglia dello Stretto di Perouse, e la prua
dell'incrociatore "Aegis", "Jonathan Wainwright", che spariva,
abbattuto nella difesa di Nagalaska, ambedue navi affondate dai
delfini. I sovietici erano stati sconfini, ma i delfini erano ancora
l e nessuno poteva anticipare le loro azioni.
Guard• il Colonnello Ilya Sergeiivich Stasov, lo Squalo
dell'Uglegorsk, e not• che, per la prima volta da quando l'aveva
incontrato a Homma, stava sorridendo.


Le Maldive, giugno 2029.

Stasov salt• gi dalle rocce scivolose, ricoperte di alghe, per
osservare una piovra rimasta intrappolata nella vasca, sospinta
dall'alta marea. Si avvicinata troppo alla spiaggia, probabilmente in
cerca di granchi da mangiare, ed era rimasta prigioniera quando la
marea si era abbassata. Lumache e ricci di mare vorticavano inermi tra
i tentacoli della piovra. Le rosse stelle marine e gli anemoni di mare
attaccati ai massi sul lato della vasca sembravano incuranti di tanto
scompiglio. Stasov si avvicin• e batt‚ un dito contro la piovra.
Questa scatt• nera di paura e irritazione e and• a ripararsi tra due
massi. I ricci di mare si riassestarono e raddrizzarono i loro aculei.
Le onde s'infrangevano contro le rocce con frastuono crescente al
rialzarsi della marea, e mandavano bagliori nella luce accecante del
sole. Qua e l l'acqua trovava una resistenza momentanea contro
qualche banco o accumulo di alghe, ma si ergeva nuovamente al di sopra
di qualunque ostacolo, inesorabile, sommergendo completamente la
vasca. La piovra si lanci• e svanć verso acque pi profonde e sicure.
Stasov uscć dall'acqua e si allontan• dal pesante odore di iodio che
emanava dalle alghe scure. Gli isopodi, quegli insetti marini,
fuggivano all'impazzata sotto i suoi piedi tra i licheni neri e i
datteri di mare, l dove le onde si ritiravano. Al di sopra vi era il
nudo, ruvido masso dove il capodoglio si cuoceva al sole del mattino.
La sua mole liscia e nera incombeva sul masso come una montagna
vivente in sogno, e si delineava contro il cielo sgombro di nubi. Era
saltato fuori dal mare durante la notte, abbattendosi sull'asciutto.
Se non avesse ricevuto cure, sarebbe morto prima di mezzogiorno.
Osservandolo con apprensione, Stasov inciamp• contro un cavo mobile
che ora percorreva l'isola in ogni direzione. Una mano ferma gli
afferr• un gomito e lo trattenne.
- Siamo pronti a pompare - disse la voce strascicata di Habib
Williams. - Questi tubi sono soffici, ma sotto pressione diventano
come tronchi d'albero. Avvolgitene uno intorno alla gamba e ti ritrovi
nei guai.
Williams era un piccolo uomo magro, con una testa calva e scura. Il
suo completo bianco era di un perfetto taglio sportivo e portava un
parasole giapponese a fiori. Scrut• Stasov con malcelato sospetto. -
Mi dica, ora. Perch‚ Š qui lei? - Con la punta dell'ombrellino fece
saltare l'interruttore, unica caratteristica esterna dell'ovoide
satinato, della misura di un tavolo. L'acqua marina riempć il tubo e
spruzz• fuori da centinaia di rubinetti, brill• come un arcobaleno nel
sole, e si rivers• sui fianchi della balena.
Stasov lo fiss•, i suoi pallidi occhi azzurri inespressivi come uova
di pettirosso. - Stiamo cercando si salvare una balena - gli disse. -
E' il suo compito, o mi sbaglio?
Williams aggrott• le sopracciglia. - Lo Š. Salvataggio dei cetacei per
l'Oceano Indiano. Molto bello, un'occupazione rispettabile, fa piacere
a mia madre, anche se vuol dire non poter tornare a casa molto spesso.
Conosco la mia professione. Quello che non so Š la ragione per cui
Martha e Jolie e Ahmed siano "qui", in questa piccola roccia delle
Maldive. L'acqua Š chiara e calma come non l'ho mai vista. Da un mese
non abbiamo avuto un solo accenno di temporale. Tempo da Halcyon. In
questo periodo dell'anno stiamo di solito seduti in giardino a
Colombo, a giocare a carte. Martha di solito vince. Sostiene che si
tratta esclusivamente di abilit.
Gir• intorno al perimetro della gettata, bagnandosi i piedi nei rivoli
che fluivano ora nelle fessure e scendevano verso il mare. Stasov lo
seguć. Dall'altra parte della balena vi erano due elicotteri di grossa
portata che avevano trasportato la squadra di salvataggio da Sri
Lanka. A fianco stava il piccolo elicottero militare di Stasov, la sua
stella rossa sbiadita dal sole e dal sale. Stasov pens• alla stella
marina rossa nella vasca. Quell'elicottero aveva combattuto nelle
Aleuzie, ma la sua stella sembrava ora avere carattere pi acquatico
che militare. Qualche volta le cose cambiavano ineluttabilmente. Ahmed
e Jolie avevano impiantato una gru che si curvava sopra la schiena del
capodoglio come la coda di uno scorpione.
- Poi, stamattina, si alza il sole, e il satellite perlustratore
dell'Oceano Indiano mi segnala un parmaceta gigante che giace sulle
rocce nel mezzo dell'oceano, come il giocattolo dimenticato di un dio
bambino. Succede. Ho visto branchi di balene arenarsi e branchi di
delfini abbattersi contro le scogliere fino ad arrossare l'acqua di
sangue. Anche i capodogli si riversano sulle isole e muoiono. Non so
perch‚ lo facciano, ma mi ci sono abituato. Quello a cui non sono
abituato Š giungere sulla scena e trovare il Colonnello Ilya
Sergeiivich Stasov sdraiato accanto alla balena, avvolto in una
coperta, che osserva la balena morire.
- Non ho questo titolo - Stasov dichiar• seccamente. E si strinse
nervosamente le mani larghe. - Il vascello di ricerca "Andrei
Sakharov" Š alle Maldive da due settimane, alla distanza di un'ora di
volo da qui, a "Ihavandiffulu Atoll". - Stasov ebbe difficolt a
pronunciare il nome straniero. - Ed Š la mia stazione da due anni.
- Oh, davvero? - Williams risuon• pesantemente sarcastico. - E non ha
paura di affondare se si avventura in mare aperto? Il mare Š diventato
un posto pericoloso di questi tempi. E immagino che lo sia ancora di
pi per le navi sovietiche.
- Non abbiamo avuto problemi. - Stasov respir• profondamente. - Ho
sentito un richiamo attraverso le nostre boe a idrofono. Due settimane
fa. Un richiamo profondo, dal Bacino Arabo. Se riascolta la
registrazione, lo sentir anche lei. - Tre inarcate, a breve
successione. Un richiamo semplice. Diceva: "La Bolla si Š alzata". Un
richiamo alla preghiera. Ed eccomi qui.
Williams lo fiss•, incredulo. - Sta scherzando?
- Assolutamente, no. - Stasov sollev• la sua faccia abbronzata, dagli
zigomi alti, verso il cielo. - La Bolla si Š alzata.
- Ma che idiozie! - Williams faceva fatica a controllare la propria
collera e si volt• altrove.
Stasov scosse la testa, s'inginocchi• e ripieg• la coperta. - La
balena sta morendo. Lei vuole giocare a fare l'ufficiale di milizia, a
interrogarmi e a cacciarmi dall'isola. Lo posso capire. Ma mentre
stiamo a discutere di teologia, la sua massa le sta schiacciando i
polmoni. Non avete il respiratore pronto?
Il soccorritore di cetacei chiuse l'ombrello con uno scatto, facendo
saltare diverse delle sue delicate bacchette. Stasov lo seguć verso la
gru. Williams si tolse con cura l'abito bianco e finalmente rimase,
nella sua panciuta dignit, in calzoncini rossi. Anche Stasov si
svestć.
I due uomini salirono su per la gru e furono issati sulla schiena
della balena, liscia e calda sotto i loro piedi nudi. Immediatamente,
furono anch'essi inondati dalla doccia che si riversava sul cetaceo.
Williams tir• il tubo respiratorio lungo la gru e l'accost•
all'apertura respiratoria del capodoglio, asimmetricamente localizzata
sulla parte alta, a sinistra del muso. Stimol• i puntelli appropriati
dell'agopressione con una sonda ultrasonica, per anestetizzare la
parte sensitiva. Poi inserć il tubo e aggiust• le anse che lo tenevano
fermo. Un segnale ad Ahmed, e una ventata d'aria gonfi• i polmoni
della balena.
- Possiamo dargli una ventata d'aria, ma la perderemo - disse
Williams. - C'Š troppo danno interno che non si pu• vedere. Deve aver
fatto un salto record, da quello che si pu• vedere. Costole rotte,
organi fratturati, emorragie interne. Un disastro. E questa povera
creatura sarebbe la sua "Bolla" che si Š "alzata", Stasov? - Ed ebbe
un moto d'impazienza e di noia. - Superstizioni di delfini. Un'altra
delle loro stupide bugie.
Dalla schiena della balena, i due uomini potevano abbracciare lo
sguardo attraverso tutta la distesa del mare che circondava l'isola.
Innumerevoli spruzzi bianchi punteggiavano l'acqua calma. Delfini,
centinaia di delfini, danzavano nel mare. Circondavano l'isola fino
all'orizzonte. Williams li guard•, con espressione carica di disgusto.
- Abbiamo sentito un sacco di menzogne in questi ultimi anni -disse
Stasov, indicando i delfini. - Il senso della Rivelazione dei delfini
non Š una di queste.
- Mi sta chiedendo di accettare la religione di quei sicari? - ritorse
Williams. - Sono qui per ucciderci? Lei... - Un improvviso lampo di
intuizione gli attravers• il viso. - Vogliono uccidere lei. Per quello
che lei ha fatto loro a Uglegorsk, e anche dopo.
Stasov scosse la testa lentamente. - Essi sanno che io devo vivere,
per ora. E quando sar arrivata la mia ora di morire, lasceranno a me
stesso il compito. I delfini sanno rispettare le regole elementari
dell'educazione. No, Signor Williams, essi sono qui a testimoniare
l'alzarsi della "Bolla". La Grande Balena nuota sotto la superficie
della realt, e i colpi della sua coda sono il turbinio e i vortici
delle nostre vite. Un colpo della sua coda ha trascinato questo
capodoglio fuori dal mare. Il dio si alza per dare la vita. Quando si
alzer Lei, tutto cambier.
- No, Stasov, non mi convinci. - Williams si mosse come se volesse
mettersi a passeggiare, ma non c'era spazio lass, sulla schiena della
balena. - Lei fa finta di non capirlo, ufficialmente, ma sa bene che i
delfini sono in guerra con la razza umana dalla fine della Guerra del
Pacifico. Affondarono la nave incrociatore "Sagittarius", al largo
della Martinica. Hanno sventrato battelli da pesca. Hanno ucciso
bagnanti in mare aperto. E' stato un eccidio perpetrato a casaccio.
- Eccidio? - chiese Stasov. - Guerra? Azioni di bestie insane? Di
quale di queste si tratta?
- Lei si Š divertito con i suoi giochetti legali. Ecco come ha potuto
evitare la punizione, cosć faranno anche loro.
- La prova che abbiano ucciso qualcuno Š opinabile.
- Ambigua! - La faccia di Williams divent• rossa. - Colonnello Stasov,
dolore e morte non sono opinabili.
- E' vero - ammise il Colonnello in tono serio. - Lo so. Ma qualunque
cosa sia successa, gli americani e i giapponesi sono stati costretti a
negoziare a Santa Barbara, riconoscendo i diritti dei delfini. Cosa
che avrebbero dovuto fare anni prima. Alla fine della Guerra del
Pacifico.
- Questo Š colpa sua, che lei sia maledetto! E' stato lei a
torturarli. La sua stazione di ricerca sui cetacei a Uglegorsk si pu•
paragonare a Dachau e Auschwitz. Li ho visti morire a Nagalaska. Ero
lć.
Stasov respirava lentamente. - Eravamo in guerra. Una guerra per la
sopravvivenza. - La sua voce era calma, quasi trasognata. - Ma la
prossima volta che lei fa un paragone, usi alcuni dei nostri campi di
concentramento, come Vorkuta e Kolyma, invece di quelli tedeschi. Mio
nonno Š morto a Vorkuta. Offre un miglior accostamento. - Cosć,
Williams era stato a Nagalaska. Aveva visto il sangue dei suoi
compagni cristallizzarsi sulla brina blu ghiacciata e aveva provato un
grande dolore quando la "Wainwright" era affondata?
- Lei li ha torturati e ora accetta la loro fede? - chiese Williams.
- Non sapevo che li stavo torturando - rispose Stasov dolcemente. -
Non lo sapevo. Ma senza capire la loro fede non avremmo potuto mai
imparare a comunicare con loro.
- Parleremo loro a Santa Barbara. Ma lei, grazie a Dio, non sar lć.
- No, mi Š stato proibito. Sono un criminale di guerra. - Stasov si
par• gli occhi. Era finalmente l, all'orizzonte nordico? Guard•
mentre l'enorme sagoma bianca dell'"Andrei Sakharov" avanzava sulla
superficie dell'acqua. Da questa distanza appariva pura, quasi
giapponese. Le sue rudimentali saldature e i suoi cavi rattoppati non
si vedevano. - Noi vogliamo la balena, Signor Williams. - La sua voce
era distante. - Intendiamo impossessarcene.
- Cosa? - Williams seguć lo sguardo di Stasov. La sua faccia s'indurć
non appena scorse la nave con la stella rossa a prua. - Maledetti, non
potete averla.
- E' la sua risposta, Signor Williams? La "Sakharov" Š equipaggiata
con ogni sistema per mantenere la balena in vita. Diversamente, morir
in poche ore. Lei lo sa.
La "Sakharov" era stata una volta un sottomarino nucleare di Aleksandr
Brykin, sotto altro nome, e aveva trasportato missili balistici nei
suoi tubi di lancio, missili che, fortunatamente per la sopravvivenza
della razza umana, non erano mai stati lanciati.
- Meglio morta che nelle sue mani - grid• Williams.
Stasov fece un ampio gesto verso il mare straripante di delfini,
visibili dalla schiena della balena. - I delfini non sembrano essere
d'accordo con lei.
- All'inferno i delfini! Probabilmente vogliono attirare la balena
nell'oceano per poterla violentare. - Si pass• una mano sul cranio,
riconquistando il controllo di se stesso. - No, non posso farlo.
Metterebbe a repentaglio i negoziati del Trattato a Santa Barbara. - E
sorrise, soddisfatto di questa scappatoia legale. - Se dovessimo
consegnare una balena nelle mani del Colonnello Ilya Sergei...
- Mi fa piacere che lei si preoccupi di pronunciare il mio nome per
intero - disse Stasov in tono glaciale. - Ma chi Š ora il burocrate? A
meno che noi non interveniamo, la balena morir. - Poi fece una pausa,
riflettendo sulla minaccia che avrebbe pronunciato subito dopo. Da
molto tempo aveva deciso di lasciarsi alle spalle la sua natura
militare. - La "Sakharov" ha imbarcato un plotone di truppe russe al
porto di Karachi, quando ci siamo fermati a fare rifornimento una
settimana fa. Li stiamo portando a Oman. Credo che ci assisterebbero
volentieri per salvare la vita a questa balena.
Williams guard• lontano, verso la nave che si avvicinava. - Lei non mi
lascia alcuna scelta - disse quasi inebetito.
- Le scelte di solito sono un'illusione...


Al largo di Hokkaido, settembre 2030.

L'aereo si era inclinato a tribordo e vibrava vigorosamente come se
l'aria fosse all'improvviso diventata solida. Il pilota, Benjamin
Fliegle, sorseggi• lentamente il tŠ verde fumante nella sua tazza di
terracotta, che riadagi• sullo scaldavivande incorporato nel pannello
dei controlli. Il nevischio fuori si era infittito e il
tergicristallo, non abbastanza caldo, s'incepp• sotto lo spessore del
ghiaccio. Fliegle, con la sua piccola testa che si alzava al di sopra
della toga color zafferano, come una patata su di una zucca rossa, si
pieg• in avanti e picchi• il pugno sul parabrezza. Un pezzo di
ghiaccio si stacc• e il tergicristallo cominci• a muoversi pi
regolarmente. Il velivolo sussult• pericolosamente ed egli afferr• il
volante. - Pezzo di rottame - brontol•.
Il boccaporto sul retro si aprć e una figura gonfia d'imbottitura
entr• insieme a una folata di aria gelida.
- Come sta? - chiese Fliegle.
- Non c'Š male - rispose Olivia Knester liberandosi del termosuit. -
E' solo rumoroso. L'esaminer• pi attentamente in laboratorio quando
arriviamo a Kushiro, ma per ora non c'Š da preoccuparsi. - Rimasta
nuda, indoss• anch'ella una toga arancione. Era una donna piuttosto in
carne, di mezza et, con delle sopracciglia curiosamente arricciate,
come a compensare la testa rasata a zero. - Comunque, Benjamin...
- Sć, Olivia?
- Il motore non condivide la tua teoria sulla equivalenza d'identit
interscambiabile tra parti diverse. Il motore non migliorer
consumandosi, ma si logorer fino a diventare un rottame. Tieni il
serbatoio pieno d'olio. Finch‚ non raggiungiamo "satori" e lasciamo la
Ruota, dobbiamo mantenerlo lubrificato. - Si volt• verso Stasov. -
Indossi il - termo-suit. Dovremmo trovare tra non molto la conca delle
orche. Benjamin, Š meglio cominciare a mettersi in ascolto.
- Fliegle cal• il velivolo a una altitudine di trenta metri e smorz• i
motori fino a che la velocit non raggiunse i trentacinque chilometri
l'ora. Una leva sul pannello rilasci• l'idro-cuffia. Mentre Stasov
indossava il suo termo-suit, Fliegle indoss• la cuffia e si appoggi•
all'indietro ad ascoltare, chiudendo gli occhi. L'altitudine continu•
a diminuire.
- Benjamin! - chiam• Knester seccamente.
Rialz• il muso del velivolo. - Scusa - mormor•.
Stasov mise le pinne, si aggiust• le lenti acquatiche sul naso e
agganci• l'ossigenatore alle valvole sul collo. Poi si attacc• il
microfono alla gola, si allacci• il conduttore e l'analizzatore dei
segnali e attiv• il sonoro alla giuntura della mandibola. Il suono
dell'orca includeva frequenze ultrasoniche dai 5 Hz agli 80 KHz.
La sua attrezzatura comprimeva e analizzava l'informazione in modo da
rendere possibile la comunicazione.
Il rimanere seduti sulla penisola rocciosa di Shiretoko Hanto, il
comunicare con le orche, notoriamente suscettibili, aveva reso gli
esoterici buddisti del Monastero di Yumeji indifferenti agli eventi
umani.
Fortunatamente, questo atteggiamento si adeguava alle esperienze di
Stasov, cosć era stato accolto alla pari. I monaci lo avevano
rassicurato. Tutti volevano evitare la Ruota, ma tutti vi erano
attaccati. La Morte, nella filosofia dei delfini, era l'unica via di
liberazione, una liberazione che i buddisti non concedevano a se
stessi. Stasov si scoprć pi delfino che buddista.
- Lo sento - disse Fliegle. Knester annuć a Stasov e le portiere si
spalancarono.
S'inoltr• fuori, si ripieg• su se stesso e si lasci• andare nell'aria
grigia e piena di vapori, poi urt• dolorosamente contro una forte
ondata. Mentre l'acqua si richiudeva sopra la sua testa, i riflessi
inseriti nel suo sistema nervoso autonomo presero il sopravvento. Il
suo diaframma smise di inalare aria dai polmoni in apnea condizionata
e cominci• a ricevere ossigeno dalle branchie della carotide.
Si mise ad ascoltare i suoni che gli giungevano attraverso la cuffia,
separando i segnali dai rumori. Una nota lunga risuon• scemando e
trov• risonanza nella frequenza delle giunture dei suoi arti,
intensificandosi fino a che il suo intero corpo fu pervaso dal dolore.
Il grido di un'orca poteva fratturare le ossa, far scoppiare organi
interni e riempire i polmoni di sangue.
La voce dell'orca si spense in lontananza, poi risuon• pi profonda,
ed egli si sentć improvvisamente assalito da un terrore irragionevole.
I suoni dell'orca potevano uccidere, o potevano provocare reazioni di
paura, pompare adrenalina nelle vene degli uomini e accelerare i
battiti del cuore. I trucchi dei cetacei non erano sconosciuti a
Stasov. In un angolo della sua mente si aprć uno spiraglio da cui le
acque scure della paura fuoriuscirono, e fu nuovamente calmo e padrone
di se stesso.
- Salute a te, Stasov - pronunci• una voce metallica. Parl• con la
cadenza semplice che si usa per parlare con i bambini, o con gli
esseri umani. La voce gli era familiare. Dove l'aveva sentita prima? -
Tu hai parole da pronunciare. Pronunciale, allora, poich‚ i pensieri
devono essere raggruppati e inghiottiti, perch‚ non si disperdano nel
mare aperto. - Ma certo.
- Siamo lontani da Nagalaska, Tamburino degli Abissi - disse Stasov,
usando il soprannome lievemente denigratorio che quest'orca si era
guadagnato per la sua abitudine puerile di battere contro le carene
dei barconi da pesca giapponesi. - Immagino che la tua fame sia stata
soddisfatta.
- La mia fame Š infinita. Ma tu sei ancora cibo avariato. Mi devo
accontentare d'inghiottire le menti degli uomini, lasciando i loro
corpi agli squali e ai pesci.
- Stai ancora inseguendo primizie? - chiese Stasov.
- Sć. Assaporo le pinne del "Goldbach Conjecture". Presto vi affonder•
i miei denti. Non si salver.
Tamburino degli Abissi era un matematico altamente stimato, tra gli
uomini cosć come tra le orche. I delfini, d'altro canto, non avevano
nessun interesse per la matematica. - I tuoi attacchi si stanno
indebolendo - disse Stasov, educatamente.
- Non cercare di distrarmi con queste sciocchezze. Manifesta i tuoi
desideri e allontanati dai miei mari! - Il tonante suono della voce di
Tamburino degli Abissi vibr• contro le costole di Stasov. Egli rimase
lć sospeso da solo, nell'oscurit, e soltanto la velocit con cui gli
arrivavano le risposte gl'indicava la prossimit dell'orca.
- La Bolla si Š alzata - disse Stasov. - Noi abbiamo la nostra
avanguardia, la balena che ci segnala l'avvicinarsi dell'Eco del dio.
Noi lo vogliamo togliere da questi mari e dirigerlo verso le acque pi
profonde del pianeta Giove. Io ti chiedo di permetterci questo e di
avanzarne la proposta nei tuoi negoziati di Santa Barbara.
Stasov si era ormai reso conto della trappola in cui, tra assurdit e
improvvisazione, egli si era lanciato. Sfortunatamente, si ritrovava
di conseguenza in queste acque nere a inoltrare una richiesta che
avrebbe potuto costargli la vita, e prima di portare a termine la sua
missione.
- Percepisco l'eco della tua colpa, Stasov - disse l'orca. - Ne
afferro l'antica fugace forma nella tua voce. Tu sei uno stolto, come
lo sono gli uomini. I tuoi crimini erano necessari e perci• non furono
crimini. Tu puoi vivere o morire, Š una tua scelta. Deve forse un'orca
dirlo a un uomo?
- Allora questa preda Š lasciata alle nostre mandibole? - chiese
Stasov con tono ufficiale, ignorando le argomentazioni dell'orca.
- Sć - rispose il Tamburino degli Abissi. - Ma voi uomini non
conoscete l'improvvisa corrente che vi ha raggiunto. Noi vi forniremo
una guida: l'Eco del dio.
- Il messia - esclam• Stasov sorpreso.
- Definizione tua, inadeguata e ingannevole, ma l'accettiamo.
Si era aspettato che l'orca avrebbe insistito nel fornire, come scorta
al capodoglio, un cetaceo la cui intelligenza era analoga a quella di
una grande scimmia, ma non si era aspettato il messia in persona.
Tuttavia era logico. Il tutto seguiva uno schema prestabilito. - Noi
organizzeremo il tutto. Non sar facile. Non abbiamo mai trasportato
un cetaceo nello spazio, prima d'ora. Per un'orca...
- Non un'orca! La voce del dio echeggia senza parlare e l'Eco non Š
un'orca! - Il Tamburino degli Abissi si era improvvisamente infuriato,
le sue sillabe troncate come pesci a cui fosse stata staccata la
testa. L'orca parl• coniugando in forma strana, usata sia per
descrivere sogni, sia per enunciare dichiarazioni di verit
apodittica, come "tutte le cose muoiono", oppure "prima di essere
concepito, non esistevo". Stasov seguiva a malapena questa grammatica.
- Stai attenta al tuo retto - disse Stasov in delfino, ricordando
l'insulto lanciatogli al loro primo incontro, nelle acque di sangue di
Nagalaska. - Il Tricheco ti sta ancora aspettando.
L'orca rimase in silenzio per un lungo momento. - Avrei dovuto
mangiarti allora, Stasov, in quel mare agitato. Ma avevo la pancia
piena di uomini. Per l'ultima volta, temo. Tu hai l'Avanguardia, un
capodoglio ferito che desideri trasportare su Giove, un pianeta che
nessuno di noi abitanti del mare ha mai visto. Remora del dio deve
accompagnare la balena, poich‚ il Tempo del Soffio si avvicina. Vai
ora al Santuario Egeo del Delfino. Questo Š il tuo fine. E buona
fortuna a te e ai tuoi compagni con coloro che troverete l.
E si mise a ridere, a ridere, "a ridere", con un suono simile a un
treno che deraglia. Taglienti come lame di un rasoio, i loro pensieri
erano permeati di sangue, mentre la loro conversazione affrontava
ambigui argomenti filosofici, cinici pensatori, dispensatori di
giustizia e di morte, e le orche ridevano a lungo, e di una risata
amara. Il Tamburino degli Abissi interruppe la sua risata.
- Sei pronto a pagare il tuo prezzo?
- Lo sono. Qualunque esso sia. - Stasov non riusciva a controllare i
battiti del suo cuore.
- Rilassa le tue membra e rimani immobile. Felice di averti
incontrato, Ilya Sergeiivich Stasov.
Stasov si rilass• e rimase a galleggiare, con le braccia e le gambe
aperte. Improvvisamente, e nel silenzio assoluto, la forma agile
dell'orca guizz• veloce in tutti i suoi dieci metri di lunghezza,
nera, poderosa, e svanć di nuovo.
Il dolore fu improvviso come il colpo di un'ascia. Stasov si ritorse
in agonia e riuscć ad attivare il gavitello della sua armatura. Questo
cedette e lo trasport• alla superficie. Sput• l'acqua, cerc• di
prendere fiato nell'aria fredda, e finalmente riuscć a urlare.
Nel cielo plumbeo l'aero-veicolo fluttu• sopra di lui, a forma di
cuneo con due eliche a prua. Volteggi• lentamente e gli si avvicin•,
ronzando come un enorme insetto. Le cinghie di salvataggio si calarono
e fu trasportato delicatamente a bordo. Il mare si aprć davanti a lui.
Guard• gi. Gocce di sangue scarlatto colavano rasentando i suoi piedi
dondolanti. Unico colore nel grigio del mare e del cielo. Una pinna
dorsale della lunghezza di quasi due metri tagli• curva la superficie
dell'acqua. La testa dell'orca era appena visibile, tra le onde che la
sovrastavano dolcemente. Tamburino degli Abissi guizz• per un attimo e
svanć.
Knester era pronta con disinfettante e bende. - Quale precisione
-osserv• con ammirazione. - Ha chiesto un prezzo che solo un uomo
poteva pagare.
- Maledetto - mormor• Stasov a denti stretti.
- Non faccia il bambino. Una ferita come questa Š un complimento. Di
solito un'orca negli scambi, per mostrare il suo disprezzo, colpisce
con un colpo di coda che ti solleva per aria, o ti buca i timpani con
le sue grida. Il sangue Š un segno d'onore e di rispetto, ma di solito
provoca la morte o una grave mutilazione a vita. Il girare della Ruota
Š al di l delle nostre conoscenze, e non riesco a capire il perch‚ ha
pensato che lei meritasse un simile gesto.
- Siamo vecchi amici - disse Stasov. Sapeva che la donna aveva
ragione. Non un qualunque uomo, a cui un'orca avesse chiesto un prezzo
di sangue, finiva con il perdere soltanto le ultime due dita della
mano sinistra.


Leningrado, febbraio 2031.

Erika Morgenstern avanzava cupamente lungo la strada colpita dalle
raffiche del vento. Pulviscolo di ghiaccio sporco si sollevava dal
fiume Neva, lasciando intravedere l'acqua nera sotto la schiuma che si
gelava immediatamente.
Dai blocchi di granito scuro della banchina si ergeva l'elegante citt
barocca. Malgrado il freddo, la donna si sofferm• per ammirare la
guglia dorata della Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo che
s'innalzava sulla citt ghiacciata.
Ilya Stasov era ospite in un bellissimo palazzo del diciottesimo
secolo, con bianchi pilastri, che risaltavano contro la neve. Due
guardie con lunghi cappotti pesanti e fucili sulle spalle
controllarono i suoi documenti prima di aprire la porta.
- Voi avete avuto degli incontri all'Istituto di Ricerca Spaziale? -
domand• uno di loro, un ragazzo gioviale con un ciuffo di capelli
lisci e biondissimi che gli scappava fuori dal berretto di pelo. -
Molto bene. Era da tanto tempo che aspettavamo che gli americani
venissero a chiederci il nostro aiuto. Siamo poveri, ma intelligenti.
Non era esatto, naturalmente, e lei veniva dalla Nuova Zelanda, non
dall'America, ma Morgenstern non si sarebbe certo messa a discutere
con lui. Al contrario e gli ricambi• il sorriso. - Sć. Andiamo su
Giove. - Non era sicura se doveva crederci: ma l'accordo era stato
firmato proprio quella mattina.
- Insieme, eh? E' l'unico modo di viaggiare tanto lontano. - Le aprć
la porta e le fece il saluto.
Il vestibolo era scuro e, come tutti i vestiboli russi, odorava di
cavolella, questa volta unito all'odore dell'incenso proveniente da
una lampada che ardeva davanti a un'icona, in un angolo.
Si sentiva il ticchettio delle tastiere, seguito da un lieve lamento,
come la registrazione di un richiamo di balena. Una donna silenziosa,
sospettosa, con i capelli severamente tirati indietro, guid•
Morgenstern su per le scale verso la facciata esterna del palazzo.
Stasov la salut• formalmente, dandole tre baci sulle guance. Ella lo
trattenne un animo di pi. Era ingrassato dai tempi di Homma, pur
essendo ancora piuttosto magro. - Che piacere rivederla - egli disse.
- Vi Š riuscita? - Aveva i capelli tagliati cortissimi, a spazzola.
L'aria stanca e profonde occhiaie.
- Sć - gli rispose. E pens• a tutti gli anni di lavoro che l'avevano
finalmente portata qui a Leningrado. - Andiamo. Per quanto riguarda
l'idea, per quanto riguarda la sponsorizzazione...
La donna silenziosa servć due bicchieri di tŠ forte. Stasov addolcć il
suo con un cucchiaino di marmellata di more. La sua mano sinistra non
era pi bendata, e tratteneva il bicchiere con il pollice e le prime
due dita. - Non Š uno scherzo. La Delegazione Delfina provveder ai
fondi, cosć come hanno dichiarato a Santa Barbara.
- Ma perch‚? Per trasportare una balena inferma su Giove? Non ha
senso!
- Gliel'ho detto, e lei non vuole convincersene. Segna l'arrivo del
loro dio. Se lei non capisce questo, Š naturale che le sembri assurdo.
- Che Dio ci protegga dalla religione. - Ella prov• un profondo senso
di frustrazione. - E come se fossi finanziata da una zitella un po'
stramba che vuole mandare il suo pechinese a visitare Giove.
Egli picchiett• l'orlo del bicchiere con il cucchiaino. - Questa zia
zitella ricever miliardi di dollari dal concordato di Santa Barbara.
Quel denaro vale tanto quanto quello proveniente da altre fonti. E'
l'unico modo per avere successo...
- Questo lo capisco. Ma non deve piacermi per forza.
- A nessuno di noi deve piacere per forza quello che deve essere
fatto.
Nella stanza accanto squill• un telefono. - Mi scusi - disse. - E'
Vladivostok. - Uscć dalla stanza, curvo, trascinandosi. Aveva
l'aspetto estremamente stanco. La stanza era ingombra di fogli.
Diagrammi e mappe ricoprivano muri tappezzati con una carta da parati
molto vivace. Il tavolo dai piedi di leone scolpiti era coperto da
carte nautiche e sonogrammi. Un lettino rifatto nella severa maniera
militare era l'unica area libera. Una pesante cartella rossa era
appoggiata sulla scrivania. Spinta da una strana curiosit,
Morgenstern l'aprć. "Note-negoziati Santa Barbara" vi era scritto. La
data era quella del giorno prima. Scorse le pagine. Giorno per giorno,
i negoziati, che avevano avuto luogo sotto la massima segretezza,
erano lć, riportati e annotati in ogni dettaglio dalla calligrafia di
Stasov. Richiuse la cartella e torn• a sedere.
Continuava a sentire la voce di Stasov. Cerc• di ascoltare, ma non
riusciva ad afferrarne le parole. Dopo un momento, si rese conto che
egli non stava parlando inglese n‚ russo. Stava parlando in un
dialetto delfino. La... persona all'altro capo del filo non era un
essere umano.
- I delfini hanno combattuto una guerra con noi? - gli chiese, quando
torn•.
- Con chi?
- Non sia reticente con me, Ilya! - insist‚ lei con calore. - Hanno
affondato navi, quei suoi maledetti veterani?
- Fino a che il Trattato di Santa Barbara non Š stato firmato, la
guerra tra umani e cetacei continuer, come Š sempre stato. E' solo
che recentemente la battaglia si sta svolgendo in modo pi equo. E'
tutto quello che posso dire.
- Che cosa ha a che fare lei con Santa Barbara?
Egli lanci• un'occhiata alla cartella rossa. - Non mi Š permesso di
avere contatti con Santa Barbara. Ma mi piace esserne informato.
- Come riesce a tenere in testa tutto quanto? La balena... lei pu•
aver iniziato un'altra guerra, quando l'ha presa con la forza a quelle
genti nell'Oceano Indiano.
- Dovevo farlo - disse Stasov. - Non c'era altro modo. E' un passo in
avanti verso la realizzazione del progetto.
- L'aveva previsto quando c'incontrammo a Homma?
- Vidi il sole. Vidi la libert. Vidi che dovevo ancora vivere. Sentii
la mia redenzione, ma non ne vidi la forma. Ci sono ancora tante cose
che devo fare. Alcune di esse mi fanno paura.
- Ha visto me, Ilya? - ella chiese con la gola chiusa. - Ha mai visto
me? O quello che posso fare?
- L'ho vista, Erika. Ma ho visto anche me stesso. Non cerchi di
attribuirmi un'autorit che non possiedo. Lei capisce meglio di
chiunque altro ci• che ho in mente.
Ella sospir•. - Lei non ha un bell'aspetto, Ilya. Dorme bene?
- Non tanto. Incubi.
- Certo. Homma.
- No - rispose lui. - Uglegorsk.


Il Mare Egeo, aprile 2031.

Le scogliere si ergevano a trecento metri sopra il livello delle
acque, circondando la baia per trentacinque chilometri circa, come
braccia protettive. Candidi villaggi stavano appollaiati sull'orlo,
abbagliati dal sole del mattino. Il cielo era di un blu terso, senza
nuvole. Stasov si appoggi• all'indietro contro l'albero, e ne sentć il
calore sulla schiena. La "San John Chrysostom" cigolava serenamente
attraverso le acque calme della baia. La sua guida, Georgeos
Theodoros, regolava in silenzio la navigazione. Ondeggiarono alla
brezza e cominciarono a sussultare sull'acqua. Presto emersero dalle
acque della Baia di Thera e furono sulle acque aperte del Mare Egeo.
- E' chiamato il Tempio di Poseidone Pankrator - disse Theodoros. Si
rilass• contro lo sterno della nave, volgendo il suo viso barbuto al
sole come un gatto, occhi socchiusi e un braccio appoggiato sulla
barra del timone. - Poseidone, Governatore del Tutto. Illusione,
quella di attribuire un'antica supremazia al dio del Mare. Governava
il mare e i cavalli. Non molto di pi. Ma il Tempio Š l'unica
struttura cosć vicina a noi che Š sopravvissuta all'eruzione del
vulcano Strogyle, in quel nero giorno di quattromila anni fa, ecco
perch‚, forse, Poseidone se ne Š appropriato. Quella eruzione diede
origine alla Baia di Thera, con il crollare del vulcano.
Erano passati diversi anni da quando Stasov aveva incontrato
Theodoros. Il greco era invecchiato con grazia e nella sua barba si
scorgevano peli grigi. Aveva acquistato una discutibile notoriet,
dovuta all'associazione delle sue teorie con l'azione infamante di
Stasov a Uglegorsk, ma non sembrava esserne minimamente turbato. Nei
suoi mari acquistava un'aria assolutamente eccentrica. Malgrado le
regole che governavano i territori dei delfini nell'Egeo proibissero
l'uso di vascelli dai motori rumorosi, certamente non prevedevano una
carena di legno, costruita a mano, annerita con la pece, le vele
ritinte e il paio d'occhi dipinti a prua.
- Non avrei mai immaginato che potesse costare tanto - replic• Stasov.
- Ma senza di lei non avrei mai potuto venirne a capo.
Theodoros guard• verso il mare aperto. - Pu• essere stato uno sbaglio,
Ilya, ma, naturalmente, Š assurdo. Dovevamo scoprire la loro
intelligenza. Se solo...
- Se soltanto non fossero una massa di disprezzabili, corrotti e
sessualmente perversi millantatori, vigliacchi e imbecilli? - ritorse
Stasov. Era ormai proverbiale che pi uno studiava i delfini e meno
gli piacevano. - Come mai le sue antiche fonti non ne parlano?
- Ne parlano, ma velatamente. Gli uomini di quell'era non erano forse
molto differenti da loro, per cui non pensarono che fosse importante
commentarlo.
- Ma come sono riusciti "loro" a immaginarlo? - chiese Stasov
meravigliato. - Si tratta di quattromila anni fa! Non avevano
generatori di suono, non avevano laboratori per analizzare i segnali.
Come hanno fanno gli uomini della Thalassocrazia Cretese a imparare a
parlare con i delfini?
- Lei ha capito l'inverso. Io penso che i delfini abbiano imparato a
parlare dagli uomini, essendo ostinati abbastanza da prendere loro
stessi l'iniziativa, cosć come gli illetterati greci hanno assimilato
la civilt dai cretesi.
- Assimilato? - ribatt‚ Stasov. - O costretti ad assimilare?
- Intende dire che i cretesi abbiano piegato alla schiavit i delfini,
usandoli per guidare le loro navi entro baie pericolose, per farsi
assistere in operazioni di salvataggio, e disperdere difese nemiche?
Molto probabilmente. Dubito, comunque, che lo considerassero un
crimine.
- Per•. - Stasov diede un pugno al capo di banda. - Salpare su una
nave come questa, immergersi per parlare con un animale... E'
incredibile. L'equipaggiamento che abbiamo usato, il tempo...
- Non sottovaluti ci• che Š riuscito a fare, Ilya. Nei tempi antichi,
si ricordi, i delfini non avevano preso la risoluzione di rimanere
silenziosi. E decidersi a farlo fu difficile.
- Difficile - disse Stasov, abbassando gli occhi. - Questa Š la parola
giusta.
Theodoros ignor• l'improvviso malumore del suo compagno. - E a quei
tempi vivevamo pi a contatto con la natura, e con gli dei. Si ricorda
la storia del suonatore di lira, della balena e del delfino, che le
raccontai a Uglegorsk? Una balena era pi di una balena, allora. Era
l'Avangarde, colui che precedeva tutti, la "Prima Bolla" che si alza
dalla cannuccia del dio, a predire l'avvento del Grande Soffio, la
nuova incarnazione. Il delfino sulla cui testa il nostro cantore ruppe
la sua lira Š l'Eco del dio, come altri l'hanno definito, la Remora
del dio, il suo umile, carnale associato, il messia. E questo ci porta
al presente.
- Cosa Š successo a quel delfino? - chiese Stasov. - Dopo che ebbe
guidato i sacerdoti a Delfi, voglio dire.
- Se Š morto, se ha portato a termine il suo compito? - Theodoros si
strinse nelle spalle. - La storia non lo dice. I delfini percepiscono
l'universo per mezzo degli stessi suoni sensitivi che emettono. Questo
li rende arroganti, come se fossero loro stessi a determinare
l'essenza dell'universo, e la loro arroganza sta nel credere che
possono portare a termine i loro propositi, trovare la conclusione e
morire raggiungendo la completezza. Fortunatamente, gli esseri umani,
che dipendono dal mondo esterno, sono incapaci di una tale scelta
d'indipendenza.
Stasov si gir• da un'altra parte. - Dopo quattromila anni, mi dicono,
il Messia Š nato. Le orche sono arrabbiate che egli non sia uno di
loro, ma non sembra che trovino molto da dire in proposito.
- Perch‚ dovrebbe? E' un messia materiale, immanente, non
trascendentale. Un cambiavalute. Un fariseo. Anche la teologia dei
delfini Š rozza e stupida.
Queste ultime parole fecero sorridere Stasov. - Finalmente abbiamo
scoperto il suo punto debole, Georgeos. La mancanza di rigore
teologico.
- Non rida, lei Š quello che dovr affrontare la questione. Sicch‚,
lei vuole spingere queste indolenti, incompetenti creature verso la
grande Ora del Soffio. Perch‚?
- Ho rotto il loro silenzio, e ora sento sempre le loro voci. Se
riesco a sospingerli verso il Soffio, e loro raggiungono la loro nuova
incarnazione, forse potr• trovare la pace.
Theodoros ebbe uno sguardo di simpatia. - Non ci riuscir, Ilya. Mai.
La pace Š solo dentro di noi. Ma eccoci arrivati. - Ammain• le vele e
la nave si arrest•. Non c'era terra in vista. Una boa marcava il fondo
dove si trovava il Tempio. - Nel profondo mare in cerca del Messia.
Aspetter• il suo ritorno, Ilya. - Sorrise allegramente a Stasov che
sedeva immobile fissando l'acqua liscia e luminosa.
- Deve affrontarli - gli disse Theodoros. - Si Š spinto caparbiamente
fino a qui. Come potrebbe fermarsi ora?
- Non posso. Pur desiderandolo, non posso. - Stasov s'infil• le pinne
e si lasci• scivolare nell'acqua. I delfini ne commentarono tra loro
l'apparizione, a distanza, ma le acque intorno a lui erano libere.
Nuot• in direzione delle voci, riconoscendole. Tamburino degli Abissi
a Hokkaido e questi tre qui. Chi altro?
In pochi istanti pot‚ vedere il Tempio di Poseidone Pankrator.
Seppellito sotto la cenere vulcanica da millenni di sedimenti, il
Tempio era rimasto invisibile fino a che una perlustrazione sonora
aveva intercettato una densit anomala. Dopo i negoziati con la
Delegazione dei Delfini, era finalmente stato ripulito e restaurato.
Una foresta di colonne di stile cretese, pi larghe in alto che alla
base, sosteneva un tetto i cui lati erano adornati da corna di tori.
Tutto era stato ridipinto nell'originale lucente policromo, le colonne
rosse dai capitelli verdi, le corna dei tori in oro. Il Tempio veniva
usato simbolicamente come luogo d'incontro per negoziati tra delfini e
uomini, poich‚ era stato dagli uomini della Thalassocrazia Cretese che
i delfini avevano imparato l'uso del linguaggio la prima volta.
Stasov nuot• lentamente sopra i vecchi recinti sacri, seguendo la
demarcazione del complesso religioso di cui il Tempio di Poseidone
Pankrator era stato una volta il centro. Il resto delle rovine era
stato liberato dai detriti e lasciato nella sua apparenza originale.
Di fronte al Tempio vi era una spaziosa area aperta. Una volta era
stata la Vasca Sacra, dove i delfini erano soliti nuotare in omaggio,
con il tetro sarcasmo che li caratterizzava, alla versione
antropomorfica umana del dio del Mare.
Tre delfini stavano nuotando intorno al Tempio. Il sole illuminava
l'acqua e riverberava sulle lame ultrasoniche che formavano i loro
aculei frontali, le loro alette e le loro pinne dorsali. Nei loro
fianchi avevano armature e sulle pance erano innestati circuiti di
superconduzione. Si diressero verso di lui in formazione d'attacco.
Phobos, Deimos e Harmonia. Una coincidenza che questi tre fossero
sopravvissuti. I figli di Afrodite, moglie del cornuto artificiere
Hephaestos, e Ares, il dio della Guerra. Paura, Panico e Harmonia, le
emozioni contraddittorie di Amore e Guerra, con la pingue assistenza
della cupa e imparziale tecnologia.
- Colonnello! - chiam• Deimos, e i delfini si arrestarono, aspettando
ordini. Gli avrebbero obbedito ancora, lo sapeva. Se avesse ordinato
loro di spaccare a met il vascello di Theodoros, essi lo avrebbero
fatto senza un animo di esitazione, malgrado l'implicita violazione
del Trattato. La sua autorit su di loro sarebbe sempre rimasta
inalterata, perch‚ sapevano che lui aveva il potere di cambiare le
sembianze del mondo, un potere che scatenava in loro agonia e terrore.
Stasov pass• la sua mano mutilata lungo il fianco di Deimos,
tastandone le cicatrici e l'armatura. Nel secondo anno di guerra
Deimos e una dozzina di compagni avevano preceduto una flotta di
sottomarini russi da Murmansk attraverso il periglioso mare chiuso tra
Greenland e Iceland, dove il nemico aveva piazzato i suoi sottomarini
tra i pi efficienti nella tecnologia d'intercettazione. Provvisti di
un equipaggiamento che li poneva nella classe Alfa dei sottomarini, i
delfini avevano cacciato le forze Asw dal reale attacco sovietico.
Cinque dei nove sottomarini erano avanzati tra le file del nemico per
distrarlo dal principale teatro di guerra nel Nord Pacifico. Solo
Deimos era sopravvissuto ed era stato decorato con l'Ordine di Lenin.
- Non sono Colonnello - disse Stasov. Era stanco di ripeterlo.
- Che cosa sei, allora? - chiese Harmonia. Il suo occhio sinistro
artificiale luccic• verso di lui, con la delicata lente giapponese
coperta di alghe marine. - Un'orca che cammina?
- Un'orca con le mani - disse Phobos. - E' una buona definizione di un
essere umano.
Phobos era il pi grosso dei tre ed era miracolosamente uscito dal
conflitto senza riportare alcuna ferita. - Noi sappiamo cosa vuoi. Tu
vuoi il dio. Ecco perch‚ sei ancora vivo.
- Ma che cosa te ne importa? - Harmonia emise un suono di disgusto. -
Che cosa dovrebbe importare a noi? - I suoi occhi continuavano a
saettare senza soffermarsi su niente. Aveva perso la parte sinistra
della testa durante l'approdo a Nagalaska. Il suo compito era stato
quello di disinnescare mine con le sue pinne ultrasoniche,
annientandone i circuiti magnetici detettivi. A Nagalaska i delfini si
erano imbattuti in un nuovo modello. Stasov non aveva mai potuto
spiegarsi come avesse fatto Harmonia a sopravvivere. - Perch‚ ci hai
trascinato fin qui? Mi sto annoiando.
- Ci vuole fare ancora del male - disse Deimos. - In questo modo ci
pu• trascinare "tutti". User il Remora come una zanna di narvalo. Ci
trapasser. Non Š vero, Colonnello?
- E' vero - rispose Stasov. - Ma non importa. Non ha avuto alcun
effetto sulla validit della mia richiesta.
- Smettila di colpire un corpo morto con il tuo grugno - disse il
massivo Phobos. - Risparmia i giochi di logica per le orche, a cui
piacciono tanto. Quanto a noi, ci annoiano molto.
Le voci dei tre delfini affondarono attraverso l'acqua come pezzi di
piombo. Ogni frase sembrava richiedere uno sforzo, ma non per questo
tacquero.
- Non sto parafrasando - disse Stasov. - Sono serio.
- Ma perch‚ te ne preoccupi? - grid• Harmonia.
- L'ho sempre fatto.
Phobos gli nuot• vicino e lo urt• di lato come se fosse stato un
mucchio di alghe vaganti. Tre galloni, ora neri e arrugginiti, erano
sulla sua pinna dorsale, uno per ogni sottomarino americano, la cui
distruzione era stata attribuita alla sua destrezza nell'uso dei
rivelatori sonori e magnetici. Aveva anche partecipato
all'affondamento dell'incrociatore americano "Wainwright",
salvaguardando lo sbarco in Nagalaska.
Anche ora, con i fianchi pieni di cicatrici, Stasov prov• lo stesso
senso di gratitudine di quando aveva visto l'incrociatore affondare
nel Nord Pacifico.
- Rispondi alla sua domanda - disse Phobos. - Perch‚ te ne preoccupi?
Harmonia non diede a Stasov tempo di rispondere. - "Noi" non ci
preoccupiamo di certo. Parlare del dio Š da stupidi.
- Il dio sorger quando Lei lo vorr - disse Deimos. - Noi non
possiamo spingerla con i nostri musi.
Circondarono Stasov come squali meccanici assassini.
- Dicci perch‚ Š cosć importante per te - tuon• Phobos.
Lo avrebbero fatto a pezzi con le loro lame ultrasoniche, questi
veterani decorati d'una guerra eroica e inutile, e avrebbero macchiato
con il suo sangue quest'acqua limpida?
Si sentć come un uomo tornato a visitare la tomba dei suoi
commilitoni, per vedere le loro mani ossute protendersi verso di lui
dal regno dei morti per trascinarlo sottoterra. Avrebbe accolto con
gratitudine il loro tocco freddo, perch‚ sapeva che ne avevano il
diritto.
- E' importante perch‚ deve accadere - disse Stasov. - E' necessario.
I delfini urlarono, protestando. - Tu fai sempre quello che Š
necessario, Colonnello - disse Deimos. - Ci hai torturati fino a che
hai strappato la voce dalle nostre gole, perch‚ era necessario. Ci hai
tolto i nostri corpi trasformandoci in squali meccanici, perch‚ era
necessario. Ci hai uccisi nella tua incomprensibile guerra umana,
perch‚ era necessario. Ora vieni a strapparci al seno del nostro mare
per gettarci nelle profondit fredde dello spazio "perch‚ Š
necessario?"
- Mangiare Š necessario - disse Harmonia. - Fare l'amore Š necessario.
Respirare Š necessario. La morte Š necessaria. Tu sei stupido come una
tartaruga acquatica che si accoppia nel mare e poi va a depositare le
uova sulla terra, dove altri gliele possono rubare. Sono sicura che la
tartaruga direbbe che Š necessario.
- Tu sei come uno squalo impazzito all'odore del sangue - disse
Phobos, con calma, - che divora e non si pu• fermare finch‚ non gli
scoppiano le budella. Non ti sazierai mai di noi, Ilya Stasov?
Piangere sott'acqua sembrava cosć pazzamente futile. Egli tese loro le
sue braccia, un gesto inutile. Ma cosa poteva dare loro? Le sue scuse?
Una sua confessione?
- Avete ragione - disse. - Ho bisogno di farlo, per poter poi
riposare. Potr• provare a dimenticare quello che vi ho fatto.
- Riposare - disse Deimos. - Parola umana. - I delfini dormivano
soltanto con un emisfero alla volta del loro cervello, in modo da
poter ugualmente continuare a nuotare. Essi non potevano mai fermarsi,
perch‚, diversamente, non avrebbero potuto continuare a respirare. -
Perch‚ dovremmo concedertelo? Il Trattato non lo richiede.
- E se il Trattato non lo richiede - aggiunse Phobos, - noi non lo
faremo. Citaci gli articoli o vattene.
- Fratelli - disse Harmonia, improvvisamente calma. - Stasov desidera
morire. E non pu• farlo finch‚ non ha terminato la sua missione.
- E' cosć - afferm• Stasov. - Datemi il vostro Messia. E lasciatemi
morire.


Uglegorsk, giugno 2031.

Era la scena del suo incubo. Le vasche erano vuote, il pavimento
asciutto, gli elettroni gi da lungo tempo impaccati e gettati, ma
l'alta volta del laboratorio conteneva ancora tutto il dolore e il
terrore che Stasov era capace di immaginare. Dalla piattaforma dove si
trovava, la forma delle vasche sul pavimento sembrava come un
secchiello di ghiaccio in un frigorifero abbandonato. L'intonaco della
volta era incrinato e ingiallito, come un osso seppellito da tanto
tempo.
Stasov si reggeva forte alla sottile ringhiera di metallo, anche se
non c'era alcun pericolo di cadere. Perfino l'edificio vuoto
mormorava. I giapponesi avevano ormai da tanto rinunciato all'idea di
trasformare la stazione di Uglegorsk in un museo delle atrocit. Era
troppo lontano da qualunque altro centro abitato, e il tormento qui
non aveva implicato spargimento di sangue o torture fisiche, ma
sofferenze troppo subdole da essere visibili all'occhio umano. Avevano
concluso che il museo non sarebbe stato visitato da nessuno. Cosć era
rimasto vuoto, finch‚ Stasov aveva inoltrato l'insolita richiesta di
visitarlo per l'ultima volta.
I giapponesi erano stati particolarmente gentili e consenzienti, e
avevano lasciato che Stasov girasse da solo tra le rovine.
Probabilmente, pensava Stasov, era perch‚ essi sapevano che egli
avrebbe potuto punire se stesso molto di pi di quanto avrebbero mai
potuto fare loro.
Improvvisamente, dei colpi risuonarono su per le scale di metallo.
Stasov rabbrividć. Era il luogo davvero infestato dagli spiriti? I
colpi divennero regolari e Stasov udć il respiro pesante di qualcuno
che stava faticosamente arrampicandosi su per le scale.
Una figura enorme emerse dall'oscurit. - Ilya - chiam•. - Quanto
tempo Š passato!
- Antosha! - Stasov abbracci• il corpulento Anatoly Ogurtsov e lo
baci•. Non vedeva il Generale dai tempi della guerra. Veterani di
Uglegorsk, non si erano mai rivolti la parola, pur vivendo nella
stessa citt. La pi piccola parola avrebbe rotto quella barriera di
ghiaccio che si erano costruiti durante quel periodo. Stasov credette
di capire perch‚ l'altro fosse lć. Ogurtsov avrebbe fatto una domanda,
eventualmente. Stasov sperava soltanto di essere in grado di
rispondere.
Ogurtsov si tir• indietro. Il suo piede destro era una protesi. Quando
not• lo sguardo di Stasov, egli vi dette un colpetto con il bastone.
- Non un'orca, sfortunatamente - brontol•. - Niente del genere. Una
pallottola attraverso il ginocchio a Unimak. Una comune ferita da
soldato. - Mise la mano in tasca e ne tir• fuori una bottiglia di
vodka. Tir• il tappo con i denti e la porse a Stasov. - Ai vecchi
tempi.
- Ai vecchi tempi - rispose Stasov, e ne inghiottć un sorso. Quasi si
strozz•. Ogurtsov ridacchi•. - Non insultare, ora, Ilya. La faccio io
stesso questa roba. L'hobby di un vecchio. Con la bufala.
- E' eccellente - riuscć a dire Stasov, con le lacrime agli occhi.
- Hai perso il gusto alla vodka? - rise Ogurtsov. - Mi ricordo - e
fece un gesto con il bastone verso le vasche sottostanti, - di quando
ci sedevamo, io e te, e quel filosofo greco, Theodoros, e scoprivamo
le abitudini dei delfini. Pi ci ubriacavamo, e pi ci spiegavamo i
misteri dei loro miti e dei loro dei. Finch‚ capimmo tutto.
- E scoprimmo tutto. Li torturammo finch‚ non rivelarono ogni cosa.
Ogurtsov lo scrut• con un'aria strana. - Come potevamo sapere? Come
potevamo renderci conto dell'incredibile reazione del cervello dei
cetacei ai suoni? Le illusioni uditive che creavamo per loro li
tormentavano, facendoli impazzire. Sarebbe come credere che le
illusioni ottiche nei libri per bambini riducano gli uomini al limite
dell'agonia.
- Non lo sapevamo - sussurr• Stasov. - Per mesi, anni, abbiamo
torturato con illusioni di fondi marini ed echi inesistenti. La loro
fede assoluta nei loro sensi li spezz• come stecchini nelle nostre
mani.
- E' stato tanto tempo fa - disse Ogurtsov. E pass• un braccio intorno
alle spalle di Stasov. - Usciamo di qui.
Scesero gi per le scale e passarono tra le vasche scrostate. -
Ricordi la prima volta che uno parl•? - disse Stasov.
- Ilya, per favore...
- Ti ricordi?
Ogurtsov si scosse. - Certo che lo ricordo. - Si ferm• davanti a una
vasca e guard• gi il fondo macchiato e screpolato. - Eravamo in
quattro. Io, te, Sadnikova e Mikulin, che Š morto l'anno scorso, lo
sapevi? Inciamp• e cadde sulla neve. Era ubriaco. E' morto congelato.
- Me lo immagino. Sadnikova stava lć, con le mani sul generatore. Io
stavo qui, e tu eri accanto a me. - Mikulin dall'altra parte. Era il
nostro ultimo e pi sofisticato sistema sonoro. L'eruzione dello
Strogyle e l'affondamento in mare. Ci avevamo lavorato per mesi. Lo
trasmettemmo per quello che chiamavamo Kestrel, perch‚ nuotava cosć
veloce. Non so cosa...
- E' morto nella Battaglia dello Stretto di Perouse.
- Cosć ha realizzato il suo desiderio, infine.
Ogurtsov si aggrapp• al bordo della vasca. - Noi trasmettemmo
l'illusione ed egli grid•...
- "Lasciatemi... morire" - disse Stasov, stringendo i denti. -Questo Š
quello che grid• alla fine. "Fatemi... morire!" - Rabbrividć. - E'
cosć che abbiamo cominciato a parlare con loro.
- Non abbiamo mai ascoltato quello che dicevano, lo sai. Li facevamo
parlare, ma non li ascoltavamo mai. Non abbiamo mai capito perch‚
volessero morire.
Attraversarono il resto dell'edificio senza parlare. Si fermarono
davanti alla porta retrostante. Il cielo era come sempre coperto. Lo
"Sterlet", la nave dell'Istituto Oceanografico Vladivostok, ondeggiava
al largo, con la sua allegra bandiera rossa, l'unica macchia di colore
contro il mare e il cielo. Era il vascello che avrebbe portato Stasov
a Vladivostok, finalmente nelle mani dei russi. Da lć, sarebbe poi
andato a Tyuratam, e dalla base spaziale, poi, su Giove.
- Hanno combattuto una guerra contro di noi, non Š cosć? - disse
Ogurtsov. - E la maggior parte della razza umana non l'ha mai creduto.
I viscidi bastardi acquatici.
- Sć - rispose Stasov. - E' vero. Affondarono i traghetti turistici,
le barche da pesca. Ovunque sapevano che non sarebbero stati presi,
ovunque ci fosse uno stato di confusione. Terrorismo, chiaro e
semplice.
Ogurtsov scosse la testa. - Li abbiamo addestrati bene. Phobos ha
probabilmente affondato pi che ha potuto. E' stato uno dei peggiori.
- Non c'Š alcun dubbio.
Si diressero gi verso l'acqua e passeggiarono lungo la spiaggia
sassosa, lasciando che le onde lambissero loro i piedi. Ogurtsov si
muoveva agilmente tra i sassi, dando qualche calcio qua e l con la
sua protesi. Guard• Stasov. - Ho parlato a diversi, in Leningrado. Hai
ottenuto tutto. Tutto quello che abbiamo tenuto nascosto. Perch‚ lo
vuoi?
Stasov non ricambi• lo sguardo. La domanda era finalmente arrivata. -
Non so di che cosa tu stia parlando.
- Ilya! - Ogurtsov gli afferr• una spalla con la sua mano pesante.
Stasov si ferm•. - Hai ripulito gli archivi neri, quelli su cui la
Commissione Crimini di Guerra voleva mettere le mani. Diagrammi di
circuiti, strutture sonore, formati d'eco. Tutti i sistemi che abbiamo
usato per generare quelle immagini sonore e gli effetti che essi
avevano provocato. Le registrazioni dei delfini in preda al dolore.
Tutti i nostri risultati. - Scosse Stasov per le spalle. - Credevo che
la maggior parte di questo materiale fosse stato distrutto.
- No - disse Stasov. - Noi non distruggiamo mai niente. Lo sai,
Antosha.
- Nessuno sa che tutto questo esiste. I giapponesi lo hanno
sospettato, quei bastardi gialli, ma non ci hanno potuto mettere sopra
le mani. Hanno cercato di farti cedere con ogni mezzo.
- Ci hanno provato. Ho imparato pi io da loro che loro da me.
- Perch‚ vuoi quella roba? Dopo tutto quello che abbiamo passato? Non
ne volevamo pi sapere.
- Io non la "voglio" - disse Stasov. - Non ho mai voluto niente. Ma ne
ho bisogno.
Ogurtsov si ferm•, immobile come una montagna, trattenendo Stasov in
una morsa. - Ilya, mi sento in colpa. Tutti ci sentiamo in colpa,
ognuno a modo suo, alcuni, lo ammetto, pi di altri. Ma cerchiamo di
metterci l'anima in pace, perch‚ non sapevamo cosa stavamo facendo.
Cosa ti d il diritto di credere che il tuo senso di colpa sia pi
grande di quello di chiunque altro?
- So quello che devo fare, Antosha. E' tutto. Non sto cercando di
competere con te.
Ogurtsov lasci• cadere la mano, lasciandolo libero. - Fai come vuoi,
allora - disse, con voce stanca. - Fai quello che vuoi e che tu sia
dannato.


Orbita di Giove, gennaio 2033.

Weissmuller si diresse verso "Jupiter Forward". Tutto il suo corpo
dolorava per la fatica. Non aveva mai nuotato cosć lontano prima, e
non poteva neanche fermarsi a riposare. Ma questo non era un male.
L'universo non era poi un posto tanto grande, in realt. Gli
indicatori fisiologici impiantati chirurgicamente dettero un segnale
dall'interno delle sue ossa, avvertendolo che il campo magnetico di
Giove stava per contaminarlo con una overdose di radiazioni. Il
personale medico dello "Jupiter Forward" lo aveva perentoriamente
avvertito. Sput• contrariato. Che problemi c'erano? Gli esseri umani
avevano sempre paura di tutto ci• che non potevano vedere o sentire.
Il problema delle radiazioni d'iodio era troppo vago e bizzarro perch‚
Weissmuller se ne preoccupasse. C'era il rimedio. Agli uomini piaceva
risolvere problemi del genere. Era a questo che servivano.
Malgrado l'accettasse controvoglia, la tuta spaziale di Weissmuller
era una meraviglia. Delineava perfettamente i contorni del suo corpo.
Poich‚ i delfini non possono guardare in su, il casco era trasparente
soltanto nella parte inferiore, lasciando intravedere le mandibole dal
sorriso sornione. La tuta faceva circolare acqua intorno al corpo del
delfino, avvolgendolo delicatamente per evitare che la sua pelle
delicata venisse graffiata. L'apparato delle microonde era inserito
tra i tubi d'ossigeno ai lati della pinna dorsale.
Connettivi mioelettrici nei muscoli natatori di Weissmuller azionavano
i jet della tuta, in modo tale che i suoi movimenti nello spazio erano
gli stessi di quelli che avrebbe eseguito nell'acqua. I poderosi
movimenti della sua coda azionavano i jet di spinta; le pinne
azionavano i jet di rotta. Un razzo a velocit direzionale inversa
metteva in moto una simulata resistenza acquatica che avrebbe
rallentato la sua andatura nel caso egli avesse interrotto la spinta
della sua coda. Era mantenuto calmo dalla visione automatica delle
stelle fisse che lo attorniavano come la schiuma del mare.
Weissmuller si sentiva enormemente soddisfatto di s‚. Era arrivato
fino all'"Id" e ne era tornato! Giove e i suoi satelliti galleggiavano
intorno a lui come diatomi. I segnali di ecolocazione gli dicevano che
Ganimede e Giove erano tra loro a una distanza di circa cinque
chilometri, dal momento che i segnali microonde impiegavano sette
secondi per giungere fino a loro e ritornare. Sapeva che la distanza
era di gran lunga maggiore, ma l'illusione era forte, e gli dava la
sensazione che il sistema di Giove potesse essere gettato nel Mare
Egeo e ivi disperdersi. Anche il satellite pi distante, Sinope,
sembrava essere a solo centoventi chilometri da Giove.
- Me ne infischio di te, Giove! - grid•, e squittć gioiosamente. Ebbe
un'erezione e bestemmi• contro gli ingegneri umani che avevano
disegnato la tuta senza provvedere a necessit del genere. S'incurv•,
cercando di strusciarsi contro qualcosa. Niente da fare. La tuta era
troppo perfetta. Gli uomini avevano mani per masturbarsi. Questo era
il loro vantaggio. Desider• avere una femmina su cui avventarsi, ma
non ce n'era una nel raggio di milioni di chilometri.
Pens• allo squalo femmina che lui e i suoi accoliti avevano ucciso. I
delfini l'avevano violentata ripetutamente, selvaggiamente, e ne
avevano poi spinto il corpo verso gli abissi, lanciando vituperi. Il
pensiero gli caus• un'ondata di calore. E quel marinaio, caduto dalla
sua barca da pesca vicino a Malta! Gli umani erano costruiti male e
Weissmuller ricordava ancora con piacere il suono delle costole che si
spezzavano come frammenti di corallo sul suo muso. Se ci fossero stati
testimoni, i delfini l'avrebbero ignorato, naturalmente, o magari gli
avrebbero salvato la vita sospingendolo a riva, con quel genere di
comportamento che tanto commuove gli esseri umani. Ma era notte e
l'uomo era in mare da solo. Con quanta disperazione aveva cercato di
difendersi! Uno dei fratelli di Weissmuller aveva ancora le cicatrici
che l'uomo gli aveva inflitto con il suo coltello da pesca, facendolo
diventare lo zimbello di tutti.
L'attacco di lussuria di Weissmuller aveva raggiunto il parossismo.
Avrebbe mai potuto violentare Giove allo stesso modo? Potevano gli
esseri umani, con quegli incomprensibili, immensi aggeggi? Che siano
maledetti per questa tuta!
Cerc• di distrarsi riflettendo sui mercati di sicurezza
internazionale. Le screpolature gli apparivano tanto chiaramente alla
mente quanto le correnti delle Cicladi, che aveva percorso fin dai
tempi della sua giovent. Che mare complesso e agitato avevano
inventato gli uomini! I capitali fluivano dal Giappone come l'acqua
fresca scorre gi da un ghiacciaio. Il denaro fluido scorreva avanti e
indietro, alzandosi qua per tumultuosi successi, agitato e turbolento
l per un flusso opposto. I suoi investimenti, nascosti sotto una
variet di organizzazioni frontali come furbi granchi eremiti,
andavano bene. Era un altro il mare in cui Weissmuller poteva nuotare
tranquillo. Nessun altro delfino poteva. D'altra parte, nessun altro
delfino era Remora del dio. Egli poteva carpire qualunque prelibatezza
dalla mascella di Lei!
Davanti a s‚ vide, finalmente, "Jupiter Forward". Con esuberanza
Weissmuller emise il suono poliottavo di Tarzan, che si prolung•
nell'ultrasuono. Arcu• con grazia intorno alla stazione spaziale, e
vibr• la coda per frenare. La forma massiccia di Clarence, il
capodoglio, galleggiava al di l, e dietro la testa della balena
scorse una minuscola figura umana. Ilya Stasov. Weissmuller domin• a
stento il proprio impulso di girarsi e scappare. Aveva le ossa
stanche, e l'allarme per le radiazioni si faceva sempre pi doloroso.
Inoltre, che cosa poteva fargli Stasov?
Dopotutto, egli era il Messia.
- Ah, Weissmuller - esclam• Stasov. - Grazie per essere tornato.
Niente d'interessante? - Aiutato dai sintetizzatori vocali del
computer, egli poteva parlare quasi bene come un delfino. Weissmuller
trov• il suo tono lievemente minaccioso, come se dietro il linguaggio
delfino si nascondessero denti d'orca.
- Cose che non ti riguardano - rispose cupamente. - Togliti di mezzo.
- Ho paura che mi riguardi proprio. - Il tono era calmo. - Devi
parlare con Clarence.
Weissmuller si avvicin• al capodoglio. La ecolocazione delle microonde
non serviva a questa distanza, perch‚ i segnali di andata e ritorno si
sovrapponevano, ma gli intelligenti esseri umani avevano installato
uno speciale conduttore che dava al delfino un'eco sintetica
calcolata. Il capodoglio modificato a caratteristiche umane era
enorme, pi grande perfino di qualunque altra balena blu mai esistita.
Weissmuller non aveva mai sentito il suono di una balena blu. Esse si
erano estinte prima che nascesse lui.
- Non mi minacciare! Non puoi. Articolo 15 del Trattato di Santa
Barbara. Lo dir• alla Delegazione Delfini e loro ti sostituiranno.
Vedrai se non lo faranno.
- Non fare l'idiota, Weissmuller. Loro non mi sostituiranno.
Weissmuller si ritorse irritato, lanciando fiammate dai suoi razzi. Lo
sapeva che non avrebbero mai sostituito Stasov, indipendentemente da
ci• che facevano gli umani. Stasov aveva continuato a vivere, quando
avrebbe dovuto morire, perch‚ la sua missione non era finita. Il
pensiero di ci• che il completamento della missione potesse
significare lo spaventava. - Non far• quello che dici, non m'importa
di quello che...
- Devi parlare con Clarence, ora, Weissmuller. E' terrorizzato. Non sa
dove si trova. Ha bisogno del tuo aiuto.
- Va' all'inferno! - url• Weissmuller, e colpć Stasov con la sua coda.
L'uomo fluttu•, impotente, capovolgendosi finch‚ non riuscć a
riprendere a malapena il controllo di manovra dei suoi razzi
- Ondeggi come una medusa - grid• Weissmuller. - Come un orcino!
Quando Weissmuller era giovane, aveva sentito una storia di voci di
fantasmi, di balene morte da tanto tempo, i cui ultimi richiami
avevano echeggiato per decine d'anni intorno ai mari, rifrangendosi
attraverso barriere di calore, risucchiati negli abissi da fredde
cataratte sono la superficie, risonanti attraverso trincee abissali,
per risalire, infine, e lamentare le loro parole a lungo sommerse
nelle orecchie dei delfini atterriti. Quando Stasov finalmente parl•,
lo fece con la voce di un fantasma.
- Quando ho scatenato tutto questo, non avevo idea di ci• che stessi
facendo. Ora lo capisco. E'... necessario. Perdonami.
- Perdonarti? Dammi da mangiare e ti perdoner•. Ah, ah. - Mentre le
orche e gli esseri umani avevano la capacit della risata, i delfini
esprimevano il loro piacere con un acuto grido che ricordava il ghigno
perverso di un maniaco alla vista di scolarette in minigonna.
Improvvisamente, Weissmuller udć i suoni provenienti dal mare i
ticchettii, i sospiri, i lamenti, i tremiti, i sussulti della massa
acquatica. Da lontano giungevano, sovrapponendosi, richiami di balene
e il pesante tonfo di una di loro che saltava fuori e ricadeva
nell'acqua. Pi vicino si sentivano i colpi di una scuola di piccoli
pesci che gli umani chiamavano Tamburi Marini. Ebbe paura. Questo mare
era troppo lontano. Il delfino tent• un segnale di ecolocazione.
L'eco torn•. Il fondo era a un miglio di profondit al di l di una
linea termica alquanto approssimata. Vi erano tre cime di vulcani
sommersi, con un atollo di corallo a circa venti chilometri di
distanza. Pi vicino c'era una montagna marina che sorgeva appena
dalle acque formando una minuscola isola. Weissmuller conosceva il
posto, anche se non c'era mai stato. Nel linguaggio dei delfini
esisteva un termine adeguato per ogni punto di riferimento che si
trovava in mare, uno schema dell'eco che il luogo rimandava, una
specie di gioco di parole. Un delfino intelligente poteva
immagazzinare nel suo cervello l'intera mappa dei mari del mondo come
un poema epico.
Weissmuller si trovava vicino alle Maldive, nell'Oceano Indiano.
Giungevano a lui le forme delle balene lontane come quelle dei pesci
che gli volteggiavano intorno. Lanci• una serie di segnali. Tornarono
portandogli un bagaglio notevole di informazioni con dettagli sulla
zona e sulle dimensioni delle scuole di pesci.
Poi il dolore cominci•. La sua mente sapeva che quello che sentiva non
era reale, ma la parte del suo cervello che trasmetteva l'informazione
era al di l di ogni controllo cosciente. Cominci• a sentirsi in preda
al panico.
Udć il richiamo di un capodoglio. Era solo e aveva perso la traccia
del suo branco in una tempesta. Weissmuller lo ignor•. Le paure delle
enormi, stupide balene non lo riguardavano. Ancora un richiamo
d'aiuto. Gli url• di smetterla, in modo da poter ascoltare quel
meraviglioso mare che racchiudeva tutto in s‚.
Improvvisamente il fondale si mosse. Il delfino prov• un terrore
primordiale. Il mare e le sue creature si muovevano continuamente, ma
la terra rimaneva sempre ferma. Quando il fondo del mare si muoveva
era la fine.
Ora non era pi alle Maldive. Stava nuotando nell'Egeo, e poteva
percepire la linea di demarcazione del Mare di Creta cosć com'era
stata quattromila anni prima. Era qui che tutto era cominciato e
finito. L'acqua rombava e la terra tremava, segnando la distruzione
dell'unico universo che i delfini intelligenti avessero mai
conosciuto. Il panico lo trapass• da parte a parte. Il fondo del mare
s'incresp• come il corpo di una razza, e la sua mente si dissolse
nell'agonia. Nell'incresparsi il mare perdeva i suoi contorni e
diveniva liscio come la schiena di una balena. E, in effetti, era
proprio questo. Il fondo del mare era diventato una balena che si
sollevava sotto di lui. Il suo muso poteva lanciarlo verso le stelle.
- Ah, la mia Remora. - Una voce gigantesca si alz•, parlando nel
linguaggio delfino, ma non risuonava come quella di un delfino o di
un'orca. - Il parassita del dio. Dovrei sbatacchiarti contro la carena
di una nave infestata da datteri di mare e lasciarti affondare negli
abissi del mare.
- No! - grid• Weissmuller. - Non puoi! Io sono la tua Eco. Io conosco
tutto. Tutto! Ho fatto il mio dovere. Io so come gli esseri umani si
comportano. Io conosco il loro denaro, i loro mercati. Io li posso
annientare. Io posso delineare i nostri destini. Tu mi conosci!
La schiena del dio si rialz• verso di lui e i confini del mare si
richiusero. La superficie al di sopra di lui divent• solida.
Weissmuller sentć le ondate della sua propria eco ritornare in un
susseguirsi sempre pi veloce, con una chiarezza inimmaginabile. E gli
era difficile respirare! Era in trappola. Sarebbe morto.
- Ti conosco - disse la voce del dio. - Tu sei un vigliacco e uno
stolto.
- No! Perdonami! Perdona...
Le mura si richiusero intorno a lui, e poi sparirono nella vastit
dello spazio. Weissmuller si assottigli• sferzando qua e l, come
impazzito dal terrore. - Stasov! - grid• con voce stridente. - Dove
sei? Fammi morire!
- Tu mi conosci - disse la voce quieta di Stasov.
- Ti conosco! Tu hai cambiato il mondo cosć che noi potessimo parlare.
Ci hai strappato le voci dalle gole! I tuoi denti ci hanno dato la
vita. Oh, come fa male! La vita Š dolorosa!
- E' sempre dolorosa. Tu sei l'Eco del dio. Le razze pensanti del mare
ti hanno innalzato fino a qui perch‚ tu le sollevassi con te. Tu
soffrirai pi della maggior parte di loro. Perlomeno, cosć crederai. -
Stasov fece una pausa. - Non ti perdoner• mai per avermi costretto a
fare questo. Invece del completamento, finisco con la compensazione
che il dolore non ha fine.
- Problema umano, non mio - disse Weissmuller. - Parler• alla balena.
- Poi, con tono flebile: - Mi dispiace di essere andato nell'"Id". Mi
sento male. Ilya?
Stasov, in silenzio, attiv• la voce della balena. Clarence eman•
prontamente un richiamo elaborato e specifico.
Weissmuller trem•, in preda al panico. - E' un richiamo di morte,
Stasov. Un richiamo di morte!
- Che cos'altro ti aspettavi? - disse Stasov freddamente. - Credi di
essere il solo a voler morire? Io ho gi sentito quel richiamo.
Stasov aveva assistito una volta a un inseguimento di sette balene da
parte di due branchi di orche. Era stato un feroce, implacabile
inseguimento. Finalmente, le balene, sfinite, avevano mandato un
richiamo alle orche che avevano immediatamente sospeso l'inseguimento,
rimanendo in attesa. Le balene si erano raggruppate tra loro e si
erano consultate, mentre le orche avevano cominciato a circondarle.
Poi, una balena era emersa dal gruppo e aveva nuotato verso le orche.
Le balene avevano deciso chi di loro si sarebbe data in pasto agli
inseguitori. Le orche avevano sbranato la prescelta e avevano lasciato
andare le altre indisturbate.
- Clarence vuole negoziare la propria morte con te.
- E cosa gli dico? Io non so cosa dirgli!
- Digli che deve vivere. Deve vivere e soffrire. Esattamente come
facciamo noi.

Uno degli anelli di Giove era pieno d'acqua e Weissmuller vi si
stabilć. Poteva nuotare e nuotare a suo piacere, saltando in aria
laddove gli ingegneri avevano rialzato la volta, e si sentiva quasi
come a casa sua. Non vi si era inserito nessun corpo solido. Non c'era
un angolo dove un essere umano potesse alzarsi in piedi, perci• Erika
Morgenstern e Ilya Stasov galleggiavano nell'acqua. Morgenstern odiava
questa sua condizione, considerandola un affronto alla propria
dignit, ma non c'era altro modo per attirare il delfino nel suo
ufficio.
- Cosa ti ha fatto, Ilya? - sussurr•. - Non ti avevo mai pi visto in
questo stato dal... nostro primo incontro.
- E' quello che ho fatto a lui... - egli rispose, con voce atona.
- Ma cosa...
- Ho dovuto farlo di "nuovo". Ci• che ho fatto una volta ignorandone
le conseguenze, l'ho fatto di nuovo ora in piena coscienza.
Il delfino apparve alla curva dell'anello, rasentando l'acqua nella
loro direzione. Aveva imparato a usare la minor gravit del cerchio e
la forza di Coriolis per allungare i suoi salti. Urtava l'acqua con la
pancia, coprendoli di spruzzi e poi spariva. Un attimo pi tardi
annusava il Direttore all'altezza dei genitali. Ella trasalć, poi,
essendo stata avvertita da Stasov, reagć sferrando un calcio nella
parte delicata del foro di respirazione. Weissmuller salć alla
superficie contraendosi dal dolore.
- Smettila - lo rimprover• Stasov. - E' quello che ti meriti.
- All'inferno, signora Direttrice - ritorse Weissmuller. Con il suo
fiato riempć l'aria di un puzzo di pesce avariato. Gir• la testa verso
di lei che lo accarezz• gi per i fianchi. Egli si dimen•. - Hai
comprato Vortex, come ti ho detto?
Le mani di lei si fermarono. - Sć.
- E...?
- Si Š alzato di diciassette punti dal mese scorso, maledetto! Come
facevi a saperlo? Come pu• mai un delfino conoscere le tecniche di
mercato? E, peggio ancora, perch‚ me l'hai detto? - e lo respinse.
- Volevo che tu capissi che non scherzo. Io so dove stanno i tonni.
Credimi.
- Di che cosa stai parlando?
Il delfino tacque per un lungo momento, e poi disse: - Un chilometro
al largo di Portland Point, verso sud-ovest, nel mare di Jamaica, c'Š
il relitto della "Costantino de Braganza", una nave spagnola che
trasportava tesori saccheggiati a Cartagine e affondata nel 1637 da un
corsaro olandese, mentre cercava di riparare a Port Royal. Eravamo al
corrente di quanto stava accadendo, ma non sapevamo per che cosa gli
esseri umani stessero combattendo. Trasportava tre tonnellate di oro
in verghe, un'altra tonnellata e mezzo di spezie, e una uguale
quantit di argento, e tutto questo sta seppellito in fondo al mare,
insieme alle ossa degli uomini. - La sua voce era quasi priva di
espressione, come se recitasse una lezione imparata a memoria molto
tempo prima. - Avendone ricevuto i diritti dalla Delegazione Delfini,
penso che possiamo assisterla direttamente, Madame Direttrice
Morgenstern, se tu acconsenti ad assistere noi. Noi sappiamo dove si
trova la nave. Ce ne ricordiamo.
- Vuoi dire che quel maledetto Trattato di Santa Barbara d ai
delfini...
- Completi diritti di recupero - la interruppe Weissmuller
allegramente.
- Tutto quello che Š affondato pi di cinquant'anni fa. Articolo 77, e
sezioni 1 e 2 dell'articolo 78. Voi pensavate che la vostra tecnologia
vi portasse dei vantaggi... Ah. Ti sei dimenticata della nostra
memoria. E' lunga. Pi lunga di quanto tu possa immaginare. Gli esseri
umani credono di essere molto intelligenti. Che barzelletta!
Ella si gir• verso Stasov. - Tu devi esserne stato al corrente. Come
hai potuto permettere che c'imbrogliassero cosć?
Egli ricambi• lo sguardo di lei e rimase in silenzio.
- Tutto quel denaro - mormor• lei. - Tutto quel denaro...
- Noi avremmo una proposta da farvi - disse Weissmuller.
- Che cosa mi offri? - gli chiese lei.
Weissmuller si contrasse e cominci• a emettere una cantilena, come un
mistico in trance. - Controllo completo del prossimo progetto! Nessuna
restrizione, nessun regolamento, e la necessit di risolvere ogni
conflitto tra varie entit. Io sono il primo delfino nello spazio. Non
sar• l'ultimo. Senza alcun dubbio. Vogliamo scappare e abbiamo bisogno
dell'aiuto degli uomini per farlo. Gli uomini ci devono portare alle
stelle: Odio tutto questo. Il nostro destino nelle mani di esseri
"umani". Tutto ci• che posso fare Š pagarti. C'Š una galea al largo
della costa della Dalmazia carica d'oro. Affond• nel 1204. Spero che
tu possa marcire all'inferno. - Poi si ritorse e sparć nell'acqua.
- Non sono "loro" quelli che lo vogliono, Ilya - sussurr•. - Non so
perch‚, ma sei tu che vuoi mandarli verso le stelle. Ecco perch‚ li
hai aiutati con il Trattato di Santa Barbara.
- E' vero - rispose lui semplicemente.
- Io lo so da quando venni a trovarti a Leningrado e vidi la cartella
che mi avevi messo intenzionalmente sotto gli occhi. Era solo una
parte della tua espiazione. - Deglutć. - Come lo ero io. Tu hai
cercato di dirmelo, ma io non ho mai ascoltato. Non avevo idea di
quanto poco contassi per te.
- Erika, non avevo altra scelta. Dovevo ripagarli per il male che
avevo fatto. Te l'ho gi spiegato altre volte.
- Ma il tuo senso di colpa Š la cosa pi importante dell'universo?
Giustifica tutto quello che hai fatto da quando ti ho trovato al Campo
Homma?
Si allontanarono l'uno dall'altra, nell'acqua, come divisi dalla
intensit delle emozioni di lei.
- Avevo bisogno di giungere a una fine - disse Stasov. - Avevo bisogno
di trovare completezza.
Lei lo fiss•, assalita improvvisamente da uno strano senso di paura. -
E l'hai trovata?
Egli scosse la testa, lentamente. - Niente Š mai completo. Ma avevo
gi toccato il fondo, prima di lasciare Homma. Me ne sono accorto
quando ho torturato Weissmuller, facendolo con la piena coscienza di
ci• che stavo facendo. Lo avevo sempre saputo. Sempre. Ho dilaniato le
loro menti per conquistare quattro rocce nel Nord del Pacifico. Li ho
tormentati per soddisfare la mia curiosit.
- No - lo interruppe lei, trattenendo il respiro. - No. Tu non lo hai
mai saputo.
- Forse non sapevo che potessero parlare. Ma ho sempre saputo che
potevano soffrire. E io "soffrir•" allo stesso modo finch‚ avr• vita.
- Soffriranno anche se tu non vivrai.
Egli la guard• a lungo. - E' vero. Ma questo non mi riguarda.

Stasov fluttuava nello spazio, la grande massa del capodoglio di
fronte a lui.
- Ilya - disse Weissmuller, con voce alta e cupa. - Ho fatto tutto
quello che dovevo fare. Ora tutti possono fluttuare nell'aria, uomini,
delfini, orche, nel grande mare della moneta. Con quei soldi possiamo
arrivare alle stelle. E' odioso! Mi sento pi disgustato di quanto
avessi mai immaginato di poter essere.
- Sć - disse Stasov. - Il Tempo e il Soffio sono sopra di noi. -Giove
lo sovrastava, per uno strano errore di percezione, come un frutto
pesante pronto a cadere gi. Clarence si lasciava cullare inerte,
cantando una canzoncina tra s‚ e s‚, sembrava una ninna-nanna. Il suo
sistema fisico era stato controllato, e Weissmuller era riuscito a
calmarlo, facendo il lavoro che la maggior parte degli esseri umani
credeva fosse la sua missione. Soltanto Stasov sapeva che lui era
stato portato qua per strappare i suoi simili al mare.
Guardando il delfino e il suo enorme compagno, Stasov ebbe
un'improvvisa visione di delfini, facce sorridenti che scivolavano
nello spazio tra le stelle, saltellando tra i detriti cometari della
Nuvola di Dort, che circondavano ogni stella, battendo contro la
superficie ghiacciata di una stella neutrone, per poi immergersi
nell'atmosfera blu e calda di un pianeta e cadere sibilando arrossati
in un mare sconosciuto, dove avrebbero potuto nuotare e giocare come
avevano sempre fatto. E quando fosse venuto il momento, si sarebbero
lanciati con enorme fragore verso lo spazio infinito che era diventato
la loro seconda casa. Gli esseri umani, pi posati e riflessivi, li
avrebbero seguiti nelle loro navi, guidati dai guizzanti delfini che,
tra le loro onde, li avrebbero condotti a porto sicuro.
Morgenstern, lui lo sapeva, avrebbe continuato nel compito che l'aveva
sempre motivata fin dalla giovinezza, pur avendo scoperto che la sua
passione era stata usata da un altro per un proprio scopo. N‚ lei n‚
il delfino avevano condiviso la necessit di portare i cetacei nello
spazio, ma Stasov aveva deciso cosć.
- Cosa succede, ora, alla Remora, una volta che il suo dio soffia? -
chiese Weissmuller. - Cosa succede all'Eco, una volta che il dio ha
trovato ci• che voleva? Che cosa sono, ora, io?
- Niente - gli rispose Stasov. - Anzi, meno di niente.
Il conto alla rovescia stava giungendo alla sua conclusione e i razzi
di Clarence si prepararono ad accendersi.
- Allora fammi morire! Posso andare con Clarence e affondare nei mari
infiniti di Giove. Ho fatto quello che dovevo.
- No - disse Stasov. - Tu sei ancora necessario agli altri. Tocca a me
morire.
- Tu, sporca progenie egoista di squalo - strid‚ Weissmuller. - Hai
giocato con noi, ci hai sbranati, spinti verso il nostro destino, e ti
- sei rivolto al "nostro" dio perch‚ ti aiutasse a creare l'eco che tu
vuoi sentire. Riesci a ottenere sempre quello che vuoi! Io dico che
voglio morire e non c'Š niente che puoi fare per impedirmelo! - Dette
un colpo di coda e i jet si accesero. - Questa volta non mi fermer•
all'"Id"!
Stasov si era aspettato una cosa del genere e gi era saltato a
cavallo del delfino, come a lanciarlo attraverso il mare. Con la mano
ferm• il fluire dell'ossigeno finch‚ Weissmuller non cominci• a
soffocare. I jet si spensero, e il delfino rabbrividć sotto di lui.
- Ilya - disse il delfino, sentendosi perduto. - Ho paura della rete.
Gli uomini ci hanno catturato mentre seguivamo i tonni, soffocandoci e
uccidendoci, con indifferenza. Non sapevano che quando noi ascoltiamo
non possiamo pensare, e cosć diventiamo facile preda. Ci avete
torturati con suoni falsi e ci avete svegliato. Ci rimorchierete verso
le stelle dentro le vostre reti? Non ci lascerete mai in pace? Non
smetterete mai di tormentarci?
- C'Š solo un modo per smetterla. Io lo so. Non c'Š bisogno che tu me
lo dica.
- Pensi che la morte ti fermer? Il dolore rimane. Che tu sia dannato!
- Stasov si spost• verso Clarence, fino a che la superficie della
balena non fu sotto di lui, anzich‚ accanto. Trov• il punto d'attacco
e vi si leg•.
Con una leggera spinta, fiamme di fusione sorsero intorno alla sezione
centrale di Clarence. Essa cantava una canzone di viaggi, descrivendo
punti caratteristici nel mare che non avrebbe mai pi percepito.
Avrebbe saputo inventare altre canzoni sui mari pi profondi di Giove?
Stasov rimase fermo contro la gravit creata dall'accelerazione di
Clarence. Egli non avrebbe ascoltato le nuove canzoni di Clarence.
Presto sarebbe sparito nel pi profondo dei mari.

Titolo originale: "A Deeper Sea"
Copyright 1989 Davis Publications, Inc.
Traduzione di Lydia Di Marco.




















IL MARGINE DEL MONDO.
Michael Swanwick.

Il giorno che Donna, Piggy e Russ andarono a vedere il Margine del
Mondo, faceva molto caldo. Era mezzogiorno e loro tre erano seduti
sulla curva vicino alla stazione di servizio, bevevano una Coca tutti
assieme e osservavano le grosse astronavi innalzarsi con grande
frastuono verso il cielo, una per una, decollando dall'astroporto di
Toldenarba. Il cielo rumoreggiava al loro passare. C'erano state delle
scaramucce nel Golfo Persico e la met delle forze americane negli
Emirati Orientali erano in stato di allerta.
- Il mio vecchio dice che quando decideranno di fare sul serio, la
nostra base sar la prima ad andarsene - disse Piggy in tono
meditabondo. - I trattati non ci permetteranno di - difenderla. Arriva
un bombardiere dall'alto e "badabambumbum" - fece sottovoce il rumore
di un'esplosione nucleare, - finisce tutto. - Indossava pantaloni
mimetici e una t-shirt kaki con su scritto UCCIDETELI TUTTI E POI FATE
SCEGLIERE A DIO. Donna lo osserv• mentre si toglieva gli occhiali per
pulirli sulla camicetta. La sua espressione divenne vuota e inerte,
per poi ravvivarsi quando se li rimise, come un attore che recita con
una maschera.
- Ti piacerebbe essere cosć fortunato - disse Donna. - La signora
Khashoggi vuole sempre che tu finisca quella relazione per lunedć,
Armageddon o no.
- Ehi, ma quella lć ti sembra una persona normale? - disse Piggy. -
Con quell'incredibile accento! E tutto quell'imparare a memoria!
Voglio dire, chi se ne frega di sapere a che dinastia apparteneva
Akronnion?
- Dovrebbe fregartene, coglione - disse Russ. - La storia locale Š
l'unica materia decente che studiamo a scuola. - Russ era il pi bel
ragazzo che Donna avesse mai conosciuto, indipendentemente dal fatto
che stava per essere bocciato. Aveva occhi profondamente espressivi e
i capelli tagliati in modo eccentrico, corti sui lati e con una
treccina bionda tipo punk che gli scendeva sul collo. - Ragazzi,
quando ho aperto l'"Antologia di poeti epici", quella prima sera,
pensavo che sarebbero state le solite cazzate di sempre, e invece son
rimasto sveglio fino all'alba. Sono andato a scuola senza aver chiuso
occhio, ma l'ho letto fino all'ultima parola. Questa Š una strana
parte del mondo. La sua storia Š piena di draghi, e di incantesimi, e
dei mostri pi incredibili. Vi rendete conto che nel diciottesimo
secolo tre membri della legazione britannica furono divorati dai
demoni? Si trova nei resoconti storici!
Russ era un enigma per Donna. La prima volta che si erano incontrati,
mentre si trovavano fra quelli non accoppiati alla Scuola Americana di
danza, lui aveva cercato di infilarle una mano nelle mutandine e lei
gli aveva rifilato un bel ceffone, rompendogli quasi il naso. La
ragazza poteva ancora sentire la sua risata di sorpresa mentre il
sangue gli colava sul mento. Da allora erano rimasti amici. Solo che
c'erano dei limiti per l'amicizia, e ora lei stava aspettando che Russ
facesse la prima mossa, sperando che il giovane si decidesse prima che
il padre di lei fosse rimandato in patria per avvicendamento.
In Giappone aveva conosciuto una ragazza che si era incisa il nome del
fidanzato sul palmo della mano con una lametta da rasoio. Come aveva
potuto fare una cosa simile? le aveva chiesto Donna. La sua amica,
alzando le spalle, aveva detto: - L'importante Š che lui si accorga di
me. - Donna non aveva mai capito, fino a quando non aveva incontrato
Russ.
- Strano paese - disse Russ con aria sognante. - Si dice che il cielo
al di l del Margine sia pieno di demoni, di serpenti, e di merda. E
che se ci tieni lo sguardo fisso abbastanza a lungo, diventi matto.
Si guardarono vicendevolmente tutti e tre. - Be', diavolo - disse
Piggy. - Cosa stiamo aspettando?

Il Margine del Mondo si trovava al di l dei binari del treno.
Attraversarono in bicicletta il territorio americano, fino a giungere
al vecchio quartiere dei nativi. Le strade erano strette, lć, con i
cortiletti laterali pieni di autocarri semidistrutti, autobus
ricoperti di ruggine, perfino barche imbragate con i fianchi
sfasciati. Le porte dei garage erano buchi neri che sibilavano e
sputavano scintille, pulsanti al martellante suono del metallo
lavorato. Nascosero le biciclette in un boschetto di albicocchi
tardivi, dove la ferrovia attraversava un canale di scarichi
industriali, e lo attraversarono faticosamente.
Il tempo aveva alterato le caratteristiche della citt, laddove questa
confinava con il Margine. Non c'erano pi gli arcieri nelle loro
torri, a vigilare contro una minaccia che non era mai arrivata. I
muraglioni dove musicisti ciechi salutavano l'alba al suono dei flauti
sopravvivevano solo nei libri della signora Khashoggi. Al loro posto
si trovava ora una squallida fila di consunti fabbricati industriali,
con le finestre dei piani bassi chiuse da assi o mattoni, e quelle al
di l della portata delle pietre dei vandali dipinte a quadrati grigi
e azzurri.
Si udć il suono di una sirena e intere file di operai si affrettarono
a entrare con andatura strana, uomini dalla pelle scura con pesanti
pantaloni di cotone e camicie bianche, uomini di fatica siriani e
libanesi importati per fare il lavoro che nessun nativo di Toldenarba
avrebbe mai fatto. Dal ferro di un canestro vicino all'imbarcadero,
una retina tutta sbrindellata pendeva pietosamente.
Pi sotto c'era una porzione di recinto di protezione dagli uragani.
Lo attraversarono di buon passo.
Mentre tagliavano attraverso i campi, un fischio acuto si alz• dai
fabbricati industriali. Pi avanti, un'altra fabbrica fece sentire la
sua voce con un pesante tum-tum-tum, altrettanto ritmico e incessante
quanto un mal di testa. Una alla volta, le fabbriche si scuotevano dal
loro pisolino pomeridiano e si rimettevano al lavoro. - Perch‚
dispongono gli edifici industriali lungo il Margine? - chiese Donna.
- Cosć possono gettare i rifiuti chimici al di l del Margine -spieg•
Russ. - Sono stati costruiti tutti prima che l'Emiro nazionalizzasse
il sistema di fognature costruito durante il protettorato russo.
Oltre la fabbrica c'era un muretto di cemento alto circa un metro e
mezzo, dal bordo disuguale e smussato per l'erosione. Ciuffi di
erbacce crescevano ai suoi piedi. Al di l, nulla tranne il cielo.
Piggy corse avanti e sput• oltre il Margine. - Ehi, vi ricordate
cos'ha detto Nixon quand'Š venuto a vedere questo posto? "Certo che
c'Š da scendere un bel po', qui". Che elemento!
Donna si appoggi• al muretto. Un sottile strato di nebbia tinteggiava
il cielo di grigio, che nel punto focale si intensificava in un
marrone sporco, come se una macchia indistinta bruciasse al centro del
suo campo visivo. Quando guard• gi, i suoi occhi cercarono
disperatamente il terreno, ma trovarono solo altro cielo. C'erano solo
alcune nuvolette sparse in lontananza, e nient'altro. Niente serpenti
che si attorcigliavano nell'aria. Avrebbe dovuto sentirsi seccata, ma
in realt non si aspettava niente di meglio. Era la stessa storia di
tutte le meraviglie naturali che aveva visto, cascate, geyser,
panorami meravigliosi che inevitabilmente includevano cavi delle linee
elettriche, binari e parcheggi di automobili, che nelle cartoline non
figuravano mai. Russ aveva lo sguardo fisso davanti a s‚, accigliato,
simile a un falco. Muoveva leggermente la mascella, e Donna si chiese
che cosa vedesse.
- Ehi, guardate cos'ho trovato! - grid• Piggy. - Una scala!
Lo raggiunsero all'inizio di una scalinata di ferro e cemento,
dall'aria di essere stata costruita per uso pubblico. Si dipanava gi
per il dirupo verso un infinitamente distante e quasi non esistente
Sotto, rimpicciolendo in un azzurro indistinto. A voce bassa, un po'
impressionato, Piggy chiese: - Cosa pensate che ci sia laggi?
- C'Š un modo solo per scoprirlo, no? - disse Russ.

Russ si avvi• per primo, seguito da Piggy e da Donna, con i gradini
che risuonavano sordi sotto i loro piedi. Le rocce erano ricoperte di
parole, scribacchiate una sopra l'altra con vernice spray gialla,
rossa e nera, consunte dal tempo e dagli agenti atmosferici fino alla
pi completa illeggibilit, mentre sulla ringhiera di ferro triangoli,
frecce e parole varie erano stati disegnati o incisi nella vernice con
le unghie o con dei coltelli. JURGEN BIN SCHEISSKOPF. MOTLEY CRUE.
DEATH TO SATAN AMERICA IMPERIALIST. Diciassette gradini pi sotto, il
primo pianerottolo era tutto imbrattato di vetri rotti, pezzettini di
cemento sbriciolato, mozziconi di sigarette, cartoncini umidi e
semidisciolti. La scala ripiegava su se stessa e i tre proseguirono la
discesa.
- Avete mai mangiato il "fugu"? - chiese Piggy. Senza aspettare una
risposta, disse: - E' un pesce giapponese velenoso. Dev'essere
preparato con estrema cura - danno speciali permessi ai cuochi - e
nonostante ci• parecchie persone muoiono ogni anno. E' considerato un
cibo particolarmente raffinato.
- Non c'Š niente di pi buono - disse Russ.
- Non Š tanto il sapore - disse Piggy con entusiasmo. - E' il veleno.
Preparato nella maniera giusta, ne rimane una piccola quantit nel
sughetto, e se ne mangia una dose appena inferiore a quella letale. Le
labbra e la punta delle dita diventano fredde. Intorpidite. E' cosć
che si distingue quando si sta mangiando quello vero. E che si sa che
la propria vita Š sulla lama del rasoio.
- Io vivo gi cosć - disse Russ. Sembr• sorpreso quando Piggy rise.
Una grossa luna fluttuava nel cielo, pallida come un disco di ghiaccio
che si sciolga in acqua azzurra. Li seguć nella loro discesa, mentre
calciavano via bottigliette vuote di soda ridotte a tubetti
schiumanti, scatole schiacciate di Marlboro, marmitte carbonizzate. Su
un pianerottolo trovarono un carrellino per la spesa semidistrutto, e
Piggy lo sollev• al di sopra della ringhiera, osservandolo mentre
cadeva. - Certo che c'Š un bel po' di spazzatura, qui - osserv•. Il
luogo puzzava leggermente di urina.
- Pi gi diventer meglio - disse Russ. - Siamo ancora vicini alla
cima, dove la gente pu• venire a ubriacarsi dopo il lavoro. - Proseguć
nella discesa. In lontananza, da un lato, potevano vedere la scura
corrente del canale di scarico, nel punto in cui cadeva nel vuoto, che
si ampliava per poi disperdersi lentamente in una nebbiolina colorata,
che a distanza poteva anche sembrare bella.
- Fin dove abbiamo intenzione di spingerci? - chiese Donna in tono
apprensivo.
- Non fare la fifona - sogghign• Piggy. Russ tacque.
Pi gi andavano, pi la scala diventava consunta e maltenuta.
Mancavano alcune sbarre dalla ringhiera. Laddove la vernice si era
scrostata, le viti che ancoravano la scala alla parete di roccia
sembravano protuberanze di ruggine a forma di guscio di noce.
Marsupiali dai minuscoli artigli squittivano al loro passaggio, in
segno di avvertimento, mentre saltavano da una nicchia all'altra della
roccia. Ciuffi d'erba e genziane bianche crescevano nelle fessure
piene di terriccio portato dal vento.
Passarono parecchie ore. A Donna dolevano i piedi, i polpacci e
l'esile schiena, ma non volle far vedere che si lamentava. Di quando
in quando si fermava per guardare il cielo al di l del parapetto, e
invece vedeva i suoi piedi che svanivano alternativamente dalla sua
vista mentre con una mano si aggrappava saldamente alla ringhiera. Si
sentiva sudata e terribilmente infelice.
A casa aveva una relazione, ancora da finire, sull'Incidente dei Tre
Giorni, accaduto nel marzo del 1810, quando le forze d'occupazione
francesi, dietro ordine di Napoleone stesso, avevano sparato cannonate
su cannonate al di l del Margine, nel nulla pi assoluto. Speravano
di creare dei temporali di devastante potenza, tali da distruggere
completamente il nemico, e tutto quello che ottennero fu una nuvola di
polvere da sparo, primo grande fallimento nella storia del controllo
del tempo. Quella discesa era altrettanto inutile, pens• Donna, senza
fine, uno stancante esercizio che non avrebbe portato da nessuna
parte. Proprio come la sua vita. Tutte le volte che suo padre era
stato trasferito, lei aveva deciso di cambiare, di diventare diversa,
a qualunque costo, anche se - no, specialmente se - ci• avesse
significato recitare un ruolo che non era il suo. L'anno prima, in
Germania, quella volta che era uscita con un ragazzo del posto in Alfa
Romeo, e invece di mandarlo a quel paese l'aveva fatto godere con la
bocca, aveva pensato: d'ora in poi, sar tutto diverso. E invece no.
Non era cambiato niente.
- Fate attenzione! - disse Russ. - Qui mancano dei gradini! - Fece un
salto, e atterr• con un suono cavo e metallico sotto gli stivali. Si
udć lo stesso rumore quando salt• Piggy.
Donna esitava. Mancavano cinque gradini e c'era un salto d'un paio di
metri, prima che la scala riprendesse. Il dirupo era sporgente in quel
punto e, se fosse scivolata, avrebbe mancato del tutto la scala.
Le sembrava che le rocce si allontanassero sempre di pi da lei, e si
rese improvvisamente conto che era collegata al resto del mondo da una
minuscola porzione di materia, a malapena sufficiente per tenervi ben
saldi i piedi. Il cielo la avvolgeva come un lenzuolo, estendendosi
all'infinito, assoluto e privo di profondit. Avrebbe potuto allungare
le braccia e cadervi dentro per sempre. Che cosa le sarebbe successo,
in un caso del genere? si domand•. Sarebbe morta di fame e di sete,
oppure la velocit della caduta sarebbe diventata cosć alta da
risucchiarle l'ossigeno dai polmoni, lasciandola soffocare in un mare
d'aria? -Dai, Donna! - le grid• Piggy. - Non fare la fifona!
- Russ! - disse lei, tremando.
Ma Russ non stava guardando dalla sua parte. Aveva lo sguardo
accigliato rivolto verso il basso, ansioso di riprendere il cammino. -
Non forzarla - disse. - Possiamo anche proseguire da soli.
A Donna manc• il respiro per la rabbia, il dolore e la disperazione,
tutto assieme. Inspir• profondamente e, con il cuore che le martellava
in petto, salt•. Cielo e roccia le rotearono sopra la testa. Per un
istante si trov• a galleggiare nell'aria, cadendo, totalmente in preda
al panico e alla sensazione di essere sul punto di morire. Poi atterr•
con un tonfo sul pianerottolo. Le fece un male d'inferno e sulle prime
pens• d'essersi distorta una caviglia. Piggy la afferr• per le spalle
e le sfreg• le nocche sulle tempie. - Sapevo che ce l'avresti fatta.
Donna gli allontan• il braccio. - Okay, stronzo sapiente. E adesso
come pensi che faremo a tornare su?
Il sorriso svanć dal volto di Piggy. Aprć la bocca, poi la richiuse.
Alz• la testa, terrorizzato. Un acrobata avrebbe potuto fare un bel
salto, afferrare l'ultimo gradino e poi issarsi senza nessun problema.
- Io... voglio dire... cioŠ...
- Non ti preoccupare - disse Russ impaziente. - Troveremo un modo. -
Riprese la discesa.
Non aveva un atteggiamento naturale, si rese conto Donna. C'era
qualcosa di ossessivo, nel suo desiderio di scendere quelle scale. Le
sembrava come quel giorno che aveva portato a scuola la pistola di suo
padre, raccontando che aveva giocato alla roulette russa, quella
mattina prima di colazione. - Tre volte! - aveva detto, orgoglioso.
Aveva quello stesso sguardo da folle, e n‚ allora, n‚ in quel momento,
lei aveva la minima idea di come aiutarlo.

Russ camminava come un automa, silenzioso, instancabile, senza mai
accelerare n‚ rallentare il passo. Donna lo seguiva in un preoccupato
silenzio, mentre Piggy correva dall'uno all'altro, chiacchierando con
petulanza. Questa situazione colpć Donna quasi come un'allegoria: loro
due assieme, eppure soli, con la distanza riempita da rumore. Pens• a
questa distanza, al silenzio, mentre il sole scompariva dietro il
pendio e il calore del pomeriggio si faceva pi dolce.
Le scale diventarono di mattonelle cementate, con piccoli appigli
tagliati nella roccia. Su un pianerottolo c'era un mucchietto di steli
e noccioli di ciliegia, e la ringhiera era bianca d'escrementi
d'uccello. Piggy si sporse oltre il bordo e disse: - Ehi, posso vedere
dei gabbiani che svolazzano, laggi!
- Dove? - Russ si sporse a sua volta, poi disse con disprezzo: - Ma
quelli sono piccioni. Il Ghazoddis li usava per fare pratica con il
fucile.
Mentre Piggy si girava per riprendere la discesa dietro a Russ, Donna
colse nei suoi occhi uno sguardo liquido e tremante di sconforto e
disperazione. L'aveva visto cosć impaurito soltanto una volta prima,
mesi prima, quando si era fermata davanti a casa sua mentre andava a
scuola, subito dopo l'assassinio dell'Emiro.

Le finestre del soggiorno erano tutte drappeggiate, e la stanza
sembrava innaturalmente scura, venendo dal sole del mattino. La luce
blu della televisione scintillava sui ripiani pieni di irreali
statuette di ceramica: balie di Dresda, cinesi di Chantilly, bull-dog
di Meissen uniti per le mascelle da una catenina d'oro, ninfe nude di
Delft danzanti.
La madre di Piggy sedeva con un vestito cascante, i capelli in
disordine, e guardava il funerale. In una mano teneva una tazza di
caffŠ dall'aria nauseabonda. Donna era sorpresa di vederla alzata cosć
presto. Tutti dicevano che aveva grossi problemi con l'alcol, e che
non ce la faceva nemmeno a fare i lavori di casa.
- Guardateli - disse la madre di Piggy. Sullo schermo si vedeva
passare una solenne processione di cammelli e Cadillac, sceicchi in
jellaba e keffigeh e dignitari europei con le mogli addobbate secondo
l'ultima moda di Parigi. - Sono tutti arrabbiati.
- Dove hai messo il mio spuntino? - chiese Piggy a voce alta dalla
cucina.
- Divertirsi alle spalle dei Kennedy a quel modo! - Il figlio minore
dell'Emiro, non pi di quattro armi, si inchin• profondamente davanti
alla tomba di suo padre, mentre vi passava davanti. - Quel bambino fa
gi abbastanza pena, ma dovreste vedere la madre, che piange come se
avesse il cuore spezzato. Roba da far venire il voltastomaco. Se fossi
Jackie, io...
Donna, Piggy e Russ erano andati a vedere la partita di football la
sera che avevano sparato all'Emiro. Quando la musica araba che suonava
dagli altoparlanti fu interrotta per dare la notizia, tutti si erano
alzati sorridenti. "Up we go", qualcuno si era messo a cantare, e gli
altri si erano uniti, "into the wild blue yonder..." Donna si era
sentita cosć male, per la paura e il disgusto, che nel parcheggio
aveva tirato su di stomaco. - Non credo che si stiano prendendo gioco
di nessuno - disse Donna. - Stanno solo...
- Non parlare con lei! - La porta del frigorifero si chiuse con un
colpo secco. Con un rumore simile, si aprć uno sportello della
credenza.
La madre di Piggy sorrise con amarezza. - E' esattamente quello che
c'era da aspettarsi da quei disgraziati. Fanno finta di essere bianchi
e prendono apertamente in giro persone a loro superiori. Sporchi
animali scuri!
- Mamma! Dove cazzo Š il mio spuntino?
Finalmente la donna rivolse lo sguardo verso di lui, con la mascella
serrata. - Non usare quel linguaggio con me, giovanotto.
- Va bene, va bene! - grid• Piggy. - Andr• a scuola senza colazione!
Ecco come ti preoccupi di me!
Si gir• verso Donna, e un istante prima che le afferrasse il polso,
trascinandola fuori di casa, la ragazza non sentć pi alcuna parola,
ma vide solo un universo di confusa inutilit negli occhi spiritati di
Piggy. Lo stesso sguardo che aveva adesso.

La ringhiera era di legno, adesso, con met dei paletti semiputrefatti
alla base, e alcune assi mancanti, strappate via e gettate fuori da
precedenti visitatori. Donna si sentć le ginocchia vacillare, e
inciamp•, andando quasi a sbattere contro la parete di roccia. - Devo
fermarmi - disse, detestandosi per questo. - Non riesco a fare neanche
un altro passo avanti.
Immediatamente Piggy croll• per terra. Russ esit•, poi risalć qualche
gradino per unirsi a loro. Rimasero tutti e tre a guardar fuori nel
niente, con le gambe al di l del Margine, le braccia aggrappate alla
ringhiera.
Piggy trov• fra la spazzatura una lattina di Pepsi, con le scritte in
arabo. La tenne con la mano sinistra e cominci• a farvi dei buchi con
il coltello, senza fermarsi, emettendo dei suoni che lo facevano
sembrare un pazzo criminale sessuale. - Sterminate quegli animali! -
disse tutto felice. Poi, del tutto inaspettatamente, chiese: - Come
riusciremo mai a tornare su? - con aria cosć addolorata che Donna
dovette ricacciarsi gi la risata.
- Senti, vorrei solo scendere ancora un po' - disse Russ.
- Perch‚? - La voce di Piggy suonava petulante.
- Almeno tanto quanto basta per lasciarsi indietro tutta questa
spazzatura. - Fece cenno ai mozziconi di sigaretta, ai frammenti di
vetro marrone, pi radi rispetto a prima, ma pur sempre presenti. -
Soltanto ancora un po', eh, ragazzi? - Aveva la voce tagliente, ma
sotto si poteva udire una sommessa preghiera. Donna si sentć
impotente, davanti a quegli occhi. Avrebbe desiderato che fossero
soli, cosć avrebbe potuto chiedergli cosa c'era che non andava.
Donna dubitava che Russ sapesse cosa si aspettava di trovare pi
sotto. Forse pensava che, se scendeva abbastanza, non avrebbe pi
dovuto tornar su? Si ricord• di quella volta in cui, durante la
lezione di algebra, aveva sentito un'improvvisa tensione nell'aria che
le fece gettare un'occhiata attraverso l'aula verso Russ. Questi
stava, con espressione estremamente concentrata, strappando le pagine
dal libro di matematica, lasciandole cadere una per una per terra. Era
stato sospeso per cinque giorni per quel fatto e Donna non aveva mai
scoperto che cos diavolo avesse. Ma c'era una specie di splendida
arroganza in quell'atto. Russ doveva esser nato nel secolo sbagliato.
Avrebbe dovuto essere un principe medievale, un Medici o uno dei
pretendenti al trono di Sabakan.
- Va bene - disse Donna, e Piggy naturalmente dovette seguirli.
Sette rampe pi gi ebbe fine la parte "moderna" delle scale. La
ringhiera di legno, nelle ultime rampe, era stata completamente
strappata via e buttata in mezzo alla scala. Dovettero avanzare passo
passo, con molta cura, fra le assi che intralciavano il cammino. Ma
quando furono arrivati in fondo, videro che c'erano delle altre scale
dopo l'ultimo pianerottolo, con i gradini tagliati nella pietra. Erano
curvi e irregolari, scalini che millenni di pioggia e di passaggio di
piedi avevano ridotto in maniera tale da renderli quasi
intransitabili.
Piggy grugnć. - Ehi, amico, non ti aspetterai mica che adesso
scendiamo gi di lć, eh?
- Nessuno ti costringe - disse Russ.

Discesero la vecchia scalinata camminando all'indietro a quattro
zampe. Si era alzato un forte vento, che li colpiva da tutte le parti
con inaspettata violenza. Ci furono dei momenti in cui Donna era cosć
spaventata da credere che sarebbe congelata lć e non si sarebbe pi
mossa. Ma finalmente la roccia si allarg• in un'ampia e liscia
piattaforma, costellata di caverne che si addentravano nelle pareti
bianco-verdastre di licheni, che in tempi antichi erano state
faticosamente lisciate e scolpite. Fra una caverna e l'altra (i cui
ingressi erano inalterati, allo stato naturale) vi erano statue di
donne dalle cosce possenti - divinit, probabilmente, o demoni, o
danzatrici sacre - con i volti e i seni tagliati via dagli iconoclasti
seguaci del Profeta, ai tempi in cui Maometto era ancora vivo. Avevano
in mano rami di vite nei quali erano intrecciate delle lune di varie
dimensioni, da quella nuova, a un quarto, a mezza, a tre quarti, fino
alla luna piena, e viceversa. Piggy ansimava, il volto madido di
sudore, ma tenne su la fronte. - Cosa cazzo Š tutta 'sta roba ragazzi?
- Era un monastero - disse Russ. Percorse la piattaforma pieno di
stupore, con un mezzo sorriso di meraviglia sulle labbra. - Ho letto
qualcosa sulla sua esistenza. - Si ferm• vicino a una portiera di
automobile turchese, che qualcuno aveva gettato al di l del Margine,
in balia dei venti, l'unico pezzo di spazzatura che era arrivato cosć
in basso. - Dammi una mano.
Lui e Piggy sollevarono la portiera, la fecero oscillare avanti e
indietro due o tre volte, poi la gettarono oltre il bordo della
roccia. Si misero tutti e tre distesi a guardarla cadere, mentre
rimbalzava continuamente e sembrava quasi scintillare, diventando
sempre pi piccola, durante la caduta che sembrava non finire mai.
Infine precipit• al di l della soglia di visibilit e divenne solo
uno dei tanti movimenti ondeggianti che si intravedevano sotto, parte
del lento e intricato brulichio delle cellule di sangue morte nel
liquido oculare. Donna si sollev• sulla schiena, tirando indietro la
testa, e guard• su. Sembrava che la scarpata rotolasse lentamente in
avanti, che tutto il mondo stesse inesorabilmente e confusamente
venendo gi per schiacciarla.
- Andiamo a esplorare le caverne - suggerć Piggy.
Erano vuote. All'interno non s'addentravano per pi d'una decina di
metri nella roccia, ma erano state tutte elaboratamente decorate, i
soffitti a volta intagliati a falso intonaco, le mura scolpite con
colonnine in bassorilievo.
Lo spazio fra le colonnine era occupato da lunghe mensole scavate
nella roccia. Non rimaneva alcun manufatto, nemmeno un coccio o una
scheggia d'osso. - Qualcuno Š stato qui prima di noi e si Š portato
via tutto - disse.
- Gli impiegati del museo, probabilmente. - Russ fece scorrere una
mano su uno dei ripiani. Era dell'altezza e profondit giuste per
caffettiere da un litro e mezzo. - Qui era dove tenevano i crani.
Quando un monaco arrivava a un tale punto d'innalzamento spirituale da
non aver pi bisogno del peso dell'esistenza fisica, i suoi compagni
lo scarnificavano e ne conservavano il teschio. Versavano della cera
nelle cavit orbitali, e poi vi conficcavano degli opali quando questa
era ancora calda. Cosć potevano dormire sotto il debole bagliore degli
occhi dei loro superiori.
Quando riemersero era il tramonto, con le prime stelle che facevano la
loro apparizione da dietro un cielo che sfumava dal blu al purpureo.
Donna guard• gi verso la luna, che era grossa come un disco, piena e
luminosa. Valli, mari e catene montuose erano perfettamente visibili.
Da qualche parte lć in mezzo c'era la Base della Tranquillit, dove
Neil Armstrong aveva piantato la bandiera americana.
- Accidenti, Š tardi - disse Donna. - Se non ci sbrighiamo a tornare,
a mia madre verr un accidente.
- Veramente non sappiamo ancora come faremo a risalire - le ricord•
Piggy. - Forse dovremo rimanere qui. Imparare a mangiare le civette e
a far crescere il grano sul pendio del dirupo. Iniziare da capo una
nuova civilizzazione. L'unico problema serio Š che siamo spaiati dal
punto di vista sessuale, ma neanche questo mi sembra insormontabile. -
Mise un braccio attorno alle spalle di Donna, afferrandole un seno. -
Tu ti faresti scopare da tutti e due, no, Donna?
Lei lo spinse via adirata. - Smettila di dire porcherie! Sono stufa
delle tue chiacchiere e del tuo modo di fare da ragazzino.
- Ehi, calma, la situazione Š sotto controllo. - Aveva di nuovo il
panico nello sguardo, la consapevolezza che invece non era sotto
controllo, che non lo sarebbe mai stata, che non sapeva neanche cosa
fosse, il controllo. Sorrise debolmente, con espressione di scusa.
- No che non lo Š. Non Š affatto "sotto controllo". - Improvvisamente
divenne pallida e tremante di collera. Piggy rovinava tutto. La sua
semplice presenza annientava ogni possibilit che lei potesse parlare
con Russ, scoprire cosa lo tormentava e finalmente costringerlo ad
accorgersi di lei. - Non ne posso pi di dover avere a che fare con la
tua immaturit, il tuo linguaggio triviale e il tuo comportamento da
cafone.
Piggy divenne rosso e cominci• a balbettare.
Russ mise una mano in tasca, ne estrasse un po' di hashish avvolto in
un foglio e una pipa locale di latta con una scodella in corallo
intagliato. Il tipo di oggetto che i ragazzini del luogo vendevano per
poche lire. - Qualcuno vuole farsi? - chiese soavemente.
- Bastardo! - rise Piggy. - Mi avevi detto che eri rimasto senza.
Russ alz• le spalle. - Era una bugia. - Accese con cura la pipa, tir•
una boccata e la pass• a Donna. Lei gliela prese dalle dita, sentendo
quanto erano fredde al tocco, guard• sopra la pipa e vide il suo
volto, magro e ascetico, con le palpebre abbassate, pallido e
somigliante a Ges Cristo attraverso il fumo blu. In quell'istante lo
am• intensamente e si augur• di poter sacrificare se stessa per la
felicit di lui. Lo stelo della pipa era surriscaldato, quasi bollente
fra le sue labbra. Inspir• profondamente. Il fumo le rasp• in gola, ma
poi era pieno e avvolgente nei polmoni.
Le arriv• in testa, riempiendola di suoni mormoranti: l'aria, il
cielo, la roccia dietro alla sua schiena, tutto mormorava, gonfiandole
il cranio in un'abbacinante visione che la costrinse a spalancare gli
occhi e la bocca. Tossć spasmodicamente. Pi fumo di quanto lei
ritenesse possibile essere contenuto nei suoi polmoni zampill•
nell'universo.
- Ehi, attenta alla pipa! - Piggy la afferr• dalle sue dita lontane,
che le prudevano come se piccole stelle le infliggessero delle
minipunture nell'oscurit delle sue carni. - Stavi rovesciando la
roba! - La luce della sera traboccava d'energia, il cielo le si
riversava negli occhi. Guardando l'aria che si faceva pi scura, la
luna che si alzava dietro di lei e le stelle, vicine e amichevoli come
quelle delle illustrazioni dei libri per bambini, si sentć in pace,
distaccata dalle preoccupazioni terrene. - Parlaci del monastero, Russ
- disse, con lo stesso tono che avrebbe potuto usare dieci armi prima
chiedendo a suo padre di raccontarle una favola.
- Gi, parlaci del monastero, zio Russ - disse Piggy, ma con un
sottofondo scherzoso. Di solito Piggy leccava i piedi a Russ, ma a
volte c'era anche della tensione, e le sue piccole sfide sarcastiche
erano tutt'altro che rare. Era un classico caso di gelosia maschile,
tipico della psicologia dei primati.
- E' molto vecchio - disse Russ. - Prima dei Sufi, prima di Maometto,
perfino prima che gli zoroastriani attraversassero il golfo, i mistici
del luogo usavano rinunciare al mondo e andare a vivere sui dirupi del
Margine. Tagliarono gli scalini e, una volta gi, non ritornavano pi.
- E come facevano a mangiare, allora? - chiese Piggy, scettico.
- Creavano dal nulla il cibo che desideravano. Davvero! Faceva tutto
parte del loro mito sulla creazione. All'inizio tutto era Caos e
Desiderio. Il mondo era stato fatto uscire dal Caos, che per loro era
la materia senza forma, dal Desiderio, o Volont. In realt Š tutto un
po' inconsistente, perch‚ non era veramente una religione, ma pi che
altro una sorta di magia. Credevano che il mondo non fosse ancora
completo e che per qualche complicata ragione non lo sarebbe mai
stato. Cosć ci sono ancora tracce del Caos appena oltre il Margine e
possono essere spillate da quelli che lo desiderano abbastanza forte,
se si sono distanziati dalle cose del mondo. Questi mistici usavano
venire quaggi a meditare alla luna e operare miracoli.
"Non era roba sofisticata, tipo i monaci tantrici nel Tibet,
ricordate. Era quasi una primitiva forma di animismo, una maniera per
costringere l'universo a darti quello che volevi. Cosć i santi uomini
potevano venire quaggi e desiderare quello che volevano, come i
ricchi. Filigranati calici argentei costellati di rubini, mucchietti
di pietre lunari, pugnali di osso d'elfo, pi affilati dell'acciaio di
Damasco. Solo che quando avevano queste cose, si accorgevano che non
gli interessavano. Allora le gettavano al di l del Margine. Questi
erano i monasteri lungo il dirupo. E pi erano lontani dal mondo, pi
erano spiritualmente avanzati."
- Ma poi cos'accadde ai monaci?
- Ci fu un re, si chiamava Althazar?, non mi ricordo il suo nome.
Costui, che era l'ingordigia fatta persona, cominci• a mandare quaggi
i suoi esattori per farsi consegnare qualsiasi cosa i monaci creassero
dal nulla. Immaginavano che i monaci non usassero queste cose. Il che,
per loro, era grossissima bestemmia, cosć si arrabbiarono veramente. I
loro capi, tutte le menti pi spirituali, si riunirono per
confabulare. Nessuno seppe cosa accadde. Una delle voci pi diffuse Š
che fossero in grado di correre su e gi lungo il dirupo come se
fossero sul terreno, ma io non lo so. Ha poca importanza. Allora una
notte tutti loro assieme, ciascun singolo monaco al mondo, si misero a
meditare nel medesimo momento. Cantarono assieme: "non Š abbastanza
che Althazar muoia, deve anche essere maledetto. Subir una sorte che
non Š toccata a nessun uomo prima. Deve diventare non fatto, non
creato, ridotto al nulla." E pregarono affinch‚ Althazar non esistesse
pi, e tutta la sua vita e la sua storia fossero distrutte.
- E cosć Althazar smise di esistere.
- Ma era cosć grande il loro desiderio di oblio che quando Althazar
smise di esistere, tutta la sua famiglia fu lasciata in un sentimento
di amarezza senza che sapessero perch‚. E cosć il loro odio si rivolse
contro se stessi, e il loro desiderio di distruzione, e tutti quanti,
in una sola notte, cessarono di esistere. - Russ cadde in silenzio.
Infine Piggy disse: - E tu credi a tutte queste stupidaggini? - Poi,
non essendovi risposta: - Sono tutte balle, capito? Non c'Š nessuna
magia, e non c'Š mai stata. - Donna si rese conto che era veramente
fuori di s‚, minacciato, a livello primitivo, dalla possibilit che
una persona che rispettava potesse anche solo accennare a credere
nella magia. Divenne tutto rosso, come gli accadeva sempre quando
perdeva il controllo.
- Ma certo, sono tutte cazzate - disse amaramente Russ. - Come
qualsiasi altra cosa.
Fecero nuovamente girare la pipa. Poi Donna si appoggi• all'indietro
e, con lo sguardo perso in lontananza, disse: - Se potessi desiderare
qualcosa, sapete cosa desidererei?
- Delle tette pi grosse?
Era cosć piacevolmente stanca che fu facile ignorare Piggy. - Vorrei
sapere come sono le situazioni.
- Quali situazioni? - chiese Piggy. Donna si sentiva languida e non
aveva tanta voglia di star lć a spiegarsi, cosć ignor• la domanda con
un cenno della mano. Ma Piggy insistette. - Quali situazioni?
- Tutte. Voglio dire, mi capita molto spesso di parlare con della
gente e non so veramente cosa succede. Che gioco stanno giocando.
Perch‚ agiscono nel modo in cui agiscono. Vorrei sapere cosa c'Š
sotto, in questi casi.
La luna le ondeggiava davanti agli occhi, grande grossa e rotonda come
un rosso d'uovo, scintillante di potenza. Si sentiva imbevuta di
quella potenza, come se fosse una radiazione del caos decaduto che si
spargeva attraverso il cielo. Ancora adesso, una moneta, spesa e
rispesa, poteva assottigliarsi fino all'irregolare margine della non-
esistenza. C'era potenza l fuori, abbastanza da spianare i pianeti.
Osservando la luna, che le sembrava un grosso drago, sentć lo scorrere
di possibili parole, e nel freddo e argenteo disco, che ora
assomigliava al teschio di un buffone dedito alla magia, sentć
l'invisibile presenza dei monaci di cui parlava Russ, uomini le cui
menti si trovavano in un luogo incomprensibile per lei, eppure
vibravano di potenza, esistenti come matrici di una tensione ben nota,
non pi veri di quanto potrebbe esserlo Paperino, eppure non certo
meno potenti. Fu rapita in una fantasia da sveglia, nella quale il
cielo era pieno di potenza, tutta a lei accessibile. I monaci sedevano
a mani vuote davanti alle loro scodelle votive, separate da lei da
un'infinitesima porzione di tempo e realt. Per un eterno istante
tutte le possibilit le volteggiarono attorno tutte ugualmente valide,
nessuna meno reale di tutte le altre. Poi il mondo si rovesci•, e la
sua mente fece ritorno alla realt.
- Io vorrei solo sapere come faremo a risalire quelle, scale - disse
Piggy.
Rimasero in silenzio per un po'. Poi a Donna venne in mente che quello
era il momento ideale per scoprire cosa rodesse Russ. Se glielo
chiedeva con sufficiente cautela, se la domanda lo prendeva bene, se
aveva tout court un po' di fortuna, forse lui le avrebbe detto tutto.
Si schiarć la voce. - Russ, e tu che cosa desideri, adesso?
Con la voce pi debole che mai, Russ disse: - Vorrei non essere mai
nato.
Donna si gir• per chiedergli perch‚, ma lui non era lć.
- Ehi! - disse Donna. - Dov'Š andato Russ?
Piggy la guard• stranamente. - Chi Š Russ?

Il viaggio di ritorno fu lungo. Portarono con s‚ un pezzo di ringhiera
di legno e ogni tanto Piggy diceva: - Ehi, non Š vero che ho avuto una
magnifica idea? Questa sar una magnifica scala.
- Gi, veramente magnifica - diceva Donna, perch‚ lui si arrabbiava
quando lei non rispondeva. Si arrabbiava anche tutte le volte che lei
si metteva a piangere, ma Donna non poteva farci niente. Non avrebbe
neanche potuto spiegare perch‚ piangeva, perch‚ era l'unica in tutto
il mondo, fra tutti i suoi amici, conoscenti, professori, perfino i
genitori, a ricordare l'esistenza di Russ.
E la cosa pi terribile era che non aveva nessun ricordo specifico di
lui, solo un vago senso di come era stata la sua presenza e un
continuo sentimento di desiderio e di frustrazione.
Non si ricordava pi nemmeno la sua faccia.
- Vado avanti io o vai avanti tu? - chiese Piggy.
Quando lei gli rispose: - Tu, perch‚ se vado avanti io, poi passi il
tempo a guardarmi il culo. - Lui arrossć. Senza Russ davanti al quale
mettersi in mostra, Piggy era una persona completamente diversa,
silenziosa e per nulla invadente. Tenne perfino un linguaggio pulito.
Ma non serviva a niente, perch‚ la sua sola presenza era sufficiente a
far capire a Donna che le sue bravate erano dettate dall'insicurezza e
dalle aspirazioni frustrate, che si masturbava di notte odiandosi per
questo, che disprezzava i suoi genitori pur aspettando invano il
minimo segno d'amore da parte loro. Che il modo con cui la trattava
era la somma di tutte queste e altre cose.
Sapeva esattamente com'era la situazione.
Oh Dio, preg•, fa' che io non abbia questa possibilit di comprensione
quando sar• arrivata in cima. Oppure fai sć che le situazioni non
siano dolorose, che la loro conoscenza non faccia cosć male, che non
vi siano orribili segreti sotto la pi innocente delle parole.
Portarono su il loro fardello di legno, su di nuovo verso il mondo.

Titolo originale: "The Edge of the World".
1989 Michael Swanwick.
Traduzione di Massimo Patti.




















LA DAMA D'ARGENTO E L'UOMO DI MEZZA ETA'.
Megan Lindholm.

Erano circa le otto e un quarto di sera e io stavo in piedi dietro la
cassa di un grande magazzino Sears, situato in uno squallidissimo
viale di periferia, quando vidi entrare per la prima volta l'uomo di
mezza et. Dovevo ancora sopportare quarantacinque minuti di
supplizio, prima che il magazzino chiudesse e io potessi tornarmene a
casa. Una musichetta di sottofondo serpeggiava insistente e una grande
sagoma di Paperino mi fissava benevola dal reparto bambini. Stavo
pensando agli animali nelle tagliole che si amputano a morsi la zampa
imprigionata. Un tempo non riuscivo a capire come potessero arrivare a
tanto, pur tenendo conto dell'istinto di sopravvivenza. Adesso lo
capivo. Stavo giusto rimpiangendo di non avere denti pi lunghi e
aguzzi, quando l'uomo di mezza et entr• nella sala.
Dalle sette in avanti nel magazzino si erano viste pi commesse che
clienti. Una serata di morta. Ero l'unica commessa del reparto Moda
Donna e Intimo e avevo passato le ultime due ore a sistemare vestiti
sulle grucce, ad abbottonare giacche, a sistemare le magliette in
ordine di taglia e colore, ad agganciare reggiseni ai loro sostegni e
ad accertarmi che tutti i jeans appesi in fila fossero girati dalla
stessa parte. In quel momento stavo riordinando le borse di plastica e
i sacchetti sotto il ripiano della cassa. Per noia, non per scrupolo
lavorativo. Solo la noia pu• spingere una persona a essere cosć
meticolosa specialmente per quattro dollari all'ora. Una parte di noia
e due parti di disperazione.
E cosć un cliente, "qualunque" tipo di cliente, rappresentava un
piacevole diversivo. Persino un banalissimo uomo di mezza et. Venne
diritto alla mia cassa, aprendosi la via fra vestiti, giacche e
pantaloni senza degnarli d'uno sguardo. Venne dritto verso di me e
disse: - Mi occorre una sciarpa di seta.
Parola mia, l'ultima cosa che occorreva a quell'uomo era una sciarpa
di seta. Era alto, pi di un metro e ottanta, e aveva raggiunto quel
momento della vita in cui ci si allaccia la cintura sotto alla pancia.
I capelli scuri si andavano diradando e il modo in cui lui li
pettinava non giovava a dissimulare quella realt. Portava abiti da
uomo di mezza et, che non mi soffermer• a descrivere perch‚
altrimenti si potrebbe pensare che c'era qualcosa, nel suo modo di
vestire, che me lo aveva fatto notare. E invece non c'era proprio
nulla di speciale. Era un uomo comune nel vero senso della parola, e
se ci fosse stato un po' di movimento nel reparto, non mi sarei
nemmeno accorta di lui. Cosć comune da passare del tutto inosservato.
Era impossibile non accorgersi di lui dal momento che era l'unico
cliente del magazzino quella sera, e che aveva richiesto una sciarpa
di seta. Uomini come lui non acquistano "mai" sciarpe di seta, non ne
hanno alcun motivo.
Ma aveva detto che gli occorreva una sciarpa di seta. Cosć si verific•
un duplice miracolo: un cliente che sapeva ci• che voleva e io che
potevo accontentarlo. Cosć sfoderai un sorriso accattivante di
circostanza e chiesi: - Ha qualche preferenza sul colore, signore?
- Uno qualunque - disse lui, con una sfumatura d'impazienza nella
voce. - Basta che sia di seta.
La rastrelliera delle sciarpe che avevo sistemato scrupolosamente
pochi minuti prima era proprio vicino alla cassa. Lunghe sciarpe sul
supporto inferiore, sciarpe corte su quello in alto, di seta a
sinistra e di acrilico a destra, le tinte unite aperte in un ventaglio
arcobaleno laggi, un'orgia di disegni che pendeva da questo gancio,
con le estremit graziosamente ondeggianti. Le sciarpe erano acquisti
non programmati, acquisti aggiuntivi, acquisti del tipo "e non le
piacerebbe una deliziosa sciarpa azzurra proprio adatta a quel
maglione, signorina?". Nessuno si dirigeva con passo sicuro in un
grande magazzino Sears, alle otto e un quarto di sera alla ricerca di
una sciarpa di seta. La gente che aveva bisogno di sciarpe di seta
alle otto e un quarto di sera andava nelle boutique, in quei piccoli
negozi che sembravano una boccetta di profumo e che sapevano di aromi
esotici, assolutamente privi di cartelli pubblicitari che pendevano
dall'alto. Ma quest'uomo di mezza et non sapeva nulla di tutto ci•.
Cosć mi sporsi al di sopra del banco e allungai la mano, tastai con le
dita le stoffe di seta e le sollevai delicatamente dai ganci. Una
manciata di raggi di luna, seta diafana dai colori sfumati. Sciorinai
un ventaglio arcobaleno sul piano del banco. - Una di queste, forse? -
sorrisi incoraggiante.
- Una qualsiasi, non importa, ho solo bisogno di un pezzo di seta -
rispose lui, senza quasi guardarle.
E allora io dissi una di quelle cose che a volte mi capita di dire,
quando le parole mi escono dalle labbra quasi involontariamente e che
invece di mettere il cliente a suo agio mi creano situazioni
imbarazzanti. - Certo, per riporre le sue carte dei Tarocchi.
Centro, avevo indovinato. Alz• gli occhi e mi guard• fisso, come se
improvvisamente vedesse in me una persona e non solo una qualunque
commessa di Sears in una serata qualunque. Non disse nulla, si limit•
a fissarmi. Mi sentii come se avessi un tatuaggio sulla fronte.
Scoprendo lui, avevo scoperto me stessa. O qualcosa del genere. Tossii
e battei in ritirata, assumendo un tono formale.
- Contante o assegno? - chiesi, afferrando dal mucchio una sciarpa
blu; allora lui mi tese un biglietto da dieci dollari e inizi• a
frugarsi in tasca, per gli spiccioli. Infilai la sciarpa in un
sacchetto e vi attaccai lo scontrino. Lui se ne and• e io passai il
resto del turno a controllare che tutti i ganci degli appendiabiti
delle giacche fossero a regolare distanza sulla sbarra di metallo.
Avevo iniziato quel lavoro a novembre, assunta in previsione delle
grandi vendite natalizie; mi ero illusa che con il nuovo anno avrei
potuto entrare a tempo pieno e ottenere uno stipendio decente. Eravamo
a febbraio e mi trovavo ancora con meno di trenta ore settimanali ad
appena quattro dollari l'ora. Ogni volta che ci pensavo mi sentivo
sopraffare dall'angoscia. Esiste un circolo chiuso disperato e morboso
per cui hai cosć irrevocabilmente bisogno di denaro da non poter
lasciare il lavoro che non ti d nemmeno abbastanza da vivere, quel
lavoro che ti consente qualche ora libera del tutto insufficiente
comunque per illuderti di essere sempre alla ricerca di un lavoro
migliore. E il peggio era che avevo escogitato e costruito io stessa
una simile trappola e mi ci ero ficcata dentro, in nome del buon senso
e della razionalit.
Due anni prima avevo lasciato un lavoro simile a questo, per vivere
dei miei risparmi e del sogno di diventare una scrittrice free-lance.
Mi ero messa a scrivere a tempo pieno, e la cosa mi entusiasmava. E
riuscivo a cavarmela, quasi. Per due anni ero riuscita a sopravvivere
quasi al limite dell'indigenza, scrivendo e fotografando, facendo un
po' di giornalismo free-lance, piazzando un racconto qua e uno l,
tanto da poter mettere insieme il pranzo con la cena.
Quasi.
Per quanto accidenti di tempo si pu• andare avanti con i "quasi"? A
comprare vestiti quasi nuovi nei magazzini di seconda mano, pane quasi
fresco nei negozi pi economici, scarpe quasi di moda nei saldi di
fine stagione; a tenere la casa quasi calda, con un frigorifero
rombante che sgocciola in continuazione e conserva i cibi quasi
freddi, dicendo agli amici che c'ero, quasi, che stavo quasi per
scrivere qualcosa di veramente buono, che mi avrebbe aperto la via
della carriera di scrittrice ben retribuita. Quel lavoro mi
entusiasmava sempre, ma iniziai a notare alcune piccole cose. Gli
amici che arrivavano a trovarmi portando invariabilmente del cibo, i
miei genitori che mi mandavano soldi per il compleanno, mia sorella
che mi passava abiti "a me sono stretti" e che a me si adattavano
perfettamente, tanto da avere, una volta, ancora l'etichetta del
negozio. Tutto questo va bene quando si hanno vent'anni e si sta
provando a cavarsela da soli; ma raggiunti i trentacinque e avendo
gettato le basi di una carriera, non Š pi accettabile. Un giorno mi
svegliai e mi resi conto che il sogno non si sarebbe mai realizzato.
La mia Musa era una stronzetta inaffidabile che si beveva tutto il mio
vino e mi si concedeva per non pi di mezza pagina al giorno. Le
chiesi di pi. Lei rifiut•. Litigammo. La supplicai, la implorai, le
mostrai il mucchio dei conti da pagare, e lei si rifiut• ancora di
produrre. Le diedi un ultimatum, ma lei lo ignor•. Mi lasci• senza
parole, di fronte alle vuote pagine bianche e alla pila delle
bollette. Allora mi accadde una cosa, quale esattamente non ho mai
capito. Persi la fede, come mi dissero alcuni dei miei amici. Oppure
diventai pi pragmatica, come dissero altri. Mi misi a cercare un
lavoro.
In novembre, rientrai nel meraviglioso mondo della compravendita, per
assumere un regolare impiego dalle-nove-alle-cinque e riprendere una
vita ordinata, con regolare stipendio e bollette regolarmente pagate
prima della scadenza. Mi lanciai, per la seconda volta nella mia vita,
nel lavoro da commessa, con energia ed entusiasmo, magnificando le
liquidazioni, incoraggiando le donne a comprare abiti terrificanti,
chiedendo sempre se per caso non volevano la nostra carta di credito.
Per il reparto ero un vero investimento. La direzione mi lod• pi
volte. Ma non mi aument• lo stipendio e le otto ore erano un miraggio
all'orizzonte. Avanzavo con fatica lungo quella strada, mettendo
insieme quasi sempre l'occorrente per tirare avanti. Situazione non
del tutto nuova. Con la differenza che ora non amavo ci• che stavo
facendo. Ero soffocata. E non riuscivo a stare meglio di prima.
E non scrivevo pi nulla.
La mia Musa era sempre stata una ragazzaccia incostante e nello stesso
momento in cui io mi infilai la divisa con il cartellino SERVIZIO
SEARS decise di andarsene, armi, bagagli e ispirazione. Se io non mi
fidavo pi di lei, della sua capacit di procacciarmi cibo, allora
potevo andare all'inferno, questo era il concetto. Tutto o niente: le
sue regole erano come quelle del mio frigorifero, che congelava tutto
oppure riempiva d'acqua il cestello delle verdure. Tutto o niente,
nessuna via di mezzo. E cosć fu niente, e le mie ore libere
trascorrevano non davanti a fogli bianchi, da riempire, bensć alla
lavanderia automatica, dove si pu• scegliere fra guardare le proprie
sottovesti che fanno allegre capriole dietro lo sportello o donne
secche con abiti male assortiti che maltrattano i propri bambini -
"Non discutere, Bobby! Non discutere sono stata chiara, piccolo
delinquente! Adesso ti vai a mettere in piedi vicino a quel secchio e
lo tieni con tutt'e due le mani, e non ti muovi finch‚ non te lo
ordino io. Muoviti di un passo da quel secchio e ti prendi delle
sberle. Mi hai sentito, Bobby? METTI (sberla) LE MANI (sberla) SU QUEL
(sberla) SECCHIO! E finiscila di frignare, altrimenti ti faccio
piangere "per qualcosa di serio"! -. Preferivo guardare le mie
sottovesti far capriole durante la centrifuga.
Cosć ora lavoravo da Sears, dalle nove all'una oppure dalle cinque
alle nove, facendo di tanto in tanto una giornata a tempo pieno, ma
superando raramente le ventiquattro ore alla settimana, vedendo le
entrate che non pareggiavano mai le uscite, pagando i conti con pochi
dollari e molte promesse, tenendo insieme le cose col nastro adesivo e
chiedendomi, qualche volta, che cosa accidenti avrei fatto quando, per
una mia mossa maldestra, tutto mi fosse rovinato addosso.
I giorni passavano. La frase Š scontata, ma rende l'idea. E io ero di
nuovo l, alle otto di sera di un fine settimana, a spolverare i bordi
di plastica degli scaffali e ad aspettare la chiusura, chiedendomi
perch‚ si dovesse rimanere aperti solo noi mentre il resto dei negozi
chiudeva alle sette. Di nuovo, l'uomo di mezza et entr• nel mio
reparto. Lo riconobbi subito. Non aveva nulla di diverso dalla volta
precedente; mi sembr• soltanto pi reale, poich‚ lo avevo gi visto.
Rimasi in piedi presso la cassa, con il piumino da spolvero in mano e
lo guardai venire avanti, chiedendomi che cosa poteva volere questa
volta.
Aveva in mano una scatoletta di plastica contenente fiori secchi di
gelsomino, presa dal reparto bagno e biancheria. La pos• sul banco e
chiese: - Posso pagare qui?
Risposi zelante: - Certamente, signore. Da Sears Š possibile pagare
gli articoli a qualsiasi cassa di qualsiasi reparto. Facciamo del
nostro meglio per facilitare le cose ai nostri clienti. Contanti o
assegno?
- Contanti - disse lui e mentre io chiedevo: - Desidera il modulo per
richiedere la nostra carta di credito Sears? Potr usufruire di
condizioni ancora pi convenienti e di pagamenti facilitati - pos• tre
dollari d'argento Liberty Walking del 1923 sul piano di plastica che
stava fra noi. Poi rialz• la testa e mi guard•, come se io fossi un
topo e lui avesse appena predisposto un labirinto nel quale sperava
che mi infilassi.
- E' sicuro di voler usare questi? - gli chiesi e lui annuć senza
parlare.
Allora battei il prezzo del pot-pourri di gelsomino e lasciai cadere i
tre dollari d'argento nello scomparto della cassa, desiderando di
poterli avere per me; ma non ci era permesso di tenere n‚ borsa n‚
altro denaro addosso mentre eravamo in servizio alle vendite, per cui
non c'era modo di scambiarli e di portarmeli via. Sapevo che qualcuno
li avrebbe fatti sparire prima che potessero giungere alla banca, ma
in ogni caso non sarei stata io; e, comunque, non era proprio in quel
modo che si stava trascinando la mia vita, ultimamente? L'uomo di
mezza et prese il suo pot-pourri di gelsomino avvolto nel sacchetto
di plastica di Sears, con lo scontrino applicato sopra, e si
allontan•. Mentre se ne andava io dissi: - Buona serata, signore, e
grazie per aver scelto i nostri magazzini Sears. - Al che mi rispose
solennemente: - Dama d'Argento, questo lavoro ti uccider. - Proprio
cosć, sottolineando le parole, e poi uscć.
Effettivamente molti uomini mi hanno chiamata con diversi appellativi
ma "Dama d'Argento" non mi era ancora capitato. Piuttosto brutto
anatroccolo. Pi che un brutto anatroccolo, ero anonima, quasi
trasparente, poco trucco, fondotinta uniforme, colori per nulla
trasgressivi, bigiotteria idem, le rare volte che mi ricordavo di
metterne. Mimetizzazione. Vestirsi perch‚ Š indispensabile, per non
distinguersi dagli altri, in modo da non farsi notare, ecco la mia
regola di sicurezza. Alle scuole superiori pensavo di essere
invisibile. Se capitava che qualcuno mi guardasse, subito iniziavo a
frugarmi nel naso, fino a che quello non distoglieva lo sguardo da me.
E raramente mi guardava di nuovo. Naturalmente, avevo abbandonato
questi trucchi da un bel po' di tempo, ma "Dama d'Argento"? Era un
appellativo veramente ridicolo, a meno di non voler prendermi in giro,
ma non mi sembrava che lui ne avesse l'intenzione. E questa sua
seriet era ancor "peggiore", peggiore di un insulto, mi feriva perch‚
avevo la sensazione che lui avesse visto in me qualcosa di sconosciuto
a me stessa. E mi feriva perch‚ lui era un banalissimo uomo di mezza
et, uno dei tanti, serio e normale, addome prominente e inizio di
calvizie, e non "era giusto" che immaginasse di me cose che io stessa
non immaginavo. Accidenti, dico, sono io la scrittrice, quella
dall'immaginazione sfrenata, dai sogni vividi, dalle visioni estreme,
o no?
Bene. Arrivai alla fine del turno, masticandomi la lingua per tenermi
occupata e fu solo quando ebbi chiuso la cassa, graffato gli scontrini
delle ricevute, chiuso a chiave i camerini di prova, che notai la
scatoletta sull'angolo del mio banco. Una piccola scatola
portagioielli di cartone, color argento, niente sacchetto o etichetta,
niente di niente, solo l'elegante fregio d'argento di Nordstrom sul
coperchio. Un cliente l'aveva certamente dimenticata, cosć la presi e
la infilai nella tasca della divisa per lasciarla all'Ufficio
Clientela mentre uscivo.
Tornai a casa, salii i gradini fino al mio appartamento, pestando gli
escrementi del gatto del vicino, ripulii la scarpa, mi lavai le mani
cinque o sei volte e riempii il bollitore per il tŠ. Quando mi lasciai
cadere sulla sedia la scatoletta mi si piant• nel fianco. E allora fui
sommersa dall'ondata scura di una ben nota sensazione: "Ecco, merda, i
guai che arrivano".
In un attimo immaginai ci• che sarebbe successo. Un qualche cliente
sarebbe venuto a reclamarla e nessuno ne avrebbe saputo nulla, ma la
telecamera a circuito chiuso aveva registrato i miei gesti, dall'alto
della sua tana di plastica, nel soffitto. Ecco ci• che doveva
succedere, fine del mio dannatissimo lavoretto da quattro dollari, con
l'affitto da pagare entro due settimane e il padrone di casa che non
avrebbe accettato un acconto, questa volta. Cosć mi sedetti, tenendo
in mano la scatoletta color argento e maledicendo il mio destino.
L'aprii. Voglio dire, che accidenti, quando sai che la rovina ti
aspetta puoi anche permetterti una piccola curiosit, e cosć l'aprii.
C'erano dentro due orecchini a pendente, lunghi come il mio pollice.
Dame d'argento. Portavano lunghi abiti, e i capelli e gli abiti erano
spinti all'indietro da un vento invisibile, che faceva aderire la
stoffa di metallo al loro seni alti e che scompigliava i capelli in
cento boccoli d'argento. Non erano uguali l'una all'altra, non erano
fatte per essere uguali. Mi resi conto che avrei potuto entrare da
Nordstrom e cercare per cento anni senza trovare nulla di simile. I
visi erano sereni e invitanti, e mi pesavano nella mano. Non dubitai
nemmeno per un attimo che non fossero di vero argento e che qualcuno
non le avesse modellate, una per volta, per farne qualcosa di unico
nel loro genere. E "sapevo", proprio come avevo "saputo" della
faccenda dei Tarocchi, che l'uomo di mezza et le aveva fabbricate e
portate nel magazzino e lasciate di proposito, e che erano per me.
Il fatto Š che io non ho buchi alle orecchie.
Cosć li rimisi nella scatoletta, sullo strato di cotone, e posai
questa sul tavolo, lasciandola aperta. Li guardavo di tanto in tanto,
mentre riscaldavo il nutriente ed energetico precotto di pollo, marca
Western Family, lo mangiavo direttamente dalla piccola casseruola di
alluminio e terminavo la mia cena con sedano spalmato di burro di
arachidi ricoperto con uvetta passa.
Quella sera mi applicai a una serie di mansioni utili e necessarie,
come scongelare il frigorifero, lavare i collant, spalmare il lucido
sulle scarpe e spruzzare generosamente di candeggina il pianerottolo
davanti alla porta di casa, nella speranza di scoraggiare il gatto del
vicino. Inoltre misi in ordine le bollette secondo la data di scadenza
e annaffiai ci• che restava della pianta che avevo dimenticato di
annaffiare per tutta la settimana precedente. E poi, dal momento che
non riuscivo a scrivere e che una serata pu• diventare interminabile
quando non si scrive, feci qualcosa che avevo visto fare da mia
sorella e da due sue amiche, quando avevo tredici anni e loro
diciassette ed erano piuttosto ubriache. Presi quattro cubetti di
ghiaccio e un ago da ricamo, andai in bagno e scartai un pezzo di
sapone nuovo. Il procedimento Š il seguente: ci si tiene i lobi delle
orecchie fra i cubetti di ghiaccio, praticamente fino a congelarli.
Poi si appoggia dietro al lobo la saponetta, per tenerlo fermo, e lo
si trapassa con l'ago. I lobi sono intorpiditi, per cui non si sente
male, ma la sensazione Š spiacevole a causa del rumore che fa l'ago
passando attraverso la carne. Questo per il primo orecchio. Il secondo
mi fece un male d'inferno, una grossa goccia di sangue mi scese sul
collo e io urlai "MERDA!", dando un pugno contro il ripiano del bagno
e fracassandomi quasi una falange, il che fu peggio del dolore
all'orecchio.
Ma era fatta, e quando i lobi smisero di sanguinare uscii dal bagno,
presi gli orecchini e, in piedi davanti allo specchio, tentai di
infilare i ganci nel piccolo lembo di carne massacrata. I ganci erano
sottili ed entrarono nei buchi appena fatti, e se mi fossi appesa un
paio di incudini alle orecchie sanguinanti non mi avrebbero
probabilmente fatto pi male. Ma gli orecchini erano proprio stupendi.
Rimasi a contemplare quanto donassero al mio collo e alla curva del
viso e come facessero sembrare artistiche e deliberate le ciocche
sparse dei miei capelli. Sorrisi, serena e accattivante, e per un
attimo vidi nel mio specchio la sua Dama d'Argento.
Ma, come ho gi detto, mi facevano un male d'inferno, e piccole gocce
di sangue scivolavano lungo i ganci d'argento; non potevo neanche
pensare di andare a dormire tenendomi quegli aggeggi attaccati alle
orecchie. Cosć li tolsi e li riposi nella loro scatola, sul cotone che
si tinse di rosa. Poi mi passai dell'acqua ossigenata sui lobi,
rabbrividendo per il bruciore. E infine andai a letto, pensando che
certamente le orecchie si sarebbero infettate.

Non si infettarono, guarirono, e i fori rimasero aperti, nonostante
non avessi preso la precauzione di farvi passare dentro qualcosa.
Arriv• un venerdć con un accenno di primavera nell'aria, allora
indossai una camicetta azzurro chiaro, che non portavo da molto tempo,
tanto che mi sembrava ancora come nuova. Stavo uscendo, quando tornai
indietro, presi la scatoletta e, raggiunto il bagno, mi infilai le
dame d'argento alle orecchie. Uscii e andai al lavoro.
Felicia, la responsabile del mio settore, si congratul• per gli
orecchini, ma aggiunse che non sembravano molto, come dire,
professionali, adatti al lavoro. Le diedi ragione e, nell'annuire col
capo, avvertii il loro piacevole peso. E non li tolsi. Presi le mie
ricevute e andai ad aprire la cassa.
Quel giorno lavorai fino alle sei, sorrisi alla gente che mi sorrise a
sua volta, me ne infischiai allegramente della quantit delle vendite
e vendetti il doppio del solito, forse proprio per quello. Alla fine
del turno presi il cappotto e la borsa, ritirai la paga settimanale e
decisi di uscire dal lato del viale, invece che dalla porta
posteriore. Era giorno di fiera e la strada era piena di bambini che
tenevano piccoli animali, gatti annoiati dentro le gabbiette,
animaletti di stoffa con nastri e scritte tipo "Ciao, mi chiamo Peter
Pan, portami con te", una incubatrice piena di pulcini pigolanti e,
proprio in mezzo alla strada, sopra a della paglia sparsa su un telo
di plastica nera, una bambinetta grassa con i codini neri che mostrava
come strigliare un unicorno.
Guardai meglio e vidi che si trattava di una capretta bianca, non
troppo felice di venire maneggiata in quel modo. Scossi la testa e
sentii le dame d'argento ondeggiare; mentre mi voltavo per
allontanarmi l'uomo di mezza et uscć dall'Emporio del TŠ e delle Erbe
con le mani ricolme di piccole bustine scure. Mi si mise al fianco,
portando con s‚ un'ondata di cinnamomo, arancio e chiodi di garofano e
disse: - Deve proprio venire a vedere questa gallina. Gioca alle
biglie.
E in effetti un intraprendente espositore aveva sistemato un tabellone
con luci rosse e azzurre, in verticale e orizzontale, e per dieci
centesimi la gallina ti sfidava a una partita. Era il pollastro pi
grasso e truce che avessi mai visto, con la cresta che gli pendeva di
sbieco sopra un occhio, e mi batt‚ per ben tre volte. Il che ammontava
a circa met dell'importo destinato al caffŠ settimanale, ma che
diavolo, non Š forse un'occasione unica sfidare un pollo alle biglie?
L'uomo di mezza et gioc• a sua volta e vinse, per cui il pollo
automaticamente venne rinchiuso dalle sbarre della gabbia e si offese
a morte, iniziando a sbattere le ali e a starnazzare; mi ritrovai a
trascinare l'uomo lontano dalla portata di quel becco, mentre il
giovane proprietario tentava di calmare il suo volatile. Scoppiammo a
ridere, e poi lui mi afferr• il braccio e mi guid• dentro a un piccolo
ristorante messicano che si trovava in fondo al viale; trovammo un
tavolo libero e ci sedemmo. La prima cosa che dissi fu: - E' assurdo.
Non la conosco nemmeno e mi ritrovo a difenderla da galline inferocite
e a venire a cena con lei.
Lui disse: - Allora mi permetta di presentarmi. Sono Merlino.
A quelle parole fui quasi sul punto di alzarmi e uscire
immediatamente.
Le cose stanno cosć. Io sono scettica di natura. Ho un'amica, una
donna molto simpatica e piacevole, che per• continua a ripetere cose
come: - Vedo dalla tua aura che oggi sei preoccupata - o a dirmi che
io soffoco la mia crescita spirituale ignorando le mie forze psichiche
latenti. Una volta mi telefon• alle undici di sera, in interurbana a
gettoni, per dirmi che aveva appena avuto un'esperienza psichica. Si
trovava da un'amica, in una vecchia e grande casa sull'isola Widby, ed
era sola. Stava guardando la televisione quando aveva udito
chiaramente il rumore di passi che salivano le scale. Ma da dove era
seduta poteva - dice lei - vedere chiaramente l'intera rampa di scale,
sulla quale non stava salendo nessuno, per cui rimase immobile,
raggelata, e udć i passi percorrere il pianerottolo e poi la porta del
bagno chiudersi. Poi, disse, udć il rumore inconfondibile e sgradevole
di un uomo che stava urinando. Lo sciacquone scrosci• e poi ci fu di
nuovo un assoluto silenzio. Quando lei riuscć a recuperare il coraggio
per andare a controllare il bagno del primo piano, lo trov• deserto.
Ma... LA TAVOLETTA ERA RIALZATA! Cosć mi telefon• immediatamente per
scuotermi dal mio scetticismo. Tutte le volte che viene a trovarmi
deve per forza gettare le rune per me, e capita sempre che esse mi
predicano morte, sciagure e sfortuna. Il che potrebbe in effetti
provare l'autenticit delle sue facolt, perch‚ le cose non mi sono
mai andate molto meglio di cosć. Ma questo non mi impedisce di
prenderla in giro a proposito del suo pisciatore fantasma. E' un'amica
e lascia correre, cosć come io lascio correre a proposito del suo jazz
psico-spiritual-magico.
L'uomo di mezza et, invece, era un perfetto estraneo, o quasi, e con
lui non ero affatto disposta a lasciar correre. Si era spinto troppo
in avanti. Stava seduto, i capelli visibilmente radi, lo stomaco
sporgente, i quaranta gi passati, e si aspettava che potessi
tranquillamente ascoltarlo pontificare di metafisica, come se nulla
fosse. D'accordo, ho trentacinque anni, ma tutti dicono che non li
dimostro, e nonostante un solo uomo mi abbia chiamato Dama d'Argento
non Š che tutti gli altri mi definiscano vomito di gatto. Forse non
sono attraente secondo le tendenze attuali della moda, ma la gente che
mi vede non rabbrividisce e non si volta dall'altra parte; si limita,
semplicemente, a non notarmi. E comunque, in ogni caso, io "sapevo" di
non essere un caso cosć disperato da dovermi aggrappare, per aver
compagnia, a un uomo di mezza et a cui aveva dato di volta il
cervello. Per•, proprio in quel momento, la cameriera ci passa di
fianco portando al tavolo vicino due piatti enormi, di porcellana
bianca strapieni di enchiladas, tacos e burritos, guarniti di panna
acida e di guacamole verde chiaro, con le olive nere ammassate
pericolosamente sul bordo, e io improvvisamente mi resi conto che
avrei potuto ascoltare chiunque parlare di qualunque cosa piuttosto
che tornare a casa e fronteggiare il pollo fritto precotto dalla
crosta scura ricoperta, grazie al mio dannato frigorifero, di spessa
brina. Perci• restai.
Ordinammo, mangiammo, lui parl• e io ascoltai. Mi raccont• molte cose.
Lui non era "quel" Merlino, ma sapeva di essere un suo discendente. La
magia non era pi la stessa di una volta, ma lui faceva del suo
meglio. Mi ricordo in particolare una frase: - La sola magia che
rimane al mondo Š quella che noi ci creiamo da soli, deliberatamente.
Non si capita per caso negli incantesimi. Bisogna essere disponibili
cercarli, e quando si pensa di averli afferrati per la coda, bisogna
"farli entrare" nella propria vita con ogni mezzo disponibile. - Fece
una pausa. Poi si chin• in avanti e sussurr•: - Ma la magia non Š mai
proprio quella che ci si aspetta. Non esattamente. - Poi si riappoggi•
indietro e mi sorrise, e io seppi che cosa stava per aggiungere.
Parl• della magia di cui avvertiva la presenza intorno a me e di come
avrebbe potuto aiutarmi a svilupparla. Sentiva che stavo soffocando un
talento. Lo disse in modo naturale, convincente. Se avessi avuto dieci
o quindici anni di meno avrei potuto lasciarmi andare e farmi cullare
da quelle parole, magari anche esserne lusingata. Forse se lui avesse
avuto cinque o dieci anni di meno avrei potuto scegliere di credergli
per il piacere della compagnia. Ma la cena stava arrivando al termine
e prevedevo ci• che sarebbe accaduto in seguito, cosć mi limitai a
scuotere il capo e a dire che niente avrebbe potuto convincermi su
nessuna vicenda di magia o Esp o fenomeni psichici o cose del genere.
Allora lui replic• ci• che mi aspettavo e cioŠ che se avessi
acconsentito ad andare a casa sua mi avrebbe mostrato alcune cose in
grado di convincermi all'istante. Io dissi che era stato piacevole
cenare e chiacchierare con lui, ma che non lo conoscevo abbastanza da
seguirlo nel suo appartamento. Inoltre, dovevo proprio tornare a casa
a lavarmi i capelli, perch‚ il giorno dopo avevo il primo turno al
lavoro. Lui strinse le spalle e si appoggi• alla spalliera; poi si
affrett• ad aggiungere che facevo bene a essere cauta e che non solo
le donne erano sconvolte dall'aumento delle violenze sessuali. Disse
che col tempo avrei capito che potevo fidarmi di lui e che un giorno
avremmo riso insieme di questa mia diffidenza nei suoi confronti.
Annuii ed entrambi ridacchiammo un po', la cameriera port• dell'altro
caffŠ e poi lui scusandosi si assent• per un attimo. Rimasi seduta,
girando lo zucchero e la panna nel caffŠ e chiedendomi se non sarebbe
stato meglio andarmene alla chetichella; avrei potuto lasciargli un
bigliettino in cui gli avrei spiegato che dovevo assolutamente
rientrare data l'ora ormai tarda, pur avendo apprezzato la sua
compagnia e cose del genere. Per• mi sembr• poco onesto nei suoi
riguardi. Ecco non Š che lui fosse repellente o qualcosa del genere,
al contrario, era abbastanza piacente e aveva dei bellissimi occhi
scuri e un modo di fare che tradiva una certa timidezza quando
sorrideva, e inoltre una voce che mi ricordava il suono del
violoncello. Al di l di questo, per•, rimaneva il fatto che aveva
superato la quarantina, che cominciava a perdere i capelli e ad avere
troppa pancia. Se ci• mi fa apparire un po' superficiale, ebbene, me
ne dispiace. Fosse stato un po' pi giovane, forse avrebbe sollecitato
il mio interesse. Se "io" fossi stata pi giovane sarei magari anche
andata a casa sua e mi sarei lasciata convincere. Ma lui non lo era,
non lo ero io e quindi non sarei andata. Per• non volevo nemmeno
essere maleducata con lui. Non lo meritava. Per cui rimasi seduta.
Sul tavolo c'erano i pacchettini del suo tŠ; ne presi uno e lo lessi.
Fui costretta a sorridere: TŠ del Tappeto Volante. Aveva odore di
arance speziate. L'Earl Grey era stato ribattezzato TŠ dei Sogni
Delusi. L'aroma del terzo mi era sconosciuto, doveva essere uno di
quelli verdi, e l'etichetta diceva TŠ del Respiro del Drago.
Quell'uomo doveva essere davvero preso da tutte quelle storie di
magia, e da un certo punto di vista mi fece un po' pena. Un uomo
adulto, che ha passato non da poco i quaranta, che si aggrappa alle
storie delle fate e spera ancora che qualcosa debba accadergli nella
vita, qualche miracolo pi interessante del comprare a rate una
macchina nuova o dello scoprire che la caldaia difettosa Š ancora in
garanzia. Ma nulla stava per accadere, n‚ a lui n‚ a me, e io mi
sentii meglio disposta nei suoi riguardi, mi appoggiai alla sedia e
aspettai che ritornasse.
Non torn•. Chiunque probabilmente ci avrebbe messo meno di me a
capirlo. Io invece rimasi lć, aspettai e bevvi il caffŠ, e solo quando
la cameriera mi riempć di nuovo la tazza mi resi conto del tempo che
era passato. Il suo caffŠ era ormai freddo e cosć pure la sensazione
che mi prese allo stomaco. Mi resi conto di come e perch‚ mi aveva
mollata con il conto da pagare. Potevo gi sentire le parole che
avrebbe raccontato agli amici: - Eh, se la pollastrella non vuole
cedere, perch‚ rimetterci la grana, ragazzi? - Mi sentivo come
schiaffeggiata per l'umiliazione di essere stata tanto credulona e mi
chiesi se tutte le chiacchiere sulla magia erano il suo metodo usuale
di approccio con le donne. Probabilmente. E io che mi ero lusingata,
sotto sotto, per tutta la durata della cena, a pensare che lui vedeva
in me qualcosa di magico e di incantato, un'aura che lo attirava.
Comunque, le mie carte di credito erano in rosso, avevo meno di due
dollari in contante e il mio libretto degli assegni era a casa. Alla
fine, il padrone del ristorante si convinse di accettare l'assegno
dello stipendio, ma solo perch‚ sapeva che Sears non avrebbe emesso un
assegno a vuoto e perch‚ fui in grado di mostrargli il tesserino da
dipendente. Anzi, alla fine dimostr• persino umana comprensione nei
miei riguardi per il trattamento orribile che avevo subito,
comportandosi come se il mio piccolo cuore ne fosse spezzato, mentre
io ero solo furente e imbarazzata. Mentre stavo uscendo, per andarmene
finalmente via, la cameriera mi porse le tre scatolette di tŠ con un
tale sguardo di materna commiserazione che sentii l'impulso di
sputarle in faccia. E cosć tornai a casa.
La cosa ridicola Š che davvero scoppiai a piangere, una volta chiusa
la porta, ma pi per la rabbia e la frustrazione che per il dolore.
Avrei voluto sapere il suo nome, per telefonargli e riversargli
addosso tutto ci• che pensavo del suo disgustoso giochetto. Rimasi in
piedi di fronte allo specchio del bagno, guardando i miei occhi rossi
e il mio naso gonfio, e improvvisamente mi resi conto che il personale
del ristorante mi aveva visto come ero veramente, pi di quanto io
stessa o l'uomo di mezza et non avessimo fatto. Niente Dama d'Argento
e nemmeno brutto anatroccolo, solo una donna mediocre e non pi
giovane con una camicetta azzurra e senza prospettive. Per un attimo
questa sensazione mi assalć, ma poi rialzai le spalle e scrutai meglio
lo specchio. Sentii le dame d'argento, che mi pendevano dalle orecchie
e nel guardarle mi resi conto che valevano probabilmente molto di pi
del pasto che avevo appena pagato, e che inoltre avevo il suo tŠ.
Cosć, alla fin fine, ci aveva rimesso pi lui di me, gli orecchini non
gli avevano fruttato quanto si aspettava e scappando per non pagare il
conto era stato costretto a lasciare anche il tŠ e quelle specialit
orientali non dovevano essere tanto economiche. Per la prima volta
considerai che i conti non erano affatto in pareggio. Perci• tentai di
non pensarci pi, mi preparai una tazza di TŠ dei Sogni Delusi, lessi
per un po' e quindi andai a letto.
Sognai di lui. Niente di strano, considerando in che situazione mi
aveva messa. Ero in un giardino, presso una panca d'argento
ombreggiata da tralci di vite verde scuro carichi di fiori rosa
fragranti. L'uomo di mezza et era in piedi di fronte a me e io lo
potevo vedere, ma sentivo che era come privo di corpo, non
concretamente presente. - Voglio chiedere scusa - disse, tutto serio.
- Non ti avrei mai lasciata in quel modo di mia volont. Ma sono stato
rapito con una magia da uno dei miei arcinemici pi potenti. Lo stesso
che ha gettato il malvagio incantesimo che ti perseguita. Egli mi ha
imprigionato in un cristallo e temo che per molto tempo non riuscir• a
rivederti.
Io portavo, nel sogno, un abito fatto di penne di pavone e avevo
anelli d'argento a tutte le dita. Alle caviglie avevo catenelle
sottili ornate di campanelline d'argento, che tintinnarono mentre
facevo un passo verso di lui. - C'Š qualcosa che posso fare per
aiutarti? - sentii in sogno la mia voce chiedere.
- No, credo di no - mi rispose. - Volevo solo che tu non pensassi male
di me. - Sorrise. - Dama d'Argento, sei una delle poche che si
preoccupano di sciogliere l'incantesimo che lega un altro invece di
pensare prima a infrangere il proprio. Adesso non sono in grado di
agire, ma credo che le forze che governano la magia troveranno un modo
per liberarci entrambi.
- Possa tu essere nel vero, amico mio - replicai.
A quel punto il sogno si interruppe, almeno per quanto mi ricordo. Al
mattino mi svegliai con il vago ricordo di un gatto che colpiva
campanelle d'argento, mosse da un vento profumato. Avevo un tremendo
mal di testa. Uscii dal letto, mi vestii e andai a lavorare da Sears.
Per un paio di giorni rimasi in attesa di vederlo comparire, ma non
arriv•. Continuavo con la solita vita. Dissi a Felicia che non
riuscivo ad andare avanti con i soldi del solo orario part-time e lei
rispose di essere molto delusa per le poche carte di credito che io
riuscivo a vendere e che i dipendenti a tempo pieno venivano scelti
solo fra i pi efficienti ed entusiasti di quelli del livello
inferiore. Allora le dissi che avrei incominciato a cercare un altro
lavoro e lei disse che comprendeva. Entrambe sapevamo che non c'era
lavoro di sorta in giro e che avrei potuto essere immediatamente
sostituita da una qualsiasi casalinga annoiata o da una studentessa
del vicino college disperata di trovarsi senza soldi. Tutto ci• non
era certo tranquillizzante.
Nelle tre settimane seguenti consegnai ventisette copie del mio
curriculum a differenti impiegati annoiati seduti dietro una
scrivania. Sostenni due colloqui per lavori che erano altrettanto
malpagati del mio attuale. Trovai un impiego fantastico per cui sarei
andata a pennello, ma che per regolamento era destinato a una persona
licenziata o handicappata. Poi telefonai a un numero che avevo trovato
sul giornale. La mia voce piacque e mi chiesero di presentarmi
personalmente. Dopo un sacco di convenevoli salt• fuori che si
trattava di rispondere alle telefonate di maschi eccitati e di
conversare con entusiasmo sulle loro abitudini sessuali. - Una specie
di improvvisazione teatrale di genere erotico - disse la mia
interlocutrice. Mi fece ascoltare alcune cassette esemplificative e
dovetti ammettere che, sć, sembrava piuttosto facile. E la cosa
migliore, disse la donna, era che avrei potuto lavorare da casa,
approfittando per rigovernare o sistemare il bucato mentre raccontavo
all'uomo che stava all'altro capo del filo quanto avrei desiderato
passare una spugna calda sul suo corpo, spalmando i punti pi riposti
della sua pelle di bagnoschiuma, fino a farla brillare, e poi, quando
sarebbe stato tutto caldo e umido e teso lo avrei preso e... per sei-
sette dollari l'ora. L'agenzia mi poteva persino fornire opuscoli dove
si spiegavano pratiche sessuali che eventualmente non mi fossero
familiari e dove erano riportate le corrette denominazioni da
adoperare una volta in argomento. Sei-sette dollari l'ora. Dissi
all'incaricata che dovevo pensarci e tornai a casa.
Il giorno dopo mi alzai e scongelai il frigorifero per l'ennesima
volta, poi spazzolai la moquette del soggiorno perch‚ avevo finito i
sacchetti dell'aspirapolvere. Quindi feci tutti i lavori di rammendo
che avevo rimandato per settimane, sfregai per bene il pianerottolo di
fronte alla porta d'ingresso e lo spruzzai abbondantemente di "Via
Gatto!" e considerai la possibilit di parlare al telefono di sesso
con degli sconosciuti mentre stiravo una camicia o sistemavo i fiori
nel vaso o toglievo merda di gatto dalla mia scarpa. Mi feci una
doccia, mi cambiai e andai a lavorare da Sears per il turno serale
dalle cinque alle nove. Mi dissi che il mio lavoro non era n‚ sporco
n‚ difficile, che i colleghi erano gente piacevole e che non c'era
ragione al mondo per cui tutto ci• mi dovesse deprimere fino a quel
punto.
Ne trassi scarsa consolazione.
Era la "Settimana dell'Artigianato" sul viale e per arrivare da Sears
dovetti districarmi fra tavoli e gente. Mi dissi che avrei potuto
darmi da fare a costruire anch'io qualche aggeggio per poi venderlo
nel fine settimana e far quadrare i conti in quel modo. Passai di
fronte a bambole Barbie i cui vestiti rosa a balze nascondevano rotoli
supplementari di carta igienica, a portachiavi di legno con il nome
inciso, ad aggeggi di ceramica, a un intero tavolo di timbri di gomma
e a un altro tavolo fatto da una vecchia porta appoggiata su
cavalletti di legno, che portava piccoli oggetti di peltro e statuette
di cristallo. Rallentai il passo di fronte a quest'ultimo, perch‚ ho
sempre avuto una passione per il peltro. C'erano, come d'obbligo,
stregoni e draghi alati, e poi alcune sfere tagliate a met contenenti
figure di maghi. C'erano anche uccelli, aquile e falchi e gufi di
peltro, e un graziosissimo cervo grande quasi quanto la mia mano, a
cinquantadue dollari. Lo stavo guardando quando udii una donna dietro
di me dire: - Vorrei quel cristallo che tiene il mago, per favore.
Il proprietario del chiosco sorrise e disse: - Vuol dire il mago che
tiene il cristallo, vero? - e la donna rispose, in tono sdegnoso: - Ma
certo.
Cosć il proprietario avvolse in parecchi fogli di carta la figurina di
un mago che reggeva una boccia di cristallo, la porse alla donna
dicendo: - Diciassette e settanta centesimi, grazie. - La donna inizi•
a frugare nella borsa e, giuro, tutto quello che feci io fu tentare di
togliermi di mezzo.
Suppongo che il mio cappotto si sia impigliato in una sporgenza del
tavolo o in qualcosa del genere, perch‚ l'attimo seguente ogni cosa
stava tintinnando e oscillando. Tentai di afferrare il bordo di quella
porta uso ripiano, ma essa finć sul piede della donna con un tonfo,
mentre i cristalli e i peltri si infrangevano al suolo o si spargevano
sull'asfalto come un'ondata sulla riva. La donna cacci• un urlo e
annasp• con le braccia, scagliando via il piccolo mago avvolto nel
pacchetto.
Ora, non sono ben sicura di ci• che segue.
La sfera di cristallo sgusci• dall'involto e cadde al suolo
separatamente, ma non and• in mille pezzi, n‚ tintinn• infrangendosi.
Fece un "Poof!" e alz• una leggera nuvola di fumo. E il resto
dell'involto scese a terra ondeggiando, vuoto.
- Stupida cagna! - mugol• la donna, rivolta a me, e il padrone del
chiosco mi guard• freddamente e disse: - Spero per lei che abbia
un'assicurazione, per dio!
Il che fu una cosa strana da dire, in quella situazione, e io rimasi
senza risposta. La gente si stava avvicinando per vedere cos'era
successo, e allora la donna si pieg• in due e tenendosi il piede
ulul•: - Mio Dio, si Š rotto, si Š rotto!
E io seppi, d'un tratto e inequivocabilmente, che non stava parlando
del suo piede.
Poi l'uomo di mezza et mi afferr• per un braccio e disse: - Forza,
scappiamo da qui! - Lasciai che mi trascinasse via e stranamente
nessuno tent• di fermarci o di rincorrerci o qualcosa di simile. La
folla si richiuse attorno alla donna che stava per terra, come
un'ameba che inglobi il proprio cibo.
Ci ritrovammo in un furgoncino che puzzava di cane bagnato, con il
fondo ricoperto da giornali infangati, tazzine di plastica, involucri
di torte alla frutta e contenitori di carta dei preparati alle
proteine vegetali che vendevano nei supermercati Sette-Undici.
Una parte di me diceva che dovevo essere matta a scappare con quel
tipo che mi aveva gi dato la fregatura della cena e una parte di me
diceva pure che avrei fatto meglio a tornare da Sears e a tentare di
giustificare il mio ritardo. E un'altra parte ancora stava mandando al
diavolo tutto e voleva solo scappare via. E proprio questa parte, ora,
si sentiva bene, il che non accadeva pi ormai da mesi.
Ci ritrovammo davanti a una piccola casa bianca e allora lui si volt•
solennemente verso di me e mi disse: - Grazie per aver rotto il mio
incantesimo.
- Tutto ci• non ha senso - risposi io e allora lui: - Pu• darsi, ma Š
tutto quello che ci resta. Te l'ho detto, la magia non Š pi quella di
una volta.
Cosć entrammo nella piccola casa e lui mise sul fuoco il bollitore per
il tŠ. Era un bollitore magnifico, di rame lucente, con il manico di
ceramica bianca e blu, e i piatti e le tazze erano abbinati. Dissi: -
Mi hai piantata con il conto del ristorante.
Mi rispose: - I miei nemici mi aspettavano nella toilette e mi hanno
fatto scomparire con un incantesimo. Te l'ho detto. Non ti avrei mai
lasciata in quel modo di mia volont, Dama d'Argento. Solo grazie al
tuo intervento di oggi non sono pi nelle loro mani. - Poi si volt•,
tenendo in ciascuna mano un barattolo di latta, e chiese: - Quale vuoi
provare, Sogni Delusi o Dolcezze Dimenticate?
- Dolcezze Dimenticate - dissi io, allora lui pos• entrambi i
barattoli, mi prese fra le braccia e mi baci•. Sć, sentii il suo
stomaco che sporgeva un poco contro il mio, e quando gli misi la mano
dietro la testa, per trattenere le sue labbra sulle mie, sentii che i
capelli si stavano diradando. Ma mi sembr• anche di udire dei
campanelli e di sentire una fragranza delicata diffusa nell'aria da un
vento dolce. Io non credo alla magia. La sola idea di mescolare degli
incantesimi alla mia vita mi pare assurda. Assurda. Ma come lui aveva
detto, era tutto quello che avevamo. L'assurda speranza di una piccola
fetta di magia, non importa quanto fosse piccola. L'uomo di mezza et
non dovette sprecare energia per trasportarmi in camera da letto.
Non ho mai incontrato un uomo sotto ai venticinque anni che valesse il
fiato che occorre per mandarlo all'inferno. Viaggiano tutti rimanendo
in terza, perennemente.
Un uomo deve arrivare ai trenta per capire cosa sia la gentilezza, e
passarli per rendersi conto che una donna lo tocca allo stesso modo in
cui amerebbe essere toccata.
Ai trentacinque, iniziano a capire come funziona il corpo di una
donna. Allora la smettono di cercare di accenderci a spintoni e si
accertano che la batteria sia carica prima di girare la chiave.
Alcuni, ma pochi, riescono a imparare come si fa a lasciarsi fare
l'amore da una donna.
Gli uomini di mezza et comprendono le variazioni di velocit. Sanno
che non Š necessario che tutto avvenga immediatamente, che distinguere
le sensazioni le rende ciascuna pi intensa. Sanno quando fermarsi Š
pi struggente che non continuare, e sanno quando continuare Š pi
importante di un bollitore di ceramica che sta fischiando e
asciugandosi sul fuoco.
Poi gli chiesi: - Hai mai sentito parlare della "Regola dei Dieci" di
Lindholm?
Corrug• la fronte. - La teoria per cui le prime dieci volte che due
persone fanno l'amore, una delle due fa qualcosa che non Š in sintonia
con l'altra?
- Proprio quella - dissi io.
- L'abbiamo smentita - disse lui solennemente. Si alz• e and• verso il
bagno, mentre io salvavo il bollitore fumante dal fuoco.
Rimasi in cucina, e dopo un po' iniziai a tremare, perch‚ il luogo non
era per niente ben riscaldato. Rivestirmi non mi sembrava delicato,
perci• chiesi, attraverso la porta del bagno: - Aggiungo altra acqua
per il tŠ?
Non rispose, e siccome io non volevo urlare di nuovo da dietro la
porta, raccolsi il golf e lo avvolsi intorno alle spalle, continuando
a tremare ancora per un po'. Cominciai a camminare su e gi per la
cucina e il soggiorno. Lessi i titoli dei suoi libri, uno dei modi
migliori per spiare educatamente qualcuno. "Teorie della
termodinamica" stava di fianco a "Il Silmarillion". Tutte le opere di
Carlos Castaneda stavano a parte, su uno scaffale. La collezione di
Kipling era rilegata in cuoio rosso. Il sedere mi si stava congelando,
e toccandolo sentii che aveva ancora il segno della coperta. Al
diavolo l'educazione. Presi la sottoveste e la gonna e cominciai a
infilarle, rimanendo in cucina.
- Merlino? - provai a chiamare, mentre allungavo la mano verso le
calze. Mi accorsi che erano da buttare, una smagliatura correva per
tutta la lunghezza della gamba. Le arrotolai e le gettai nella mia
borsa. Mi diressi alla porta, bussai e dissi: - Devo entrare, va bene?
- E siccome lui non rispose, spinsi la porta.
Dentro non c'era nessuno. Ero sicura che fosse entrato lć e l'unica
altra uscita era una finestrella dal piccolo davanzale, decorato da
tre vasetti di primule in boccio. L'unico indizio che rivelava il suo
passaggio era il preservativo usato che galleggiava tristemente nel
Wc. Non c'Š nulla di meno romantico di un preservativo usato.
Andai ad aprire la porta della camera da letto e vi guardai dentro.
Evidentemente, quella mattina non aveva rifatto il letto. Richiusi.
Devo ammettere che lo aspettai per un po', fingendo che sarebbe
tornato. Accidenti, i suoi vestiti erano ancora lć, ammucchiati per
terra. Come fosse riuscito a rivestirsi e a uscire di casa senza che
me ne accorgessi, non tentai neanche di spiegarmelo. Ma dopo circa
un'ora, non era pi importante come avesse fatto ad andarsene. Se
n'era "andato" e basta.
Non piansi. Mi ero comportata troppo da stupida per permettermi di
piangere. Niente di ci• che mi era capitato aveva senso, ma il mio
comportamento ne aveva ancora meno. Finii di vestirmi e mi guardai
nello specchio del bagno. Stupendo. Il trucco che scendeva e niente
per restaurarlo - lo lavai via. Lasciai che le linee agli angoli della
bocca e i cerchi scuri sotto gli occhi si mostrassero indisturbati.
Non me ne importava. I capelli in disordine andavano da tutte le
parti. Le gambe erano bianche e avevo la pelle d'oca senza il collant.
Il grazioso cinturino delle scarpe appariva grottesco sulla caviglia
nuda. Tutto di me sembrava sgualcito e usato. E siccome era proprio
cosć che mi sentivo e non avrei potuto pretendere un'immagine pi
adeguata, afferrai la borsa e uscii.
Il vecchio camioncino era ancora l fuori. Anche questo non aveva
senso, ma ormai non me ne importava pi un fico secco.
Camminai fino a casa. Detto cosć, sembra semplice. Faceva un gran
freddo, io ero a gambe nude e con i tacchi alti, stava diventando buio
e la gente mi guardava con stupore. Mi ci volle circa un'ora e nel
frattempo si form• una vescica enorme dietro la caviglia, cosć quando
arrivai zoppicavo. Salii le scale, evitando per miracolo la massa
umida e scura che il gatto del vicino aveva lasciato per me, girai la
chiave del mio appartamento ed entrai.
Ancora non mi misi a piangere. Lanciai lontano le scarpe e mi infilai
la mia vecchia tuta comoda, poi andai in cucina. Mi preparai una
cioccolata calda dentro al bricco di porcellana coi Non-ti-scordar-di-
me e aprii la scatola di uno squisito dolce ripieno alla frutta,
inglese autentico, che mia sorella mi aveva regalato a Natale e che
avevo conservato in caso di disastro, come l'attuale. Lo affettai per
intero e lo sistemai con cura sull'unico mio piatto di vera porcellana
cinese, poi misi il tutto sul vassoio con un piattino e la tazza. Dopo
che ebbi sistemato questi generi di conforto pi la vecchia edizione
in cuoio dei "Tre moschettieri" pi una coperta calda su poltrona e
tavolino al suo fianco andai verso il bagno con l'intenzione di fare
una doccia veloce e di frizionarmi con olio di rose. Era un modo come
un altro di chiedermi scusa per essermi fatta cosć male, e di mia
volont.
Come aprii la porta del bagno una nuvola puzzolente di fumo verdastro
mi circond•. Soffocando e tossendo, riuscii a vedere attraverso quella
nebbia l'uomo di mezza et, un asciugamano avvolto ai fianchi che mi
sorrideva con aria di scusa. Aveva un'aria apprensiva, una vasta
sbucciatura sul ginocchio e un bozzo notevole sulla fronte. Cominci• a
dire: - Dama d'Argento, non ti avrei mai lasciata in quel modo, ma...
- Sei stato teletrasportato via dal tuo arcirivale - finii per lui.
- Non esattamente teletrasportato, era un incantesimo che richiedeva
unghie di scimmia e una dozzina di bacche notturne. Per• erano bacche
notturne "dell'anno scorso" e quindi non sono bastate per trattenermi.
Io avevo un mio incantesimo particolare, proprio a portata di mano,
e...
- Lo hai fatto sparire in un reame lontano - tirai a indovinare.
- No. - Sembr• vergognarsi leggermente. - In realt, era l'incantesimo
"Incessante Prurito Anale", incantesimo un po' volgare ma efficace e
semplice da usare. Dubito che verr ancora a darci fastidio. - Fece
una pausa e poi aggiunse: - Come ti ho detto, la magia non Š pi
quella di una volta. - Annus• l'aria e disse: - Davvero mi sono
accorto che questo spray al pino Š la cosa ideale per liberarsi dai
residui di un incantesimo...
Ripulimmo il bagno. Poi versai dell'acqua ossigenata sul suo ginocchio
sbucciato e lui mugol• maledizioni in una lingua che non avevo mai
sentito prima. Lo lasciai a lamentarsi e andai a riscaldare la
cioccolata. Pochi istanti dopo egli uscć dal bagno avvolto in una
specie di sarong che aveva ricavato da una delle mie lenzuola.
Stranamente l'abbigliamento gli donava, e la cosa buffa era che
nessuno dei due si sentiva men che normale, mentre ci sedevamo,
bevevamo la cioccolata e dividevamo la torta di frutta. Arrivato
all'ultimo pezzetto di torta mi chiese della crema di formaggio e con
questa tracci• sulla torta dei segni cabalistici. Poi and• alla porta
e chiam•: - Qui, qui, micio micio micio.
Il gatto del vicino arriv• immediatamente; la bestiaccia spelacchiata
si lasci• prendere in braccio dall'uomo di mezza et e portare nel mio
soggiorno, dove lui le tolse due zecche da dietro le orecchie e le
diede la torta a pezzetti. Dopo di che, la riprese in braccio e la
guard• fisso, a lungo, negli occhi giallastri, prima di intonare: -
Con pane e formaggio io ti lego al mio volere. Mai pi tu verrai a
cacare sulla soglia di questa dimora. - Poi riport• il gatto fuori
dalla porta, lo pos• delicatamente e disse ad alta voce: - Bene, e
questo risolve il maleficio che ti era caduto addosso.
Lo guardai stupita. - Pensavo che il maleficio avesse qualcosa a che
fare col mio lavoro da Sears.
- No. Quella Š solo una cosa perversa e crudele che tu volevi fare a
te stessa, per ragioni che io non capir• mai. - Credo che notasse il
mio sguardo, perch‚ aggiunse dopo un attimo: - Te l'ho detto, la magia
non Š mai quella che tu ti aspetti.
Poi venne a sedersi per terra vicino alla mia poltrona. Mise il gomito
sul mio ginocchio e appoggi• il mento alla mano. - E se ti dicessi,
Dama d'Argento, che io stesso non possiedo nessuna magia? Che, in
realt, sono sceso dalla finestra del bagno e ti ho seguito di
nascosto, avvolto nell'asciugamano, fino a qui? Perch‚ volevo che tu
mi considerassi speciale.
Non dissi nulla.
- E se ti dicessi che io, in realt, lavoro da Boeing, all'Ufficio
Personale?
Mi limitai a guardarlo, e lui alz• il gomito dal mio ginocchio e volt•
leggermente la testa. Guard• i propri piedi nudi e poi la mia macchina
per scrivere. Si pass• la lingua sulle labbra e parl• sottovoce. -
Potrei farti assumere. Come operatrice, a undici dollari l'ora.
- Merlino - lo ammonii.
- Va bene, forse non proprio undici dollari l'ora, all'inizio...
Allungai la mano e gli spostai i pochi capelli sottili dalla fronte.
Lui mi guard• e poi sorrise di quel sorriso timido, diretto un po' a
lato. Non dicemmo nulla. Lo presi per mano e lo guidai in camera, dove
ancora una volta smentimmo la regola dei Dieci di Lindholm. Mi
addormentai - rannicchiata accanto a lui, contro la curva morbida del
suo ventre. Era straordinariamente caldo e aveva profumo di arance,
chiodi di garofano e cinnamomo. Il TŠ dei Sogni Delusi, ecco di che
cosa profumava. E quella notte sognai che avevo un abito di piume di
pavone e camminavo attraverso un giardino immerso in una nebbia
sottile. Avevo trovato qualche cosa di perduto e lo tenevo in mano, ma
ogni volta che tentavo di guardare cosa fosse la nebbia turbinava e mi
impediva di vedere la mano. Quando mi svegliai, al mattino, I'uomo di
mezza et se n'era andato. Non ne fui turbata. Sapevo che, se fosse
tornato oppure no, nessuno avrebbe comunque potuto togliermi quello
che avevo gi avuto; avevo avuto molta pi magia di quanto di solito
spetti alla media dell'umanit. Indossai il mio vecchio accappatoio
scolorito e le mie dame d'argento ed entrai in soggiorno. Il lenzuolo
che aveva usato si trovava ripiegato sulla poltrona e il gatto del
vicino ci dormiva sopra, con la testolina posata sulle zampe. E anche
la mia Musa stava l, appollaiata sull'angolo del tavolo, con il
ginocchio sotto al mento, che si dipingeva le unghie dei piedi. Alz•
lo sguardo, quando entrai, e disse: - Se hai finito di comportarti
come una pazza, possiamo rimetterci a lavorare. - Cosć io mi sedetti
alla macchina per scrivere, diedi un colpo al carrello e posai le dita
su quelle file dei tasti cosć familiari. Che strano. I tasti non erano
nemmeno impolverati.

Titolo originale: "Silver Lady and the Fortyish Man".
Copyright 1989 Davis Publications, Inc.
Traduzione di Carla Meazza.

















IL TERZO SESSO.
Alan Brennert.

Non avevo pi di tre anni la notte in cui mi introdussi nella stanza
da letto dei miei genitori. Avevo fatto di nuovo lo stesso sogno,
quello in cui stavo per essere schiacciata tra il pavimento e il
soffitto, incapace di respirare o di liberarmi. Agitata, corsi lungo
il corridoio, spinsi la porta della stanza dei miei genitori... ma mi
fermai quando vidi quello che stavano facendo.
Avvolti in un groviglio di lenzuola sudate, si scuotevano avanti e
indietro, emettendo brevi suoni soffocati; per un attimo pensai che
stessero facendo lo stesso brutto sogno che avevo appena fatto io. Si
stringevano tra le braccia, distesi faccia a faccia, cosć vicini che
non riuscivo a distinguere dove iniziava uno e dove finiva l'altra.
Quando si accorsero di me, mia madre grid• il mio nome, mio padre
imprec•, e si separarono col rumore di una ventosa bagnata... e mentre
le lenzuola si spostavano, vidi tra le gambe di mio padre un grosso
dito ricurvo e tra quelle di mia madre un altro paio di labbra. Mi
precipitai sul letto affascinata, facendo un milione di domande; mio
padre lanci• un'occhiata a mia madre, sospir• e tent• di rispondere
alle mie domande - come si chiama quello? a cosa "serve"? - nel modo
pi innocente che si pu• usare con una bambina di tre anni. Quella
notte, quando tornai nel mio letto, misi una mano sotto il pigiama e
toccai la pelle liscia e intatta tra le mie cosce e sognai il giorno
in cui il mio pene o la mia vagina avrebbero iniziato a crescere,
anche se il babbo non ne aveva parlato, ma io sapevo che sarebbe
arrivato. Eppure, per un motivo o per l'altro, quel giorno non arriv•
mai.
Ero un neonato perfettamente normale da ogni punto di vista, sebbene
non fossi il primo della mia specie a comparire. All'inizio nessuno
aveva la pi pallida idea di cosa mettere sul certificato di nascita e
ancor meno come chiamarmi; cosć giocarono sull'equivoco e il nome sul
certificato risult• Pat, Pat Jacquith. Pi tardi, naturalmente, si
resero conto che dovevo avere una qualche identit e, dato che avevano
sperato in una bambina, Š quello che diventai... almeno fino a quella
notte nella loro stanza da letto. "Tu sei la piccolina di pap" mi
diceva sempre mio padre, ma se "ero" una ragazza, perch‚ non avevo
quello che aveva la mamma, quel secondo paio di labbra, quei peli
ispidi? Tutto quello che avevo era un buchino per la pipć e non era
per niente grazioso. Negli anni successivi, quando la mamma mi portava
fuori per comprare gonnelline o bambole o la biancheria per il letto
con fronzoli vari, sapevo di non essere "veramente" come la mamma, che
non sarei mai stata come la mamma... e provavo vergogna. La vergogna
di essere vista in abiti che non mi appartenevano, facendo finta di
essere qualcosa che non ero.
Cosć, a scuola, iniziai a fare a botte, a saltare siepi, ad
arrampicarmi su per le colline, a scivolare gi per i dirupi, a fare
qualsiasi cosa che potesse strappare o sporcare i miei graziosi
vestiti. Vivevamo in un sobborgo circondato da boschi chiamato
Redmond, e tra i sei e i tredici anni di solito mi si poteva trovare
in maglietta e jeans, mentre facevo escursioni, andavo in bicicletta o
nuotavo nel lago Washington. Ero un po' pi alta della media delle
ragazze e un po' pi bassa della media dei ragazzi; la voce aveva un
tono leggermente pi basso della maggior parte delle ragazze e
leggermente pi alto della maggior parte dei ragazzi, ma con una
caratteristica bizzarra che in qualche modo la rendeva accettabile per
entrambi i sessi. Non avevo curve degne di nota, e mentre le ragazze
iniziavano a sbocciare nella pubert, io restavo pressoch‚ uguale,
continuando a fare escursioni o a giocare a baseball nei prati; ma
molto presto, anche questo nuovo ruolo da maschiaccio avrebbe iniziato
a starmi stretto.
Avevo quattordici anni; era estate; una dozzina di noi, ragazzi e
ragazze, stavano campeggiando sul lago Sammamish. Stavo indossando un
costume a un pezzo, la mia unica concessione alla femminilit, e
mentre lo indossavo tra i cespugli feci attenzione, come sempre, a
tenermi distante dagli altri. A sinistra Melissa Camry si stava
mettendo a posto dietro un gruppo di cespugli; a destra il mio amico
Davy Foster un biondo alto e dinoccolato che era il mio migliore amico
da anni, si stava spogliando dietro un altro albero. Lanciai un
rapidissimo sguardo ai genitali di Davy e un'occhiatina ai seni molto
grossi di Melissa, e sentii un brivido erotico, ma non saprei dire per
quale dei due; e dopo aver indossato i costumi ed essere entrati in
acqua, nuotando tra di loro continuavo a sentirmi eccitata, ma
altrettanto confusa.
Qualche anno dopo, io e Davy facemmo un'escursione lungo un sentiero
che finiva sulla cresta di un dirupo basso e ripido. La parete di
roccia intimidiva, ma nessuno dei due riuscć a resistere allo stimolo.
Scendemmo attentamente, trovando per i primi tre metri dei buoni
appigli per i piedi e le mani; poi, a met strada, Davy tast• la
roccia in cerca di un appiglio ma non ne trov•: la parete era di puro
granito per i successivi tre metri. Davy mi url•: - La strada Š
difficile da qui in gi - e, dopo essersi dato una spinta contro la
roccia, si lasci• cadere tra i cespugli che stavano sotto. Dopo
qualche secondo, mi trovai davanti alla stessa scelta, e cosć, con la
sensazione di essere un paracadutista, seguii il suo esempio. Ci
ritrovammo distesi e aggrovigliati tra gli arbusti. Ci guardammo in
quella posizione fatale, con le gambe allacciate, e iniziammo a ridere
senza riuscire a fermarci. Pi tentavamo di liberarci, pi ridevamo.
Afferrammo un ramo cercando di sollevarci, ma l'unico risultato che
ottenemmo fu che il ramo si spezz• e cademmo pi in basso tra i
cespugli. Davy si pieg• per aiutarmi, con la sua guancia che sfiorava
la mia...
Dopo qualche secondo ci stavamo baciando. Non sentii lo stesso tipo di
brivido che avevo avvertito prima, ma molto pi dolce; la meravigliosa
pressione delle sue labbra contro le mie, le lingue che si
incontravano, si leccavano... Prima che me ne rendessi conto Davy
aveva messo la mano sotto la mia maglietta (ritirandola quando si
accorse che i miei capezzoli non erano pi grandi dei suoi); feci
scivolare i pantaloni fino alle cosce, con una parte di me che sapeva
che sotto per lui non c'era niente dove entrare, ma non mi preoccupai.
Il pene di Davy era duro con la punta arrossata; lo guid•
maldestramente tra le mie gambe...
E alla fine vide.
Si ferm• e indietreggi•, con gli occhi spalancati per la sorpresa e
l'incredulit. - Cosa... - inizi• a dire, e allora capii di aver fatto
un errore, un grosso errore; ma una parte di me cercava di far finta
che tutto andasse bene, e mi avvicinai a lui, implorando. - Per
favore... Davy, per favore... - Adesso c'era paura nei suoi occhi, ma
non volevo vederla. - Non dobbiamo. Possiamo solo toccarci, vero,
baciarci...
Tentai di ritirarlo un po' pi vicino a me, ma lui fece un balzo
indietro, alzandosi, oscillando come se cercasse di tenersi in
equilibrio tra gli spessi cespugli. Senza dire una parola si tir• su i
pantaloni e, malgrado le mie preghiere, si trascin• fuori dai cespugli
e corse via velocissimo.
Piansi per mezz'ora prima di avere il coraggio di tornare al campo,
sicura che al mio ritorno tutti mi avrebbero fissato, mormorando alle
mie spalle; non solo Davy non raccont• mai nulla a nessuno, ma non
parl• mai dell'episodio neanche con me... perch‚ quando l'anno dopo ci
diplomammo tutti, Davy fece in modo di farsi trasferire a un'altra
scuola.
Non volevo mai pi vedere quello che avevo visto nei suoi occhi quel
pomeriggio; non volevo mai pi sentirmi cosć diversa. Cosć, due mesi
prima del mio quindicesimo compleanno, decisi semplicemente di
rimuovere tutto.
Nel giro di una notte non fui pi Pat ma Patty. Abbandonai i jeans e
le scarpe da ginnastica; adesso, con sorpresa dei miei genitori,
volevo abiti, calze di seta e trucco. Divent• un'ossessione imparare
qualsiasi cosa che c'era da imparare su come mettere fondotinta, fard
e ombretti. Mia madre era desiderosa e disponibile a insegnarmi tutto,
e dopo la prima ora passata davanti allo specchio, fui stupita e
deliziata per come i miei tratti da ragazzo si erano trasformati,
grazie al miracolo operato da Helena Rubinstein, in un morbido volto
femminile. Gli occhi, che erano sempre sembrati genericamente castani,
adesso avevano un aspetto esotico, socchiusi e sofisticati, con un
tocco di mascara Lanc“me; e quando, con grande attenzione, applicai
uno strato di lucido per labbra color corallo, l'immagine fu
completata. Fissai la ragazza nello specchio, cosć femminile, cosć
carina... e piansi di gioia e sollievo quando mi resi conto che quella
ragazza ero "io". Mia madre mi abbracci•, risollevata dal fatto che
finalmente aveva di nuovo una figlia e che forse, dopotutto, le cose
si stavano risolvendo.
Una volta avuto un assaggio di quello che potevo diventare, nulla
poteva fermarmi: mi ero fatta bucare le orecchie e giunsi ad amare la
sensazione che provavo quando scuotevo i capelli e sentivo tintinnare
gli orecchini; amavo anche il rumore delle mie unghie lucide quando
tamburellavano impazientemente sul banco in classe. Alla fine della
mia estate da matricola, convinsi i miei genitori a lasciarmi tingere
i capelli, e cosć iniziai il nuovo anno da bionda, una studentessa
civettuola, eccitata dal fatto che i ragazzi le aprissero la porta o
le accendessero la sigaretta: tutti rituali che confermavano la mia
femminilit.
Diedi appuntamenti, incontrai molti ragazzi, ma sapevo che potevo
mantenere quel ruolo solo a distanza. Gli appuntamenti spesso finivano
nella macchina del ragazzo, parcheggiata in un posto romantico,
pomiciando freneticamente, con le mani di lui che percorrevano tutto
il mio corpo, e i miei seni ancora inesistenti; ma adesso, nel
contesto generale del mio nuovo look, i ragazzi non sembravano
pensarci. Ma gli sbaciucchiamenti finivano sempre allo stesso punto:
quando la mano del ragazzo raggiungeva i miei pantaloni. Lo lasciavo
masturbarsi contro di loro o lo facevo venire io stessa, ma quello era
tutto. Non potevano sapere che era frustrante per me quanto per loro.
Almeno loro potevano masturbarsi, ma tutto quello che conoscevo io era
il piacere di toccarsi, accarezzarsi, baciarsi. Avevo letto qualcosa
sull'orgasmo, ascoltavo le mie amiche parlarne in modo interminabile;
pi ascoltavo, pi diventavo invidiosa. E cosć continuavo a cercare,
sperando che un giorno il ragazzo giusto, il tocco giusto, potesse
portarmi quel sollievo, quell'... appagamento che tutti sembravano in
grado di ottenere. La maggior parte dei ragazzi a cui davo
appuntamento non si presentava pi di una o due volte prima di
abbandonarmi come una seccatrice; ma quella reputazione lavorava a mio
vantaggio, perch‚ c'era sempre pronta una scorta di ragazzi che mi
vedevano come una sfida, una preda da conquistare, e io ero pi che
disponibile a lasciarli tentare.
Fu durante l'ultimo semestre di scuola che inaspettatamente i miei
genitori mi portarono in un insolito viaggio di un giorno a Seattle.
All'inizio tentarono di farlo passare come un capriccio, ma quando
comparvero gli edifici bianchi della clinica medica universitaria
abbandonarono le scuse - sembravano eccitati ed entusiasti mentre io
mi sentivo sempre pi impaurita dal sussurro di sospetto nei loro
toni. Mi rendevo conto del grado della loro preoccupazione perch‚,
quando accendevo nervosamente una sigaretta, nessuno dei due mi
richiamava. Qualunque fosse la ragione, doveva essere importante.
Volevano stare con me quando incontrai il dottore, un chirurgo di nome
Salzman, un uomo sui cinquant'anni, stempiato e gentile; ma il dottor
Salzman insistette per vedermi da sola. Il cuore mi batteva forte per
nessuna delle ragioni che conoscevo; stavo seduta nel suo ufficio
accogliente, davanti a una grande scrivania. Presi un pacchetto di
Virginia Slims dalla borsa, poi esitai, ma il dottor Salzman spinse
verso di me un pesante portacenere e quindi mi accesi una sigaretta,
rilassandomi un po' ma sicura che quest'uomo affabile stesse per dirmi
che mi restavano tre giorni di vita.
- Stai diventando una splendida signorina - disse compiacente. -
Immagino che non ricordi l'ultima volta che ti ho vista, vero?
Sorrisi scuotendo la testa. - Temo di no. Ero molto piccola?
Annui. - Sette mesi. - Si fece avanti sulla sedia, vide il mio
nervosismo e sorrise, mettendomi immediatamente a mio agio. - Non
essere cosć preoccupata. Non c'Š niente che non vada, almeno niente
che tu non sappia gi. - Fece una piccola pausa e poi continu• con un
tono pi composto. - I tuoi genitori quando te l'hanno detto? Voglio
dire, della tua... condizione?
Era cosć strano parlare di questo argomento con qualcun altro che non
fossero i miei genitori, ma non c'era niente di minaccioso in
quell'uomo. - Hanno detto che era un... difetto di nascita.
Salzman annuć a se stesso. - Sć, questa Š una spiegazione che anche
una bambina pu• capire. Ma tu non sei pi una bambina, vero?
Improvvisamente ebbi una sensazione di sollievo nel poter parlare con
qualcuno, qualcuno che non sarebbe fuggito per la paura. - Si
chiama... androginia, vero? Ho controllato. Ma Š qualcosa che riguarda
la mitologia, vero? Come posso essere... voglio dire, perch‚ io?
Salzman si alz• e fece qualche passo dietro la scrivania. - "Di
solito" riguardava la mitologia. Il tuo caso, diciotto anni fa, fu il
primo sulla West Coast, ma prima ce n'era stato uno a Denver, due a
New York alcuni nel Midwest. I casi sono ancora rari, meno di un
centesimo dell'uno per cento, ma... - Fece il giro e si sedette sul
bordo della scrivania. - Tu sei stata fortunata; i primi pochi casi
attirarono moltissima attenzione. Passarono la maggior parte della
loro giovinezza sotto un microscopio e ancora non sappiamo nulla circa
le cause. I tuoi genitori decisero che dovevi avere una vita la pi
normale possibile, quindi ci limitammo a esami periodici. Comunque,
non potevamo fare nulla fino al raggiungimento della maturit.
Saltai in piedi, schiacciando la sigaretta nel portacenere di
cristallo. - Intendete dire che c'Š qualcosa...
- Calma - mi ammonć Salzman. - Tu sei quello che sei; hai un cromosoma
differente, n‚ X n‚ Y, qualcosa di completamente nuovo, e nessuno pu•
cambiare il tuo patrimonio genetico. Ma possiamo darti una somiglianza
plastica che ti far simile a una donna normale. Possiamo iniziare con
un ciclo di terapia ormonale per agevolare lo sviluppo dei seni e dei
fianchi, rafforzati con innesti di silicone...
Mi feci avanti sulla sedia, con il cuore che batteva forte, a mala
pena in grado di contenere l'eccitazione. Il dottor Salzman continu•.
- Per quanto riguarda gli organi sessuali, possiamo praticare
un'incisione chirurgica nel tuo... per favore, dimmi se Š tutto troppo
clinico... nel tuo inguine; quindi sistemare una specie di sacca di
plastica all'interno della pelle, e modellare vagina e clitoride
all'esterno con pelle presa da qualche altra parte del corpo. Questo
processo Š simile a quello che facciamo per i transessuali che da uomo
diventano donna, e questo pu• richiedere una successiva operazione per
assicurarsi che la vagina rimanga aperta, ma...
- Oh, dottore, grazie - dissi con le lacrime che iniziavano a bagnarmi
gli occhi. - Non sa quante volte ho sognato di...
Lui alz• una mano. - Non ringraziarmi ancora. Ci sono dei limiti. Come
un transessuale, naturalmente, non sei in grado di concepire un
bambino; ma diversamente da un transessuale, al quale il rivestimento
vaginale Š fatto con il tessuto del pene, il tuo sar relativamente
insensibile. Sar sensibile al piacere non pi di altre parti del tuo
corpo. Capisci?
Le mie speranze crollarono. - Perch‚ no? - chiesi a voce bassa. Mi
guard• con tristezza e simpatia. - Perch‚, bambina, non hai nessun
organo sessuale e nessun tessuto con la stessa sensibilit di un pene
o di un clitoride. Forse gli estrogeni ti daranno un po' di
sensibilit ai seni, o forse no. Sar solo un cambiamento
"cosmetico"... ma questo non Š ancora abbastanza per alleviare il tuo
disagio sessuale?
Ci pensai un attimo, mentre le mie riserve scomparivano a poco a poco.
Avrei potuto andare a letto con un uomo, sposarmi, condurre in qualche
modo una vita normale. Che altri problemi c'erano veramente? - Sć.
Certamente - dissi. Mi alzai e non potei fare altro che abbracciarlo
con gratitudine. - Quando potr• fare l'operazione?
- Dovremo farti i soliti esami, e se i risultati saranno
soddisfacenti, potremo procedere quando potr• fissare una sala
operatoria. Entro una settimana, se ti va bene.
Quando uscii dall'ufficio i miei genitori videro subito la felicit
nei miei occhi, e ci abbracciammo tutt'e tre, ridendo e piangendo. Per
tutta la strada del ritorno, continuarono a parlare di quanto avevano
aspettato questo giorno; di quanto fossero felici che la loro figlia
stava per avere una vita normale e sana. Quella notte, per la prima
volta dopo anni, dalla loro stanza da letto si sentć ridere. La
settimana precedente all'operazione pass• velocemente. E cosć, la
notte prima di andare al centro medico, dissi ai miei genitori che
sarei uscita per incontrare i miei amici; presi la Datsun rossa
fiammante che mio padre mi aveva comprato per il mio diciassettesimo
compleanno, e scappai di casa.

Lasciai un messaggio in cui dicevo quanto fossi dispiaciuta, spiegando
perch‚ dovevo partire e quanto mi rendessi conto di non poter vivere
con la loro delusione e il loro tradimento. Ma semplicemente non
potevo andare fino in fondo.
Oh, all'inizio fui eccitata; quella prima notte, rimasi sveglia nel
letto, sognando di essere una ragazza, una vera ragazza, per la prima
volta. La sera successiva andai a un appuntamento con un nuovo
ragazzo, Charles: bell'aspetto, studioso e un po' nervoso. Finimmo in
un posto fuori citt, ma mentre eravamo seduti, abbracciati a toccarci
mi resi conto che non stava accadendo nulla, neanche l'ansia
dell'attesa che provavo con un nuovo ragazzo, mentre mi chiedevo se
questo fosse stato, forse, quello differente, e quando la sua mano si
infil• sotto la camicetta, lo allontanai con una piccola spinta. -
Charles, per favore non farlo. Torniamo in citt. - Per prevenire ogni
altra sua mossa, accesi una sigaretta e la usai come un sottile scudo.
Charles si gir• dall'altra parte lentamente, accese il motore e partć.
Vidi di sfuggita la mia immagine riflessa nello specchietto
retrovisore e automaticamente iniziai a imbellettarmi, preoccupata pi
della mia immagine che di Charles, che stava accanto a me. Mi accorsi
del risentimento e della rabbia nei suoi occhi solo quando mi fece
scendere, e ormai era troppo tardi: and• via prima che potessi
scusarmi. Non era stato neanche sul punto di scoprire il mio segreto:
mi stavo solo annoiando e avevo usato lo stesso tono da civetta che
usavo sempre alla fine della scena, senza pensare assolutamente a lui.
Mio Dio, pensai, che genere di egoista, piccola puttana stavo
diventando?
Quella notte, mi spogliai davanti lo specchio che c'era all'interno
dell'armadio e rimasi a fissare la mia immagine, colta alla sprovvista
da quello che vidi: il volto di una ragazza perfettamente truccato,
rossetto rosa, ombretto blu, un'ombra di fard sugli zigomi,
incorniciato da capelli biondi tendenti al rosso. Un volto di ragazza
su un corpo da ragazzo... non abbastanza muscoloso per essere quello
di un ragazzo, ma altrettanto privo di curve per essere quello di una
ragazza. L'accostamento mi sembr• improvvisamente, paurosamente
ridicolo. Guardando la testa di una ragazza "Cosmo" su un corpo
neutro, capii per la prima volta di non essere n‚ maschio n‚ femmina,
ma... qualcos'altro.
Quella notte dormii male e la mattina dopo quasi non riuscii a
truccarmi. Mentre i giorni passavano lentamente e la data
dell'intervento chirurgico si avvicinava, l'operazione mi sembrava pi
che una liberazione, mi ricordava una mutilazione. Un sacco di
plastica all'interno dell'inguine? Il pensiero mi fece rabbrividire. E
se fossi arrivata fino in fondo, cosa sarebbe accaduto? Avrei
continuato a non avere organi sessuali, n‚ orgasmi; avrei fatto
qualcosa di meglio, come trovare un lavoro, innamorarmi e sposarmi? O
avrei continuato a cercare, irrazionalmente, quell'uomo che avrebbe
potuto soddisfarmi completamente, in un processo che avrebbe fatto
soffrire tutti coloro che non riuscivano a raggiungere la vetta?
Guardai la bionda volubile riflessa nello specchio e capii quale
strada "lei" avrebbe preso. La lasciai dietro di me, a Redmond, la
notte in cui partii, mi fermai in un piccolo negozio sulla Statale 22
e riempii una borsa con indumenti unisex, jeans, camicie e magliette.
Dal parrucchiere pi vicino mi feci tagliare corti i capelli biondi
con uno stile di sesso indeterminato; e mentre la parte bionda
cresceva, tornavo al mio castano naturale. Guidai il pi lontano
possibile da Redmond, senza una destinazione particolare, con il solo
obiettivo di scoprire che e cosa fossi veramente.
Se un estraneo mi avesse guardato, non avrebbe avuto alcun indizio sul
mio sesso; in base al tono che davo di volta in volta alla mia voce,
potevo essere sia uomo sia donna. Per me non era insolito sedermi al
tavolo di un ristorante lungo la strada e sentirmi chiedere dalla
cameriera "Cosa prende, signore?" mentre la persona alla cassa,
porgendomi il resto, mi diceva amichevolmente "Buona giornata,
signora". Diventai un camaleonte, il mio sesso era determinato pi dai
pregiudizi dell'osservatore che da qualcosa di fisico; e pi mi
allontanavo pi libera mi sentivo, un test di Rorschach vivente senza
risposte per stabilire se appartenessi a un sesso o all'altro.
Durante il viaggio attraverso il paese lavorai, servendo ai tavoli,
impiegata nei negozi, a consegnare pacchi. Mi diedi il nome di Pat,
che era tanto vero quanto ambiguo. Non dovetti mai dichiarare
apertamente il mio sesso a meno che non fosse assolutamente
necessario, su una domanda di lavoro o se venivo fermata per una
multa, e solo allora mi identificavo per opportunit come una "donna",
dato che era quello che riportavano i miei documenti d'identit. Ma
questi casi erano rari. E' sorprendente quanto l'identificazione del
sesso stia solo negli occhi dell'osservatore; non davo nessun indizio,
ma ogni persona che incontravo fissava la propria vista per
focalizzare la mia identit. Se guidavo velocemente o scorrettamente,
gli altri automobilisti mi trattavano come un uomo; se mi fermavo a
guardare la vetrina di un negozio di moda femminile, i passanti
ritenevano che fossi una donna. Potevo entrare impunemente in un bagno
per uomini o per donne - ormai avevo scoperto che il contesto era
tutto.
Inoltre, per la prima volta, ero libera di seguire i miei istinti
sessuali senza dover recitare una parte. Quando lavorai in un negozio
di dischi in Wyoming, mi lasciai andare, definitivamente,
all'attrazione che provavo sia per le donne sia per gli uomini; andai
a letto con una mia compagna di lavoro, tenendo le luci basse, e
invece di un rapporto sessuale passai diverse ore accarezzandola,
stringendola, massaggiandole il clitoride con la lingua e le dita.
Dopo, lei mi disse che non aveva mai amato il sesso in maniera
particolare, ma questa volta era stato differente; questa volta aveva
iniziato a capire di cosa si trattava. Quando un uomo di mezz'et,
solitario, mi fece delle proposte in un piccolo ristorante, supposi
che stava pensando che fossi una donna; ma mentre parlavamo, divenne
chiaro che mi aveva preso per un giovane omosessuale. Nella sua stanza
d'albergo, gli feci una fellatio; dopo, abbassandomi attentamente le
mutande solo il necessario, spiegando che si trattava di un piccolo
feticismo, gli feci avere un rapporto anale; quindi restammo
abbracciati per un po'. Ed entrambe le volte, mentre stavo distesa
sentendo il calore e la felicit dell'altro, cominciai a rendermi
conto che non avevo pensato a quell'importante momento "culminante"
che avevo cosć disperatamente cercato per molto tempo.
Kansas City, Boston, Fayetteville, New York... la mia odissea mi port•
attraverso il paese e poi a met strada sulla via del ritorno. Qualche
volta mi fermavo in diverse citt per qualche mese, frequentando corsi
universitari di psicologia e sociologia; ma era impossibile mantenere
l'ambiguit sessuale se mi fermavo a lungo nello stesso posto e alla
fine cominciavo ad agitarmi sull'essere un uomo o una donna, con
l'ansia di essere percepita semplicemente come me, e quindi mi
rimettevo in viaggio, di nuovo alla ricerca.
Una cosa mi divenne chiara: dal momento in cui questi casi aumentavano
sempre di pi, la medicina non poteva continuare a considerarli
semplicemente come una stranezza genetica. E alcune volte incontrai
anche dei miei simili. A Fayetteville, conobbi un ventiduenne che
viveva come maschio; la barba folta e le braccia pelose erano una
testimonianza del testosterone; un marmocchio dell'esercito che aveva
passato buona parte del tempo sotto il controllo dei medici militari e
avevo l'impressione che il suo atteggiamento da macho e da bullo fosse
solo una posa per soddisfare la famiglia e il governo, costringendoli
a lasciarlo in pace. A New York, fui scioccata di trovare un altro
androgino che aveva aperto un postribolo come prostituta, per
soddisfare ogni sorta di esigenze sessuali, disponibile a essere uomo
o donna, stallone o prostituta; lui/lei aveva una collezione di
parrucche, toupet, peni artificiali e vagine di gomma spugnosa, e le
braccia bucate da segni inequivocabili. Uscii da quel posto
velocemente, sentendomi male e triste. A Miami incontrai una giovane
"donna", con lunghi capelli biondo-rame, occhi abbaglianti
perfettamente truccati, seni abbondanti che occhieggiavano da un
vestito corto, lunghe unghie tinte di rosso; i chirurghi avevano fatto
uno splendido lavoro. Ci sedemmo al tavolino all'aperto di un bar e
lei civettava con tutti gli uomini che passavano, rimettendosi
continuamente a posto il trucco che controllava nello specchietto del
portacipria, e ogni volta che le chiedevo del suo passato, di come era
cresciuta, lei trovava modo di cambiare argomento: era l'abitante di
un presente eterno ed effimero.
Finalmente, nel Tennessee, incontrai qualcuno che aveva intrapreso la
mia stessa strada: Alex, snello, capelli biondi che non viveva n‚ come
uomo n‚ come donna; cacciato dalla famiglia lavorava come cassiere in
un negozio. Avevamo dei punti di vista sorprendentemente simili, nella
decisione che entrambi avevamo preso, ed entrambi desideravamo
ardentemente quella stessa lontana cosa inimmaginabile: un senso di
appartenenza, di essere amati e necessari. Ci mettemmo insieme, pi
per disperazione che per voglia, e facemmo l'amore, come lo possono
fare due neutri, due che non sono n‚ carne n‚ pesce. Non c'erano
organi sessuali da stimolare, ma nel nostro girovagare avevamo
imparato molto sul toccarsi, accarezzarsi e sulla sensibilit della
carne; potevamo apprezzare come nessun altro il delicato tocco delle
labbra lungo la nuca, il sensuale massaggio delle dita sui glutei, il
passaggio della lingua dentro il bordo di un orecchio. Era molto
tenero, molto dolce, ma quando tutto finć...
Quando tutto finć, Alex mi accarezz• sulla guancia e disse, quasi con
tenerezza: - Siamo molto simili, vero?
Annuii senza dire una parola.
- Ho sempre pensato che appena avessi trovato qualcun altro come me,
sarei stato veramente felice - disse Alex con un leggero accento del
Tennessee.
- Anch'io - aggiunsi lentamente.
Alex mi abbracci• e mi diede un affettuoso piccolo bacio sulla
guancia. - Mi spiace, Pat.
Eravamo simili, troppo simili. Anche le nostre reazioni sessuali erano
quasi identiche. Non si trattava solo della mancanza dell'orgasmo
era... come fare l'amore con se stessi; in qualche modo, un atto
narcisistico. A Patty, la bionda ramata, probabilmente sarebbe
piaciuto, ma io avvertivo solo una specie di depressione. Entrambi
sapevamo istintivamente che la risposta al nostro problema, se c'era
una risposta, non si trovava nell'altro, ma altrove.
La ricerca di identit e obiettivi si stava chiarendo ai miei occhi.
Non "c'erano" obiettivi. Non "c'era" identit. Io non ero n‚ uomo n‚
donna, n‚ yin n‚ yang; ero il confine, l'invisibile, la linea
impossibile da misurare che demarcava lo yin dallo yang, impossibile
da definire come la pi piccola frazione immaginabile, tanto sfuggente
quanto il valore di pi greco. Non ero nessuno, niente.
Non sapendo cos'altro fare... tornai a casa

Durante tutti quegli anni, mi ero tenuta in contatto con i miei
genitori: lettere, cartoline, una telefonata a Natale e una per il
Giorno del Ringraziamento. All'inizio erano furibondi e alla mia prima
telefonata riattaccarono; comunque alla fine mi perdonarono e dopo un
po' di tempo mi scrissero che desideravano moltissimo vedermi di
nuovo. Stavano invecchiando e temevo che, se non fossi andata adesso,
non ne avrei mai pi avuto l'opportunit; cosć mi diressi verso ovest,
verso Washington, Redmond, a casa.
Ma pi mi avvicinavo, pi il cuore mi batteva forte e la stretta sul
volante si faceva pi debole e alla fine, tra Bellevue e Kirkland,
persi tutto il coraggio e mi fermai in un motel. Erano le undici
passate e, dopo avere consegnato i documenti, mi diressi al bar
nell'atrio. Esausta, affamata e nervosa, mi sedetti a un tavolo,
ordinai un sandwich e iniziai a chiacchierare con un uomo al tavolo
vicino; aveva la brillantezza affascinante di un commesso viaggiatore
e, mentre mi faceva la corte, mi ritrovai inconsciamente a cambiare il
modo in cui stavo seduta, in cui accavallavo le gambe e anche il modo
con cui tenevo il bicchiere di tŠ freddo. Mi piegai in avanti, con un
linguaggio del corpo molto femminile che prendeva il sopravvento sulla
mia immagine androgina. Tutto torn• indietro troppo rapidamente,
troppo facilmente. Prima che lui potesse farmi delle proposte, mi resi
conto di quanto stava accadendo e corsi via, fingendo di stare male;
non dovevo arrivare al punto di ricadere nei vecchi comportamenti.
Dormii male e passai la maggior parte del giorno dopo guardando le
vetrine dei negozi di Kirkland, distogliendo per quanto mi fosse
possibile il pensiero dall'inevitabile. Stavo pranzando, quando alzai
lo sguardo e vidi un uomo che mi stava fissando da un tavolo
dall'altra parte della sala; questa volta dominai l'impulso che mi
aveva sopraffatto la sera prima e distolsi lo sguardo, ma quando
guardai di nuovo l'uomo era in piedi davanti a me con un'espressione
interrogativa sul volto, un volto che riconobbi improvvisamente.
- Pat?
Era Davy. Per un attimo fui stupita che qualcuno mi avesse
riconosciuta con l'aspetto che avevo adesso, ma naturalmente Davy
aveva sempre conosciuto Pat, non Patty. L'imbarazzo di quel giorno nel
bosco riaffior• rapidamente; dovevo avere un'espressione terrorizzata
quando saltai in piedi, versando il caffŠ sul tavolo e corsi via, ma
Davy mi seguć. - Pat... aspetta.
Fuori mi prese per un braccio, ma lo sguardo gentile e la dolcezza
della sua voce mi fecero fermare. - Va tutto bene - disse con calma. -
Non intendevo... voglio dire che Š passato cosć tanto tempo, sei
d'accordo?
Aveva circa trent'anni e i suoi capelli biondi si stavano gi
diradando, ma i suoi occhi erano ancora di un blu brillante e adesso
sembrava che mi stessero scrutando. Una parte di me voleva correre via
ma, grazie a Dio, non lo feci. Mi lasci• il braccio, sorridendo per
scusarsi. - Aspetta un attimo - disse.
Ci misi un po' per rimettere ordine nei miei pensieri.
- Sono stata... via - dissi. - Ho viaggiato.
- Sei tornata per una visita o per restare?
Avrei voluto saperlo. - Una visita. Andr• a Redmond per vedere i miei
genitori.
Restammo lć, impacciati, per parecchi minuti prima che dicesse
esitando: - Senti, se tu avessi... un'ora da perdere, io... vorrei
parlarti. Mi chiami in ufficio?
- Veramente io...
- Per favore. - Che significava quell'intensit, quella disperazione
che lessi nei suoi occhi? - Solo un'ora?

Costeggiammo la riva del lago Washington con la sua jeep, mentre la
nebbia grigiastra nascondeva le poche imbarcazioni che erano uscite in
quella giornata piovigginosa. Per la prima mezz'ora chiacchierammo
innocentemente, indicandoci i luoghi che ci erano familiari, le cime
nevose delle montagne vicine; ma alla fine, mentre eravamo in un punto
deserto del lago, Davy inizi• a parlare faticosamente di quello che
gli era passato nella mente per tutto il pomeriggio.
- Mi dispiace, Pat - disse con calma.
Lo guardai. - Ti spiace per cosa?
- Per essere scappato - disse, distogliendo lo sguardo con imbarazzo.
- Per averti evitato in quel modo. Ma era una cosa che non riuscivo ad
affrontare. Eri la prima ragazza... - Si ferm•, temendo per un momento
di usare le parole sbagliate; ma quando io non reagii in modo
negativo, proseguć, esitante -...da cui ero veramente attratto. Tu non
hai idea di quante volte avevo pensato a questa cosa, a te e me...
quando andavamo a fare le escursioni, o a nuotare, o a scuola...
Non riuscivo a continuare a sorridere. - Veramente? - dissi. - Ero
convinta che tu mi considerassi solo uno dei ragazzi.
- Sć, be', era una stupidaggine. Anche se sapevo... pensavo... che tu
fossi una ragazza, non riuscivo a togliermi dalla testa quella strana
sensazione che tu fossi un ragazzo... che essere attratto da te fosse
in qualche modo sbagliato. Cosć, quando ci siamo trovati nella
situazione perfetta mi sono detto: bene, prover• che Š solo una
ragazza come le altre, che Š normale desiderarla...
- O Dio - dissi, cominciando a rendermi conto. - E invece hai
trovato...
- Sć - continu•. - Parlo della confusione sessuale. Ero fuori di
testa. E per un po' di tempo non fui neanche sicuro di cosa fossi io.
- Distolse lo sguardo. - Dopo, lessi molto, scoprii altre persone come
te... e quando ero all'universit, ebbi degli incontri con un
terapista che mi aiut• a venirne fuori. Poi incontrai Lyn. Ma per
tutto il periodo della scuola...
Posai la mano sulla sua, adesso era il mio turno di sentirmi in colpa.
- O Dio, Davy, mi spiace molto. La cosa mi agitava fino al punto che
non ho mai pensato a cosa deve essere stato per te; la tua prima
esperienza sessuale ed Š stata cosć... cosć "bizzarra"...
Lui mise l'altra mano sulla mia e il suo calore era familiare e
confortante. - Va bene. Ne sono venuto fuori bene. Ma volevo scusarmi.
Per non... - La sua voce si spezz•. - Per non esserti stato amico.
Non riuscivo a pensare a nulla da dire, cosć lo abbracciai, cercando
di sciogliere quella colpa che l'aveva perseguitato per tutti quegli
anni. Mentre eravamo lć, la luce plumbea divenne pi pesante e quando
ci separammo il cielo era pi scuro, il terreno si era trasformato in
fango mentre una grigia pioggia inclinata batteva sulla superficie del
lago. - Sar meglio spostarsi - dissi, lanciando un'occhiata alle
pesanti nuvole all'orizzonte.
- Tempo pessimo per mettersi al volante. Perch‚ non vieni a casa e
ceni con me e Lyn?
L'idea mi terrorizz•, non saprei dire perch‚; forse era il calore del
corpo di Davy che sentivo ancora addosso dopo il nostro abbraccio. -
No, Š meglio di no - risposi e, nella fretta di tornare alla macchina,
presi il terrapieno fangoso un po' troppo velocemente, il piede
scivol• di traverso, e sentii un "pop" nella caviglia mentre cadevo
sulla lieve pendenza. Urlai imprecando, ma Davy, che stava proprio
dietro di me, mi sostenne con un braccio, anche se il guaio,
dannazione, era gi fatto. - Stai calma - disse, mentre mi aiutava a
zoppicare sul terrapieno fino alla strada. Il dolore al piede, in
breve, fu offuscato dalla sensazione del braccio di Davy attorno alla
vita, ma pensai all'ultima volta in cui era accaduta una cosa del
genere, al vicolo cieco in cui questo ci aveva condotto per tanti
anni, e decisi che non sarebbe accaduto di nuovo. - Sto bene -
protestai, e la sua presa si allent• mentre cercava di andarsene, ma
appena feci un passo senza il suo aiuto tutto il peso del corpo
ricadde sulla caviglia distorta e un dolore lancinante mi esplose
attraverso il ginocchio fino alla coscia. Stavo per cadere e Davy
ancora una volta mi afferr•.
- Andiamo. Ti sistemeremo a casa mia.
Non ero nella posizione di poter ribattere. Salimmo sulla sua jeep con
la pioggia che batteva sulla cappotta mentre riprendevamo la strada, e
io imprecai contro me stessa, chiedendomi se non avessi fatto tutto
allo scopo...
Quando arrivammo a casa di Davy eravamo completamente inzuppati
d'acqua e con le scarpe infangate, ma lui, senza esitare, mi condusse
fino a una sedia della sala da pranzo, appoggi• attentamente la mia
caviglia su un'altra sedia e si diresse verso la cucina. - Prendo del
ghiaccio - disse e mentre la porta della cucina si chiudeva dietro di
lui, vidi i fari di una macchina fuori dalla finestra della sala da
pranzo, e poi sentii dei passi veloci sul viale bagnato che portava in
casa. Perfetto, pensai. Mi guardai attorno cercando Davy, pensando che
ci sarebbe stata un'imbarazzante presentazione, ma senza di lui...
La porta si aprć e, insieme a uno spruzzo di pioggia, entr• una
piccola bionda con un abito grigio bagnato; all'inizio era cosć
intenta a chiudere l'ombrello che non si accorse di me. Poi alz• lo
sguardo, si ferm• a met strada, fissandomi con il volto trasformato
da un'espressione quasi comica di timore.
- O Dio - disse, con una veloce cadenza della East Coast. - Lei non Š
un ladro, vero? Ho lasciato Chicago al terzo furto. Per favore, mi
dica che non Š un ladro.
Dovevo sorridere, ma prima che potessi dire qualcosa, Davy entr• con
una borsa piena di ghiaccio, presentandomi come una sua vecchia
compagna di scuola. Non riuscii a capire dall'espressione di Lyn se
Davy le avesse detto qualcosa di me, ma non appena vide la mia
caviglia si avvicin•, facendomi sobbalzare leggermente quando mi tocc•
il piede. - Aspetta, dovremmo avere delle bende in bagno. - Dopo
qualche minuto, mi stava avvolgendo una lunga e consumata benda
attorno alla caviglia mentre Davy spostava la borsa del ghiaccio. -
Fango - disse lei con un sorriso ironico. - Ci dovrebbero essere
raccoglitori di fango qui da noi per rifornire il resto del paese con
le nostre infinite provviste. Fango e pioggia, pioggia e fango...
Finć la fasciatura e la ferm• con una spilla, poi lasci• che Davy
assicurasse di nuovo la borsa del ghiaccio alla caviglia. - Ecco,
questa dovrebbe fare scomparire il gonfiore. - Si alz• in piedi e per
la prima volta notai la differenza di altezza tra lei e Davy; si alz•
sulle punte dei piedi per baciarlo affettuosamente sulle labbra. -
Indovina un po', caro - disse lei.
Davy sembrava in ansia. - Tocca a me cucinare?
Lei annui. Davy sospir•, raccolse l'impermeabile dalla sedia sulla
quale l'aveva gettato e mi guard•. - Ti piace la cucina cinese?
- Certo.
- Torno in un attimo. - Uscć dalla porta e scomparve subito. Lyn si
gir• e sorrise. - Non si sbaglia mai. Quando tocca a me cucinare,
sento il dovere di preparare le scaloppine; quando tocca a lui, va da
Szechwan. Vuoi dell'aspirina per il piede?
- Grazie.
Con l'aspirina mi diede un caffŠ caldo e un maglione asciutto;
spostammo la caviglia fino al tavolino da caffŠ di fronte al divano e
insieme a Lyn ci asciugammo davanti alla stufa a gas mentre
aspettavamo il maiale mu shu e il pollo kung pao. Le chiesi che lavoro
faceva.
- Responsabile dell'ufficio prestiti della Banca d'America. E tu?
- Vendite al dettaglio - risposi evasivamente. - Sono stata in giro
per un bel po' di tempo.
- Sei tornata per una visita alla famiglia?
- Sć, esatto.
Tir• fuori un pacchetto di Salem e me ne offrć una, mentre me
l'accendeva, ebbi l'impressione che mi stesse fissando sopra la fiamma
dell'accendino, in modo strano, tentando di capirmi: non abbastanza
muscoloso per essere un uomo, non abbastanza formosa per essere una
donna. Ero viva o ero un Memorex? O era solo una mia paranoia?
- Avevo smesso davvero - disse, tirando una lunga boccata dalla
sigaretta, - quando pensai di essere incinta. - Alla mia espressione
perplessa, mi spieg•. - Un falso allarme. O una "gravidanza isterica",
come hanno detto. Se accadesse a un uomo, la chiamerebbero
"riproduzione sintomatica da stress", ma noi donne siamo isteriche,
giusto? Una cosa del tipo "O mio Dio, ho bruciato l'arrosto" o... - Si
guard• la pancia con finta sorpresa. - Evviva! Caro, sono incinta. -
Ridemmo e questo ci port• a una discussione sulle peculiarit degli
uomini in generale... e mentre ascoltavo l'elenco cordiale ma molto
divertente di Lyn sugli eccessi maschili, non molto differente
dall'elenco degli eccessi femminili che avevo ascoltato dagli uomini,
mi venne in mente qualcosa, qualcosa che si era concretizzata in tutti
questi anni.
Per tutta la mia vita mi ero sentita come un membro di una razza
differente, umana ma non umana, simile a loro ma distinta. E adesso
capivo di cosa si trattava, di come gli uomini e le donne si vedevano,
a volte, come membri di specie completamente differenti. Lo capii pi
chiaramente dopo cena perch‚, anche se Davy e Lyn avevano una buona e
affettuosa relazione, c'erano gli inevitabili attriti. Verso la fine
della serata, mentre mi mostravano il seminterrato che presto sarebbe
stato rinnovato, si addentrarono in un'accesa discussione sul colore
delle mattonelle che sarebbero state usate. Davy insisteva che
sarebbero state rosse, mentre Lyn diceva che non erano proprio rosse
ma terracotta; e andarono avanti cosć per quasi un minuto prima che io
intervenissi dicendo: - Senti... Davy. Quando dici rosso intendi come
un fuoco acceso?
- No, no, pi scuro, come... come...
- Un mattone?
- Sć! Sć, come un mattone.
- Quella Š terracotta - disse Lyn esasperata.
- Perch‚ diavolo dovrei essere tenuto a saperlo?
Dopo un attimo si rilassarono, e Lyn propose anche che io restassi e
facessi da interprete mentre loro ridecoravano la casa. Tornammo
sopra, bevemmo un po' di vino e guardammo la televisione, mentre
rubavo delle immagini di Davy e Lyn che si stringevano... e lentamente
il mio umore si fece pi scuro. Mi piacevano, mi piacevano entrambi;
Davy per la sua presenza forte, Lyn per la sua energia maniacale.
Potevo fantasticare di innamorarmi di loro, o di sposarmi con
entrambi. Sembrava che chiunque nel mondo non vedesse l'ora di vivere
una situazione simile: maschi, femmine, omosessuali, lesbiche, tutti
potevano trovare un partner. Tutti eccetto me. Fui contenta quando il
film finć e potei ritirarmi, sola, sul divano letto nel soggiorno.
Distesa sotto una spessa e calda coperta, ascoltavo le gocce di
pioggia che formavano tatuaggi sul tetto, scivolai verso il sonno...
ed ebbi un incubo che non avevo pi avuto in tutti quegli anni, quello
che mi aveva angosciata cosć spesso da bambina, quello che mi aveva
condotto nella stanza da letto dei miei genitori anni prima.
Alzai lo sguardo verso il soffitto e vidi che cadeva verso di me
mentre, sotto, il pavimento si sollevava. Accadeva tutto troppo in
fretta per poter fare qualcosa, cosć chiusi gli occhi aspettando lo
scontro imminente; ma quando fui colpita, non fui colpita in modo
violento ma "delicatamente", come se il pavimento e il soffitto si
fossero trasformati in cuscini di piume e ora mi stessero accarezzando
tra loro. Con la coda dell'occhio potevo vedere un sottile cuneo di
luce su entrambi i lati; poi il cuneo si ridusse a una fessura, poi a
una linea, infine a una serie di piccoli punti. Lottai contro la
pressione ma fu inutile, i punti di luce svanivano uno dopo l'altro;
tentai di respirare ma non ci riuscii, sentivo il petto chiuso in una
morsa, incapace di espandersi o di contrarsi; stavo morendo, ero
sconfitta, ero...
- Pat! Pat, svegliati!
Ero chiusa in una morsa ed ero tenuta per le spalle da Davy; avevo gli
occhi aperti, ma ero in entrambi i posti. Mi scosse, e la morsa si
aprć un po'; mi scosse di nuovo, e scomparve. Mi trovavo nel soggiorno
sveglia ma ancora terrorizzata. Mi accasciai, come non mi accadeva da
anni, da quel giorno nel bosco, ma invece di vergogna e umiliazione
sentivo dolore e solitudine; solo la sensazione di lontananza era la
stessa. Mi aggrappai disperatamente a Davy, con le lacrime che mi
scendevano lungo le guance, tentando di tenere a bada il sonno. Davy
mi abbracciava e mi accarezzava la schiena, e quando finii mi guard•,
mi mise una mano sulla guancia e disse con una voce calda e triste: -
Credo che sia il momento che ti renda quello che ti devo - e mi baci•
teneramente. Una parte di me desiderava stare in quel modo per il
resto della vita, facendo finta che fosse quello che lui voleva e
aveva bisogno, sospesa per sempre in un'illusione; ma mi tirai
indietro, scossi la testa e tentai di liberarmi. - Davy, "no"... tua
moglie, non posso...
E in quel momento sentii una mano sulla spalla; una mano piccola, non
molto pesante, e sentii la punta delle dita sulla pelle. Mi girai. Lyn
era seduta in camicia da notte sul bordo del letto, per niente
arrabbiata e turbata; iniziai a dire qualcosa, ma lei scosse la testa
e disse: - Sshh sshh - e si pieg• in avanti, con le labbra che mi
sfioravano la nuca, il suo respiro che si spostava lentamente lungo la
curva del collo fino in faccia, sulla mia bocca...
Lei sapeva. Fin dal principio, lei aveva saputo.
Lyn mi spinse gentilmente sul letto, proprio mentre mi rendevo conto
di un piacevole solletico sulle gambe; guardai in basso e vidi Davy
che mi accarezzava i nodosi muscoli dei polpacci, le sue labbra che
salivano lentamente lungo le gambe, coprendole di piccoli baci.
Lyn mi prese il volto tra le mani, mise la sua bocca sulla mia e le
nostre lingue si incontrarono, danzando una attorno all'altra,
salutandosi...
E allora sentii qualcosa che non avevo mai provato prima: una
pressione crescente, una tensione eccitante, come se ogni estremit
dei nervi del mio corpo stesse per esplodere, ma non accadeva,
continuava solo ad aumentare sempre pi di intensit; un piacere che
non avevo mai provato, che non avevo mai immaginato di poter provare.
E fu allora che capii: i dottori avevano sbagliato, tutti. Avevano
commesso un errore grave. Non era vero che non avevo tessuti erogeni.
Tutto il mio corpo era un tessuto erogeno.
Quello di cui aveva bisogno era solo il giusto stimolo.

Finalmente trovai il coraggio per andare dai miei genitori. Quando mia
madre aprć la porta ebbe un attimo di stupore davanti al mio aspetto,
cosć differente dalla civettuola adolescente bionda che era scappata
anni prima; ma poi si avvicin• e mi abbracci•, stringendomi come se
potessi essere portata via dal vento. Poi mio padre uscć dall'ombra
del soggiorno e fece una cosa strana e patetica: si avvicin• e mi
strinse la mano, il modo con cui poteva salutare un figlio che torna a
casa dall'universit; e poi mi baci• sulla guancia, come poteva fare
con una figlia; era il suo modo per dirmi che loro non amavano una
figlia o un figlio... amavano un bambino.
Divertente; per anni ho pensato a me stessa come a un mostro, un
inutile rimasuglio di un altro tempo; ma malgrado tutti i corsi di
psicologia che avevo frequentato, tutti i libri che avevo letto, non
avevo mai pensato a quel tempo, a quell'eternit prima della storia,
quando la mia specie divideva la terra con uomini e donne. Perch‚
scomparimmo, o ci estinguemmo, non potr mai essere scoperto; ma la
vera domanda Š: prima di tutto perch‚ eravamo lć? Da quando ho
incontrato Davy e Lyn, ho iniziato a chiedermi... a pensare a come,
durante i millenni, gli uomini e le donne abbiano avuto una tale
difficolt a comprendersi l'un l'altra, a capire il lato dell'altro...
come se qualcosa fosse stato smarrito. Un equilibrio, un elemento
armonizzante, il terzo lato di un triangolo. Forse "quello" era
l'ordine naturale delle cose e la deviazione Š tutto ci• che Š venuto
dopo. Fin dal principio avevo pensato alla mia specie come a
un'anomalia, quando forse eravamo proprio l'opposto; forse eravamo
solo dei precursori.
Il seminterrato fu ristrutturato, non come una stanza dei giochi come
era stata pensata una volta, ma come un altro alloggio; ho una camera
da letto, per quando Davy e Lyn vogliono stare soli, e una piccola
biblioteca/rifugio, dove posso studiare. Fino a ora, nessuno si Š
scandalizzato per la situazione: dopotutto, molta gente abita insieme
per risparmiare sull'affitto o ammortizzare le spese. Mi sono iscritta
all'universit di Washington, puntando prima al Master, poi al Ph. D.
in psicologia, perch‚ adesso, finalmente, credo di sapere qual Š
l'obiettivo che ho cercato per cosć tanti anni. Se le statistiche sono
esatte, il numero delle persone come me dovrebbe raddoppiare ogni
dieci mesi, migliaia di persone attraverseranno la stessa crisi
d'identit, gli stessi dubbi e paure e solitudine... e chi pu•
aiutarle meglio di una psicologa che comprende veramente i loro
problemi.
Lyn ha smesso di fumare di nuovo, ma questa volta, fortunatamente, la
gravidanza non Š, come l'aveva chiamata?, una "riproduzione
sintomatica da stress". E io non posso fare a meno di pensare che,
dopo cosć tante false partenze, forse per qualche ragione sono stata
io la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che ha dato loro quella
piccola spinta in pi di cui avevano bisogno. Dopotutto, chi dice che
la vita non pu• essere trasmessa altrettanto facilmente tramite la
saliva o il sudore piuttosto che con lo sperma o le ovaie. Abbiamo
solo un problema adesso: il preoccupante sospetto che quando verr il
momento di comprare i vestiti al bambino, i colori rosa o blu potranno
non essere appropriati. Verde? Giallo? Viola? Ascoltate le mie parole:
si profila l'opportunit di grandi affari per un fabbricante
intraprendente, uno pronto a sfruttare un mercato in espansione.
Aspettate e vedrete; aspettate e vedrete.

Titolo originale: "The Third Sex".
Copyright 1989 Alan Brennert.
Traduzione di Pierluigi D'Oro.

















INVERNO SULLA BELLE FOURCHE.
Neal Barrett Jr.

Era disceso dalle Big Horn Mountains nel freddo e aveva attraversato
il Powder River spostandosi a est verso la Belle Fourche, e in tutto
quel tempo non aveva trovato alcuna traccia n‚ ne aveva lasciate.
C'erano impronte di lupi nei pressi del fiume. Vide dove avevano
attraversato e comprese che erano disperati e affamati e che ben
presto si sarebbero azzannati l'un l'altro. Un'ora prima del
sopraggiungere del buio trattenne bruscamente il cavallo e lasci• che
i suoi sensi ascoltassero la terra, consapevole che qualcosa era
accaduto in quel luogo. Finalmente smont• e, preso il fucile Hawken
con s‚, rimase immobile nel nudo boschetto di alberi, fermo,
ascoltando l'aria quieta e mortalmente fredda, gli scricchiolii del
fiume ghiacciato, il morso del vento sul terreno. Guard• a sud e vide
le Black Hills completamente velate, le seguć con lo sguardo fin dove
scomparivano nello stesso colore fuligginoso del cielo. Rimase fermo
per un bel po', annusando l'aria e percependo il rumore dell'acqua che
lentamente si muoveva sotto il ghiaccio. Lasci• che queste sensazioni
lo avvolgessero, ribollendogli nella testa. Quando si riordinarono si
avvi• verso il punto che aveva attratto la sua attenzione e cominci• a
scavare nella neve.
Appena sotto il primo strato trov• le ceneri di un fuoco. Si erano
accampati proprio lć la notte precedente, avevano acceso un piccolo
fuoco per cuocervi una zuppa, e un altro ancora al mattino. Pass• le
ceneri fra le dita e le annus•. Parlavano chiaramente di indiani. Non
avevano rotto i rami morti degli alberi ma erano scesi a raccogliere
la legna lungo il greto del fiume.
Ammonticchiando da parte altra neve si chin• ad annusare il terreno.
Sei, decise. Scavando un po' di pi avrebbe scoperto che erano tutti a
cavallo, ma non aveva bisogno di faticare molto per capirlo. In un
luogo come quello non viaggiavano certo a piedi. E poi, nei pressi del
Powder e della Belle Fourche, non poteva di certo trattarsi di qualche
sporco pellerossa amico. Sapeva, tuttavia, che il gruppo non era
composto n‚ da Sioux n‚ da Cheyenne, ma da Absaroka. Il suo fiuto non
si poteva sbagliare. Guerrieri Crow, sicuramente, e molto
probabilmente provenienti dal Campo Robert.
Si alz• e guard• verso est, toccando sovrappensiero il bowie appeso
alla cintura e l'anello per gli scalpi attaccato lć vicino. Ecco dove
erano andati: a est, e poi un poco a nord, proprio dove lui era
diretto. Non lo seguivano n‚ sapevano che lui era lć. Era qualcosa su
cui meditare.

Durante la notte nevic• abbondantemente, ma verso l'alba rallent•. Si
alz• che era ancora buio e si avvi• lungo il fiume. Presto avrebbe
dovuto decidere che cosa fare. Era a duecento chilometri da Fort
Pierre, sul Missouri, molti di pi se seguiva ogni insenatura del
fiume. Del Gue l'avrebbe aspettato al forte; non gli mancava altro che
inseguire i Crow, c'era gi abbastanza gente che inseguiva lui.
Tuttavia non gli avrebbe preso molto tempo cercare di scoprire quale
genere di mascalzonata avevano intenzione di compiere in quei luoghi.
Gli Absaroka erano leggermente pi a est del loro territorio abituale.
Non pensava che avessero intenzione di continuare a cavalcare per poi
magari inciampare nei Sioux, i quali, pur di fare la pelle a un
Absaroka, avrebbero rinunciato alla colazione tutti i giorni.
A mezzogiorno trov• la risposta. C'era luce a sufficienza per poter
individuare le tracce sulla neve e vide dove i Crow si erano diretti,
scavando gli indizi nella neve e seguendoli attraverso il fiume
gelato, una traccia che riportava a nord-ovest, nel loro territorio.
Procedeva lentamente, con gli occhi ben aperti per cogliere qualsiasi
cosa potesse rivelargli i Crow. Potevano esserci dei Sioux, ma anche
dei Cheyenne, nei dintorni. Un inverno duro e le pance vuote rendevano
chiunque coraggioso, spingendolo ad andare dove non avrebbe dovuto
trovarsi.

Fiut• la morte prima ancora di vederla. Il suo odore era chiaramente
percepibile nonostante il freddo che cercava di nasconderlo. Smont•
velocemente da cavallo, e lo guid• al coperto in un canale naturale. I
morti erano fra gli alberi, proprio di fronte a lui e sebbene sapesse
che ormai non c'era pi alcun uomo vivo, fece un giro piuttosto largo
per assicurarsene, mentre si avviava verso la radura con il fucile a
tracolla.
Gli uomini erano tre, in buona parte sepolti dalla neve. Li ripulć
quel tanto che bastava per vedere che erano soldati, un sottotenente
bianco e due soldati di colore. Gli avevano sparato, tolto lo scalpo,
poi li avevano tagliati a pezzi, nella fantasiosa maniera dei Sioux.
Ai soldati erano stati tolti i vestiti e gli stivali. Avevano preso
tutto, tranne i mutandoni e le calze.
Uno sguardo veloce ai dintorni era sufficiente a dimostrare che i
Sioux non li avevano colti di sorpresa. Si erano appostati e avevano
anche sparato qualche colpo. La cosa stava diventando interessante.
Pi a nord trov• una porzione di terreno sopraelevata, dove lo strato
di neve era pi sottile e vide il luogo dove i Sioux si erano
impadroniti dei cavalli dell'esercito e li avevano condotti verso
nordovest, insieme ai loro. Dieci o dodici uomini a cavallo. Erano
tornati al fiume con i loro trofei; i Crow li avevano visti e avevano
ripiegato verso casa. Questo il giorno prima, pi o meno a quell'ora.
Il massacro era avvenuto poco prima.
Si mise a rimuginare sulla cosa. Che facevano in quel luogo i tre
soldati? Perch‚ soltanto tre? C'erano probabilmente centocinquanta
chilometri da lć a Fort Laramie, una bella distanza da percorrere
sotto un'abbondante nevicata e con quel freddo, che toccava i
trentacinque sottozero. Non che gli esploratori siano molto acuti, ma
chiunque capirebbe almeno questo.
Risalć a cavallo e attravers• il fiume, fece un giro e lo attravers•
nuovamente. Due chilometri pi in gi trov• la traccia. Qualcosa
attir• la sua attenzione, smont• e si accovacci•. C'era qualcosa su
cui meditare. Uno dei cavalli aveva portato un peso doppio prima che
quei ragazzi venissero ammazzati dai Sioux. Ma i corpi nella neve
erano soltanto tre. Ci• significava che quegli sporchi rossi ne
avevano catturato uno vivo, e l'avevano portato a casa per il loro
divertimento. Non c'era nulla da fare per quel poveretto, eccetto
augurargli di morire, il che non era probabile, almeno per un po'. Del
Gue era stato preso dai Sioux l'anno precedente e si era appena
salvato lo scalpo. Un soldato sarebbe stato trattato pi crudelmente:
l'avrebbero scorticato, o forse peggio. Ormai conosceva l'intera
storia. Non era necessario seguire le tracce fino alla radura. Aveva
conservato il suo scalpo per dodici anni in quei luoghi selvaggi in
virt della sua scaltrezza, mettendo due punti in un mocassino quando
uno sarebbe bastato, ricostruendo storie come queste per sapere come
andavano a finire.
Giunse alla baracca quasi senza rendersene conto, leg• il cavallo e si
sedette un attimo, aspettando che i segni parlassero da s‚. La baracca
era costruita in basso, lungo il fianco di una gola, parzialmente
nascosta da un mucchio di neve, e lui era stato maledettamente vicino
a salire col cavallo sul tetto. Imprec• fra s‚. Era proprio quel
genere di complicazione che non gli andava a genio, quando saltava
fuori qualcosa di questo genere una volta che aveva ricostruito
l'intera storia. Immaginava chiaramente che cosa era successo, come se
fosse stato lć. I soldati erano passati nei pressi di quel luogo fra
gli alberi, avevano avvertito la presenza di guai davanti a loro e
quello che divideva la cavalcatura con un altro era tornato indietro,
si era fermato alla baracca, dopodich‚ si era riunito ai suoi
compagni. Ci• voleva dire che si era lasciato qualcuno dietro di s‚.
Non c'erano altre tracce nella neve, cosć quel chiunque fosse doveva
essere ancora lć, a meno che non gli fossero spuntate le ali e non
avesse spiccato il volo verso Indipendence.
La neve contro la porta era alta quasi un metro e lui la tolse
accuratamente. Piantando il calcio del fucile nella neve tir• fuori la
Colt Walker, estrasse il bowie dalla cintura e fece un passo indietro.
- Voi, lć dentro - grid•. - Sono un bianco e non voglio farvi del
male, perci• non sparate, chiunque siate!
Dall'interno non proveniva alcun rumore, c'era solo silenzio.
Avvicimandosi di lato, pieg• la testa in ascolto. Bene, lć dentro
c'era qualcuno. Non lo poteva sentire, ma lo sapeva.
- Ehi! voi - disse, - non sono un indiano, dovreste avere abbastanza
buon senso da capirlo! - Aspett•, bestemmi• di nuovo, alz• un piede e
diede un robusto calcio alla porta. Era vecchia e marcia e cedette
come un osso. Prima che toccasse terra lui era gi all'interno della
baracca, muovendosi velocemente e tenendosi basso, guardando di lato
come un orso, entrando con la Colt e con il coltello in mano, a
esplorare ogni angolo della stanza. Combustibile e foglie morte.
L'odore ammuffito dei topi. Un focolare quasi incavato. Mezza sedia e
una caraffa da whisky rotta. Una coperta dell'esercito in un angolo e
qualcosa lć sotto. Si avvicin• e rovesci• la coperta con un piede.
- Per Giosafatte! - imprec• sottovoce, e velocemente si chin• sulla
figura fragile e rigida, toccandole la gola fredda, cercando segni di
vita, sicuro di non trovarne.

Si svegli• con il ricordo del freddo, con il fantasma di questa
sensazione di morte vicina, uno spettro che la consumava, lasciandola
svuotata e intirizzita con la certezza che non ci fosse calore
sufficiente a scacciare il terribile vuoto. Si svegli• e vide il fuoco
e cerc• di catturare il suo calore con gli occhi. Sui muri e il
soffitto danzavano ombre, che formavano figure strane e paurose. Cerc•
di distogliere lo sguardo ma non riuscć a trovare n‚ la forza, n‚ la
volont per farlo. Le ombre producevano suoni mortali e terrificanti,
che neanche lontanamente lei poteva immaginare. E allora,
improvvisamente, in un lampo che le strinse il cuore ricord• che quei
suoni erano reali, che li aveva sentiti fin troppo chiaramente
attraverso i muri, fino agli alberi in mezzo alla neve.
- Signore Ges stanno morendo - grid•. - Vengono assassinati tutti!
Una forma buia si alz• dal pavimento e oscur• il fuoco. Sembrava
volteggiare ed espandersi fino a riempire la stanza, prendere la forma
di un demonio spalluto avvolto nella pelliccia; spuntarono braccia e
una barba scura da orso, un occhio malvagio.
Grid•, cercando di farsi da parte.
- Non si preoccupi - disse il demone, - non intendo farle alcun male.
Sgran• gli occhi allarmata. Quelle parole non la rassicuravano
affatto. - Chi... chi Š lei? - riuscć a dire. - Cosa vuole da me?
- Mi chiamo John Johnston - disse la figura. - La gente ha ormai quasi
eliminato la "t", ma non dipende da me. Rimanga sdraiata. Dovrebbe
cercare di mangiare un po' di minestra, se ci riesce.
Senza aspettare una risposta, attravers• la stanza. Il cuore le batt‚
rapidamente nel petto. Lo guard• attentamente, seguendo ogni suo
movimento. Presto l'avrebbe attaccata. La faccenda della minestra era
soltanto un espediente. Bene, non si sarebbe fatta prendere
completamente alla sprovvista. Cerc• qualche strumento di difesa, ma
lo sforzo assorbć tutte le sue energie. Era coperta da una pesante
pelle di animale. La costringeva a terra come se fosse piombo. Vide
una sedia rotta, appena fuori dalla sua portata. Con l'aiuto di Cristo
sarebbe potuta servire al suo scopo. Davide aveva poco di pi e
tuttavia aveva messo in ginocchio uno spaventoso gigante.
Allung• il braccio, cercando di raggiungere la sedia. La pelliccia che
la copriva le scivol• dalle spalle fino alla vita. Sentć il freddo
improvviso, si ferm• e si guard•. Per un istante fu troppo paralizzata
per muoversi, gelata dal terrore e dall'incredulit. Era svestita,
nuda fra le coperte. La testa cominci• a ondeggiarle. Lott• contro la
vertigine e la vergogna. Oh Signore, non permettere che io svenga,
preg•. Lasciami morire, ma non lasciarmi svenire in presenza della
bestia!
Usando tutte le briciole di forza di volont che pot‚ raccogliere, si
sdrai• di nuovo, coprendosi. Con una mano si esplor• alla ricerca di
segni di violenza, attenta a non toccare nessuna delle zone fonti del
peccato carnale. Sicuramente l'aveva fatto mentre lei dormiva.
Qualsiasi cosa gli uomini facessero alle donne. Come fai a saperlo,
come puoi dirlo? La sporcizia veniva con il matrimonio e lei non aveva
alcuna esperienza.
L'uomo ritorn•. Raccolse tutto il suo coraggio.
- Mi stia lontano - lo ammonć. - Non faccia un altro passo.
Lui sembr• sconcertato. - Non vuole la minestra?
- Lei... lei non ne ha il diritto - disse. - Lei ha invaso la mia
intimit. Mi ha guardata. Lei ha peccato agli occhi di Dio e ha
infranto numerosi Comandamenti. Esigo che mi renda i vestiti.
L'uomo si accovacci• e pos• la ciotola sul pavimento. - Signora, non
le ho fatto proprio niente. Stava per morire congelata dentro quei
vestiti.
- Oh, naturalmente. Questa Š proprio la scusa buona per la sua
lussuria. Non mi aspettavo altro da uno come lei.
- Sć, signora.
- Non trovo nulla in me per cui perdonarla. E' colpa mia. Pregher• Dio
che mi dia la forza di guardarla come se fosse una sua creatura.
- Se le venisse voglia di un po' di quella minestra - disse Johnston,
- Š sul fuoco. - Detto questo si alz• e attravers• la stanza per
avvolgersi in una pelle di bisonte.

Si svegli• improvvisamente e con un unico movimento afferr• il
cappotto pesante e il fucile Hawken. La donna non si era mossa. Aveva
rimesso a posto la porta rotta meglio che poteva. Ora la aprć con
cautela e scivol• fuori nella notte. Il mondo sembrava congelato nel
sonno, silenzioso e duro come il ferro, ma fragile abbastanza per
polverizzarsi al minimo tocco. Non riusciva a identificare il suono
che l'aveva svegliato. I cavalli erano a posto, riparati dal vento dal
muro esterno della baracca. Fece un giro d'osservazione, si ferm• ad
annusare l'aria. Non c'era nulla, ma qualcosa aveva lasciato dietro di
s‚ una traccia.
Tornato all'interno, si scald• le mani al fuoco. La donna era ancora
addormentata. Non sarebbe stato corretto dire che non avesse
risvegliato in lui qualcosa, che il tocco della sua carne, mentre la
strofinava per riportarla in vita, non avesse acceso qualche fuoco in
lui. Qualcosa di simile all'effetto di una ragazza indiana. Nella sua
vita aveva visto probabilmente non pi di due bianche nude. Sembravano
senza definizione. Come un vasto campo di neve senza n‚ tracce n‚
masse che gli conferissero tono. Una ragazza indiana andava da
un'ombra all'altra, a seconda di come la guardavi. John Hatcher aveva
sempre avuto due grasse squaw cheyenne. Le teneva nella sua baracca
nella Little Snake Valley e le aveva offerte entrambe a Johnston. Lui
aveva educatamente declinato l'offerta, preferendo trovarsene una per
s‚. Le donne di Hatcher ridevano come due sciocche tutto il tempo. Le
donne indiane tendevano a comportarsi come le bianche dopo un po' e
cominciavano a ridacchiare e a rispondere a tono. Sua moglie non aveva
mai fatto cose del genere. Era rimasta un'indiana pura fino alla fine,
ma quelle come lei erano veramente poche.
Quando si risvegli• aveva la nausea, si sentiva prosciugata e rigida
come un bastone. L'uomo era dall'altra parte della stanza,
accovacciato silenziosamente contro il muro.
- Vorrei quella minestra adesso, se non le dispiace - disse, nel modo
pi fermo possibile. Non gli avrebbe dimostrato alcuna debolezza. Un
uomo se ne poteva approfittare.
Lui si alz• e si avvi• verso il focolare, riempć una ciotola di
alluminio e le si sedette di fianco.
- Stia attenta - disse, - Š bollente. - Torn• verso il fuoco e poi di
nuovo verso di lei, lasciando cadere un fagotto sul pavimento. - I
suoi vestiti sono asciutti - disse.
Lei non gli rispose n‚ ricambi• il suo sguardo. Sapeva che ogni
allusione ai suoi abiti avrebbe incoraggiato pensieri lussuriosi nella
testa di lui. La minestra sapeva vagamente di grano e di carne
leggermente frollata. Riempiva lo stomaco e placava il rancore.
- Grazie - disse. - Era molto buona.
- Ce n'Š ancora, se ne vuole.
- Vorrei che usciste per un po'. Penso che una mezz'oretta potrebbe
andar bene.
Johnston non si scompose. - Per far cosa?
- Non sono affari suoi.
- Se vuole vestirsi perch‚ non usa quella coperta? Non c'Š alcuna
ragione perch‚ non possa farlo lć sotto.
- Diamine! Non lo far• di certo! - L'imbarazzo le imporpor• le gote.
- Come vuole - disse lui.
- Non mi muover• finch‚ non far come ho detto.
- Si vesta.
Oh Dio, preg•, liberami da questo bruto. Cancella il peccato dalla sua
mente. Allungandosi da sotto la coperta trov• i suoi vestiti e poi si
rintan• il pi possibile, certa per tutto il tempo che lui potesse
vedere, o perlomeno immaginare, tutti i suoi movimenti nascosti.
- Bisogna applicare alcune regole - disse lei. - Suppongo che per il
momento noi si sia confinati qua, nonostante io creda che Dio ci
liberer dalle avversit entro breve tempo.
Si sedette molto vicina al fuoco. Il calore non le sembrava mai
abbastanza. Il freddo entrava e la colpiva. L'uomo continuava a
restare accovacciato contro il muro. Sembrava impossibile che
riuscisse a rimanere seduto a quel modo per cosć tante ore. Solo gli
occhi blu, screziati di grigio, assicuravano che non si era ancora
tramutato in pietra. Era pi giovane di quanto lei si immaginasse,
forse soltanto di alcuni anni pi vecchio di lei. I suoi capelli d'un
rosso scioccante e la spessa barba incolta gli nascondevano la faccia;
i tratti forti e provati dalle intemperie non aiutavano a determinare
la sua et.
- Lei rispetter la mia intimit - disse lei, - e io rispetter• la
sua. In certi posti specifici di questa stanza, lei non potr
avventurarsi. Vorrei dirle in tutta sincerit che ritengo mi abbia
salvato la vita. Di questo le sono riconoscente.
- Sć, signora - disse Johnston.
- Mi chiamo signora Dickinson. Signora Emily Dickinson per la
precisione, nonostante debba avvenirla, signor Johnston, che finch‚ le
circostanze ci obbligheranno a restare assieme, non si dovr mai
prendere la libert di usare il mio nome di battesimo.
- Gi sapevo chi era - disse Johnston.
Emily era allibita, irrigidita da un timore improvviso. - Come, non Š
possibile. Come poteva saperlo?
- Ho visto il suo nome mentre ispezionavo ci• che le appartiene -disse
Johnston.
- Come ha osato!
- Non volevo spiare. Credevo che sarebbe morta entro il mattino.
Pensavo che era giusto sapere il suo nome prima di seppellirla.
- Oh. - Emily fu presa alla sprovvista. Si port• la mano sul cuore. -
Ca... pisco. Sć, se Š cosć...
Johnston sembr• storcere gli occhi nello sforzo di pensare. Per la
prima volta gli vide un'espressione sulla faccia.
- Signora, c'Š qualcosa che vorrei dirle - inizi• Johnston. - I
soldati che erano con lei. Suppongo che sappia che sono morti tutt'e
tre.
- Lo... immaginavo. - Emily trem• al pensiero. - Ho pregato per le
loro anime. Nostro Signore li tratter gentilmente.
- Meglio di quanto li abbiano trattati i Sioux, suppongo.
- Non prendete il Signore alla leggera, Johnston. Lui non la prende
alla leggera.
Johnston la studi• nuovamente da vicino. - Se non le spiace, potrebbe
dirmi cosa faceva qui con quei ragazzi?
Emily rimase in silenzio per un po'. Aveva represso quest'orrore. Ora
era desiderosa di liberarsene. Anche il raccontarlo a Johnston poteva
aiutarla a scacciarlo.
- Il capitano William A. Ramsey del Vermont fu cosć gentile da
invitarmi ad accompagnare lui e i suoi uomini per una cavalcata -
disse Emily. - C'erano dodici uomini in tutto quando partimmo. La
giornata era buona, non eccessivamente fredda. Lasciammo Fort Laramie
con l'intenzione di cavalcare per alcuni chilometri lungo il North
Platte River. Improvvisamente si Š sollevata una tormenta. Credo che
ci siano state delle incertezze circa la direzione da prendere.
Passata la tempesta, fummo attaccati, senza preavviso. Molti rimasero
uccisi. Fu... terrificante.
- Probabilmente erano Cheyenne - disse Johnston, come se il seguito
fosse abbastanza chiaro. - Volevano tenersi lontano dal forte,
mettendosi fra voi e i soccorsi.
- Sć, Š accaduto cosć.
- Per Pocahonta e John Smith! - Johnston scosse la testa. - Lei Š
fortunata a essere ancora viva, che se ne renda conto o no.
- Gli uomini erano coraggiosi - disse Emily. - Lasciammo indietro gli
indiani al terzo giorno, credo, ma a quel punto c'erano solo tre
uomini oltre a me. Se gli altri siano stati uccisi crudelmente, o si
siano persi nel freddo, questo non lo so. Non potevamo tornare
indietro. Credo che abbiamo cavalcato per sei giorni. Non c'era
praticamente niente da mangiare. Uno degli esploratori di colore aveva
catturato una lepre, nient'altro.
- Vi siete liberati dei Cheyenne e siete finiti fra le braccia dei
Sioux - termin• Johnston.
- Sć, Š cosć.
Johnston si pass• una mano sul viso appena rasato. - Non si offenda se
le dico che questa parte del paese non Š posto per una donna come lei.
Emily incroci• il suo sguardo. - Non credo che siano affari suoi.
Johnston non rispose. Lei trov• fastidioso quel silenzio fra loro.
Forse non cercava veramente di essere curioso.
- Signor Johnston - disse alla fine, - ho passato la mia vita ad
Amherst, nel Massachusetts. Ho venticinque anni e per il momento ho
trascorso la mia vita in un unico posto. Non sono mai andata oltre
Washington e Philadelphia. Non avevo idea di come fosse il resto del
mondo. E' per questo che ho deciso di partire e di vederlo con i miei
occhi.
- Bene, suppongo che sia ci• che ha fatto.
- Sć, confesso che ha ragione. E' stata una pazzia. Non avevo idea che
sarebbe stato cosć. Nella mia innocenza, la pista dell'Oregon mi
sembrava un'occasione per vedere la vita selvaggia e altri panorami
naturali. Appena partita da Independence mi accorsi di aver sbagliato.
Ora pago per i miei peccati.
- Immagino che la sua famiglia non abbia idea di dove sia adesso
-disse Johnston, pensando che le cose stessero sicuramente cosć.
- No, non lo sanno. Sicuramente pensano che sia morta. Prego solo che
credano che sia morta da qualche pane negli stati del New England.
- Per il momento per• Š viva - disse Johnston.
- Temo che sia solo una questione di tempo - sospir• Emily.

Questa volta stava aspettando all'aperto, all'erta, nascosto
silenziosamente in un buio groviglio di alberi. Era passata la
mezzanotte, erano forse l'una o le due. Non c'era assolutamente vento
e le nuvole attraversavano velocemente il paesaggio. Ripens• alla
donna. Che venisse dannato se non era esattamente come se l'era
immaginata, bianca in ogni possibile modo, ostinata e piena di s‚. Lo
infastidiva pensare che gli fosse appiccicata addosso e che non ci
fosse alcun modo per liberarsene. Non c'era alcun posto dove portarla
eccetto tornare a Fort Laramie, o andare avanti, verso Fort Pierre, e
tutto comunque con un cavallo solo. Pens• a White Eye Anderson e a Del
Gue e a Chris Lapp, e anche al vecchio John Hatcher, quando
l'avrebbero visto avanzare faticosamente con quella donna alla
cavezza. L'avrebbero preso in giro per il resto della sua vita.
L'ombra si mosse e Johnston la vide immediatamente. Aspett•. Dopo un
attimo apparve una seconda ombra, proprio dietro la prima. Sapeva di
aver visto giusto la notte prima. Quanti saranno si domand•. Tutt'e
sei, o solo due? Probabilmente era accaduto che i Crow fossero tornati
di corsa verso il Powder per poi riprendere coraggio quando i Sioux
erano ormai lontani. Uno pi acuto degli altri aveva trovato le sue
tracce. Il che voleva dire che nei pressi c'era uno sporco rosso con
il naso fino almeno quanto il suo. Bene, era proprio lui quello che
voleva incontrare. Johnston annus• l'aria intorno a s‚ ancora una
volta e aggir• gli alberi.
C'era soltanto un'ombra. L'altra era scomparsa mentre lui aggirava la
macchia. Questo non gli piaceva, ma non ci poteva fare nulla. Sedette
in attesa. Era parte del buio stesso e delle striature sollevate sulla
neve dal vento. Si confondeva con la chiazza di luce grigia che
illuminava il terreno. Sapeva cosa stava facendo il Crow. Stava
aspettando che gliene venisse il coraggio. Aspettava di essere pronto
per combattere.
Quando accadde, l'indiano si mosse cosć rapidamente che persino
Johnston ne fu sorpreso. Il Crow si alz• in piedi, si avvicin• alla
porta della baracca, un'ombra sul terreno bianco e ghiacciato.
Johnston salt• fuori dal nulla, giungendo con un unico movimento dove
voleva trovarsi. Sollev• l'indiano da terra mentre il bowie tagliava,
freddo come ghiaccio. Presto fatto: in un istante seppe, prima che il
Crow si accasciasse e cadesse, dove era andato l'altro. Lo vide con la
coda dell'occhio mentre saltava gi dal tetto verso di lui e capć che
l'uomo si era sepolto ben bene nella neve, rintanato come una talpa in
attesa del momento buono. Johnston ricevette il colpo sulla spalla,
intrappol• fra le sue le gambe dell'indiano e lo butt• a terra. Il
Crow si rialz• sollevando velocemente l'ascia e il grosso piede di
Johnston lo colpć sul petto. Barcoll• all'indietro, guardando con
terrore verso Johnston come sapesse che un colpo ben tirato avrebbe
istantaneamente fermato il suo cuore, come se vedesse in quel momento
le vedove del campo Absaroka i cui uomini avevano avuto la stessa
terribile visione. Girandosi sui talloni corse velocemente,
attraversando i cumuli di neve per raggiungere la salvezza degli
alberi. Johnston sfoder• la Colt Walker, prese la mira e fece fuoco.
Il Crow lanci• un grido ma non si ferm•.
Johnston imprec• ad alta voce; quello sporco rosso era ferito ma
ancora vivo. L'aveva mancato di poco e di sicuro nel momento pi
sbagliato. Aveva contato sui cavalli. Ora il Crow se li sarebbe
portati via. Forse avrebbe dovuto prendere per primi i cavalli. Il
Crow se ne sarebbe andato da qualche pane a leccarsi le ferite, per
poi tornare; era una vera e propria complicazione.
Trascin• il cadavere fin dietro la baracca. Gli si sedette a fianco e
gli tagli• via gli indumenti pesanti. Un'immagine gli comparve dinanzi
agli occhi. Vide la sua donna con il figlio ancora in grembo. Lo vide
nascere e giocare fra i pioppi lungo il Little Snake River, venire
verso di lui quando lo chiamava. L'immagine si dissolse. Velocemente
fece un taglio netto sotto le costole dell'indiano e infil• le mani
nella carne calda.

Le ore sembravano confondersi: nella mancanza di finestre, nel freddo
all'esterno e nell'impossibilit di percepire qualsiasi differenza fra
il giorno, tetro, e la notte. Spesso era troppo debole per restare
sveglia. Quando dormiva, il riposo sembrava portarle poco giovamento.
Si sentć sollevata quando, svegliatasi, si accorse che lui non c'era.
Sollevata e un po' preoccupata. La sua mole e la sua presenza la
sopraffacevano. Tuttavia, proprio queste qualit, la natura dell'uomo,
era ci• che si ergeva fra lei e qualche minaccia ancora pi grande.
Non poteva evitare di essere quello che era, si disse fra s‚. Se Dio
l'aveva fatto in quel modo c'era sicuramente qualche ragione, un
qualche scopo, sebbene ella riuscisse a immaginare con difficolt
quale fine potesse essere.
La minestra aveva un buon sapore. Quella mattina lui aveva preparato
una sorta di pane con un po' di granoturco e ce n'era rimasto ancora
un po'. Il fuoco si stava spegnendo. Lei aggiunse un po' di legna. La
legna prese fuoco, scoppiettando, illuminando per un momento gli
angoli bui della stanza. Lui aveva lasciato le sue cose lungo la
parete. Una pelle di bisonte e una sella. Bisacce di cuoio e un
fagotto. Le sue cose sembravano parte di lui. Pelliccia, cuoio vecchio
ingrassato, impregnato dal freddo e dagli odori pesanti delle localit
selvagge.
Non si era mai avventurata cosć vicino ai suoi oggetti. Sembrava un
piccolo accampamento in miniatura, ogni cosa al suo posto come piaceva
a lui. Lo sguardo le cadde su un pacchetto di pelle, piccolo e spesso.
Guard• da un'altra parte per poi osservarlo nuovamente. Ne spuntava
fuori un angolo di carta, un angolo su cui erano scritte alcune
parole. Che stranezza, pens•! La letteratura proprio non se
l'aspettava. Sapendo che non era giusto quel pensiero, si rimprover•
duramente.
Ma certo, non intendeva curiosare. Non avrebbe mai toccato le cose del
signor Johnston. Ci• che uno vedeva senza frugare non era
un'intrusione. Non dovrei proprio stare qui, decise. Devo andarmene
immediatamente. Potrebbero venirmi le vertigini, potrei addirittura
svenire, e questo non Š proprio il posto giusto. Come si volt• accadde
proprio questo. I suoi piedi urtarono contro il pacchetto di pelle e
ne fecero uscire un foglio.
- Guarda cos'hai fatto - si disse, e cominci• a raccogliere i fogli.
Nonostante le sue buone intenzioni le parole le balzarono agli occhi:

Ovunque Š lo stesso:
le stagioni sono identiche;
dai mattini sbocciano le notti
spaccando i loro bozzoli di luce.

Dal pacchetto cadde un altro frammento di carta come quello.

Il cielo basso, le nuvole scure,
un fiocco ondeggiante di neve attraverso un fienile o una carreggiata
si chiede se potr andare avanti.

- Oh. Oh caro - disse Emily ad alta voce. - L'ultima Š abbastanza
carina, o per lo meno penso che lo sia. - Lesse nuovamente le righe,
aggrottando le sopracciglia, e alla fine decise che erano leggermente
esagerate.
Tuttavia, riflett‚, cosa facevano lć quei versi? Dove, quell'uomo
illetterato dei boschi, aveva incontrato una poesia? Magari le aveva
trovate, incappando in una baracca come quella dove poveri viaggiatori
erano andati incontro al loro destino.
Il suono di uno sparo la paralizz•, spaventata. - Oh Ges benedetto! -
grid•. I fogli le sfuggirono di mano. Corse verso uno degli angoli
della baracca dove si rannicchi• fissando la porta. Quanto prima
sarebbe entrato un indiano, forse pi di uno. Non l'avrebbero
ammazzata, probabilmente l'avrebbero portata al loro campo. Avrebbe
parlato loro di Cristo, avrebbero abbandonato i loro costumi selvaggi,
non l'avrebbero sicuramente toccata, in alcun modo.
Pass• un'eternit prima che la porta si aprisse ed entrasse Johnston.
- Oh, Dio sia ringraziato, sta bene - singhiozz• Emily. - Quello
sparo. Pensavo... pensavo che fosse rimasto ucciso!
- Ho sparato a un cervo - disse Johnston. - Niente di pi. -Scroll• il
cappotto; la barba sembrava inspessita dal ghiaccio.
- Ringraziamo Iddio - disse Emily.
Johnston mise il suo Hawken da pane. Si ferm• e tocc• con la mano un
ciuffo di capelli selvaggi. Abbass• lo sguardo, vide i fogli sul
pavimento e li raccolse. Guard• Emily senza dir nulla.
Il cuore di lei cominci• a battere all'impazzata. - Mi... spiace molto
- disse. - Non avevo alcun diritto.
- Non importa - disse Johnston. Rimase in piedi volgendo la schiena al
fuoco.
- Sć, sć che importa - disse Emily con fermezza. - Sono io che ho
sbagliato. Sono chiaramente dalla parte del tono. Non nego il mio
peccato.
- Non ho mai sentito parlare cosć tanto di peccati - disse Johnston.
Emily sentć che arrossiva. - Be', sicuramente il peccato c'Š, signor
Johnston. Satana ci osserva tutti.
- Suppongo di sć - disse Johnston. Si gratt• e sedette, appoggiandosi
contro il muro nel modo consueto.
Emily si domand• se avrebbe osato rompere il silenzio. Non sembrava
assolutamente in collera, ma come si poteva saperlo? E non potevano
semplicemente restare lć seduti guardandosi l'un l'altro.
- Signor Johnston, non voglio giustificare le mie azioni - disse, -ma
forse capir se le dico che ho un interesse personale per la poesia.
In effetti un mio piccolo lavoro Š stato pubblicato. Tre anni fa, per
essere esatti. Il 20 febbraio 1852. Sullo "Springfield Daily
Republican". - Sorrise, toccandosi i capelli. - Ricordo il giorno
chiaramente, Š naturale, ci sono delle date nella vita di ciascuno di
noi che non si dimenticano. Come il compleanno, sicuramente... - Emily
arrossć, sapendo che stava parlando al vento. - Bene, in ogni modo...
Johnston continuava a tacere.
- Dovete essere infreddolito - disse Emily. - C'Š rimasto un po' di
minestra.
- Non ho fame - disse Johnston. Questa volta sarebbe stato differente;
il Crow era ferito e sospettoso, un indiano come quello non era
diverso da tutte le altre creature selvatiche ridotte in quelle
condizioni, come lo sarebbe stato lui. Johnston lo sapeva, adesso era
mortale come un serpente innervosito. Quella notte il Crow si sarebbe
appostato presto, lć fuori, nonostante il freddo, perch‚ il primo che
fosse uscito avrebbe visto e compreso ci• che l'altro intendeva fare.
Era un vantaggio mortale e Johnston aveva deciso di lasciarlo
all'Absaroka.
L'indiano era prudente, ma lui era esperto. Johnston lo udiva a
malapena, avvertiva appena la sua paura. Sembr• metterci un'eternit,
spostandosi solo quando si alzava il vento e fermandosi quando
cessava.
"Dannazione" pens• Johnston, "vieni avanti ragazzo e facciamola
finita, prima che io resti congelato."
Alla fine il Crow attacc•, avanzando velocemente senza alcun suono.
L'ascia cadde improvvisamente, fendendo le pellicce pesanti, si alz• e
affond• nuovamente, e Johnston, anche al buio, poteva vedere emozioni
di tutti i tipi attraversare il volto dell'Absaroka, vide la sorpresa
poi l'allarme e l'intuizione finale: le pellicce ammonticchiate contro
l'albero erano vuote, dentro non c'era nessuno ed era troppo tardi per
rimediare.
Johnston si scroll• la neve di dosso. - Il trucco Š tuo, non mio
-disse ad alta voce. - Non puoi prendertela che con te stesso.

Soprattutto si annoiava. La noia alimentava la paura e la
preoccupazione. Un momento aveva una paura da morire, il momento dopo
nulla da fare. Era giorno o notte? Una volta o l'altra Johnston
gliel'avrebbe detto. Per la maggior pane del tempo stava seduto come
una pietra o passeggiava all'esterno durante la notte. Ancor peggio
dello stare nella baracca, erano quelle volte in cui lei doveva uscire
per soddisfare le necessit corporali. Era orrendo, un'umiliazione che
non poteva sopportare. Doveva chiederglielo. Non la lasciava uscire da
sola. Stava nei pressi della porta con il fucile puntato mentre lei
avanzava a fatica nella neve per allontanarsi il pi possibile. Il
freddo! Quel freddo feroce e inimmaginabile. L'inverno, ora se ne
accorgeva, dava al New England un aspetto etereo. Era nata in questa
terribile terra vuota.

Lo sentć alla porta. Poi entr•, portando dentro il freddo. - Ho
trovato una coppia di cavalli - disse Johnston, buttando il cappotto
sul pavimento.
- Davvero? - disse Emily sorpresa. - Be', non Š strano?
- Non c'Š proprio niente di strano - disse Johnston.
- Sć, bene... - Sembrava molto compiaciuto di s‚. Finalmente comprese
che quei cavalli avevano un significato nella sua vita.
- Cielo - disse. - Vuol dire che possiamo lasciare questo posto, vero?
- Sar la prima cosa che faremo domattina - disse Johnston. Non guard•
neanche dalla sua parte. Si avvolse nel cappotto rivolgendo la faccia
al muro.
Emily sentć il rossore salirle alle guance e questo la irrit• ancora
di pi. Era arrabbiata con Johnston, ma ancora di pi contro se
stessa. Che le importava di ci• che lui faceva? Non avevano
sicuramente nulla di cui parlare. Nessun argomento che la interessasse
in fin dei conti. Comunque, la rozzezza di quell'uomo non aveva
confini. Non aveva alcuna idea di un comportamento sociale.
- Si mette a dormire proprio adesso?
- Ci stavo pensando - disse Johnston.
- Potrebbe almeno darmi qualche informazione. Ci sono cose che Š
necessario sapere.
- A proposito di cosa?
- Del viaggio. - Emily aspett•. Johnston non rispose. - CioŠ, quanto
durer? Non ho alcuna idea della distanza da qui a Fort Laramie. Come
sa, sono partita in circostanze un po' particolari.
- Non andremo a Fort Laramie, ma a Fort Pierre.
Emily scatt•. - Signor Johnston, chiedo di essere riportata a Fort
Laramie. Non ho alcuna intenzione di andare da un'altra parte.
- Sono diretto a Fort Pierre - disse Johnston.
- A fare cosa?
- Devo incontrare una persona.
- Chi?
- Come dice lei, signorina Dickinson, non sono affari che la
riguardano.
Emily cerc• di contenersi. Di mostrare un ritegno cristiano. Un
pensiero improvviso la colpć. Una donna, ecco cos'era, stava andando
da una donna, forse una moglie: quel pensiero superava ogni
immaginazione. Quale donna poteva essere attratta da un simile
selvaggio?
- Lei Š sposato, signor Johnston? - chiese Emily. - Non credo che ne
abbia mai fatto cenno. Ma naturalmente dice giusto, non sono affari
miei.
Johnston rimase zitto; sembrava che si fosse addormentato e che non
avesse sentito ci• che lei aveva detto.
- Mia moglie Š morta - disse Johnston. Il suo tono la gel•. - Lei e il
bambino. Li hanno ammazzati i Crow.
Emily si vergogn•. - Mi... spiace enormemente, signor Johnston, sul
serio.
- Anche a me.
- Adesso sar arrabbiato con me.
- Signora, non sono affatto arrabbiato.
- Sć che lo Š. Non gliene faccio una colpa, signor Johnston. Mi sono
intrufolata nella sua vita. Sono colpevole di alcune violazioni. E
poi, lei Š ancora innervosito per le poesie.
- No che non lo sono.
- Sć che lo Š. Mi Š chiaro. Voglio che sappia che ho sempre rispettato
le sue cose. Sono stata tentata, lo ammetto. Siamo tutti deboli gusci,
e non c'Š nulla da fare in questo posto. Tuttavia, non ho ceduto.
Nostro Signore Ges mi ha dato la forza.
- Dorma - disse Johnston, coprendosi con la pelle di bisonte.

Si svegli• furibondo e incredulo. Afferr• l'Hawken e si butt• a terra.
Vide il chiarore dell'alba filtrare intorno alla porta. Udć il debole
rumore dei cavalli all'esterno, quasi inudibile, come se si fossero
svegliati insieme a lui.
Per la Potenza Divina, l'avevano fatto scemo mentre dormiva come un
bambino, sicuro che fossero gli unici due. Forse non erano Crow,
decise. Forse erano i Sioux che tornavano indietro. E chiunque fossero
quegli sporchi rossi l'avevano sorpreso come un coniglio in trappola.
La donna si svegli•, una domanda sul volto. - Torni nel suo angolo e
stia buona - disse Johnston bruscamente. Si volt• verso la porta
assicurandosi di avere la Colt Walker alla cintura. "Quanti saranno?"
si domand•. Ora i cavalli erano silenziosi.
- Venite a prendervi la vostra medicina - disse dolcemente. - Vi sto
aspettando.
- Voi, dentro la baracca - grid• un uomo. - Sono il sottotenente
Joshua Dean. Siamo qui in forze, devo chiedervi di uscire da solo, e
disarmato.
Johnston cominci• a ridere sonoramente. Decise che si stava
rammollendo. Un uomo che non riconosceva dei cavalli ferrati nel sonno
era un uomo che poteva farsi impacchettare in qualsiasi momento.

- Le sono grata per ci• che ha fatto - disse Emily. - Le devo i miei
ringraziamenti, signor Johnston.
- Non deve ringraziarmi - disse Johnston. I soldati avevano smesso di
gingillarsi ed erano pronti a partire. Si chiese perch‚ a un soldato
ci volesse un'ora per guardarsi intorno. Il sottotenente aveva visto i
pony indiani ma non aveva chiesto dove fossero i padroni. Anche se
aveva riconosciuto Johnston, o conosceva il suo nome non l'aveva dato
a intendere.
- Siamo molto diversi, suppongo - disse Emily.
- Credo di sć.
- Dio fa quello che fa per le sue buone ragioni. Sono sicura che
quest'avventura ha uno scopo nel Suo progetto.
Johnston non riusciva proprio a immaginarsi quale potesse essere.
- Buon viaggio, signorina Dickinson - disse.
- Sono sicura che sar proprio cosć - Emily rispose. - Credo che il
Massachusetts d'ora in poi mi sembrer meraviglioso. Dubito che andr•
ancora in giro.
Si allontan• e il sottotenente l'aiut• a salire a cavallo.
Johnston rimase a guardare finch‚ scomparvero alla vista, poi entr• a
prendere le sue cose.

Cavalcando lungo la pianura imbiancata, sotto un cielo scuro e
coperto, pensava alle Bitter Root Mountains e al Musselshell River.
Pensava al Platte e al Knife e al Bearpaw Range, con l'immagine pi
limpida del vetro di qualsiasi altro fiume, di ogni montagna che aveva
attraversato. Pensava a Swan: a primavera sarebbero stati otto anni
che era morta, gli sembrava ieri e al tempo stesso un'eternit. Morta
da tutto questo tempo e lui vedeva il suo volto tutti i giorni.
Prima di notte trov• una radura nei pressi della Belle Fourche e mise
al riparo i cavalli. Uno dei due pony Crow aveva una macchia bianca
fra gli occhi. Preferiva i cavalli indiani pezzati. Si chiese se Del
Gue lo stesse ancora aspettando a Fort Pierre. Avrebbero dovuto
muoversi in fretta se volevano riuscire a prendere qualche pelle.
Pens• di nuovo che aveva aspettato troppo a mettersi nel commercio
delle pelli, il castoro era quasi scomparso quando lui era arrivato e
si era unito al vecchio Hatcher. Ormai c'erano solo orsi e visoni,
qualunque cosa un uomo cercasse.
Fece un buco nella neve, poi spezz• alcuni ramoscelli e li impil• per
accendere un fuoco; torn• indietro a prendere la bisaccia di pelle e
vi infil• una mano dentro. Si ferm•, sconcertato da qualcosa di
inconsueto. Si accovacci• a terra e cominci• a rovesciarne il
contenuto. C'era soltanto una vecchia coperta dell'esercito. Tutti i
suoi fogli erano spariti.
- Che io sia maledetto - disse ad alta voce. Quella dannata donna si
era sgraffignata tutto. Era decisamente irritato. Non che non sapesse
accendere un fuoco, ma un uomo indugia in qualche comodit. Un piccolo
pezzo di carta aiuta a risparmiare tempo, specie se hai solo legna
bagnata. Tornava utile anche per altre faccende quando non c'erano in
giro foglie.
Tutto si era presa. Non li aveva mai contati, ma c'erano almeno un
migliaio di frammenti e di pezzetti, rime che aveva pensato e scritto,
conservando la carta per accendere il fuoco. Questa era, per Dio, una
vera e propria complicazione. Borbott• fra s‚ e prese l'acciarino. Un
uomo non pu• mai immaginarsi che cosa frulli nella testa di una donna
bianca. Con un'indiana non Š affatto cosć.

Titolo originale: "Winter On the Belle Fourche".
Copyright 1989 The Western Writers of America.
Traduzione di Alice Bellagamba.












ENTRA UN SOLDATO. PIU' TARDI: NE ENTRA UN ALTRO.
Robert Silverberg.

Doveva essere il paradiso. Certo non era la Spagna e dubitava che
potesse trattarsi del Per. Gli sembrava di fluttuare sospeso a mezza
via tra il nulla e il nulla. Molto sopra aveva un cielo dorato e
scintillante e, molto sotto, un mare nebuloso e turbolento di bianche
nuvole ribollenti. Guardando in gi vide le proprie gambe e i piedi
ciondolare come quelli di un burattino sopra un abisso
incommensurabile e questa visione gli fece venir voglia di vomitare,
ma non c'era nulla dentro di lui che potesse vomitare. Era vuoto. Era
fatto d'aria. Perfino il vecchio dolore al ginocchio era scomparso,
come era scomparsa la ferita perennemente pulsante nella parte carnosa
del braccio dove la piccola freccia dell'indiano l'aveva raggiunto
tanto tempo prima, sulla spiaggia di quell'isola perlifera al largo di
Panama.
Era come se fosse nato un'altra volta, sessantenne ma liberato da
tutte quelle ferite che il suo corpo aveva sperimentato insieme alla
miriade di acciacchi accumulati: liberato, si sarebbe detto, del suo
stesso corpo.
- Gonzalo? - chiam•. - Hernando?
Echi indistinti gli risposero. E poi, il silenzio.
- Madre de Dios, sono morto?
No, no. Non era mai stato capace di immaginare la morte. La fine di
tutti gli affanni e di tutte le contese? Un luogo dove nulla si
muoveva? Un grande vuoto, un pozzo senza fondo? Era questo, dunque, il
luogo della morte? Non aveva modo di saperlo. Aveva bisogno di
consultare i santi padri, in proposito.
- Ragazzo, dove sono i miei preti? Ragazzo?
Cerc• il suo paggio. Ma tutto ci• che vide furono accecanti vortici di
luce che si avvolgevano all'infinito da ogni parte. La visione era
bella, ma inquietante. Gli riusciva difficile negare di essere morto,
vedendosi fluttuare cosć in un regno di aria e di luce. Morto e in
paradiso. Quello doveva essere il paradiso, per forza. E cos'altro, se
no?
Dunque era vero che se prendevi regolarmente la Messa e portavi
fedelmente il Cristo dentro di te e Lo servivi ti saresti salvato dai
tuoi peccati e saresti stato perdonato e purificato. Se lo era chiesto
spesso. Ma, ugualmente, non era ancora pronto per essere morto. Era un
pensiero che lo faceva star male, che lo mandava in bestia. C'erano
ancora tante cose da fare! E poi non ricordava nemmeno di essere stato
ammalato. Cerc• sul proprio corpo i segni delle ferite. Non ce
n'erano. Strano. Si guard• ancora una volta intorno. Era solo. Nessuno
in vista, n‚ il suo paggio, n‚ suo fratello, n‚ De Soto, n‚ i preti,
n‚ nessun altro. - Frate Marcos! Frate Vicente! Mi sentite?
Dannazione, dove vi siete cacciati? Madre de Dios! Santa Maria;
benedetta tra le donne! Frate Vicente! Dannazione, rispondete...
La voce suonava completamente sbagliata: troppo spessa, troppo
profonda, la voce di un estraneo. Le parole lottavano con la sua
lingua e gli uscivano zoppicanti e distorte dalle labbra; non il
limpido e frizzante spagnolo dell'Estremadura, ma qualcosa di penoso e
strano. Quel che udiva somigliava piuttosto all'affettato farfugliare
dei madrileni o anche al balbettamento incrostato della parlata di
Barcellona, avrebbe persino potuto trattarsi di portoghese, tanto
volgare e risibile era il modo di pronunciar le parole.
Lentamente, con cura, disse: - Io sono il Governatore e il Comandante
in capo della Nuova Castiglia.
Non c'erano stati progressi un ridicolo rumore.
- Adelantado - Alguacil Mayor - Marques de la Conquista.
Quel suo strano modo di parlare suonava come un insulto ai suoi
titoli. Era come se avesse la lingua legata. Sentć rivoli di sudore
caldo scorrergli sulla pelle per lo sforzo di pronunciare
adeguatamente le parole; ma quando si pass• una mano sulla fronte per
asciugarsi il sudore prima che gli colasse sugli occhi si sentć
asciutto al tatto, anzi, in realt non era neppure sicuro di sentirsi.
Tir• un respiro profondo. - Io sono Francisco Pizarro - ruggć,
lasciando che quel nome gli sfuggisse con la violenza esplosiva con
cui l'acqua esce da una diga che si rompe.
Gli rimbalz• un'eco profonda, rumoreggiante, beffarda. "Frantziitzco.
Piitzarro."
Pure questo! Perfino il suo nome, orrendamente storpiato!
- O gran Dio - esclam•. - Angeli e Santi!
Farfuglii, anche questi. Nulla usciva come avrebbe dovuto. Non aveva
mai posseduto l'arte del leggere e dello scrivere, ma ora pareva che
non sapesse pi nemmeno parlare a dovere. Cominci• a chiedersi se era
nel giusto quando aveva pensato che quello fosse il paradiso, a
chiedersi se si trattasse veramente di fulgore celeste. C'era una
maledizione nella sua lingua; un demonio, forse, la teneva incollata
al palato. Poteva essere, dunque, l'inferno? Un luogo bellissimo, ma
pur sempre l'inferno?
Si strinse nelle spalle. Paradiso o inferno, non faceva differenza.
Cominciava a essere pi calmo, cominciava ad accettare la situazione.
Sapeva, per averlo imparato molto tempo prima, che non c'era nulla da
guadagnare a prendersela per ci• che non si poteva in alcun modo
evitare, e ancor meno a lasciarsi prender dal panico davanti
all'ignoto. Era lć - qualunque cosa significasse quel "lć" - questa
era l'unica certezza, e doveva trovare un luogo, un luogo qualsiasi
purch‚ diverso da quello in cui si trovava a fluttuare tra il nulla e
il nulla. Aveva gi conosciuto degli inferni prima d'allora, piccoli
inferni, inferni terrestri. Quell'isola deserta chiamata Gallo, dove
il sole ti arrostiva dentro la tua pelle, e non c'era altro da
mangiare che granchi che avevano il sapore dello sterco di cane. E
quella tetra palude alla foce del Rio Biru, dove la pioggia cadeva a
fiumi e gli alberi ti si paravano innanzi taglienti come spade. E le
montagne che aveva attraversato col suo esercito, dove la neve era
cosć fredda che sublimava e l'aria a ogni respiro ti penetrava in gola
tagliente come un pugnale. Lui era sopravvissuto a tutto questo e
tutto era ben peggiore che lć. Qui non vi era dolore n‚ pericolo, solo
una luce rasserenante e una strana assenza di ogni pena. Cominci• ad
avanzare. Stava camminando nell'aria. "Guarda guarda" pens•, "sto
camminando per aria." Poi lo disse forte. - Sto camminando per aria -
disse, e rise del modo in cui le parole gli uscivano dalla bocca. -
Santiago! Camminare per aria! E perch‚ no? Io sono Pizarro! - Lo grid•
con quanta forza aveva: - Pizarro! Pizarro! - e attese che l'eco
tornasse a lui.
"Piitzarro. Piitzarro."
Rise, e riprese il cammino.

Tanner sedeva tutto sporto in avanti nell'ampia sfera risplendente al
nono piano del laboratorio di simulazione, con gli occhi fissi sulla
figurina solenne e impettita al centro dell'oloteca. Accanto a lui,
con le mani infilate nei guanti di comando per trasmettere istruzioni
alla rete permutativa, Lew Richardson pareva non respirare neppure,
sembrava, in effetti, far parte del sistema lui stesso.
"Ma questo era il modo di fare di Richardson" pens• Tanner,
coinvolgimento totale nel lavoro che doveva svolgere. Tanner lo
invidiava per questo. Erano tipi molto differenti, loro due.
Richardson viveva per programmare e nient'altro che programmare. Era
la sua grande passione. Tanner non era mai stato capace di comprendere
chi si faceva trascinare da grandi passioni. Richardson sembrava
provenire da un'epoca remota, un'epoca in cui c'erano cose che
contavano veramente, in cui era ancora possibile avere in qualche modo
fede nei risultati dei propri sforzi.
- Cosa ne dici dell'armatura? - chiese Richardson. - A me sembra molto
bella. L'abbiamo ricavata da vecchie stampe d'epoca. Ha un'aria
autentica.
- Proprio una cosina adatta ai climi tropicali - disse Tanner. - Un
delizioso vestito di latta completo di elmo.
Tossicchi• e si riadagi• nervosamente sul sedile. La dimostrazione
stava andando avanti da mezz'ora senza che fosse accaduto niente di
significativo - solo la minuscola immagine dell'uomo barbuto rivestito
dell'armatura spagnola che si muoveva avanti e indietro in quel campo
luminoso - e lui cominciava a diventare impaziente.
Richardson non sembr• notare la deprecazione nella voce di Tanner, n‚
l'impazienza dei suoi movimenti. Continu• ad apportare minime
correzioni. Era un ometto piccolo, lindo e preciso nel vestire e
nell'aspetto, con capelli di un biondo sbiadito, occhi di un azzurro
chiaro e labbra dritte e sottili. Tanner, vicino a lui, si sentiva
grande e dinoccolato. In teoria avrebbe avuto autorit sui progetti di
ricerca di Richardson, ma in pratica aveva sempre lasciato che
Richardson facesse come gli piaceva. Questa volta per• sarebbe stato
necessario mettergli un po' di briglie al collo.
Quella era la dodicesima o tredicesima dimostrazione a cui Richardson
lo sottoponeva da quando aveva cominciato a rincretinirsi con quel
programma di simulazione storica. Tutti gli altri si erano rivelati
dei fiaschi, per una ragione o per l'altra, e Tanner si aspettava che
anche questo andasse a finire nello stesso modo. In effetti Tanner era
sempre meno convinto del programma a cui tanto tempo prima aveva dato
la propria autorizzazione. Diventava sempre pi difficile continuare a
credere che tutto quel lavoro potesse portare a qualche risultato
pratico. Come era potuto succedere che si fosse investita tanta parte
dei fondi che erano stati stanziati per la ricerca e tanta parte del
tempo del gruppo di Richardson in quest'impresa? Che vantaggi potevano
derivarne per chiunque? Quali le possibili applicazioni?
"E' solo un gioco" pens• Tanner. Un'altra di quelle montature
tecnologiche disperatamente insensate, un'altra gratuita piroetta in
un balletto senza senso. Un dispendio straordinario di risorse per una
dimostrazione di ingenuit per ingenui, e nient'altro. "E io ci andr•
di mezzo."
La minuscola figurina dentro l'oloteca cominci• improvvisamente a
perdere colore e definizione, a sfocarsi.
- Ah! - esclam• Tanner. - Ecco che scompare. Come tutti gli altri.
Ma Richardson scosse la testa. - Questa volta Š diverso, Harry.
- Credi?
- Non lo stiamo perdendo. Semplicemente ha preso a muoversi lć intorno
di propria volont, fuori dai parametri che gli avevamo dato. Ci•
significa che abbiamo raggiunto quell'alto livello di autonomia di cui
andavamo in cerca.
- Volont, Lew? Autonomia?
- Lo sai che erano questi gli obiettivi che ci eravamo prefissi.
- Sć, so quello che ci eravamo prefissi - disse Tanner, in tono
infastidito. - Solo che non sono affatto convinto che una perdita di
definizione stia a significare che abbiamo ottenuto la volizione.
- Ecco, guarda - disse Richardson. - Ora inserisco il programma di
marcia stocastica. Si muove liberamente, possiamo seguirlo
liberamente. - Dentro il microfono computerizzato che aveva nel
risvolto della giacca disse: - Aumenta un po' l'alimentazione, di
tanto cosć - e sollev• l'indice per indicare grosso modo il livello.
La figura in armatura decorata e scarpe a punta divenne nuovamente
chiara. Tanner pot‚ vedere ogni dettaglio dell'armatura, l'elmo
piumato, gli spallacci appuntiti, la cubitiera, l'elaborato pomo della
spada. Procedeva da sinistra a destra con l'incedere deciso dell'uomo
che sta scalando la pi alta delle montagne e non ha la minima
intenzione di fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la cima. Il
fatto che stesse camminando a mezz'aria sembrava non scomporlo
minimamente.
- Eccolo! - esclam• soddisfatto Richardson. - L'abbiamo fatto
ritornare, vedi? Il conquistatore del Per davanti ai tuoi occhi. In
carne e ossa, per cosć dire.
Tanner annuć. Sć, Pizarro, davanti ai suoi occhi. E doveva ammettere
che ci• che vedeva era impressionante e anche, sć, commovente.
Qualcosa in quel modo risoluto di muoversi della figurina in armatura
in mezzo alla perlacea luminosit dell'oloteca suscit• in lui una
sorta di simpatia. Quell'omino era totalmente immaginario, ma lui non
pareva esserne consapevole o, se sć, non sembrava minimamente
scomporsene: procedeva avanti, sempre avanti, come se davvero
intendesse raggiungere una meta. Guardandolo, Tanner ne rimase
stranamente affascinato, sorpreso nello scoprire che il suo interesse
per l'intero progetto si ravvivava.
- Puoi renderlo un po' pi grande? - chiese. - Vorrei vederlo in
faccia.
- Posso mostrartelo in grandezza naturale - rispose Richardson.
- O anche pi grande. Qualsiasi dimensione tu voglia. Guarda.
Mosse un dito e l'ologramma di Pizarro raggiunse istantaneamente
un'altezza di circa due metri. Lo spagnolo si ferm•, come se si fosse
reso conto del cambiamento sopravvenuto.
"Non Š possibile" pens• Tanner. "Non ci pu• essere una reale
consapevolezza, lć dentro. O sć?"
Pizarro rimaneva sospeso a mezz'aria, l'espressione minacciosa,
proteggendosi gli occhi per cercar di vedere in quello scintillio
incandescente. C'erano strisce luminose di colore nell'aria intorno a
lui, come un'aurora. Era un uomo alto e magro che aveva passato la
mezza et, con la barba brizzolata e un viso duro e spigoloso. Aveva
labbra sottili, naso appuntito e occhi penetranti, perspicaci, astuti.
Parve a Tanner che quegli occhi si fossero fissati su di lui, e prov•
un brivido.
"Mio Dio" pens•, "Š 'reale'."
Erano partiti da un programma francese, elaborato dal Centre Mundial
de la Computation di Lione, intorno al 2119. A quel tempo la Francia
aveva delle menti brillantissime che lavoravano nel software. Avevano
sviluppato dei programmi fantastici, eppure nessuno ne aveva fatto
niente. Questa era la "loro" versione del "malessere del secolo
ventiduesimo".
L'idea dei francesi era stata quella di servirsi di ologrammi di
personaggi storici per dare sfarzo ai "son et lumiŠre" a beneficio dei
turisti e in onore delle glorie nazionali. Non dei semplici robot
preprogrammati che facessero il verso a Disneyland, da piazzare di
fronte a Notre Dame o all'Arc de Triomphe o alla Tour Eiffel per
fargli recitare discorsi registrati, ma apparenti reincarnazioni di
veri uomini illustri, capaci di camminare, di parlare, di rispondere a
domande e perfino capaci di qualche piccolo motto di spirito. Pensate,
Luigi Quattordicesimo che mostra al pubblico le fontane di Versailles,
o Picasso che guida un giro turistico per i musei, o Sartre che siede
al suo caffŠ della Rive Gauche e scambia osservazioni esistenzialiste
coi passanti! Napoleone! Giovanna d'Arco! Alexandre Dumas! E forse la
simulazione poteva spingersi ancora pi in l: forse potevano essere
progettati in modo tale da estendere e arricchire le conquiste
intellettuali dei loro tempi con nuove conquiste: una nuova ondata di
dipinti e romanzi e opere di filosofia e grandi visioni
architettoniche a opera di grandi maestri del passato.
In s‚, il concetto era molto semplice. Bastava predisporre un
programma capace di assumere dati, di digerirli, di correlarli e di
generare quindi a propria volta nuovi programmi, sulla base di quelli
che erano stati loro forniti. Fin qui non c'erano vere difficolt. Poi
si trattava di fornire al programma l'opera scritta completa, se
esisteva, della persona da simulare; ci• avrebbe fornito non solo la
documentazione di quelle che erano le sue idee e le sue posizioni, ma
anche del suo modo di affrontare i problemi, del suo stile di pensiero
perch‚, dopotutto, "le stil est l'homme mˆme". E se si dava il caso
che non vi fossero scritti di quel personaggio, be', si poteva
ricorrere a tutto quanto era stato scritto su di lui dai suoi
contemporanei. Successivamente si trattava di inserire l'intera
memoria storica sulle azioni del personaggio, comprese le analisi
degli studiosi, tenendo nel debito conto ogni conflitto
d'interpretazione; anzi, approfittando di queste discrepanze per
configurare un ritratto pi ricco e complesso del personaggio, con
quelle ambiguit e contraddizioni che caratterizzano in modo
personalissimo ogni essere umano. Bisognava poi ricostruire un
substrato coi dati di cultura generale di quel determinato periodo
storico in modo da provvedere il soggetto di quel retroterra culturale
da cui potesse ricavare quei riferimenti e quel linguaggio con cui
creare pensieri consoni e adeguati alla sua collocazione nel tempo e
nello spazio. Si mescolava il tutto e... "voil"! Con l'aggiunta di un
pizzico di tecnologia dell'immagine, si otteneva una simulazione
capace di pensare e di conversare e di comportarsi come il personaggio
autentico su cui era stato modellato.
Naturalmente ci• comportava l'impiego di un computer di notevoli
dimensioni e capacit. Ma questo non era un problema in un mondo dove
reti da 150 megaflop erano la dotazione standard di un laboratorio,
insieme a computer dalle dimensioni di una matita e dalla potenza
infinitamente superiore a quella dei loro ben pi imponenti antenati
delle prime generazioni. No, teoricamente, non c'era alcun motivo
perch‚ il progetto francese non dovesse avere successo. Una volta che
i ricercatori del centro di Lione avessero elaborato lo schema base
dell'intelligenza artificiale necessario per scrivere il resto dei
programmi, tutto avrebbe dovuto procedere in modo abbastanza facile.
Due cose andarono storte: in primo luogo un eccesso di ambizione,
dovuto probabilmente alle personalit tipicamente francesi dei
programmatori iniziali, e poi il terrore dei fallimenti tipico delle
grandi nazioni della met del ventiduesimo secolo, una delle quali era
appunto la Francia.
Il primo fu un fatale cambiamento di direzione sopravvenuto nella
prima fase del progetto. Doveva giungere a Parigi, in visita di stato,
il re di Spagna, e i programmatori decisero di sintetizzare per lui,
come progetto iniziale, il Don Chisciotte. Sebbene il programma fosse
stato progettato per sintetizzare solo personaggi realmente esistiti,
questa non parve ai programmatori una ragione sufficiente per non
produrre invece un personaggio di fantasia cosć ben documentato come
appunto Don Chisciotte. C'era il grande romanzo del Cervantes, c'era
un ampio retroterra di dati relativi al periodo in cui il Don
Chisciotte era ambientato, c'era un vasto repertorio critico sul libro
e sulla peculiare e fantasiosa personalit di Don Chisciotte. Che
differenza poteva esserci tra il dar vita a Don Chisciotte mediante
computer, piuttosto che, poniamo, a Luigi Quattordicesimo o a MoliŠre
o al Cardinale Richelieu? Era sć vero che costoro erano esistiti, un
tempo, mentre il cavaliere della Mancia era pura finzione, ma era
anche vero che Cervantes aveva fornito pi dettagli sulla personalit
e sull'animo del Chisciotte di quanti se ne conoscessero a proposito
di Richelieu, di MoliŠre o di Luigi Quattordicesimo.
Non c'erano dubbi, in proposito. Don Chisciotte - come Edipo, come
Ulisse, come Otello, come Davide Copperfield - aveva assunto una
consistenza molto pi profonda e tangibile di quella di molte persone
effettivamente esistite. Personaggi simili avevano di molto trasceso
le loro origini di creazione fantastica. Non, per•, per quel che
riguardava il computer. L'elaboratore fu in grado di produrre una
convincente imitazione di Don Chisciotte, d'accordo, una bizzarra e
allampanata figura olografica che aveva tutti i manierismi tipici del
personaggio, che declamava e vaneggiava nel modo prevedibile, che
faceva riferimenti convincenti a Dulcinea, a Ronzinante e all'elmo di
Mambrino. Il re di Spagna ne rimase divertito e colpito.
Ma per i francesi l'esperimento fu un fallimento. Avevano prodotto un
Don Chisciotte irrimediabilmente legato alla Spagna del tardo
Cinquecento e al libro da cui era stato tratto. Non aveva capacit di
vita e di pensiero autonomi, nessuna capacit di percezione del mondo
in cui lo avevano riportato all'esistenza, o di fare su di esso
commenti, o di interagire con esso. Non c'era nulla di nuovo o di
interessante, in questo. Qualunque attore avrebbe potuto indossare
un'armatura, mettersi una barbetta posticcia e recitare brani del
Cervantes. Ci• che era uscito dal computer dopo tre anni di lavoro era
una prevedibile elaborazione di quanto vi era stato messo dentro,
sterile, trita.
Questo port• il Centre Mundial de la Computation al successivo passo
fatale: l'abbandono dell'intero progetto. "Zac"! e il progetto venne
cancellato senza nessun altro tentativo. Non ci furono Picassi
simulati, n‚ Napoleoni n‚ Giovanne d'Arco. La faccenda del Chisciotte
aveva demoralizzato gli animi e nessuno se la sentć di portare avanti
il programma da quel punto. Si era guadagnato il marchio del
fallimento, e la Francia - come la Germania, come l'Australia, come la
Sfera Commerciale Han, come il Brasile, come ogni centro dinamico del
mondo moderno - aveva in orrore i fallimenti. I fallimenti erano
qualcosa da lasciare alle nazioni arretrate o decadenti, come l'Unione
Socialista Islamica, per esempio, o la Repubblica Sovietica del
Popolo, o quel gigante addormentato che erano gli Stati Uniti
d'America. Cosć il progetto di simulazione di personaggi storici venne
accantonato.
I francesi se ne erano disinteressati a tal punto che, dopo averlo
lasciato in soffitta per qualche anno, vendettero il brevetto a un
gruppo di americani, che ne avevano sentito vagamente parlare e che
ritenevano che potesse diventare un gioco divertente.

- Dovresti avercela fatta questa volta - disse Tanner.
- Sć, credo proprio che ce l'abbiamo fatta, dopo tutte quelle false
partenze.
Tanner annuć. Quante volte era entrato in quella stanza pieno di
speranze solo per vedere una cosa malfatta, o un pasticcio
inconsistente e deprimente? Richardson aveva sempre una spiegazione
pronta. Sherlock Holmes non aveva funzionato perch‚ era un personaggio
inventato, era stata una riprova necessaria del progetto francese del
Chisciotte, che dimostrava che i personaggi inventati non avevano
quella consistenza reale necessaria a utilizzare adeguatamente il
programma, non avevano la giusta dose di ambiguit e di
contraddizioni. Re Art era fallito per la stessa ragione. Giulio
Cesare? Troppo lontano nel passato, forse: dati inaffidabili che
confinavano con la finzione. MosŠ? Stessa cosa. Einstein? Troppo
complesso, forse, per il livello attuale del progetto: occorreva avere
pi esperienza prima. Elisabetta Prima? George Washington? Mozart?
Impariamo ogni volta qualcosa di pi, insisteva a dire Richardson dopo
ogni fallimento. Non Š magia nera, la nostra. Non siamo negromanti,
siamo programmatori, dobbiamo scoprire come dare al programma ci• che
occorre.
E ora Pizarro.
- Perch‚ vuoi lavorare con "lui"? - aveva chiesto Tanner cinque o sei
mesi prima. - Uno spietato imperialista spagnolo, per quel che ricordo
dai tempi della scuola. Il predatore di una grande cultura assetato di
sangue. Un uomo senza fede, senza morale, senza onore...
- Pu• darsi che tu sia ingiusto con lui - disse Richardson. - Ha avuto
una cattiva stampa per secoli. E poi ci sono cose sul suo conto che mi
affascinano.
- Cosa, per esempio?
- La sua spinta. Il suo coraggio. La sua assoluta sicurezza. L'altra
faccia della spietatezza, la parte positiva, Š la sua capacit di
concentrarsi totalmente sul suo compito, una risoluzione assoluta a
non lasciarsi fermare da nessun ostacolo. Per quanto uno possa non
approvare quello che ha compiuto, non si pu• non ammirare un uomo
che...
- D'accordo - disse Tanner, provando un improvviso disgusto per tutta
la faccenda. - Fai Pizarro. Fai quello che vuoi.
Erano passati dei mesi. Richardson gli riferiva di vaghi progressi
nulla comunque che sollevasse grandi speranze. Ma ora Tanner guard•
l'impettita figurina nell'oloteca e cominci• a farsi strada in lui la
convinzione che questa volta Richardson avesse finalmente trovato il
modo di usare correttamente il programma di simulazione.
- Cosć, pensi di essere riuscito a ricrearlo effettivamente? Una
persona che Š vissuta... quanto tempo fa, cinquecento anni?
- E' morto nel 1541 - disse Richardson.
- Quasi seicento, allora.
- E non Š come gli altri, non Š una semplice ricreazione di una grande
figura del passato, capace solo di ripetere una serie di discorsi
preprogrammati. Qui, se non mi sbaglio, abbiamo ottenuto
un'intelligenza generata artificialmente che pu• pensare in modo
autonomo, secondo modalit diverse da chi l'ha programmato. Questa
sarebbe la vera conquista. Questo sarebbe il salto filosofico
fondamentale che volevamo raggiungere quando ci siamo fatti
coinvolgere nel progetto. Usare il computer per ottenere nuovi
programmi capaci di autentico pensiero autonomo... un programma capace
di pensare come Pizarro, e non come Lew Richardson pensa che qualche
storico pensi che Pizarro abbia pensato.
- Sć - disse Tanner.
- Il che significa che non otterremo solo ci• che Š prevedibile o
ovvio. Ci saranno delle sorprese. Non c'Š modo di imparare alcunch‚,
capisci, se non attraverso delle sorprese. L'improvvisa combinazione
di elementi noti in qualcosa di radicalmente nuovo. Questo Š ci• che
credo che siamo riusciti a ottenere in questo caso. Harry pu• essere
la pi grande conquista nel campo dell'intelligenza artificiale che
sia mai stata fatta.
Tanner medit• su quanto aveva sentito. Era proprio cosć? C'erano
riusciti davvero?
E se avessero...
Un pensiero nuovo e inquietante si faceva strada in lui, un pensiero
tardivo, al punto in cui erano arrivati. Tanner guard• la figura che
fluttuava al centro dell'oloteca, quel vecchio dall'espressione dura e
feroce, quegli occhi freddi e crudeli. Si chiese che tipo d'uomo
doveva essere... l'uomo dal quale quell'immagine era stata ricavata.
Un uomo che era pronto a sbarcare nell'America del Sud all'et di
cinquanta o sessant'anni o quanti ne poteva avere, un contadino
spagnolo rozzo e illetterato che, indossando un'armatura inadeguata e
brandendo una spada rugginosa, partiva alla conquista di un grande
impero di milioni di uomini che si estendeva per migliaia di miglia.
Tanner si chiese che tipo d'uomo fosse uno che compiva una simile
impresa. Ora gli occhi di quell'uomo lo stavano fissando e non fu
impresa da poco sostenere un simile sguardo.
Dopo qualche secondo distolse gli occhi. La gamba sinistra cominci• a
tremargli. Diede un'occhiata preoccupata a Richardson.
- Guarda quegli occhi, Lew. Cristo, mettono paura!
- Lo so. Li ho realizzati io, ricavandoli da vecchie stampe di epoca.
- Pensi che ci stia guardando in questo momento? E' in grado di farlo?
- E' solo software e nient'altro, Harry.
- Pareva si fosse accorto che avevi ingrandito l'immagine.
Richardson fece spallucce. - E' solo un ottimo software. Vedi, ha una
propria autonomia e una propria volont. Quello che voglio farti
capire Š che ha una "mente" elettronica. Pu• aver percepito una
passeggera differenza di voltaggio. Ma ci sono dei limiti alle
percezioni, comunque. Credo proprio che non abbia la possibilit di
vedere alcunch‚ fuori dall'oloteca, a meno che non gli si forniscano
dati che sia in grado di elaborare, cosa che non Š stata fatta.
- "Credi"? Vuoi dire che non ne sei sicuro?
- Harry. Ti prego.
- Quell'uomo ha conquistato tutto l'immenso impero Inca con cinquanta
soldati, non Š cosć?
- In realt credo che siano stati centocinquanta.
- Cinquanta, centocinquanta, che differenza fa? Chi pu• sapere cos'hai
ottenuto veramente? Cosa potrebbe succedere se tu avessi fatto un
lavoro migliore di quello che credi?
- Cosa vuoi dire?
- Quello che voglio dire Š che improvvisamente mi sento a disagio. Per
parecchio tempo ho creduto che questo progetto non avrebbe portato
proprio a nulla. Improvvisamente scopro che forse porter a qualcosa
che non saremo capaci di controllare. Non ho nessuna voglia che
qualcuna delle tue dannate simulazioni esca fuori dall'oloteca per
conquistare "noi".
Richardson si volse a guardarlo. Era arrossito ma sogghignava.
- Harry, Harry! Per l'amor di Dio! Cinque minuti fa eri convinto che
l dentro non ci fosse altro che una minuscola immagine, sfocata
oltretutto. Ora stai andando cosć lontano nella direzione opposta da
immaginare il peggior tipo di...
- Vedo i suoi occhi, Lew. Ho paura che i suoi occhi mi stiano
fissando.
- Quelli che stai vedendo non sono veri occhi. Quello che vedi non Š
altro che un programma grafico proiettato in un'oloteca. Non possono
avere capacit visiva, se capisci quel che voglio dire. I suoi occhi
potrebbero vederti solo se io volessi che lo facessero. Ora come ora
non ti vedono.
- Ma tu puoi fare in modo che mi veda?
- Posso fargli vedere tutto ci• che voglio che veda. L'ho creato io,
Harry.
- Dotato di volont. Dotato di autonomia.
- Dopo tutto questo tempo ti ci metti "ora" a preoccuparti di queste
cose?
- E' la mia testa che salta se voi ragazzi avete fatto qualche errore
tecnico che pu• portare a un disastro. Questa storia dell'autonomia
improvvisamente, mi fa paura.
- Sono ancora io l'unico a maneggiare i dati, solo io ho i guanti di
comando - disse Richardson. - Faccio schioccare le dita e lui balla.
Non c'Š il vero Pizarro, lć dentro, ricordatelo. E non Š nemmeno il
mostro di Frankenstein. E' solo una simulazione. E' solo un mucchio di
dati, un insieme di impulsi elettromagnetici che posso far sparire in
un batter d'occhio.
- Fallo, allora.
- Farlo sparire? Ma se non ti ho ancora fatto vedere...
- Fallo sparire e poi fallo ritornare - disse Tanner.
Richardson era seccato. - Come vuoi, Harry.
Mosse un dito. L'immagine di Pizarro sparć dall'oloteca. Ci fu qualche
svolazzo di nebbia grigia, poi tutto fu bianco.
Tanner prov• una fitta di senso di colpa, quasi avesse ordinato
l'esecuzione capitale dell'uomo in armatura medievale. Richardson fece
un altro movimento, torn• il colore nell'oloteca e Pizarro riapparve.
- Volevo solo vedere quanta autonomia ha veramente il tuo ometto
-disse Tanner. - Volevo vedere se era in grado di fregarti e di
scappare per un canale secondario prima che tu gliene togliessi la
possibilit.
- Sbaglio, o non capisci proprio come funziona il tutto, Harry?
- Volevo solo vedere - ripet‚ Tanner di malumore. Dopo qualche minuto
di silenzio, chiese: - Ti capita mai di sentirti come un Dio?
- Come un Dio?
- Gli hai dato la vita. Un certo tipo di vita, insomma. Ma gli hai
anche dato il libero arbitrio. E' questo il senso di tutto
l'esperimento, no? Tutto quel parlare di volont e di autonomia Stai
cercando di ricreare la mente umana - di crearla ancora una volta dal
nulla - una mente che sia in grado di pensare in un suo modo
peculiare, e di poter dare una propria peculiare risposta a ogni
situazione, il che significa che non necessariamente saranno risposte
programmate in anticipo dai suoi programmatori, molto probabilmente
non lo saranno anzi, e al limite potrebbero essere risposte dannose o
inopportune, e tu non potrai che correre questo rischio proprio come
Dio, dopo aver dato all'uomo il libero arbitrio, sapeva che si sarebbe
potuto aspettare ogni sorta di cattiva azione compiuta dalle Sue
creature nell'esercizio del loro libero arbitrio...
- Harry, per carit...
- Ascolta, posso parlare con Pizarro?
- Perch‚?
- Per scoprire che cosa abbiamo combinato. Per avere una conoscenza di
prima mano del progetto che abbiamo realizzato. O potremmo anche dire
che voglio mettere alla prova la qualit della simulazione. Quello che
vuoi. Mi sentirei pi partecipe di quest'impresa, pi informato di
quello che sta succedendo, se potessi avere un contatto diretto con
lui. Avresti niente in contrario?
- No, naturalmente.
- Devo parlargli in spagnolo?
- In qualsiasi lingua tu voglia. Esiste un'interfaccia, dopotutto. Lui
avr l'impressione che si tratti della sua lingua, lo spagnolo del
sedicesimo secolo. E ti risponder in quello che a lui sembrer
spagnolo, ma che tu ascolterai in inglese.
- Sei sicuro?
- Ma certo.
- E non ti secca, se mi metto in contatto con lui?
- Puoi fare come ti piace.
- Non rischio di alterare la sua calibrazione?
- Non c'Š nessun pericolo, Harry.
- Bene, allora fammi parlare con lui.

Nell'aria, sopra di lui, si produsse una perturbazione, come un lieve
turbinio, un piccolo vortice. Pizarro si ferm• e si guard• in giro,
chiedendosi cosa stava per succedere. Forse un demone, che veniva a
tormentarlo. O un angelo. Qualsiasi cosa fosse, lui era pronto.
Poi dal turbine una voce che parlava lo stesso comico castigliano che
Pizarro aveva poco prima udito in bocca a se stesso chiese: - Puoi
sentirmi?
- Ti sento ma non ti vedo. Dove sei?
- Proprio di fronte a te. Aspetta un attimo. Ora mi vedrai. - Dal
turbine uscć una strana faccia sospesa a mezz'aria nel nulla, una
faccia senza un corpo, una faccia magra, perfettamente rasata, nessuna
traccia di barba n‚ di baffi, con capelli tagliati cortissimi e occhi
molto ravvicinati. Non aveva mai visto una faccia simile, prima
d'allora.
- Chi sei? - chiese Pizarro. - Un angelo o un demonio?
- N‚ l'uno, n‚ l'altro. - La voce, per la verit, era molto demoniaca.
- Sono un uomo, un uomo come te.
- Non molto simile a me, direi. Io vedo solo una faccia. O hai anche
un corpo?
- Tutto quello che vedi di me Š una faccia?
- Sć.
- Aspetta un secondo.
- Ho tutto il tempo che vuoi. Ti aspetto.
La faccia sparć. Poi ritorn•, attaccata al corpo di un uomo grande e
grosso, che indossava un lungo abito grigio, un po' simile alla tunica
di un prete ma molto pi ornato, con punti luminosi dappertutto. Poi
il corpo sparć e Pizarro pot‚ vedere di nuovo solo la faccia. Non
riusciva proprio a raccapezzarsi. Cominciava a capire cosa dovevano
aver provato gli indiani quando i primi spagnoli erano comparsi al
loro orizzonte, vestiti di un'armatura, a cavallo, armati di fucili.
- Sei molto strano. Sei per caso un inglese?
- Americano.
- Ah - disse Pizarro, come se questo migliorasse le cose. - Un
americano. E cosa significa?
La faccia ondeggi• e si oscur• per un istante. Si verific• un'altra
misteriosa agitazione nelle spesse nuvole bianche tutt'intorno. Poi la
faccia torn• ferma e disse: - L'America Š un paese a nord del Per. Un
paese molto grande, dove vive molta gente.
- Vuoi dire la Nuova Spagna; cioŠ il Messico, dove Š comandante in
capo il mio parente Cortes?
- A nord del Messico. Pi a nord.
Pizarro si strinse nelle spalle. - Non so niente di questi posti. O
almeno non molto. C'Š un'isola chiamata Florida, vero? E si raccontano
storie di citt tutte d'oro, ma io credo che siano solo storie,
vecchie leggende. Io l'ho trovato l'oro, in Per. Ne ho trovato tanto
da affogarci dentro. Dimmi una cosa, sono in paradiso ora?
- No.
- Allora sono all'inferno?
- No, nemmeno questo; Tu sei... Š molto difficile da spiegare.
Attualmente...
- Sono in America.
- Sć, in America, sć.
- E sono morto?
Ci fu un attimo di silenzio.
- No, non sei morto - disse la voce, a disagio.
- Tu mi stai mentendo, mi pare.
- Come potremmo stare qui a parlare, se tu fossi morto?
Pizarro rise sgangheratamente. - Lo chiedi a "me"? Io non riesco a
capir niente di quello che mi sta succedendo in questo posto. Dove
sono i miei preti? Dov'Š il mio paggio? Mandami mio fratello! - grid•.
- E allora? Perch‚ non me li mandi?
- Non sono qui. Sei qui da solo, Don Francisco.
- In America. Tutto solo in America. Mostrami questa tua America,
allora. Esiste un luogo simile? In America ci sono solo nuvole e
vortici di luce? Dov'Š l'America? Fammela vedere l'America. Dammi la
prova che sono in America.
Ci fu un altro silenzio, questa volta pi lungo. Poi la faccia sparć,
e il muro di nuvole bianche si mise a ribollire e a turbinare pi che
mai. Pizarro fiss• lo sguardo lć in mezzo, un po' incuriosito e un po'
infastidito. La faccia non riappariva. Non riusciva a vedere
assolutamente niente. L'avevano preso in giro. Era prigioniero in
qualche strano luogo e lo trattavano come un bambino, come un cane.
Come... come un indiano. Forse, dopo tutto, quella era la punizione
per ci• che aveva fatto al re Atahualpa, quell'uomo nobile e pazzo che
gli si era sottomesso in tutta innocenza e che lui aveva mandato a
morte per potersi impadronire dell'oro del suo regno.
E cosć sia, pens• Pizarro. Atahualpa ha accettato tutto ci• che gli Š
capitato senza paura e senza lamentarsi, e cosć far• io. Cristo sar
il mio guardiano, e se Cristo non c'Š, be', non avr• guardiano, e cosć
sia. Cosć sia.
La voce che veniva dal turbine disse improvvisamente: - Guarda, Don
Francisco. Questa Š l'America.
Un quadro apparve sulla parete di nuvole. Era un quadro come Pizarro
non ne aveva mai visti, e neanche immaginati, un quadro che sembrava
aprirsi dinanzi a lui come un cancello e farlo entrare e trascinarlo
attraverso una prospettiva di scene mutevoli vividamente colorate. Era
come volare alti sopra la terra, guardando gi su un'infinita spirale
di meraviglie. Vide grandi citt senza cinte di mura, strade che si
srotolavano come infinite matasse di nastro bianco, grandi laghi,
fiumi possenti, gigantesche montagne, e tutto si affrettava via tanto
velocemente che non gli riusciva di trarne nessun senso. In breve
tempo tutto divenne caotico nella sua testa: edifici alti pi della
pi alta guglia di una cattedrale, formicolanti masse di popoli,
lucenti carrozze di metallo non trainate da alcun animale, paesaggi
stupendi, la compressa complessit di tutte quelle cose. Guardandole,
sentiva risorgere l'antica brama di possesso: voleva afferrare quel
vasto e strano luogo, impadronirsene, tenerselo stretto e saccheggiare
quello che poteva.
Questo pensiero lo sopraffaceva. I suoi occhi divennero vitrei e il
cuore prese a battere tanto forte che pens• che avrebbe potuto
sentirlo se avesse appoggiato una mano sulla corazza. Volse via la
testa, balbettando: - Basta. Basta.
Il quadro terrificante svanć. Gradualmente il battito furioso del
cuore si calm•. E allora cominci• a ridere.
- Per! - esclam•. - Il Per non era niente in confronto alla vostra
America. Il Per era un buco. Il Per era fango. Che ignorante ero.
Sono andato in Per quando c'era l'America, diecimila volte pi
grande. Chiss cos'avrei trovato in America. - Schiocc• le labbra e
ammicc•. Poi, con un riso chioccio, continu•: - Ma non temere. Non ho
intenzione di conquistare la tua America. Sono troppo vecchio per
queste cose. E forse l'America sarebbe stata un boccone troppo grosso
per me, anche un tempo. Forse. - Rivolse un ghigno selvaggio alla
faccia turbata dell'uomo senza barba e coi capelli corti, l'americano.
- Sono proprio morto, non Š vero? Non sento fame, n‚ dolore, n‚ sete,
e quando mi tocco con la mano non sento nemmeno il mio corpo. Sono
come uno che giace addormentato. Ma questo non Š un sogno. Sono forse
uno spettro?
- No, non esattamente.
- Non esattamente uno spettro. Non esattamente. Neppure uno con meno
cervello di un maiale parlerebbe in questo modo. Si pu• sapere cosa
significa?
- Non Š facile spiegarlo con parole che tu possa capire, Don
Francisco.
- No, naturalmente no. Io sono troppo stupido, lo sanno tutti del
resto. Per questo ho conquistato il Per, perch‚ sono un maledetto
stupido. Ma lasciamo perdere: io non sono esattamente un fantasma,
per• sono morto lo stesso, no?
- Be'...
- Sć, sono morto. Ma per qualche ragione non sono andato all'inferno e
neppure in purgatorio e sono sempre nel mondo, solo che ora siamo
molto pi avanti nel tempo. Ho dormito il sonno dei morti e ora mi
sono risvegliato in un anno molto lontano dal mio tempo, ed Š il tempo
dell'America. Non Š cosć? Chi Š il re, adesso? Chi Š il Papa? Che anno
Š questo? Il 1750? Il 1800?
- E' l'anno 2130 - disse la faccia dopo qualche esitazione.
- Ah. - Pizarro si torment• il labbro inferiore. - E il re? Chi Š il
re?
Una lunga pausa. - Il suo nome Š Alfonso - disse la faccia.
- Alfonso? I re d'Aragona si chiamavano Alfonso. Il padre di
Ferdinando, lui era un Alfonso. Alfonso Quinto si chiamava.
- L'attuale re di Spagna Š Alfonso Diciannovesimo.
- Ah, ah. E il Papa? Chi Š il papa?
- Pio - disse la voce, dopo qualche tempo. - Pio Sedicesimo.
- Il sedicesimo Pio - esclam• tetro Pizarro. - Ges e Maria il
sedicesimo Pio! Cosa mi Š successo? Morto da un pezzo, ecco quello che
sono. Non ancora mondato dai miei peccati. Sento che mi stanno ancora
attaccati alla pelle come fango. E tu, americano, sei uno stregone che
mi ha riportato in vita. Eh? Eh? Non Š cosć?
- Pi o meno Š cosć, Don Francisco - ammise la faccia.
- Cosć tu parli in modo tanto strano lo spagnolo perch‚ non conosci
pi il modo corretto di pronunciarlo. Eh? Perfino io parlo lo spagnolo
in modo strano e lo parlo con una voce che non suona come la mia.
Nessuno parla pi lo spagnolo, non Š vero? Solo l'americano si parla.
Eh? Ma tu cerchi di parlare spagnolo, solo che vien fuori ridicolo. E
hai fatto sć che anch'io parlassi a quel modo, pensando che fosse il
mio modo di parlare, ma ti sei sbagliato. Bene, vedo che puoi fare
miracoli ma immagino che tu non possa fare tutto perfettamente,
persino in questa terra dei miracoli dell'anno 2130. Eh? Eh? - Pizarro
si sporse in avanti, intensamente. - Cos'hai da dire? Pensavi che
fossi uno sciocco perch‚ non so leggere e scrivere? Non sono poi cosć
ignorante, sai? Capisco velocemente, io.
- Capisci davvero in fretta.
- Ma a te sono note tante cose a me sconosciute. Per esempio tu devi
sapere in che modo sono morto. Che strano, parlare con te del modo in
cui sono morto, eppure tu devi saperlo, eh? Quando Š venuta, e come?
Ero nel mio letto? No, no Š impossibile. In Spagna si muore nel
proprio letto, non in Per. E allora come Š stato? Sono stato ucciso a
tradimento da dei vigliacchi? Qualche fratello di Atahualpa che mi si
Š gettato addosso mentre uscivo di casa? Uno schiavo mandato da Inca
Manco o da uno di quegli altri? No. No. Gli indiani non mi avrebbero
mai fatto del male, per quanto io ne abbia fatto tanto a loro. E'
stato il giovane Almagro a stendermi, per vendicare suo padre, Š cosć?
Oppure Juan de Herrada? O magari proprio Picado, il mio segretario...
no, non Picado, lui mi Š stato sempre fedele, ma forse Alvarado, il
giovane, o Diego... be', uno di loro, e dev'essere stato tutto molto
molto improvviso, altrimenti sarei stato capace di fermarli... Ho
indovinato, dico giusto? Dimmelo. Tu le sai queste cose. Dimmi in che
modo sono morto. - Non ci fu nessuna risposta. Pizarro aguzz• gli
occhi in quel luminoso, perlaceo biancore. Non riusciva pi a scorgere
la faccia dell'americano. - Ci sei? - chiese. - Dove sei finito? Eri
soltanto un sogno? Americano! Americano! Dove sei finito?

Il contatto si interruppe. Tanner sedeva rigido, con le mani tremanti,
le labbra serrate. Pizarro nell'oloteca, non era ormai che una banda
di colore non pi grande di un pollice, e gesticolava tra le nuvole
roteanti. La vitalit, l'arroganza, la tenace curiosit, gli odii
profondi e le implacabili gelosie, la forza che gli derivava da
imprese smisurate inesaustamente concepite e disperatamente perseguite
per trionfare, tutto ci• che aveva fatto di Pizarro l'uomo che era,
tutto ci• che Tanner aveva percepito fino a un istante prima.. tutto
questo era scomparso con uno schioccare di dita.
Dopo un poco, Tanner sentć che si stava riprendendo dallo schock. Si
volse verso Richardson.
- Cosa Š successo?
- Ho dovuto tirarti via. Non volevo che gli parlassi della sua morte.
- Ma io non so come Š morto.
- Bene, non lo sa neanche lui, e non volevo che ti scappasse detto
qualcosa. Non si pu• mai sapere che tipo d'impatto psicologico
potrebbe avere su di lui una simile notizia.
- Ne parli come se fosse vivo.
- Non lo Š, forse?
- Se l'avessi detta io, una cosa del genere, mi avresti dato
dell'ignorante e dell'antiscientifico.
Richardson sorrise debolmente. - Hai ragione. Ma qualche volta ho
l'impressione di aver ragione nel dire che Š vivo. Naturalmente non
nel vero senso della parola. E tu? Dimmi, comunque, cosa te ne sembra.
- E' fantastico - rispose Tanner. - Davvero straordinario. La sua
forza... la potevo sentire arrivare a onde fino a me. E che mente!
Cosć pronta, cosć capace di imparare, di cogliere la situazione. Di
capire che doveva trovarsi nel futuro. Voler sapere a che numero di
papa eravamo arrivati. Voler sapere come era fatta l'America. E che
impudenza, la sua. Venirmi a dire che non aveva intenzione di
conquistare l'America, ma che un tempo avrebbe cercato sć di
conquistarla, invece del Per. Ma qualche anno prima non adesso,
adesso era un po' troppo vecchio per farlo. Incredibile! Non c'era
nulla che potesse sconcertarlo a lungo, nemmeno la scoperta di essere
morto da un pezzo. E voler anche sapere come era morto! - Tanner
aggrott• le sopracciglia. - A proposito, che et gli hai dato quando
hai messo a punto questo programma?
- Una sessantina d'anni. Cinque o sei anni dopo la Conquista e un anno
o due prima che morisse. Al massimo del suo splendore, cioŠ.
- Immagino che non avresti potuto permettere che avesse nozione della
sua morte. Questo ne avrebbe fatto una sorta di fantasma.
- Infatti abbiamo pensato proprio questo. L'abbiamo fermato nel
momento in cui aveva compiuto tutto quanto aveva da compiere, quando
era il Pizarro perfetto. Ma prima della fine. Non c'era bisogno che
dovesse saperne qualcosa. Nessun uomo lo sa. Ecco perch‚ ho interrotto
il vostro colloquio, capisci? Poteva darsi che tu ne sapessi qualcosa.
E che ti mettessi a dirglielo.
Tanner scosse la testa: - Se mai l'ho saputo, me ne sono dimenticato.
Come Š avvenuta?
- Esattamente come ha immaginato lui, per mano dei suoi compagni.
- Cosć l'aveva previsto.
- All'et che gli abbiamo dato, sapeva che in Sud America era
scoppiata una guerra civile, che i conquistadores litigavano tra loro
per la divisione delle spoglie. Queste informazioni gliele avevamo
date. Sa che il suo braccio destro Almagro si Š rivoltato contro di
lui e che dopo essere stato vinto in battaglia Š stato fucilato.
Quello che non sa, ma che ovviamente si pu• immaginare, Š che gli
amici di Almagro irromperanno in casa sua e cercheranno di ucciderlo.
Lui Š riuscito a prevedere con straordinaria esattezza cosa sarebbe
successo. Cosa Š successo, in effetti.
- Incredibile. Che perspicacia straordinaria!
- Sć, era un gran figlio di puttana. Ma era anche un genio.
- Lo era davvero? O l'hai voluto tu cosć, quando hai messo a punto il
programma?
- Tutto quello che ci abbiamo messo dentro sono stati i particolari
autentici della sua vita, lo svolgimento dei fatti e il comportamento
da lui tenuto. Il tutto condito con cronache di storici, contemporanei
e posteriori, per aggiungere spessore al personaggio. Si mette dentro
tutto questo tipo di cose e a quanto pare l'insieme costruisce una
personalit completa. Non si tratta della "mia" personalit, Harry, n‚
della personalit di chiunque altro abbia collaborato al programma.
Quando ci metti dentro tutte queste informazioni, ci• che ne esce
fuori Š la personalit di Pizarro. La sua irruenza e la sua
intelligenza. Mettici dentro informazioni diverse e avrai una
personalit diversa. E quello che abbiamo potuto constatare in
quest'occasione Š che, se si fa un lavoro ben fatto, ci• che salta
fuori dal programma Š qualcosa di molto di pi che la semplice somma
di tutti i suoi elementi.
- Lo credi davvero?
- Hai notato che si Š lamentato dello spagnolo che parlavate?
- Sć. Ha detto che gli suonava strano, che ormai sembrava che nessuno
sapesse pi parlare il corretto spagnolo. Non ho capito bene cosa
volesse dire. E' possibile che l'interfaccia che hai messo a punto
parli un cattivo spagnolo?
- Evidentemente parla un cattivo spagnolo del sedicesimo secolo -disse
Richardson. - Nessuno sa come suonasse lo spagnolo del sedicesimo
secolo. Possiamo solo fare delle ipotesi. Evidentemente abbiamo fatto
delle ipotesi sbagliate.
- Ma "lui" come faceva a saperlo? L'hai sintetizzato tu! Se non lo
sapevi tu, che spagnolo si parlava nel sedicesimo secolo, come faceva
a saperlo lui? Tutte le sue informazioni sulla Spagna e tutto il resto
gli vengono da te.
- Proprio cosć - disse Richardson.
- Ma tutto questo non ha senso, Lew!
- Ha anche detto che lo spagnolo che parlava non andava bene e neppure
il suono della sua voce. Che "l'avevamo fatto parlare a quel modo"
credendo che fosse cosć che si parlava ma che ci eravamo sbagliati.
- Ma come poteva sapere che la sua voce non era quella giusta se non Š
altro che una simulazione fatta da gente che non ha la pi pallida
idea di quale fosse il suo modo di parlare e il suo timbro di voce...?
- Ti assicuro che non lo so. Per• "lui lo sa".
- Lo sa davvero o Š un gioco diabolico alla Pizarro, che lui ci sta
giocando per disorientarci perch‚ questo Š nel carattere del
personaggio cosć come l'hai progettato?
- Credo che lo sappia davvero - disse Richardson.
- E allora da dove gli viene questa consapevolezza?
- Ce l'ha dentro. Non sappiamo dove, ma ce l'ha. E' da qualche parte
nei dati che abbiamo inserito nel sistema combinatorio, anche se non
lo sappiamo e non lo sapremmo trovare nemmeno se lo andassimo a
cercare. "Lui" pu• trovarlo. Non pu• costruirsi una conoscenza del
genere per magia, ma pu• mettere insieme quelli che a noi sembrano
frammenti irrilevanti e pu• pervenire a un'informazione nuova, capace
di portarlo a una conclusione significativa. Ecco cosa intendiamo per
intelligenza artificiale, Harry. Alla fine siamo riusciti a elaborare
un programma che funziona pi o meno come un cervello umano: per balzi
di intuizione cosć improvvisi e straordinari da sembrare inesplicabili
e non quantificabili, anche se in verit Š cosć. Gli abbiamo infilato
dentro tante di quelle informazioni da permettergli di assimilare una
vagonata di dati apparentemente non correlati e di giungere a una
nuova informazione. In quella teca non abbiamo solo un pupazzo
ventriloquo. Abbiamo un qualcosa che pensa di essere Pizarro e che
pensa come Pizarro e che sa le cose che Pizarro sapeva e che noi non
sappiamo. Il che significa che siamo riusciti a fare quel salto
qualitativo nel campo dell'intelligenza artificiale che andavamo
cercando con questo progetto. E' grandioso e terrificante insieme. Mi
vengono i brividi dietro la schiena, a pensarci.
- Anche a me. Non tanto di stupore quanto di paura.
- Paura?
- Sapendo come ora sappiamo che ha capacit superiori a quelle per cui
era stato programmato, come facciamo a essere assolutamente certi che
non sia in grado di impadronirsi dei comandi e di liberarsi?
- E' tecnicamente impossibile. Non Š altro che una serie di impulsi
elettromagnetici. Io posso togliere la spina in qualsiasi momento. Non
c'Š ragione di farsi prendere dal panico, Harry, credimi.
- Cerco di farlo.
- Posso farti vedere lo schema. Abbiamo ottenuto una formidabile
simulazione al computer, ma Š sempre e solo una simulazione. Non Š un
vampiro, n‚ un lupo mannaro, n‚ nulla di soprannaturale. E' solo la
pi straordinaria simulazione al computer che sia mai stata fatta.
- Non sono a mio agio. E' "lui" che mi mette a disagio.
- Lo capisco. La sua forza, la sua natura indomita... perch‚ credi che
abbia scelto lui, Harry? Lui ha capito qualcosa che oggi, in questo
paese, non capiamo pi. Voglio studiarlo. Voglio cercare di
comprendere che tipo di spinta e di determinazione Š la sua. Ora che
hai parlato con lui, ora che hai toccato con mano il suo spirito, Š
chiaro che ne sei rimasto colpito. Irradia un tremendo senso di forza.
Irradia una fantastica fiducia in se stesso. Un uomo simile pu•
ottenere tutto quello che vuole... pu• perfino conquistare tutto
l'impero Inca con centocinquanta uomini o gi di lć. Ma non mi fa
paura l'aver messo insieme tutto questo. E non dovrebbe far paura
nemmeno a te. Dovresti andarne maledettamente orgoglioso. Tu, e tutti
i ragazzi, tutti i tecnici che ci hanno lavorato. E ne andrai
orgoglioso, vedrai.
- Mi auguro che tu abbia ragione - disse Tanner.
- Vedrai.
Tanner rimase a lungo a fissare l'oloteca dove prima c'era stata
l'immagine di Pizarro.
- Okay - disse alla fine. - Pu• darsi che stia esagerando. Pu• darsi
che parli da quel profano ignorante che sono. Dar• per scontato che
sarai capace di tenere i fantasmi dentro le loro scatole.
- Certo - disse Richardson.
- Speriamolo. Bene - disse Tanner. - Qual Š la prossima mossa?
Richardson sembr• imbarazzato. - La prossima mossa?
- Col progetto. Come si procede adesso?
Richardson rispose esitante: - Non c'Š nessun piano gi formulato.
Pensavamo di aspettare di avere la tua approvazione sulla fase
iniziale del lavoro e poi...
- Come sarebbe a dire? - chiese Tanner. - Desidero che tu parta con
una seconda simulazione quanto prima.
- Be'...sć, naturalmente...
- E quando l'avrai realizzata, Lew, sarebbe possibile metterla
nell'oloteca con Pizarro?
Richardson parve colpito: - Vuoi dire perch‚ abbia una specie di
dialogo con lui?
- Sć.
- Penso che si potrebbe fare - disse Richardson cauto. - Sć, sć, "lo
faremo"! Un suggerimento davvero interessante, proprio. - Esibć un
sorriso stentato. Fino ad allora Tanner si era tenuto in disparte, un
semplice funzionario, un osservatore esterno, un estraneo, fino a quel
momento. Questo era qualcosa di nuovo, questo suo inserirsi nella
progettazione, e Richardson non sapeva bene cosa pensarne. - Hai in
mente qualcuno in particolare, per la prossima simulazione?
- E' gi pronto quell'affare, quel nuovo parallasse? - chiese Tanner.
- Quell'affare che dovrebbe compensare la distorsione temporale e la
contaminazione col mito?
- E' stato appena approntato. Ma non l'abbiamo ancora testato...
- Ottimo - disse Tanner. - Ecco l'occasione buona. Che ne diresti di
provare con Socrate?

Ci fu un ondeggiante biancore sotto di lui e tutt'intorno, come se
tutto il mondo fosse fatto di fiocchi di lana. Si chiese se potesse
essere neve. La neve era qualcosa che non gli era molto familiare. Una
volta era nevicato moltissimo ad Atene, in effetti, ma solitamente si
trattava di una spolverata luminosa che si scioglieva alla luce del
sole. E poi, naturalmente aveva visto una gran quantit di neve su nel
Nord, quando era a Potidea durante la guerra. Ma questo era avvenuto
tanto tempo prima, e ci• che vedeva qui non assomigliava molto, per
quanto poteva ricordare, alla neve. Mancava, nel biancore che lo
circondava la qualit della freddezza. Potevano essere, a questa
stregua, grandi banchi di nubi.
Ma cosa potevano starci a fare delle nuvole "sotto" di lui? Le nuvole
riflett‚, non sono altro che vapore, aria e acqua non c'Š sostanza in
loro. La loro sede naturale era in aria, sopra di lui. Nuvole che si
addensano ai piedi di una persona mancano della naturale qualit della
nebulosit che loro si addice.
Neve senza la qualit della freddezza? Nuvole senza forza
ascensionale? Nulla, in quel luogo, sembrava possedere le
caratteristiche proprie, lui compreso. Gli pareva di camminare ma i
suoi piedi non toccavano nulla. Era come se si stesse muovendo
nell'aria. Ma poteva, una persona, muoversi nell'aria? Aristofane, in
quella sua impietosa commedia, lo aveva fatto fluttuare tra le nuvole,
sospeso in un cesto, e gli aveva messo in bocca espressioni come "sto
attraversando l'aria e contemplando il sole". Questo era il modo in
cui Aristofane lo prendeva in giro e lui non se l'era presa troppo a
male, anche se i suoi amici erano rimasti molto urtati. Dopotutto, era
solo una rappresentazione teatrale.
Questo invece sembrava reale, per quanto somigliasse al nulla
assoluto.
Forse stava sognando e il sogno consisteva nell'immaginare di fare
nella realt le cose che Aristofane gli faceva fare nella commedia.
Come diceva quel passo delizioso? "Devo sospendere il mio cervello e
mescolare l'essenza sottile della mia mente con l'aria, che Š della
stessa natura, per poter penetrare chiaramente le cose celesti." Caro
vecchio Aristofane! Non c'era nulla di sacro per lui. Eccetto,
naturalmente, le cose che erano veramente sacre, come la saggezza, la
virt e la verit. "Non avrei scoperto nulla se fossi rimasto sulla
terra e avessi considerato dal basso le cose che stanno in alto:
perch‚ la terra con la sua forza attrae a s‚ la linfa della mente. E'
la stessa cosa che succede col crescione." E Socrate cominci• a
ridere.
Stese davanti a s‚ le proprie mani e cominci• a studiarsele, le dita
corte e tozze, i polsi larghi e poderosi. Le sue mani, sć. Le sue
vecchie e brutte mani, che lo avevano ben servito per tutta la vita,
quando aveva fatto lo scalpellino come, prima di lui, suo padre,
quando aveva fatto il soldato nelle guerre della sua citt, quando
aveva insegnato al ginnasio. Ma ora, quando le accost• al viso, non
sentć nulla. Lć doveva esserci un mento, una fronte, sć, un naso tozzo
e rincagnato, delle labbra spesse; ma non c'era niente. Stava toccando
aria. Poteva infilare la mano nel punto in cui doveva esserci la sua
faccia. Poteva premere una mano contro l'altra con tutta la sua forza
e non sentire niente.
Questo Š un luogo davvero strano, pens•. Forse Š il luogo delle forme
pure sul quale il giovane Platone amava speculare, dove tutto Š
perfetto e nulla Š veramente reale. Quelle che mi circondano sono
nuvole ideali, non nuvole reali. Quella in cui sto camminando Š aria
ideale. Io stesso, forse, sono il Socrate ideale, liberato dal mio
corpo volgare e ordinario. Pu• essere? Be', forse Š cosć. Si sofferm•
un attimo a considerare questa possibilit.
Gli venne in mente che quella poteva essere la vita dopo la vita, nel
qual caso avrebbe potuto incontrare qualcuno degli dei, se poi c'erano
degli dei, in primo luogo, e se fosse riuscito a trovarli. Mi
piacerebbe, pens•. Forse saranno disposti a parlare con me. Atena
potrebbe dissertare con me sul tema della saggezza, Ermes su quello
della velocit, Ares sulla natura del Coraggio, Zeus su... be', su
qualunque cosa voglia. Naturalmente a loro apparirei come il pi folle
degli uomini, ma sarebbe normale: chiunque pretenda di discorrere con
gli dei da pari a pari Š un pazzo. Io non ho quest'illusione. Se mai
gli dei esistono, certamente mi sono superiori in tutto, altrimenti
perch‚ gli uomini li considererebbero tali?
Naturalmente aveva i suoi dubbi sul fatto che gli dei esistessero. Ma
se esistevano, era ragionevole pensare di poterli incontrare in un
posto come quello.
Guard• in alto. Il cielo brillava di una luce dorata. Tir• un respiro
profondo e sorrise, e si mise in cammino nel nulla fioccoso di quel
mondo fatto di aria per vedere se poteva incontrare qualche dio.
Tanner chiese: - Cosa ne pensi adesso? Sempre cosć pessimista?
- E' troppo presto per dirlo - disse Richardson, accigliato.
- "Sembra" proprio Socrate, non ti pare?
- Questa Š la parte pi facile. Abbiamo trovato un mucchio di
descrizioni di Socrate fatte da gente che lo conosceva, il naso grosso
e piatto, la fronte pelata, le labbra grosse, il collo corto. Un
Socrate standard che chiunque riconoscerebbe, proprio come succede con
Don Chisciotte e Sherlock Holmes. Ecco come gli abbiamo dato questo
aspetto. Ma non significa proprio niente. E' quello che gli passa per
la testa che ci dir se abbiamo veramente Socrate.
- Ha l'aria tranquilla e serena. Cammina proprio con la compostezza
del filosofo.
- Anche Pizarro sembrava un filosofo quando gli abbiamo dato via
libera, nell'oloteca.
- Pizarro Š un filosofo, a modo suo - disse Tanner. - Nessuno dei due
Š il tipo che si fa prendere dal panico quando si ritrova in un luogo
misterioso. - Il pessimismo di Richardson cominciava a dargli sui
nervi. Era come se loro due si fossero scambiati i ruoli, con un
Richardson timoroso delle potenzialit del suo programma e un Tanner
che spingeva sempre pi avanti, verso pi grandi e significative
imprese.
Richardson scosse tristemente il capo: - Sono piuttosto scettico
-disse. - Abbiamo sć impiegato i nuovi filtri parallettici; ma temo
che andremo incontro agli stessi problemi che i francesi hanno avuto
con Don Chisciotte e noi con Sherlock Holmes, con MosŠ e con Cesare.
C'Š una contaminazione troppo stretta con il mito e le fantasie. Il
Socrate giunto fino a noi Š pi inventato che reale, forse Š tutto
inventato. Per quel che ne sappiamo, Platone pu• essersi inventato
tutto quello che noi crediamo di sapere su Socrate, allo stesso modo
in cui Conan Doyle si Š inventato Sherlock Holmes. E ho una gran paura
che ci• che otterremo non sar altro che un qualcosa di seconda mano,
senza vita, qualcosa a cui manca la scintilla dell'intelligenza
autodiretta che andiamo cercando.
- Ma i nuovi filtri...
- Forse. Forse.
Tanner scosse la testa, ostinato. - Holmes e Don Chisciotte sono
completamente fittizi. Esistono solo in una dimensione, costruita per
noi dai loro autori. Togli le distorsioni e le fantasie dei lettori e
dei commentatori posteriori e sotto ci trovi un personaggio inventato.
E' possibilissimo che molto su Socrate possa essere stato inventato da
Platone per i suoi scopi, ma molto non Š invenzione. Socrate Š
realmente esistito. Ha preso parte attiva alla vita della sua citt,
l'Atene del quinto secolo. Appare negli scritti di molti suoi
contemporanei, non solo nei dialoghi di Platone. Questo ci d il
parallasse che volevi, no? ce lo fa vedere da svariati punti di vista.
- Pu• darsi di sć. Pu• darsi di no. Con MosŠ non siamo approdati a
niente. Era inventato, "lui"?
- Chi lo sa? Tutto quello che avevamo a disposizione era la Bibbia. E
una tonnellata di commentari biblici, per quel che valgono. Non
abbastanza, evidentemente.
- E Cesare? Non mi verrai a dire che Cesare non era reale - disse
Richardson. - Ma ci• che abbiamo di lui Š evidentemente troppo
contaminato dal mito. Quando l'abbiamo sintetizzato ci siamo ritrovati
nient'altro che una caricatura, e non c'Š bisogno che ti stia a
ricordare quanto poco Š durata prima di diventare del tutto
inarticolata.
- Irrilevante - disse Tanner. - Cesare era a uno stadio iniziale del
progetto. Ora ne sai molto di pi, su quello che stai facendo. Io
credo che funzioner.
Il pessimismo ostinato di Richardson doveva essere un meccanismo di
difesa, elaborato per proteggerlo da un ennesimo fallimento. Socrate,
dopotutto, non era stata una scelta di Richardson. Questa, poi, era la
prima volta in cui avevano applicato quei nuovi metodi di rinforzo,
quel programma di parallasse che costituiva l'ultimo perfezionamento
apportato.
Tanner lo guard•. Richardson rimase in silenzio.
- Procediamo - disse Tanner. - Prendi Pizarro e lasciamo che i due
parlino tra loro. E allora capiremo che tipo di Socrate hai prodotto.

Ancora una volta ci fu una perturbazione a distanza, una piccola
macchia scura in quell'orizzonte perlaceo, un bitorzolo,
un'incrinatura in quel biancore luminoso. E' in arrivo un altro
demonio, pensa Pizarro. O forse Š lo stesso di prima, quell'americano,
quello che amava mostrarsi solo come una faccia, coi capelli corti e
senza barba.
Ma mentre costui si avvicinava, Pizarro si rese conto che era diverso
dal precedente, era basso e atticciato, con ampie spalle e torace
possente. Era quasi calvo, con una barba trascurata e incolta.
Sembrava piuttosto vecchio, sui sessanta, sessantacinque forse. E
proprio brutto, anche, con occhi sporgenti e naso piatto con grosse
narici svasate e un collo cosć corto che la grande testa
sovradimensionata sembrava appoggiarsi direttamente al tronco.
Indossava solo un abito marrone leggero e logoro. I piedi erano
scalzi.
- Ehi, tu - chiama Pizarro. - Tu, demone! Sei americano anche tu?
- Prego? Vuoi forse dire ateniese?
- Americano, ho detto. L'ultimo era americano. E' da lć che vieni
demone? Dall'America?
Un'alzata di spalle. - No, direi di no. Sono ateniese. - C'era uno
sguardo curiosamente motteggiatore negli occhi del demone.
- Un greco? Questo demonio Š un greco?
- Sono di Atene - ripet‚ l'uomo brutto. - Mi chiamo Socrate, figlio di
Sofronisco. Non so cosa sia un greco, cosć pu• essere che lo sia, ma
io credo di no, a meno che non si chiami greco un ateniese - Parlava
in modo lento e faticoso, come uno che fosse particolarmente stupido.
Qualche volta Pizarro aveva incontrato uomini come quello e la sua
esperienza gli diceva che generalmente non erano cosć stupidi come
volevano sembrare: decise di stare all'erta. - E non sono un demone,
bensć un semplice uomo, molto comune, come puoi facilmente constatare.
Pizarro sbuff•. - Ti piace spiccare bene le parole, o mi sbaglio?
- Non Š il peggiore dei miei divertimenti, amico - rispose l'altro
congiungendo le mani dietro la schiena come se fosse la cosa pi
naturale di questo mondo, e restandosene lć calmo e sorridente a
guardare lontano, dondolandosi sui piedi avanti e indietro.

- Be'? Abbiamo il vero Socrate, non ti sembra? Io dico che c'Š il
Socrate giusto, l dentro.
Richardson alz• gli occhi e annuć. Sembrava sollevato e preoccupato
insieme. - Ora come ora, tutto bene, direi. Sembra vero e reale.
- Pu• darsi che siamo riusciti a superare il problema della
contaminazione dell'informazione che ha rovinato le simulazioni
precedenti. Non d segni di cedimento, come gli altri.
- Dimostra un certo carattere, non trovi? Mi Š piaciuto il suo modo di
andar dritto incontro a Pizarro senza il minimo segno di imbarazzo.
Non ha nessuna paura di lui.
- E perch‚ dovrebbe averne?
- Tu non ne avresti? Ti ritrovi a camminare Dio solo sa in quale luogo
ultraterreno, senza sapere dove sei e come ci sei arrivato, e
improvvisamente ti trovi di fronte un bastardo dall'aspetto feroce
come Pizarro, rivestito dell'armatura e con la spada in mano... -
Tanner scosse la testa. - Be', pu• darsi di no. Dopotutto si tratta di
Socrate e Socrate non aveva paura di nulla se non della noia.
- E Pizarro non Š altro che una simulazione. Puro software, e
nient'altro.
- E' quello che mi ripeti continuamente. Ma Socrate non lo sa.
- E' vero - disse Richardson, dopo essere rimasto per un poco in
silenzio. - Forse, dopotutto, "qualche rischio c'Š".
- Eh?
- Se il nostro Socrate assomiglia anche solo un po' a quello di
Platone, e certamente Š cosć, allora Š capace di essere una gran
peste. Pizarro potrebbe non gradire i giochetti verbali di Socrate. Se
non gli piacciono gli scherzi, suppongo che ci sia la possibilit
teorica che risponda in modo aggressivo.
Questa affermazione colse Tanner di sorpresa. Spalanc• gli occhi e
chiese: - Stai dicendo che c'Š la possibilit che faccia del male a
Socrate?
- Chi pu• dirlo? - disse Richardson. - Nel mondo reale Š
effettivamente possibile che un programma ne distrugga un altro. Pu•
darsi che una simulazione possa essere pericolosa per un'altra. Questo
Š un territorio nuovo per noi tutti, Harry. Comprese le persone in
quella teca.

L'uomo alto e brizzolato disse, accigliato: - Mi dici che sei di Atene
ma che non sei un greco. Come devo interpretare una cosa simile?
Potrei chiedere lumi a Pedro de Candia, immagino, che Š un greco ma
non Š di Atene. Ma non Š qui. Forse sei solo un matto, eh? O credi che
lo sia io.
- Non ho idea di chi tu sia. Pu• essere che tu sia un dio?
- Un "dio"?
- Sć - disse Socrate, studiando impassibile l'altro. Aveva
un'espressione dura e occhi gelidi. - Forse sei Ares. Hai uno sguardo
bellicoso e indossi un'armatura, anche se Š un'armatura che non mi Š
familiare. Questo posto Š cosć strano che potrebbe ben essere la
dimora degli dei, e la tua armatura l'armatura di un dio, per quel che
ne so. Se sei Ares, allora io ti saluto col rispetto che ti Š dovuto.
Io sono Socrate di Atene, il figlio dello scalpellino.
- Dici un sacco di assurdit. Non conosco questo tuo Ares.
- Ma come, il dio della guerra! Tutti lo conoscono. Eccetto i barbari,
cioŠ. Sei dunque un barbaro? Hai l'aria di un barbaro,
effettivamente... ma quanto a questo anch'io sembra che parli barbaro,
nonostante abbia parlato la lingua dell'Ellade per tutta la vita. Ci
sono dei misteri qui, non c'Š dubbio.

- Di nuovo questo problema della lingua - esclama Tanner. -Possibile
che non riusciate a produrre neanche un greco classico come si deve? O
stanno parlando spagnolo tra di loro?
- Pizarro Š convinto che stiano parlando in spagnolo. Socrate crede
che stiano conversando in greco. E naturalmente quel greco non esiste
pi. Non abbiamo la pi pallida idea di come si pronunciasse qualsiasi
lingua prima dell'avvento delle registrazioni sonore. Possiamo solo
cercare di indovinare.
- Ma non potresti...
- Zitto - disse Richardson.
Pizarro disse: - Sar• magari un bastardo, compagno, ma non sono un
barbaro. Dunque tieni a freno la lingua. E non tirar fuori altre
bestemmie.
- Se sono stato blasfemo perdonami. L'ho fatto in buona fede.
Avvertimi, quando sbaglio, e non lo far• pi.
- Tutte queste folli chiacchiere di dei. Sul mio essere un dio. Avrei
potuto aspettarmelo da un pagano, non da un greco. Ma forse sei una
qualche sorta di greco pagano, e non sei da condannare. Sono i pagani
che vedono dei dappertutto. Io sono Francisco Pizarro, di Trujillo in
Estremadura, figlio del famoso Gonzalo Pizarro, colonnello di
fanteria, che ha prestato servizio nelle guerre di Gonzalo di Cordoba,
noto come il Gran Capitano, presso i suoi uomini. Anch'io ho
combattuto qualche guerra.
- Cosć non sei un dio ma un semplice soldato? Bene. Anch'io sono stato
soldato. Sono pi a mio agio con i soldati che non con gli dei. Come
la maggior parte della gente, immagino.
- Un soldato? Tu? - Pizarro sorrise. Quel piccolo uomo male in arnese,
dall'aria pi scalcinata dell'ultimo degli attendenti, un soldato? -
In quali guerre?
- Le guerre di Atene. Ho combattuto a Potidea, dove gli abitanti di
Corinto creavano dei problemi e si rifiutavano di pagarci il tributo
che ci era dovuto. Faceva molto freddo, da quelle parti, e l'assedio Š
stato lungo e duro, ma abbiamo fatto il nostro dovere. Qualche anno
dopo ho combattuto a Delo contro i Beoti. Laches era il nostro
comandante, quella volta, ma ci Š andata male, e abbiamo fatto del
nostro meglio combattendo in ritirata. E poi - disse Socrate, - quando
Brasida era ad Anfipoli e hanno mandato Cleone a scacciarlo, io...
- Basta cosć - fece Pizarro con un energico gesto della mano. -Queste
guerre mi sono ignote. - Un soldato mercenario, uno della truppa,
senza dubbio. - Be', a quanto pare questo Š il luogo dove mandano i
soldati morti, immagino.
- Siamo dunque morti?
- Da un pezzo. C'Š un Alfonso che Š re e un Pio che Š papa, e non
potresti mai immaginare a che numero sono arrivati. Pio sedicesimo, mi
sembra che abbia detto il demone. E l'americano ha anche detto che
siamo nell'anno 2130. L'ultimo che riesca a ricordare era il 1539. E
tu?
L'uomo che si chiamava Socrate si strinse ancora nelle spalle. - Ad
Atene contiamo gli anni in un altro modo. Ma ammettiamo, per amor di
discussione, che siamo morti. Credo che sia molto probabile, a
giudicare dal tipo di posto in cui siamo e dal fatto che il mio corpo
sembra fatto d'aria. Dunque siamo morti, e questa Š la vita dopo la
vita. Mi domando se questo Š il luogo dove vanno gli uomini virtuosi,
o se invece Š riservato a quelli non virtuosi. O, semplicemente, tutti
gli uomini, dopo la morte vanno a finire nello stesso luogo, sia che
siano stati virtuosi oppure no? Tu cosa ne dici?
- Ora come ora non saprei.
- Be', sei stato un uomo virtuoso durante la tua vita o no?
- Se ho peccato, vuoi sapere?
- Sć, potremmo metterla in questi termini.
- Costui vuol sapere se ho peccato - disse meravigliato Pizarro. -Se
sono un peccatore, chiede. Se ho avuto una vita virtuosa. E a lui cosa
gliene importa?
- Fammi un piacere - disse Socrate. - Per amor di discussione, se
vuoi, permetti che ti faccia qualche piccola domanda...

- Ci siamo - esclam• Tanner. - Lo vedi? "Ce l'hai fatta". Socrate lo
sta trascinando in un dialogo!
Richardson era raggiante. - E' lui, non c'Š dubbio. E' fantastico,
Harry.
- Socrate si accinge a irretirlo con le parole.
- Non ne sarei troppo sicuro - disse Tanner.

- Quello che mi Š stato fatto io l'ho reso - disse Pizarro. - Se ho
ricevuto un'offesa, ho restituito l'offesa. Non c'Š peccato in questo.
E' solo buon senso. Un uomo deve fare ci• che Š necessario per
sopravvivere e per proteggere la sua posizione nel mondo. Sć, Š
possibile che qualche volta abbia dimenticato di santificare una
festa, o che abbia nominato il nome di Dio invano... questi sono
peccati; credo; frate Vicente mi stava sempre addosso per cose di
questo genere... ma bastano per dire che sono un peccatore? Ho poi
fatto penitenza, non appena riuscivo a trovare il tempo. Il mondo Š
peccaminoso e io non sono diverso dagli altri, cosć non vedo perch‚
dovrebbero prendersela proprio con me. Eh? Dio mi ha fatto come sono.
Io sono fatto a sua immagine. E ho fede in suo figlio.
- Dunque sei un uomo virtuoso?
- Non sono un peccatore, per cominciare. Come gi ti ho detto se ho
peccato ho fatto contrizione, il che significa che Š come se il
peccato non fosse mai avvenuto.
- Allora - esclam• Socrate, - sei un uomo virtuoso, e dunque io sono
venuto in un buon posto. Ma voglio essere assolutamente sicuro. Dimmi
ancora una volta, hai la coscienza pulita?
- Cosa sei, un confessore?
- Solo un uomo ignorante che cerca di capire. E tu mi puoi aiutare,
prendendo parte con me a questa esplorazione. Se io sono giunto nel
luogo degli uomini virtuosi allora anche io devo essere stato, in
vita, un uomo virtuoso. Tranquillizzami, dunque, e fammi capire se nel
tuo animo c'Š qualcosa che ti penti di aver fatto.
Pizarro si mosse, a disagio. - Be', ho ucciso un re.
- Un re malvagio. Un nemico della tua citt?
- No, era un re saggio.
- Allora hai davvero motivo di rincrescimento. Perch‚ sicuramente si
tratta di un peccato, uccidere un re saggio.
- Ma era un pagano!
- Un cosa?
- Non credeva in Dio.
- Rinnegava il suo dio? - disse Socrate. - Allora forse non Š stato
cosć sbagliato ucciderlo.
- No. Rinnegava il "mio" dio. Preferiva il suo. E dunque era un
pagano. E tutto il suo popolo era pagano, visto che era d'accordo con
lui. E questo non poteva essere tollerato. Rischiavano la dannazione
eterna seguendolo. Io l'ho ucciso per salvare l'anima dei suoi
seguaci. L'ho ucciso per la causa di Dio.
- Ma non si potrebbe pensare che tutti gli dei sono il riflesso
dell'unico Dio?
Pizarro consider• la cosa. - In un certo senso Š vero, credo.
- E servire la divinit non Š in se stesso un atto pio?
- E come potrebbe non essere pio, Socrate?
- E convieni con me che chi serve fedelmente il proprio dio secondo
gli insegnamenti della sua fede si comporta in modo pio?
Pizarro aggrott• le sopracciglia. - Be', se si mettono le cose in
questo modo, sć...
- Allora io ritengo che il re che hai ucciso fosse un re pio, e
uccidendolo hai commesso un atto di empiet.
- Ehi, aspetta un attimo!
- Rifletti: servendo il suo dio egli deve aver servito anche il tuo,
perch‚ il servo di qualunque dio Š il servo del vero Dio, che include
in s‚ tutti gli dei immaginabili.
- No - disse Pizarro di malumore. - Come avrebbe potuto essere un
servo di Dio, se non sapeva niente di Ges? Non aveva nozione di cosa
fosse la Trinit. Quando il prete gli ha dato la Bibbia l'ha gettata
in terra con rabbia. Era un pagano, Socrate. E anche tu sei un pagano.
Non conosci nulla di tutto questo se affermi che Atahualpa era pio. O
se credi di convincermi che lo era.
- In realt conosco ben poco di ogni cosa. Ma tu mi dici che era un
uomo saggio e gentile.
- Nel suo modo pagano.
- Ed era un buon re per il suo popolo?
- Parrebbe di sć. Era un popolo florido, quando l'ho conosciuto.
- E tuttavia non era pio?
- Te l'ho detto. Non aveva ricevuto i sacramenti, e in effetti li ha
disprezzati fino al momento della morte, quando ha accettato il
battesimo. "Allora" Š diventato pio. Ma a quel punto era gi stato
condannato a morte e dunque non c'era pi nulla che lo potesse
salvare.
- Battesimo? Dimmi cos'Š il battesimo, Pizarro.
- E' un sacramento.
- E cioŠ?
- Un rito sacro. Fatto con l'acqua santa da un prete. Ti fa entrare
nella Santa Madre Chiesa e ti procura il perdono per i peccati, sia
quello originale sia quelli successivi, e ti d il dono dello Spirito
Santo.
- Dovrai parlarmene pi a lungo, una prossima volta. Dunque hai reso
pio il buon re col battesimo? E poi l'hai ammazzato?
- Sć.
- Ma era pio quando l'hai ammazzato. Dunque ucciderlo Š stato
sicuramente peccato.
- Ma doveva morire, Socrate!
- E perch‚ doveva? - chiese l'Ateniese.

- Socrate si prepara all'attacco finale - disse Tanner. - Sta' a
vedere!
- Sto guardando. Ma non ci sar nessuna uccisione - disse Richardson.
- Gli assunti da cui partono sono troppo distanti. -Vedrai.
- Vedr•.

Pizarro disse: - Ti ho gi spiegato perch‚ doveva morire. Era perch‚
la sua gente lo seguiva in tutto. E cosć adoravano il sole, perch‚ lui
aveva detto che il sole era dio. Le loro anime sarebbero andate tutte
all'inferno se li avessimo lasciati continuare a quel modo.
- Ma se lo seguivano in tutto - disse Socrate, - allora sicuramente
l'avranno seguito anche nel battesimo, diventando pii e facendo in
questo modo cosa gradita a te e al tuo dio. Non Š cosć?
- No - disse Pizarro accarezzandosi la barba.
- Perch‚ no?
- Perch‚ il re ha acconsentito a ricevere il battesimo solo dopo
essere stato condannato a morte. Ci intralciava, non capisci. Era un
ostacolo al nostro potere! Dovevamo liberarcene. Non avrebbe mai
condotto il suo popolo alla verit se fosse dipeso da lui. Per questo
abbiamo dovuto ucciderlo. Ma non volevamo uccidere la sua anima
insieme al suo corpo, cosć gli abbiamo detto: "Ascolta, Atahualpa,
stiamo per darti la morte. Tu lasciati battezzare e noi ti
strangoleremo rapidamente, altrimenti ti bruceremo, e sar una cosa
molto lenta". Lui, ovviamente, ha acconsentito a farsi battezzare,
cosć l'abbiamo strangolato. Non c'era scelta per nessuno. Doveva
morire. Non che abbia mai creduto alla vera fede, lo sapevamo
benissimo. Dentro di s‚ continuava a essere il grande pagano che era
sempre stato. Ma Š morto cristiano ugualmente.
- Come hai detto?
- Cristiano! Cristiano! Uno che crede in Ges Cristo figlio di Dio!
- Il "figlio" di Dio - ripet‚ perplesso Socrate. - E i cristiani
credono anche in Dio o solo in suo figlio?
- Sei proprio stupido!
- Non posso negarlo.
- C'Š il Dio Padre, il Dio Figlio e poi c'Š lo Spirito Santo.
- Ah - esclam• Socrate. - E in quale di questi dei credeva Atahualpa,
allora, quando giunse lo strangolatore?
- In nessuno.
- E pur tuttavia Š morto cristiano? Senza credere in nessuno dei
vostri tre dei? Come Š possibile?
- Grazie al battesimo! - disse Pizarro infastidito. - Cosa importa
quel che credeva? Il prete gli ha spruzzato addosso l'acqua! Se il
rito Š celebrato in modo corretto l'anima Š salva, a prescindere da
ci• che l'uomo capisce e crede. Come sarebbe possibile, altrimenti,
battezzare un neonato? Un neonato non capisce nulla e non crede in
niente... ma diventa un cristiano quando l'acqua lo tocca!
- Molto di ci• che dici mi riesce misterioso - disse Socrate. - Ma
capisco che consideri il re che hai ucciso pio oltrech‚ saggio, perch‚
Š stato bagnato dall'acqua che i tuoi dei prescrivono, e cosć hai
ucciso un buon re che ora vive nell'abbraccio dei tuoi dei grazie al
battesimo. Il che mi sembra malvagio. Questo, dunque, non pu• essere
il luogo dove vengono mandati i virtuosi dopo la morte; il che
significa che neanch'io devo essere stato virtuoso, a meno che non
abbia interpretato in modo sbagliato tutto ci• che riguarda questo
luogo e la nostra presenza qui.
- Dannazione, stai cercando di farmi diventare matto? - ruggć Pizarro,
mettendo mano alla spada. La fece roteare furibondo. - Se non chiudi
quella bocca ti taglio in tre!
- Oh, oh - disse Tanner. - Alla faccia del metodo dialettico!

Socrate disse dolcemente: - Non Š mia intenzione causarti alcun
disturbo, amico mio. Sto solo cercando di imparare qualcosina.
- Sei uno stupido!
- Questo Š sicuramente vero, come ho gi riconosciuto pi volte. Bene,
se hai intenzione di tagliarmi con la tua spada, fallo. Ma non credo
che risolver molto.
- Che tu sia dannato - mormor• Pizarro. Fiss• la propria spada e
scosse la testa. - No. No. Non servirebbe proprio a nulla, non Š vero?
Ti attraverserebbe il corpo come se fosse aria. Ma tu sei il tipo che
resterebbe immobile e lascerebbe che tentassi di tagliarlo in due,
senza batter ciglio. Non Š vero? Sei d'accordo? - Scosse la testa. -
Eppure non sei un cretino. Ragioni e argomenti come il prete pi
astuto che abbia mai conosciuto.
- In verit io sono stupido - disse Socrate. - So davvero molto poco.
Ma mi sforzo continuamente di arrivare a comprendere il mondo un po'
meglio, o almeno di cercare di comprendere qualcosa di me stesso.
Pizarro lo fiss• torvo. - No - disse. - Non ci casco. Non me la dai a
bere con questo falso orgoglio. Qualche cosa ci capisco anch'io, delle
persone. Non la bevo.
- Cosa intendi dire, Pizarro?
- La vedo la tua arroganza. Mi accorgo che sei convinto di essere il
pi saggio degli uomini e che la tua missione Š quella di istruire
poveri stupidi agitatori di spade come me. E ti atteggi a stupido per
disarmare i tuoi avversari prima di umiliarli.

- Un punto per Pizarro - esclam• Richardson. - Si Š accorto dei
tranelli di Socrate, perfettamente.
- Pu• darsi che abbia letto qualcosa di Platone - suggerć Tanner.
- Era analfabeta.
- Un tempo. Ora Š diverso.
- Mi dichiaro non colpevole. - disse Richardson. - La sua Š pura
furbizia campagnola, e tu lo sai benissimo.
- Scherzavo - disse Tanner. Si chin• in avanti, fissando l'oloteca. -
Dio, che cosa incredibile, ascoltarli mentre si dicono queste cose.
Sembrano assolutamente reali.
- Lo sono - disse Richardson.

- No Pizarro, non sono affatto saggio - disse Socrate. - Ma per quanto
sia stupido, pu• darsi che io non sia l'uomo pi stupido della terra.
- Pensi di essere pi saggio di me, non Š cosć?
- Come posso saperlo? Comincia a dirmi quanto sei saggio.
- Abbastanza da cominciare la mia vita come bastardo e guardiano di
porci e finirla come Comandante in capo del Per.
- Ah, allora devi essere molto saggio.
- Sć, penso proprio di sć.
- Eppure hai ucciso un saggio re perch‚ non era saggio abbastanza da
adorare Dio nel modo che desideravi. E stata una cosa saggia da parte
tua, Pizarro? Come ha preso la cosa il suo popolo, quando ha scoperto
che il proprio re era stato ucciso?
- E' insorto contro di noi. Ha bruciato i propri templi e palazzi, ha
nascosto il suo oro e il suo argento, ha bruciato i suoi ponti e ci ha
combattuti aspramente.
- Forse avresti potuto ottenere un risultato migliore non uccidendo il
re, non credi?
- Alla fine li abbiamo sconfitti e li abbiamo convertiti. Era ci• che
volevamo ottenere.
- Ma non si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato in un modo pi
saggio?
- Pu• darsi - ammise Pizarro di cattivo umore. - Comunque abbiamo
ottenuto la cosa pi importante, no? Abbiamo realizzato quello che
volevamo. E se c'era un modo migliore... cosć sia. Solo gli angeli
fanno le cose perfette. Noi non siamo angeli, ma abbiamo ottenuto ci•
che volevamo, e cosć sia, Socrate. Cosć sia.

- Uno a uno, direi - disse Tanner.
- Sono d'accordo.
- E' una partita tremenda quella che stanno giocando.
- Mi chiedo chi potremmo far giocare adesso.
- E io mi chiedo cosa potremmo fare con questo, oltre che giocare -
disse Tanner.

- Lascia che ti racconti una storia - disse Socrate. - L'oracolo di
Delfi una volta disse a un mio amico: "Non c'Š uomo al mondo pi
saggio di Socrate", ma io avevo i miei dubbi in proposito e mi turb•
sentir dire dall'oracolo una cosa che io sapevo essere tanto lontana
dalla verit. Cosć decisi di cercare un uomo che fosse
indubitabilmente pi saggio di me. C'era, in Atene, un uomo politico
famoso per la sua saggezza. Cosć andai da lui e gli posi molte
domande. Dopo averlo ascoltato per un po', arrivai alla conclusione
che, sebbene molte persone - e lui stesso pi di ogni altro - lo
considerassero saggio, saggio non era. Era solo convinto di esserlo.
Allora capii che dovevo essere pi saggio di lui. Nessuno di noi
sapeva davvero qualcosa, ma lui non sapeva nulla ed era convinto di
sapere tutto, mentre io non sapevo nulla ma sapevo di non sapere.
Almeno su un punto, dunque, ero pi saggio di lui: io non ero convinto
di sapere ci• che non sapevo.
- Lo dici per prenderti gioco di me, Socrate?
- Provo per te il pi profondo rispetto, amico Pizarro. Ma lasciami
continuare. Andai da altri saggi uomini, ma nemmeno loro, bench‚
convinti di sapere tutto, seppero darmi una risposta chiara su nulla.
Coloro che erano reputati i pi saggi, erano quelli che meno lo erano.
Andai da grandi poeti e drammaturghi. C'era saggezza nelle loro opere,
perch‚ gli dei li avevano ispirati, ma ci• non aveva reso loro pi
saggi, anche se essi pensavano il contrario. Andai da scalpellini, da
vasai e da altri artigiani. Erano saggi nel loro mestiere, ma molti di
loro pensavano di esserlo in tutto, il che non era affatto vero. E
and• sempre cosć. Non seppi trovare nessuno che mostrasse vera
saggezza. Cosć forse l'oracolo aveva ragione: anche se io sono un uomo
ignorante, non c'Š un uomo pi saggio di me. Ma gli oracoli hanno
spesso ragione senza che le loro parole abbiano molto valore. Penso
che ci• che voleva semplicemente dire fosse che nessun uomo Š saggio,
che la saggezza Š riservata agli dei. Cosa ne pensi, Pizarro?
- Penso che sei un grande stupido, e brutto, per giunta.
- Dici il vero. Cosć, dunque, dopotutto sei saggio. E onesto.
- Onesto, dici? Non ci tengo, grazie. L'onest Š un gioco per gli
stupidi. Io ho mentito ogni volta che Š stato necessario. Ho barato.
Ho mancato alla parola data. Non ne sono orgoglioso, bada. E'
semplicemente quello che bisogna fare in un mondo come il nostro.
Pensi che volessi fare il guardiano di porci tutta la vita? Volevo
l'oro, Socrate! Volevo il potere sugli uomini! Volevo la fama!
- E hai ottenuto tutte queste cose?
- Tutte.
- E sono state gratificanti, Pizarro?
Pizarro gli lanci• un lungo sguardo. Poi incresp• le labbra e sput•. -
Non valevano nulla.
- Davvero? Credi?
- Sć, non valevano nulla. Non mi faccio illusioni a questo riguardo.
Comunque Š stato meglio averle che non averle. Alla lunga, nessuna
cosa ha importanza, vecchio. Prima o poi moriamo tutti, l'onesto e il
disonesto, il re e lo stupido. La vita Š un imbroglio. Ci dicono di
darci da fare, di conquistare, di guadagnare... e per cosa poi? Per
cosa? Per qualche anno di gloria. Poi ti portano via tutto, come se
non ci fosse mai stato niente. Un imbroglio, ti dico. - Pizarro fece
una pausa. Fissava le proprie mani come se non le avesse mai viste
prima. - Sono io che ho detto queste cose? Era questo che volevo dire?
- Rise. - Be', immagino sia cosć. E tuttavia, la vita Š l'unica cosa
che abbiamo, cosć vogliamo il massimo da lei. Il che significa oro,
potere, fama.
- Che tu hai ottenuto. E che a quanto pare non hai pi. Amico Pizarro,
dove siamo ora?
- Mi piacerebbe saperlo.
- Anche a me - disse pacato Socrate.

- E' reale - disse Richardson. - Tutti e due lo sono. Non ci sono
falle nel programma e siamo in presenza di qualcosa di spettacolare.
Non solo potr essere utile agli studiosi, ma diventer anche una
straordinaria occasione di intrattenimento, Harry.
- Diventer ben di pi - disse Tanner con una strana voce.
- Cosa vuoi dire?
- Non so bene, ancora. Ma sono convinto che sia qualcosa di grosso. Ci
sto pensando da qualche minuto, e non ho ancora tutto chiaro. Ma si
tratta di qualcosa che cambier la fisionomia del mondo intero.
Richardson lo fiss• stupefatto.
- Cosa diavolo stai dicendo, Harry?
Tanner disse: - Un nuovo modo di dirimere le controversie politiche,
per esempio. Che ne diresti, per esempio, di una specie di
combattimento di campioni tra una nazione e un'altra? Come una sorta
di torneo medievale, all'incirca. Ogni nazione potrebbe servirsi di
campioni che noi simuleremmo per loro... le pi grandi menti del
passato, riportate in vita e messe a confronto... - Scosse la testa: -
Qualcosa del genere, insomma. Richiede un'enorme quantit di lavoro,
ma Š fattibile.
- Un torneo medievale... un combattimento di campioni servendosi di
simulazioni? E questo che stai proponendo?
- Combattimenti verbali. Non vere giostre, per carit divina.
- Non vedo come... - cominci• Richardson
- Neanch'io. Non ancora. Avrei dovuto star zitto.
- Ma...
- Pi tardi, Lew. Pi tardi. Dammi ancora un po' di tempo per pensarci
su.

- Non hai nessuna idea su che tipo di posto Š questo? - chiese
Pizarro.
- Neanche la pi pallida. Ma sono sicuro che non Š il mondo in cui
abbiamo vissuto. Siamo dunque morti? Difficile dirlo. Tu ai miei occhi
sembri vivo.
- Anche tu ai miei.
- Eppure credo che stiamo vivendo un qualche altro genere di vita.
Qua, dammi la tua mano. Riesci a sentire la mia mano che stringe la
tua?
- No, non riesco a sentir nulla.
- Nemmeno io. Eppure vedo due mani che si stringono. - Socrate rise. -
Sei un gran mascalzone, Pizarro!
- Sć, certo. Ma vuoi sapere una cosa? Anche tu lo sei. Un vecchio
mascalzone linguacciuto. Mi piaci. Ci sono stati dei momenti in cui mi
stavi facendo impazzire con tutte le tue chiacchiere, ma mi hai anche
divertito. Davvero sei stato un soldato?
- Sć, quando la mia citt ha avuto bisogno di me.
- Per essere un soldato sei straordinariamente ingenuo, direi, sembra
che tu non sappia come va il mondo. Ma penso che una cosina o due
potrei insegnartele.
- Davvero lo faresti?
- Volentieri - disse Pizarro.
- Te ne sarei davvero grato - disse Socrate.
- Prendi Atahualpa - disse Pizarro. - Come faccio a farti capire che
dovevo ammazzarlo? Noi non arrivavamo a duecento persone, loro erano
ventiquattro milioni, e la sua parola era legge, e una volta eliminato
lui non c'era nessuno a comandarli. Cosć "per forza" dovevamo
sbarazzarci di lui se volevamo conquistarli. Cosć l'abbiamo fatto, e
li abbiamo conquistati.
- Come fai sembrare tutto semplice!
- Ed Š stato semplice. Ascolta, vecchio, tanto prima o poi sarebbe
morto lo stesso, no? In questo modo ho reso utile la sua morte, utile
a Dio, alla Chiesa e alla Spagna. E a Francisco Pizarro. Riesci a
capire?
- Credo di sć - disse Socrate. - Ma credi che Atahualpa l'abbia
capito?
- Ogni re capisce queste cose.
- Allora avrebbe dovuto ucciderti nel momento stesso in cui mettevi
piede nella sua terra.
- A meno che Dio non volesse la nostra vittoria, e non glielo abbia
fatto capire. Sć. Sć. Deve essere andata proprio cosć.
- Forse Š da queste parti anche lui e potremmo chiederglielo - disse
Socrate.
Gli occhi di Pizarro si illuminarono. - Madre de Dios, sć! Davvero una
buona idea! E se non capisse, be' cercher• di spiegarglielo. Magari
potresti darmi una mano. Tu sai come si fa a parlare. Sei abilissimo a
menare il can per l'aia. Che ne dici? Mi aiuterai?
- Se lo incontriamo mi piacerebbe parlargli. Mi piacerebbe davvero
sapere se Š d'accordo con te sulla necessit di esser fatto fuori da
te.
Sogghignando Pizarro disse: - Sei un gran figlio di puttana. Ma mi
piaci. Mi piaci molto. Vieni, andiamo a vedere se riusciamo a trovare
Atahualpa.

Titolo originale: "Enter a Soldier. Later: Enter Another".
copyright 1989 Agberg Ltd.
Traduzione di Dida Paggi.






RELAZIONI.
Robert Sampson.

Qualche giorno dopo il suo quarantottesimo compleanno Hadley Jackson
si accorse di essere in grado di materializzasse le donne del suo
passato. Bastava solo orientare i pensieri ed eccole lć sedute,
impudenti come la vita stessa, che gli parlavano come se il tempo non
esistesse. Come se le loro vite avessero continuato a sfiorare la sua.
La sua capacit di richiamarle lo turbava alquanto, ma non era paura,
non prov• mai paura.
In quel periodo passava sempre pi spesso le sue serate rintanato nel
suo appartamento. Viveva con due gatti, Gloria e Bill. Aveva preso
l'abitudine di leggere per loro a voce alta: gli leggeva dei brani
scelti da settimanali di informazione, o le poesie di Emily Dickinson.
I gatti sembravano indifferenti alle sue scelte. Leggere a voce alta
gli dava la sensazione che la sua vita avesse ancora un senso e una
direzione.
Un lunedć pens• a Mildred Campbell. Un tempo le aveva voluto molto
bene. Non avevano mai avuto quella che nel senso comune del termine
viene chiamata relazione. Tra loro era mancato qualcosa di essenziale.
Lei non ricambiava, o non poteva ricambiare, i suoi sentimenti. Alla
fine si erano allontanati l'uno dall'altro con una sorta di debole
rimpianto.
Improvvisamente eccola lć, seduta sulla sedia vicino al suo tavolo.
Indossava un vestito blu di una stoffa che accarezzava le sue forme,
calze scure e scarpe scure con i tacchi alti. La punta della sua
scarpa sinistra batteva sul tappeto, come sempre quando voleva andare
a casa e stava per dirglielo.
Capć subito che non era reale. Apparentemente lo sapeva anche lei, ma
ci• non sembrava turbarla.
- Tutto questo non ti far certo bene - disse lei. La sua voce, pi
vivace e piacevole che mai, lasciava trasparire una certa impazienza.
Prima o poi quella sensazione riusciva sempre a sciupare tutti i loro
incontri.
- Stavo proprio pensando a te.
- Be', io sono molto lontana. Per dire la verit non pensavo a te da
anni.
- Non l'hai mai fatto. Non molto - disse lui.
Lei rise a quella sua frase e un gatto si sporse per guardarlo,
passando con la testa attraverso la spalla di lei. Questo lo fece
dapprima sentire male e poi lo irrit•; dimostrando chiaramente che
Mildred era una specie di nuvola.
- Lasciamo perdere - replic• lei. - Una volta mi sei piaciuto per
quasi dieci minuti. Ma, mio Dio, non puoi prolungare dieci minuti
all'infinito.
- Tu mi sei piaciuta per un tempo pi lungo.
- Ma non prenderti in giro - disse lei. E scomparve. Il gatto la stava
ancora guardando; poi salt• gi e si infil• sotto il tavolo.
Lui tocc• la sedia dove poco prima lei stava seduta e annus• l'aria.
Non era rimasta traccia del suo profumo. Pens• che se era venuta
Mildred magari ne sarebbero venute altre. Cosć torn• a sedersi e si
ricord• di Ruth, ma non riuscć a orientare bene i suoi pensieri, non
trovava la giusta forma mentale. Pi tardi fece una passeggiata
intorno all'isolato, annus• il profumo delle foglie nella notte e si
chiese se sarebbe stato possibile licenziarsi dalla Creative Chemicals
e aprire uno studio di consulenza.
La sera dopo pens• di nuovo a Ruth e questa volta lei apparve subito.
Indossava un lungo vestito bianco alquanto serioso e portava degli
orecchini e una collana d'oro. I capelli erano di un biondo pi chiaro
di come li ricordava. Era un po' tesa, e anche questo gli era
abbastanza familiare. Allungandosi sul canap‚ gli sorrise e accavall•
le gambe.
- I vecchi amici si incontrano di nuovo - aveva le labbra rosso fuoco.
Tuttavia c'era qualcosa di strano nei suoi occhi, erano come velati da
una sottile patina bianca.
- Saranno quasi vent'anni - disse lei. - E' passato parecchio tra una
visita e l'altra. Dove vivi adesso?
- Sono morta - rispose lei. - Molti anni fa.
- Mi dispiace. Ho pensato molto a te, ma non sapevo dove ti eri
trasferita.
- Cosć vanno le cose - disse lei. - Quando ci si separa lo spazio che
ti divide dall'altro diventa sempre pi grande. Non sai mai dove andr
a finire l'altra persona, n‚ cosa far una volta giunta a
destinazione.
Era sconvolto dai suoi occhi e non gli veniva in mente niente da dire.
La voce di lei aveva un tono basso e divertito. Quando volt• la testa
gli orecchini luccicarono.
- Solo perch‚ sono morta non vuol dire che ci sia qualcosa di strano
in me. Voglio dire, non sto certo per tagliarti la gola o fare altre
assurdit del genere.
- Com'Š essere morti?
- Non lo so. Non Š una cosa che si possa descrivere. Si sentono dire
tante di quelle stupidaggini...
Poi lei si aggiust• con cura la gonna con le dita. - Forse Š meglio
che vada - disse, - mi sta passando l'effetto del whisky.
Quando si alz• lui comment• con improvviso dispiacere: - Mi dispiace
che tu sia morta.
- E' successo in fretta. Questo me lo ricordo.
Dopo che se ne fu andata lui rimase seduto in silenzio, a pensare. Uno
dei gatti gli mordicchiava la mano che aveva lasciato penzolare. Pens•
agli occhi di lei, avevano un aspetto orribile. Si accorse che si era
dimenticato di chiederle dove aveva vissuto o come era stata la sua
vita. Fu assalito dalla vergogna. O forse erano sensi di colpa. Era
una sensazione dal sapore metallico, grigio, il sapore dei chiodi.
Lei lo aveva riconosciuto, pens•. Dopo tutti quegli anni.
Dormć sulla poltrona. Quando si svegli• fuori era ancora buio, ma la
luce era accesa e i gatti si erano raggomitolati tra la sua gamba e il
bracciolo.

La sera dopo sua figlia Janet lo chiam• da Phoenix. Il tono della sua
voce era pieno di entusiasmo e di calore, ma passava velocemente da un
discorso all'altro come se temesse che una domanda di lui potesse
spezzare un fragile equilibrio. Quella combinazione di espansivit e
reticenza lo infastidiva.
- Sto bene - disse lei. - Stiamo tutti bene.
- Voglio dire, come stai veramente.
- Sto benissimo, pap. - La sua voce assunse un tono vagamente
querulo. La sua ex moglie, Helen, madre di Janet, moglie di un altro
uomo, era andata a sbattere con l'automobile contro una vetrata mentre
andava a lezione. Helen voleva sapere, disse Janet, se lui desiderava
un soprammobile da mettere davanti alla finestra: un cactus di vetro o
un messicano dormiente. Rifiut•. Helen cercava costantemente di
offrirgli dei regali attraverso la figlia senza mai parlare
direttamente con lui. Il risultato era che riceveva dei messaggi
provenienti da un altro pianeta. Forse, pens•, Š Janet che cerca di
tenerci in contatto. Uno dei gatti si strofin• contro la sua gamba.
- Ciao - disse lei. Il telefono gli ronz• cupamente nell'orecchio.
Pi tardi attravers• lentamente in auto il centro della citt fino al
cinema del Centro Commerciale. Nuvole luminose striavano il cielo come
strisce di vetro colorato, rosa e verdi e grigio chiaro.
Nel cinema le luci si abbassarono e una sequela senza fine di messaggi
pubblicitari trabocc• dallo schermo. Nessuno dei personaggi delle
pubblicit aveva pi di venticinque anni.
Mentre gli scorrevano davanti gli annunci pubblicitari, Hadley
improvvisamente pens• a Rosemary Chalson. Si erano conosciuti per caso
anni prima, a una mostra della "South Pacific". Per quasi tutta la
durata del film si torment• chiedendosi se doveva prenderle la mano.
Quando finalmente si decise a toccarla, il pubblico proruppe in una
risata. Rosemary si batt‚ entrambe le mani sul volto e scoppi• a
ridere, mostrando le gengive. Lui lo trov• deplorevole. Prima che
potesse decidere cosa fare della sua mano, il film era finito.
Pensando a lei e ai lunghi tormenti dell'adolescenza, lanci• uno
sguardo alla sua destra. Rosemary stava seduta nella poltroncina
accanto, sulle ginocchia teneva una vaschetta di popcorn. Mentre la
giovent delle pubblicit scorreva di nuovo sullo schermo lei si port•
un chicco alla bocca.
- Sono passati tanti anni... - disse impulsivamente.
La vide spalancare gli occhi sbigottita, il corpo vicinissimo al suo.
Immediatamente si rese conto che non era Rosemary. Fu pervaso
dall'orrore e disse frettolosamente: - Mi scusi, mi scusi.
Si alz• e pass• a fatica tra una fila di ginocchia fino a raggiungere
il corridoio. La gente irritata cercava di guardare oltre, intenta a
fissare lo schermo vociante.
Fuori dal cinema sentć un brivido gelido percorrergli la schiena. Era
identica a Rosemary, pens•. Il suo sbaglio lo terrorizz•, la sua mente
gli parve assalita da una pericolosa energia, come un fucile carico.
Si allontan• dal Centro Commerciale passando sotto le lampade
arancioni fissate su alti pali argentati. La strada si snodava lungo
file di case beige. Nulla si muoveva. Il cielo era scuro e calmo,
senza luna e senza stelle. In quella strada deserta, con quella luce
cupa, le case sembravano immagini dipinte nell'aria; dietro di loro il
paesaggio monotono del nulla che attendeva di essere modellato.
C'era una somiglianza di fondo, pens•, tra quella strada e il suo
laboratorio, dove per tutta la settimana aveva lavorato al difficile
compito di installare un nuovo sistema computerizzato. Dietro file di
armadietti e scatoloni penzolava una selva di cavi neri; l'estremit
di ognuno brillava di un riflesso argentato, in attesa di venire
collegato.
Nella sua vita, c'erano state troppe interruzioni. Troppi fili
penzolanti. Restavano soltanto i collegamenti con il passato. Gli
sembrava di essere legato a malapena al presente.
La donna al suo fianco si chin• per regolare il sedile; quando si
raddrizz• riconobbe Helen Wycott-Wrycott. Si sentć decisamente
turbato; non l'aveva pi vista dai tempi dell'universit e da allora
non aveva mai pi pensato a lei.
Ora appaiono senza neppure che io le chiami, pens•.
Lei lo fiss• con sguardo sprezzante. - Tu dovevi essere sempre il
migliore di tutti.
- Non mi sentivo tale - disse lui.
- Non era quello che davi a vedere.
Svoltarono in una strada buia con delle case scure dietro a una
striscia di giardino; le cassette della posta risplendevano tetre
lungo i bordi della strada. Non riusciva a pensare a una sola ragione
perch‚ lei fosse venuta. Con gli anni aveva messo su parecchi chili e
il ricordo della sua figura galleggiava in quella faccia crudelmente
dilatata.
- Tu sei sempre stata intelligente e svelta, non sapevo mai cosa dirti
- disse lui.
- Passavi troppo tempo a pensare a te stesso.
- Questo non Š vero - ribatt‚ lui cercando di ricordare.
- Lo Š, invece, eccome. Lo stai facendo anche adesso.
Andarono avanti in silenzio per qualche isolato; lei lo guardava
fisso, scuotendo la testa.
- Ti conviene lasciar perdere - gli disse. - C'Š di pi nella vita che
non le persone che conoscevi un tempo.
- Stammi a sentire - replic• lui, - non ti ho voluta io qui.
- Voglio scendere - disse lei.
Lui ferm• la macchina. Quando aprć lo sportello lei era sparita.
L'aria notturna aveva un odore fresco e umido, gli tremavano
leggermente le mani. E' la rabbia, pens•.
Rimuginando sulla loro conversazione non pot‚ fare a meno di
constatare che comunque era riuscito ad avere un leggero sopravvento
su di lei. Si avvi• rapidamente verso casa fischiettando tra s‚ e s‚ e
battendo il tempo sul volante. Obiettivamente era chiaro che
presentava tutti i sintomi della pazzia. Pens• all'eventualit di un
collasso mentale con una certa dose di allegria. Forse adesso era
entrato in una fase maniacale. Era interessante vedere come i sintomi
del suo progressivo distacco dalla realt si esprimevano in forma di
donna. Gli pareva una cosa vagamente divertente.
Quando aprć la porta dell'appartamento i gatti gli corsero incontro
emettendo degli striduli suoni di saluto. Al di sopra dei loro versi
sentć un sommesso mormorio di voci femminili.
Nel soggiorno c'erano due donne che gli sorridevano. Una era Ruth, che
quella sera indossava in tailleur nero e delle perle; si dondolava
mollemente sul canap‚, era evidente che aveva bevuto troppo. L'altra
donna, vestita con un logoro maglioncino e dei jeans, stava seduta
compostamente su una sedia, le ginocchia unite. Non la riconobbe.
Ruth lo salut• con disinvoltura, facendo un cenno con la mano. -Adesso
vieni a sederti qui. Stavamo proprio decidendo cosa fare di te.
L'altra donna sorrise: - Scommetto che non ti ricordi di me.
Quando sorrise un'espressione di dolcezza le illumin• il viso magro.
Una vecchia amica della sua ex moglie. Ricordava il suo sorriso.
Nient'altro.
- Mi ricordo - disse con una leggera esitazione.
- Virginia Cox - replic• lei. - Virginia Ames adesso. Ho quattro
nipoti adesso.
- Mi fa piacere - comment• lui. A Ruth scapp• un risolino soffocato.
Sfior• lievemente con le dita la mano di Hadley e si chin• verso di
lui.
- E' passato tanto di quel tempo - disse Virginia. - Ti trovavo cosć
attraente, ma naturalmente eri sposato e cosć non te l'ho mai detto.
- Ora Š diverso - ribatt‚ Ruth.
- E' come sempre - disse Virginia. - Siamo soltanto pi aperti.
Ruth si lasci• cadere pesantemente all'indietro ridendo ad alta voce.
- Ha ragione, Hadley, siamo pi aperti.
- Credo di sć - aggiunse lui, ancora incapace di guardarla negli
occhi.
- Lo stiamo sconvolgendo - disse Virginia.
- Guarda che uomo! - disse Ruth dandogli un colpetto sul ginocchio, le
punte delle dita laccate di smalto rosso fuoco sparivano e
riapparivano nella stoffa dei suoi calzoni. - Non eri innamorato di me
un tempo, Hadley?
Lui guard• prima il pavimento e poi le facce divertite delle due
donne. - Credo di sć, un tempo.
- Lo crede - fece eco lei soddisfatta facendo le fusa come un gatto. -
Lui non lo sa. Lo crede.
- Be', il punto Š che non puoi rimanere attaccato al passato per
sempre - disse Virginia. Un sorriso vivace le illumin• il volto.
- Il passato Š stato divertente - aggiunse Ruth.
- Ma adesso Š finito, lo sai - sottoline• Virginia. - Non puoi
continuare a rivangarlo. Cosć Ruth e io abbiamo deciso di aiutarti.
Si alz• in piedi, non sembrava affatto una nonna. - Che gatto carino,
come si chiama?
- Bill - disse lui.
Mentre si volt• per guardare il gatto, Virginia scomparve.
- Aspetta un momento - grid• voltandosi di scatto verso Ruth.
- E' tutto quello che volevamo dirti - replic• lei.
La sua figura vacill• e le sue braccia e il corpo scivolarono via,
separandosi dalle spalle e dalla testa. Poi disse: - Non pensare
neanche per un momento che non siamo state qui. Fase maniacale un
corno.
- Volevo dire...
- Sei dolce - comment• lei. - Ce la fai a tornare a casa per le cinque
domani?
Le sue sembianze si dissolsero, galleggiarono per la stanza come scie
luminose. Erano passate le dieci. Si lasci• cadere sul canap‚ e
affond• la faccia nei cuscini a fiori.

La sera successiva alle cinque il campanello suon• una volta,
brevemente, come se fosse stato toccato con imbarazzo, come fosse un
dovere e non sarebbe suonato una seconda volta. Quando aprć la porta
Bill stava per lanciarsi fuori e dovette trattenersi per restare
fermo. Di fronte a lui, davanti alla porta d'entrata c'era una donna
alta, con il volto magro e una massa di capelli scuri. Gli sorrise
esitante e abbass• lo sguardo, aveva gli occhi color grigio scuro. Lei
fu assalita dall'imbarazzo e riuscć a mala pena a dirgli: - E' il
signor Jackson? Hadley Jackson?
- Sissignora.
- Lei conosceva Ruth Payne un tempo?
- Ruth? Oh, sć.
Lei irrigidć le labbra, era talmente a disagio che quasi gli fece
compassione.
- Di certo le sembrer incredibilmente ridicolo - disse lei senza
guardarlo. - Lei voleva, mi diceva sempre che avrei dovuto
incontrarla.
- Capisco - ribatt‚ lui.
A quel punto lei lo guard• in faccia e i loro sguardi si incrociarono.
In quel momento la tensione che c'era in lei in parte si sciolse.
Sembrava intelligente e forse un po' diffidente.
- Ha saputo di Ruth? - gli chiese.
- E' morta.
- Sć, Š morta.
Lui pens• che avrebbe aggiunto qualcosa, ma non lo fece.
Dopo un attimo le disse: - Ricollegato. - Lo disse piano. Lei arrossć
leggermente e guard• via.
Prima che lei potesse riprendersi e scappare lui aggiunse rapido: -
Stavo proprio per andare al bar a prendere un caffŠ, vorrebbe farmi
compagnia?
Lei si guard• intorno come se dovesse decifrare delle complicate
istruzioni.
- Sć, credo di sć.
- Prendo il cappotto, entri pure.
Con il gatto ancora in braccio, si fece da parte. A testa alta,
sorridente, lei entr• per la prima volta nel suo appartamento.

Titolo originale: "Relationships".
Copyright 1989 Strange Plasma.
Traduzione di Daniela Rossi.










PROPRIO UN'ALTRA BELLA GIORNATA.
John Varley.

Non ti preoccupare.
E' tutto sotto controllo.
So quello che provi. Ti sei svegliato da solo in una stanza
sconosciuta, ti sei alzato, guardato intorno, e hai scoperto quasi
subito che entrambe le porte sono chiuse da fuori. Sarebbe abbastanza
per sconvolgere chiunque, specialmente quando uno prova e riprova a
ricordarsi come sia finito lć, e non ci riesce proprio.
Ma, al di l di tutto questo, c'Š quella particolare sensazione... so
che la stai provando, adesso. Io so un sacco di cose, e te le riveler•
tutte, poco alla volta.
Una delle cose che so Š questa.
Se adesso tu ti siedi, rimetti questi fogli sul tavolo dove li hai
trovati, e fai dei lunghi e profondi respiri, contando fino a cento,
ti sentirai molto meglio.
Ti prometto che sar cosć.
Fallo, ora.
Visto? Adesso ti senti molto meglio.
Ma devo dirti con dispiacere che questa sensazione non durer a lungo.
Vorrei che ci fosse un modo pi facile per fare tutto ci•, ma
purtroppo non c'Š e, credimi, ne sono stati provati parecchi. Allora.
Non siamo nel 1986.
Tu non hai venticinque anni.
Oggi Š il

12 giugno 2008

Un sacco di cose sono successe in

ventidue

anni, e ti dir• a suo tempo tutto quello che devi sapere in proposito.
Per adesso... non preoccuparti.
Respiri lenti e profondi. Chiudi gli occhi. Conta fino a cento.
Ti sentirai meglio.
Te lo prometto.
Se adesso ti alzi, scoprirai che la porta del bagno si apre. Dentro
c'Š uno specchio. Guarda la tua immagine, impara a conoscere l'uomo di

quarantasette

anni che vedrai, che ti guarder indietro.
E non ti preoccupare.
Respira profondamente, alzati e vai.

Benissimo.
So bene quanto sia stato difficile. So che stai tremando, che provi
confusione, paura, rabbia, centinaia di emozioni diverse.
E so che hai centinaia di domande da fare. Per tutte ci sar una
risposta, ma al momento giusto.
Prima, alcune regole base.
Non ti mentir• mai. Non immagini neanche quanta cura e quanta angoscia
siano state spese nella stesura di questa lettera. Per adesso, devi
credere sulla parola che i fatti ti verranno rivelati nell'ordine pi
utile, e nel modo pi giusto per essere compresi. Devi capire che non
tutte le tue domande possono avere subito una risposta. Forse sar pi
difficile per te accettare che alcune di esse non avranno del tutto
una risposta, finch‚ non sia stato preparato un adeguato back-ground.
Queste risposte non significherebbero niente per te, ora.
Ti piacerebbe che qualcuno - chiunque - fosse con te adesso, in modo
che tu possa "fare" queste domande. E' gi stato provato, e i
risultati sono stati inutilmente caotici e confusionari. Questa
lettera Š la maniera migliore, fidati di me.
E perch‚ dovresti farlo? Per una ragione molto valida, e cioŠ che io
sono te. Tu hai scritto, in un certo senso, ogni parola di questa
lettera, in modo da aiutarti a passare questo terrificante momento.
Respiri profondi, per favore.
Rimani seduto, ti aiuter un po'.
E non ti preoccupare.

E cosć abbiamo passato anche la bomba numero due. Ce ne saranno delle
altre, ma pi semplici da inghiottire, semplicemente perch‚ la tua
capacit di farti sorprendere Š giunta al suo apice, in questo
momento. Fra un po' subentrer un certo torpore, ma sar meglio cosć.
E adesso torniamo alle tue domande.
La prima della lista: che cosa Š successo?
Brevemente, per il momento. Poi ci torneremo sopra.
Nel 1989 hai avuto un incidente. Ne sono rimasti coinvolti una
motocicletta, che tu non ti ricordi d'aver mai avuto perch‚ l'hai
comprata solo nel 1988, e un autobus. C'erano pareri contrastanti su
chi doveva avere la precedenza, e l'autobus ha avuto la meglio.
Toccati la testa con la punta delle dita, ma non ti impressionare. Sei
guarito gi da un bel pezzo. Sotto quelle grosse cicatrici ci sono gli
inutili risultati delle fatiche dei migliori neurochirurghi del paese.
Alla fine della fiera, si sono limitati a tirar via un po' di materia
grigia e richiuderti, scuotendo sapientemente la testa e rimanendo
dell'opinione che con ogni probabilit d'allora in poi ti saresti
sentito maggiormente a tuo agio chiuso in un vasetto come un
sottaceto.
Ma tu li hai fatti fessi. Ti sei risvegliato, con grande gioia di
tutti, anche se non riuscivi a ricordarti nulla che fosse avvenuto
dopo l'estate dell'86. Sei rimasto sveglio alcune ore, quanto bastava
perch‚ i dottori appurassero che la tua intelligenza non sembrava
essere danneggiata. Potevi parlare, leggere, vedere, sentire. Poi ti
sei riaddormentato.
Il giorno dopo ti sei svegliato, e non riuscivi a ricordarti nulla di
successivo all'estate '86. Nessuno era particolarmente preoccupato. Ti
dissero di nuovo quello che era successo. Sei rimasto sveglio per la
maggior parte del giorno, poi ti sei riaddormentato.
Il giorno dopo ti sei svegliato, e non ricordavi niente dopo l'estate
'86. Qualcuno cominci• a dimostrare una certa costernazione.
Il giorno dopo ti sei svegliato, e non ti ricordavi niente dopo
l'estate '86. Vi fu un gran grattarsi di teste professorali, un gran
pronunciare parole latine di sette sillabe, e furono borbottati
profondi borbottii.
Il giorno dopo ti sei svegliato, e non ti ricordavi niente dopo
l'estate '86.
E il giorno dopo.
E quello dopo ancora.
"Questa" mattina ti sei svegliato, e non ti ricordi niente di
successivo all'estate '86. So che sta diventando una storia vecchia,
ma era una situazione che andava ben puntualizzata, perch‚ adesso
siamo nel

2008

e cominciamo a pensare che la cosa segua un certo schema.
No, no, adesso non respirare profondamente, non contare fino a cento.
Fronteggia la realt a testa alta, sar molto meglio.
Di nuovo sotto controllo?
Sapevo che ce l'avresti fatta.
Quella che tu hai si chiama "progressive narco-catalepti-amnesiac
syndrome" (Pncas, o, pi affettuosamente, Pinkus), e dovresti essere
orgoglioso di te stesso, perch‚ hanno dovuto coniare un nuovo termine
per descrivere la tua malattia e sono stati scritti almeno una mezza
dozzina di articoli scientifici per provare che non pu• esistere.
Quello che sembra accadere, nonostante questi articoli, Š che sei in
grado di immagazzinare e recuperare ricordi fintanto che perdura il
filo del tuo stato di coscienza. Ma i centri del sonno in qualche modo
attivano nella tua testa un meccanismo di cancellazione, in modo che
tutto quello che hai esperimentato durante il giorno viene perso a
ogni nuovo risveglio. I vecchi ricordi sono vividi e intatti, quelli
nuovi sono effimeri, come se fossero registrati su un nastro che gira
in circolo e viene cancellato a ogni passaggio.
La maggior parte delle amnesie di questo tipo mostrano sintomi
parecchi diversi. Spesso si riscontra l'amnesia retrograda, nella
quale si perdono gradualmente anche i vecchi ricordi, e si ritorna a
uno stato infantile. E si conoscono anche alcuni casi di amnesia
progressiva: i poveri cristi che ce l'hanno non riescono a ricordare
cosa gli sia successo non pi di cinque minuti prima. Prova a
immaginare che vita sarebbe in circostanze simili, prima di metterti a
piangere nel bicchiere.
Ah, fantastico, mi sembra di sentirti piagnucolare. Ti sembra il caso?
Be', certamente io dovrei essere l'ultimo a farti un rimprovero del
genere. Il ricordo del mio risveglio Š ancora troppo fresco nella mia
mente, essendo avvenuto soltanto quindici ore fa. E, in un certo
senso, io fra poco sar• morto, strappato a questa effimera esistenza
dalle braccia di Morfeo. Mentre dormir•, stanotte, la maggior parte di
quello che io sento essere "mio" svanir. Mi sveglier•, pi vecchio e
meno saggio, in completa confusione, legger• questa lettera, respirer•
profondamente, conter• fino a cento, osserver• un estraneo allo
specchio. Sar• te.
E ancora adesso, mentre rileggo rapidamente la lettera per la seconda
volta (ho detto d'averla scritta io, in un certo senso; in realt Š
stata scritta da centinaia di persone dalla vita brevissima), mi
stanno chiedendo se non c'Š qualcosa che vorrei che cambiasse. Se lo
volessi, Marian se ne occuperebbe. C'Š qualsiasi cosa che mi
piacerebbe fare in modo differente, domani? C'Š qualcosa che vorrei
dire a te, il mio successore in questo corpo, in modo che tu te ne
possa guardare, o non crederci? Ci sono degli avvertimenti che vorrei
farti?
La risposta Š no.
Lascer• questa lettera cosć com'Š, nella sua intierezza.
Ci sono cose che devi ancora sapere che ti convinceranno, al di l di
ogni ragionevole supposizione, che tu hai una meravigliosa "vita lunga
un giorno" davanti a te.
Ma ora hai bisogno di riposare, di tempo per pensare.
Fai una cosa per me. Torna indietro a dove c'era la data, cancella
l'ultimo numero e scrivici quello successivo. Se inizia un nuovo mese,
cambia anche quello.
Adesso scoprirai che si apre anche l'altra porta. Va' nell'altra
stanza, dove troverai la colazione e una busta con la seconda parte di
questa missiva.
Ma non aprirla subito. Prima mangia.
Rifletti.
Non troppo, per•. Hai poco tempo e non ne devi sprecare.
Ti senti meglio, eh, adesso?
Non dovrebbe sorprenderti il fatto che sul tavolo hai trovato il tuo
tipo di colazione preferita. Mangi le stesse cose ogni mattina e non
te ne stanchi mai.
E mi dispiace se questa constatazione ti ha tolto un po' del piacere
del cibo, ma Š necessario che io continui a ricordarti le condizioni
in cui ti trovi, in modo da impedire che abbia inizio un ciclo di
rigetto.
Questa Š la cosa che devi ficcarti bene in testa: oggi Š l'unico
giorno della tua vita.
E dato che sar cosć corta, non ne devi sprecare neanche un po'. In
questa lettera talvolta ho affermato cose ovvie, oppure esposto
conclusioni cui tu eri gi giunto, sprecando, in un certo senso, il
tuo tempo. Ogni volta che l'ho fatto - e che far• ancora, nel resto
della lettera - l'ho fatto con uno scopo ben preciso. Bisogna chiarire
bene alcuni punti, a volte brutalmente, a volte ripetendomi. Ti
prometto che questo modo di procedere verr ridotto al minimo
indispensabile.
Adesso dedicher• un po' di spazio a quello che potrebbe sembrare uno
spreco di tempo, ma in realt non lo Š, perch‚ verranno ben chiarite
parecchie delle domande pi scottanti, che si possono riassumere in
una sola: "Che cosa Š successo in questi vent'anni?".
La risposta Š: non ti interessa.
Non te lo puoi permettere. Perfino un breve riassunto degli
accadimenti pi recenti richiederebbe ore per essere letto, e sarebbe
una stupidaggine. A te non interessa chi Š il Presidente. N‚ il prezzo
della benzina, n‚ chi abbia vinto il campionato nel '98. Perch‚
imparare queste banalit, quando dovresti semplicemente riimpararle
domani?
Non ti interessa quali siano i libri o i film pi popolari. Ormai hai
gi letto il tuo ultimo libro e visto il tuo ultimo film.
Sei un orfano che, fortunatamente, non ha fratelli o sorelle n‚ altri
parenti stretti (Š una fortuna, pensaci). La ragazza con cui stavi ai
tempi del tuo incidente ha dimenticato tutto di te, e a te non
interessa, perch‚ non la amavi.
Ma ci sono delle cose che sono successe che tu devi sapere. Te ne
parler• fra poco.
Nel frattempo...
Ti piace la stanza? Non sembra proprio quella di un ospedale, vero?
Comoda e piacevole, eppure non ci sono finestre e l'unica altra porta
era chiusa a chiave, quando hai cercato di aprirla.
Provaci ancora, adesso si aprir.
E ricordati...
Non ti preoccupare.

Non ti preoccupare. Non ti preoccupare. Non ti preoccupare.
Avrai smesso di piangere, a questo punto. So che hai un disperato
bisogno di qualcuno con cui parlare, di un volto umano da guardare.
Succeder molto presto, ma prima devo ancora parlarti per alcuni
minuti del tuo recente passato.
Incidentalmente, il motivo per cui gli esercizi di respirazione e
conteggio sono cosć efficaci Š che si tratta di una suggestione post-
ipnotica instillata nella tua mente. Quando leggi le parole "non ti
preoccupare", ti rilassi. Sembra che da qualche parte nel tuo cervello
rimangano ombre di ricordi che tu non riesci a raggiungere, il che tra
l'altro potrebbe anche spiegare la ragione per cui tu credi a tutte
queste che potrebbero sembrare sciocchezze.
Asciugate le lacrime? A me Š successo lo stesso. Perfino il vedere la
mia faccia invecchiata allo specchio non mi ha fatto lo stesso effetto
del panorama che si vede dalla finestra. Solo dopo un po' diviene
reale.
Tu ora ti trovi su uno dei piani pi alti del Chrysler Building. La
vista verso nord comprende molti, ma molti, edifici che nel 1986 non
esistevano, e mischiati a questi ce ne sono altri che invece sono
familiari, inconfondibili come impronte digitali. Questa Š New York, e
questo Š il nuovo secolo, e questo panorama Š impossibile da negare,
ed Š vero come un pugno in faccia. Ecco perch‚ hai pianto.
Non ci sono pi molte altre bombe, adesso. Ma la prossima sar
l'ultima. Prendiamola alla lontana, eh?
Avrai gi visto le tre fotografie sul tavolo, di fianco alla
colazione. Guardale bene, adesso, in ordine.
Il tizio grosso, dall'aria schietta e cordiale, Š Ian MacIntyre, che
conoscerai fra pochi minuti. Sar il tuo compagno/consigliere, oggi,
ed Š a capo di un progetto molto importante che ti riguarda. E' uno
che piace a tutti, sebbene tu, come me, sulle prime cercherai di
resistergli. Ma lui Š troppo saggio per affrettare le cose, e a te, in
fondo, Š sempre piaciuta la gente. Inoltre, ha un sacco di esperienza
nel guadagnarsi la tua amicizia, dato che lo fa ogni giorno da otto
anni.
E ora la seconda foto.
Sembra quasi umano, eh? Se il rampollo di Gumby e di Et pu• essere
considerato umano. Di fatto, Š un umanoide. Due occhi, naso, bocca,
due braccia, due gambe, e quel sorriso da ebete. Alla pelle verde ti
ci abituerai in fretta.
E' un marziano.
Sai, quindici anni fa i marziani sono atterrati sulla Terra e se ne
sono impadroniti. Non sappiamo ancora che cosa progettano di farne, ma
alcune teorie in proposito non costituiscono affatto buone notizie per
l'"Homo sapiens".
Non ti preoccupare.
Prendi alcuni profondi respiri. Io aspetter•.

Il tuo ultimo pensiero Š ingiusto e indegno di te. Non sprecherei mai
il tuo tempo prendendoti in giro. Devi renderti conto che ti posso
provare quello che dico.
E per spiegarmi meglio, vorrei che tu ti avvicinassi alle finestre sud
del tuo appartamento. Attraversa la sala da biliardo, entra nelle
stanze termali, gira a sinistra alla palestra e apri la porta di
fianco al Picasso, quella che prima non si apriva. Ti troverai in un
punto dal quale potrai avere la visione dello stretto, e ti assicuro
che non ti sar necessario guardare oltre.
Da' un'occhiata e torna subito indietro.
D'accordo, volevi soltanto provare che potevi fare le cose a modo tuo,
vero? A me non importa che tu ti sia portato la lettera con te, ma
questo prova ancor pi che ti conosco molto bene, no?
Adesso, torniamo a questi maledetti marziani.
E' incredibile quanto fosse vicino alla realt Steven Spielberg, eh?
Il modo in cui quella nave galleggia l fuori... ed Š perfino pi
grande della nave madre di "Incontri ravvicinati". Quella specie di
proboscide Š lunga quasi cinquanta chilometri. Nel suo punto pi basso
Š a tre chilometri da terra La parte superiore affonda nello spazio.
Galleggia lć fuori da quindici anni e non si Š spostata di un
millimetro.
La gente la chiama Disco Volante. Ce ne sono altre quindici
esattamente uguali, sospese sopra altrettante citt importanti.
Ma adesso ti sembra che ci sia qualcosa di sbagliato, vero? Come
avresti fatto a vederla, ti stai chiedendo, se fosse stato nuvoloso?
Anche se fosse stato un normalissimo giorno di smog a New York, se Š
solo per quello. Probabilmente saresti lć a leggere la lettera
grattandoti la testa e chiedendoti di che cosa diavolo sto parlando.
La risposta fugher ogni dubbio. Non ci sono pi giorni nuvolosi, a
New York. Ai marziani non sembra piacere la pioggia, cosć non
permettono che ne cada, qui. Per quel che riguarda lo smog, ci hanno
detto di piantarla, e noi l'abbiamo fatto. Chi non l'avrebbe fatto,
con quella roba che galleggia l fuori?
E quanto al nome, marziani...
Abbiamo per la prima volta scoperto la presenza delle loro navi dalle
parti di Marte. So che per te sarebbe stata pi facile da mandar gi,
in un certo senso perverso, se ti avessi detto che vengono da Alfa
Centauri o dalla Galassia di Andromeda o dal pianeta Trafalmadore. Ma
la gente ha cominciato a chiamarli marziani perch‚ cosć hanno fatto
alla televisione.
Non crediamo che vengano veramente da Marte.
Non sappiamo da dove vengano, ma certamente non da qualche posto
vicino. E, tanto per chiarire, non intendo da un'altra galassia, ma da
un altro universo. Pensiamo che l'esistenza del nostro universo sia
come una specie di loro ombra.
Questo non sar facile da spiegare. Prenditela comoda.
Ti ricordi "Flatland", e Mister Square? Mister Square era un signore
che viveva in un universo bidimensionale, Flatlandia, per l'appunto.
Non c'erano il su e il gi, ma soltanto l'avanti e l'indietro, la
sinistra e la destra. Lui non poteva neppure concepire la nozione di
su e gi. Un giorno venne a fargli visita un essere tridimensionale,
una sfera, che si abbass• fino ad attraversare Flatlandia. Mister
Square percepć la sfera come un cerchio che si ingrandiva
progressivamente, per poi restringersi. Tutto quello che lui poteva
vedere in ogni istante era una sezione della sfera, mentre questa,
simile a un dio, poteva guardare tutto il mondo di Mister Square,
persino entrare all'interno del suo corpo senza passare attraverso la
sua pelle.
Questo era soltanto un interessante esercizio logico, finch‚ non sono
arrivati i marziani. La nostra opinione Š che noi siamo come Mister
Square e loro la sfera. Che loro vivano in un'altra dimensione, e non
percepiscano lo spazio e il tempo come noi.
Per esempio.
Come avrai visto, sembrano umanoidi. Noi non crediamo che lo siano.
Riteniamo invece che loro si limitino semplicemente a permettere che
noi vediamo una parte dei loro corpi, che loro proiettano nel nostro
universo tridimensionale, e che cosć "sembrano" umanoidi. La loro vera
forma deve essere molto pi complessa.
Considera la tua mano. Se tu conficcassi le dita in Flatlandia, Mister
Square vedrebbe quattro cerchi e non immaginerebbe nemmeno che da
qualche parte sono uniti. Infilando ulteriormente la mano, egli
vedrebbe i cerchi fondersi in un ovale. Un'analogia ancora migliore Š
il gioco delle ombre cinesi. Unendo in vari modi mani e dita davanti a
una sorgente di luce, puoi formare sul muro un'ombra che assomiglia a
un uccello, a un toro, a un elefante, e persino a un uomo. Quello che
noi vediamo dei marziani probabilmente non Š pi reale di un pupazzo.
E lo stesso vale per la nave. Noi vediamo soltanto una sezione
tridimensionale di una struttura molto pi grande e complessa.
O almeno, crediamo che sia cosć.
Comunicare con i marziani Š molto frustrante, quasi impossibile. Sono
cosć estranei per noi. Non ci dicono mai qualcosa che abbia un senso
per noi, e nemmeno dicono mai la stessa cosa due volte. Pensiamo che
il tutto acquisirebbe senso se potessimo pensare alla loro maniera.
E un'altra cosa importante.
Sono molto potenti. Il controllo del tempo atmosferico Š soltanto un
giochino da salotto. Quando hanno invaso la Terra, l'hanno fatto
"tutto insieme", e spero di riuscire a spiegarti questa cosa, dato che
persino io, dopo aver passato un giorno intero con marziani, sono ben
lontano dall'averla capita.
Hanno invaso la Terra quindici anni fa, ma l'hanno invasa anche nel
1854, e nel 1520, e parecchie altre volte nel passato. Il passato
sembra essere soltanto un'altra direzione per loro, come il su o il
gi. Ti faranno vedere dei libri, vecchi libri, con incisioni, disegni
e resoconti di come i marziani sono arrivati, di quello che hanno
fatto, quando sono ripartiti... e non ti preoccupare se non ti ricordi
questi importantissimi eventi dai tuoi studi storici fatti al liceo,
"perch‚ nessun altro se ne ricorda".
Cominci a capire? Sembra che dal momento in cui sono arrivati qui,
negli ultimi anni del ventesimo secolo, abbiano cambiato il passato in
modo che sono arrivati anche molte altre volte prima. Abbiamo i libri
di storia, a provare che Š successo cosć. Il fatto che nessuno ricordi
che questi resoconti si trovassero nei libri di storia prima del loro
arrivo Š da considerarsi particolarmente significativo. Si potrebbe
pensare che avrebbero potuto cambiare i nostri ricordi dei fatti con
la stessa facilit con cui hanno cambiato i fatti stessi. Il fatto che
non si siano comportati cosć significa che hanno voluto
impressionarci. Se avessero cambiato sia i fatti sia i nostri ricordi
dei fatti, noi saremmo rimasti stupidi come prima. Crederemmo che la
storia sia sempre stata cosć, perch‚ Š cosć che ce la ricorderemmo.
Tutta la vicenda dei libri di storia dev'essere come una specie di
giochino stupido per loro, dato che non vivono il tempo in maniera
consecutiva.
Ne hai abbastanza? Ma c'Š dell'altro.
Possono fare ben di pi che aggiungere eventi alla storia. Possono
anche togliere delle cose. Cose come il Word Trade Center. E' proprio
cosć. Vai a dare un'occhiata, non Š pi lć al suo posto, e non siamo
stati noi ad abbatterlo. Non Š mai esistito in questo mondo, tranne
che nei nostri ricordi. E' come una grande illusione, condivisa da
tutti.
Altre cose si sono rivelate mancanti all'appello. Cose tipo Knoxville,
nel Tennessee. Il lago Huron. La presidenza di William McKinley. La
Chiesa Presbiteriana. I rinoceronti (compresi i resti fossili dei loro
antenati). Jack lo Squartatore (e tutte le opere letterarie scritte su
di lui). La lettera Q. E l'Ecuador.
I presbiteriani ancora ricordano la loro fede e hanno costruito nuove
chiese per rimpiazzare quelle che non erano mai esistite. E a cosa
diavolo serviva il maledetto rinoceronte, dopotutto? Un'altra persona
port• avanti la presidenza di McKinley (e fu pure assassinato). Vedere
un libro dopo l'altro dove "kw" rimpiazza "q" fa solo ridere, ed Š
alkwanto strano. Ma gli abitanti di Knoxville, e di una dozzina di
altre citt nel mondo, non sono mai esistiti. Alcuni stanno ancora
cercando di individuare su quale porzione di terreni si trovava il
lago Huron. E invano si cercherebbe in un atlante la presenza
dell'Ecuador.
Sembrerebbe logico pensare che i marziani potrebbero fare anche di
pi, se soltanto volessero. Robe tipo eliminare l'ossigeno, la carica
dell'elettrone e, naturalmente, il pianeta Terra.
L'hanno invaso e hanno vinto molto facilmente.
E la loro arma Š molto simile alla penna blu del correttore di bozze.
Piuttosto che distruggere il nostro mondo, lo stanno riscrivendo.

Ma che cosa diavolo c'entra tutto questo con me, mi sembra di sentirti
gridare.
Non potevo vivere il mio giorno sulla Terra senza dovermi preoccupare
di tutte queste storie?
Ebbene, chi credi che sia a pagare per questo favoloso appartamento?
Non pensavi mica che avresti avuto dei Picasso originali appesi ai
muri se tu fossi stato un tizio qualsiasi col cervello fuori posto,
vero?
E perch‚ i tuoi benefattori ti sono grati?
Perch‚ qualsiasi cosa renda felici i marziani, rende felici anche i
tuoi benefattori.
I marziani spaventano a morte tutti quanti e tu sei il loro umano
preferito.
E sai perch‚?
Perch‚ tu non esperimenti il tempo come fa il resto dell'umanit.
Tu sei come nuovo ogni giorno. Non hai avuto quindici anni per pensare
ai marziani e non hai sviluppato alcun pregiudizio n‚ nei loro
confronti n‚ sul loro modo di pensare.
Forse.
Potrebbero essere tutte sciocchezze. Non sappiamo se i pregiudizi
c'entrino effettivamente, ma il fatto Š che tu vedi il tempo in
maniera differente, e che i migliori matematici e fisici del mondo
hanno cercato di avere contatti con i marziani, ma loro non sono
interessati. E ogni giorno vengono a parlare con te.
La maggior parte delle volte non si conclude niente. Passano qui
un'oretta, poi vanno in qualunque sia quel diavolo di posto in cui
vanno, in qualunque modo ci vadano. Un giorno su cento, tu hai
un'intuizione. Tutto quello che ti ho raccontato su di loro Š la somma
delle tue intuizioni...
Ma anche di altri. Ci sono alcune centinaia di persone simili a te, in
giro per il mondo. Nessun altro per• ha la tua particolare forma. E'
tutta gente che si potrebbe definire mentalmente limitata. Ci sono
quelli affetti da amnesia progressiva, come ho detto prima. Ci sono
individui con disordini derivanti da scissioni varie della mente,
altri con aberrazioni percettive quasi incredibili, tipo una donna che
ha perso il concetto di "destra". La sinistra Š l'unica direzione che
esiste nel suo cervello.
I marziani passano parecchio tempo con queste persone, che sono simili
a te.
In definitiva, noi abbiamo abbozzato alcune conclusioni su di loro.
Vogliono insegnarci qualcosa.
E' dolorosamente ovvio che avrebbero potuto distruggerci in qualunque
momento avessero desiderato farlo. Ci hanno resi schiavi, nel senso
che siamo diventati pateticamente ansiosi di fare qualsiasi cosa che
anche solo sospettiamo vogliano da noi. Ma loro non sembrano voler
fare proprio niente con noi. Non hanno fatto nessun tentativo di
ridurci a carne da macello, non ci hanno costretto in campi di lavoro,
non hanno rapito le nostre donne. Sono semplicemente arrivati, hanno
dato dimostrazione della loro potenza e hanno cominciato a parlare con
la gente come te.
Nessuno sa se noi saremo in grado in imparare quello che loro vogliono
insegnarci. Ma ci conviene provare, non ti sembra?
Ancora tu dirai: perch‚ proprio io?
Oppure, pi appropriatamente: e a me cosa me ne frega?
Conosco bene la tua amarezza e la comprendo. Perch‚ dovresti passare
anche soltanto un'ora del tuo prezioso tempo su problemi di cui in
realt non t'interessa niente, quando sarebbe molto pi facile e
soddisfacente trascorrere le tue sedici ore di veglia tormentandoti la
mente, inghiottendo autocommiserazione, e in generale facendo il
protagonista unico di una bella telenovela?
Ci sono due buone ragioni.
Una: tu non sei mai stato questo genere di persona. Hai gi consumato
la tua scorta di possibilit di autocommiserazione leggendo questa
lettera. Se hai solo un giorno a disposizione (diavolo, come fa male
dirlo), allora, perbacco, tanto vale che lo passi a fare qualcosa di
utile.
Ragione numero due...
Hai continuato ad allungare lo sguardo sulla terza foto che c'Š sul
tavolo, non Š vero? (Dai, Š inutile che racconti balle proprio a me.)
Carina, eh?
E quello che stai pensando Š indegno di te, dato che conosci bene la
provenienza di questa lettera. Non Š una specie di regalo. I
coordinatori del progetto ti conoscono abbastanza bene per evitare di
offrirti una scopata in cambio della tua cooperazione.
La ragazza si chiama Marian.
Parliamo d'amore, per un po'.
Tu ti eri gi innamorato un'altra volta, prima. Ti puoi ricordare
com'era, se ti lasci andare. Ti ricordi il dolore... ma quello venne
dopo, vero? Quando lei ti ha lasciato. Ti ricordi come ti sentivi il
giorno che ti sei innamorato? Ripensaci, puoi farlo.
Il fatto Š semplicemente che questo Š il motivo che fa girare il
mondo. La sola possibilit di amare ti ha fatto andare avanti tre anni
con Karen.
Be', lascia che ti dica una cosa. Marian Š innamorata di te e, prima
che il giorno finisca, anche tu sarai innamorato di lei. Potrai
crederci o non crederci, a tua scelta, ma io, alla fine della mia
vita, oggi, posso ritenere come quasi unica consolazione la fantastica
gioia di essermi innamorato di Marian.
Ti invidio, scettico bastardo.
E, dato che siamo fra di noi, aggiunger• una cosa. Anche con una
ragazza che non ami, la "prima volta" Š sempre maledettamente
interessante, vero?
Per te, Š sempre la prima volta... tranne quando non Š la seconda, un
po' prima di addormentarti, che Š proprio quello che Marian sembra
suggerire, in quel momento.
Come al solito, ho gi immaginato le tue possibili obiezioni.
Pensi che sia dura per lei? Che ne soffra?
Okey, ammesso, le prime ore si potrebbero definire ripetitive, per
lei. Devi capire che ormai Š stufa del tuo primo comportamento quando
ti svegli, che Š sempre lo stesso. Ma Š una croce che porta volentieri
per il piacere della tua compagnia durante il resto del giorno.
E' una ragazza piena di energie e in buona salute, che si rende conto
che nessun'altra donna ha mai avuto un amante cosć energico e pieno di
attenzioni. Ama un uomo che Š eternamente affascinato da lei, anima e
corpo, un uomo che la vede ogni giorno con occhi nuovi.
Ama il tuo entusiasmo senza fine, la tua infatuazione che si rinnova
sempre.
E non hai tempo di disinnamorarti.
Qualsiasi cosa possa aggiungere sarebbe uno spreco del tuo tempo e,
credimi, quando vedrai a che tipo di giornata vai incontro oggi, mi
odieresti.
Potremmo desiderare che le cose fossero differenti. Non Š giusto avere
un giorno solo. Io, che sono ormai alla sua fine, provo un dolore di
cui tu hai solo una vaga sensazione. Ho i miei meravigliosi ricordi,
che fra poco svaniranno. E ho Marian, ancora per alcuni minuti.
Ma, te lo giuro, mi sento come un vecchio che ha vissuto una vita
piena, che non ha rimpianti per nulla, che ha concluso qualcosa nella
sua vita, che ha amato ed Š stato riamato.
Pu• qualunque persona "normale" morire affermando ci•?
Fra pochi istanti anche quell'ultima porta chiusa si aprir, e da essa
entreranno la tua nuova vita e il tuo futuro amore. Ti garantisco che
sar bellissimo.
Ti voglio bene, e adesso ti lascio...
Buona giornata!

Titolo originale: "Just Another Perfect Day"
Copyright 1989 TZ Publications.
Traduzione di Massimo Patti.











IL MOSTRO DEL LOCH MOOSE.
Janet Kagan.

Quest'anno le giunchiglie di Ribeiro hanno germogliato presto,
riproducendo scarafaggi. Ora, ecologicamente parlando, anche gli
scarafaggi hanno diritto al loro spazio, ma questi demonietti
"mordono". E questa non mi sembra una caratteristica da autentici
esemplari terrestri. Non che m'interessi molto, intendiamoci, tutto
quello a cui miro Š che ogni cosa abbia una sua utilit. E
sull'utilit di questi esseri non ci scommetterei.
Come sempre, ci Š mancato l'aiuto materiale. La maggior parte del
gruppo si trova a nord per cercare di raggruppare una mandria di
mucche Guernsey, per cui siamo rimasti soltanto io e Mike a tirar su
una tenda nella zona di Ribeiro per il periodo necessario a esaminare
la genetica degli scarafaggi e delle giunchiglie da cui provengono.
Sono "Denti di Drago", purtroppo. Peggio che inutili. Presi gli
attrezzi e mi accinsi a sterminarli tutti, giunchiglie comprese.
Quando mi trascinai di nuovo nella tenda, esausta, con le ossa rotte e
mentalmente sfinita, non esisteva pi una giunchiglia nella zona.
Stupidi! Se avessi detto loro che gli scarafaggi erano autentici
esemplari terrestri, li avrebbero esaltati, non importa quanto
schifosi siano.
Quando entrai bruscamente nel laboratorio, non ebbi neanche la buona
grazia di salutare Mike. La prima cosa che mi uscć dalla bocca fu: -
Le giunchiglie rosse, quelle di fronte a Sagdeev.
- Le ho prese - rispose lui. - Per un pelo, ma ce l'ho fatta. Sono
nella serra.
Avevamo tracciato la genealogia di questo particolare tipo di
giunchiglia il primo anno, quando avevano germogliato fiori rossi: ci
aspettavamo che producessero una buona schiera di mantidi predatrici,
autenticamente terrestri. Sapevamo entrambi quanto Mirabile avesse
bisogno di insettivori. L'altra possibilit poteva essere qualcosa di
meno fastidioso e di pi piacevole, quella che gli archivi
dell'astronave identificavano come "lucciole". Ambedue sarebbero state
le benvenute, e quegli idioti avevano consegnato ambedue le specie,
senza esitazione, al fuoco.
- Ho usato lo stesso terriccio, Annie, perci• non mi guardare in quel
modo.
- La citt Š piena d'imbecilli - borbottai, per fargli capire che
quello sguardo non era rivolto a lui. - Lo stesso terreno, va bene, ma
possiamo armonizzare anche il resto delle condizioni ambientali di cui
quelle mantidi hanno bisogno, in questa maledetta serra?
- E' il massimo che potevamo fare - disse lui. Si strinse nelle spalle
e alz• la mano destra: era bendata. Sgranai gli occhi.
Riabbass• immediatamente la mano sotto il banco di lavoro. - Li
avrebbero bruciati. Io non ho potuto... - Volt• la testa, poi torn• a
guardarmi. - Annie, non c'Š da preoccuparsi...
Anch'io mi sarei comportata allo stesso modo, Š vero, ma questa non
era una ragione per permettere che anche lui prendesse l'abitudine di
rischiare stupidamente.
Mi alzai per dare un'occhiata alla mano e dirgliene un paio a muso
duro, ma prima di raggiungerlo vidi che sulla consolle aveva
cominciato a lampeggiare una luce gialla. Significava che non si
trattava di un'emergenza, ma premetti il pulsante per occuparmi di
quel problema prima di affrontare Mike. - Sć? - gridai verso lo
schermo.
- Mamma Jason?
Nessuno mi chiamava cosć, solo i ragazzi di Elly. Guardai il viso che
appariva sullo schermo: circa la mia et, terza generazione di
Mirabilani, tra l'altro poco fortunato. - Annie Jason Masmajean -
corressi. - Chi Š lei?
- Leonov Bellmaker Denness - rispose l'altro. - Chiedo scusa per l'uso
del termine confidenziale. - Tipica galanteria di bordo. Ignor• i miei
modi rudi.
Il nome mi risuonava vagamente familiare, ma non avevo voglia di
cercarlo nella mia memoria: avevo perso tutte le mie buone maniere
nelle tre ore che avevo trascorso a sterminare gli scarafaggi. - Di
che si tratta? - chiesi.
A suo onore, devo dire che si spieg• subito. - Due degli alloggianti
di Elly dichiarano che c'Š un mostro nel "Loch Moose". Dalle loro
descrizioni, sembra si tratti di qualcosa di raccapricciante.
A questo punto fui tutta orecchie. Elly dirige uno chalet, sul Lago
degli Alci, il "Loch Moose", soltanto per hobby. La sua vera
professione Š procreare bambini. (Elly Raiser Roget, come aveva fatto
suo padre prima di lei mediante auto-inseminazione. La nostra
popolazione Š ancora tanto piccola che non ci possiamo permettere di
perdere geni, solo perch‚ qualcuno non Š all'altezza, per una ragione
o l'altra, di procreare.) Una chimera vicina al "Loch Moose" poteva
rappresentare un potenziale disastro. Quello che mi turbava era il
tono di voce di Denness. -Perch‚ non sono stati loro stessi a
riferirmi la cosa?
Fece una risatina gutturale. - Quei due sono in sala da pranzo che si
abbuffano dei gamberi di Chris. Dubito molto che siano in condizione
di chiamarla, quando avranno finito. I loro nomi sono Emile Pilot
Stirzaker e Fran‡ois Cobbler Pastides e, in questo momento, non
potrebbero parlare senza mangiarsi la met delle parole.
Cosć, pensava che avessero entrambi fumato erba. Va bene. Mi calmai e
cominciai a considerarlo con pi attenzione. Ci avrei scommesso
qualunque somma che lui stesso li aveva scoperti, durante l'abbuffata.
Finalmente lo riconobbi: questo era l'individuo che i ragazzi di Elly
chiamavano Cantastorie. La prima cosa che aveva fatto, appena era
venuto ad abitare nella zona, era stata quella di superare ciascuno di
loro in una difficilissima gara. Era anche leggendario per le storie
che raccontava (da qui il soprannome), per le campane che costruiva e
per la sua abilit nel mantenere segreti. Non lo avevo mai incontrato,
ma ne avevo sentito parlare spesso.
Dovevo aver pronunciato ad alta voce il suo soprannome, perch‚ Denness
disse: - Sć, il Cantastorie. Basta a ottenere una udienza?
- Sć. - Ora era il mio turno di chiedere scusa. - Mi scusi -
continuai. - Che altro c'Š che dovrei sapere?
- Credo che dovrebbe ascoltare Stirzaker imitare il grido di rabbia
del mostro.
Mi ci volle un po' per afferrare il senso di quello che mi stava
dicendo, ma alla fine capii perfettamente. - Arrivo - dissi. E mi
accinsi a preparare il mio equipaggiamento.
Mike mi seguiva con lo sguardo. - Annie? Cosa succede?
- Hai mai sentito, "te", di allucinazioni sonore provocate da hashish?
- Accidenti! - esclam•. - No. - E inizi• anche lui a prepararsi per
seguirmi.
- Tu rimani qui - gl'intimai. - Ho bisogno di te qui, ho bisogno che
tu ti prenda cura di quelle giunchiglie. Controlla le condizioni
ambientali che le riproducono, e chiamami se altri "Denti di Drago"
saltano fuori da qualche parte. - Mi sistemai il bagaglio sulle spalle
e gli lampeggiai un'altra occhiata, borbottando: - Dovrebbe essere
abbastanza per tenerti lontano dai guai, in mia assenza, no?

Mentre mi calavo nello spiazzo d'atterraggio, a fianco dello chalet di
Elly, pensavo, convinta di stare inseguendo, come si usa dire qui,
l'"Alce Selvatica". Proprio cosć. So che il detto originale sulla
Terra era "Oca Selvatica", ma cosć era piaciuto ribattezzarlo al nonno
Jason, molto prima che cominciassero a spuntare i "Denti di Drago".
Aveva dato un solo sguardo al paesaggio selvaggio, dove ora si trova
lo chalet di Elly, e si era immediatamente convinto che presentasse le
perfette caratteristiche ecologiche per ambientarvi gli Alci. Aveva
tirato fuori gli embrioni dalle celle frigorifere dell'astronave e li
aveva disposti per la disgelazione. Era riuscito a formare un buon
branco e poi li aveva lasciati allo stato libero. Non ne sopravvisse
neanche uno. Le stupide creature erano morte per aver mangiato un tipo
di pianta di Mirabile, a cui il loro metabolismo non era riuscito ad
assuefarsi.
Cercare di creare una mandria che si adattasse all'ambiente era
diventata per Jason come un'ossessione. Penso che ci si sia dedicato
per anni, anche se, forse, a intervalli, senza tuttavia riuscirvi mai.
Ma in seguito, qualcuno con un contorto senso dell'umorismo dette al
lago il nome di "Loch Moose", Lago degli Alci, nome che Š rimasto, con
o senza alci.
Il "Loch Moose" era placido e sereno, come sempre in questo periodo
dell'anno. Le ninfee erano in pieno germoglio, disegni in velluto
rosso e verde, tra i riverberi del sole sull'acqua. Qui e l potevo
scorgere il guizzo di una vera trota, autentico esemplare terrestre.
Sull'estremo lato destro della riva, il branco degli otteri di Susan
giocava a rincorrersi, slittando gi per la scarpata e tuffandosi
allegramente nell'acqua. I simpatici animaletti si lanciavano squittii
d'incoraggiamento, come una folla di fan a una partita. Non ho mai
visto una creatura che potesse giocare con tanta gioia come un ottero,
se non una dozzina di otteri, come stavo osservando ora.
I pini avevano quell'offuscata luce dorata che mi lasciava sperare di
essere arrivato proprio in tempo per vedere la foschia del "Loch
Moose". Non c'Š niente di pi bello di questa nuvola di polline che
attraversa l'aria sopra le acque. Riveste di luce dorata ogni masso e
ogni albero fino a quando non piove di nuovo.
Mostro o non mostro, quale punto poteva essere pi piacevole, per
inseguire una favola?
Scesi pesantemente gi per la scaletta che portava allo chalet di
Elly, continuando a guardare trasognata lo scenario che avevo di
fronte, e quando entrai nella hall, ero totalmente impreparata al caos
che vi trovai. Se quel genetista dagli occhi intelligenti, sulla
Terra, avesse inserito un doppio potere supernaturale in ogni gene
umano mandato nelle celle frigorifere (hanno giurato di non averlo
fatto, ma dopo la faccenda dei canguri, che mi prenda un accidente se
credo a quello che mi dicono gli archivi), il pandemonio che trovai
sarebbe bastato a far sparire dozzine di "Denti di Drago".
In mezzo a quella confusione, Ilanith, la pi grande dopo Elly, teneva
tra le mani, con grande solennit, il Grande Libro Dorato. Quando mi
vide s'illumin• e mi lanci• un saluto con la mano. Poi si curv• per
continuare una conversazione sottovoce. Un attimo dopo, Jen, di nove
anni esplose in un grido, da dietro il banco: - Ellyyyyyy!
Cantastorie! Venite! C'Š Mamma Jason! - La potenza della sua voce le
consentć di sovrastare il rumore della folla che, per un momento, si
affievolć in un mormorio. Ella poi si diresse con passo sicuro
attraverso la porta della sala da pranzo, continuando a far tremare la
casa con la sua voce.
Approfittai di quel momento di distrazione per farmi strada a suon di
gomiti fino al banco e a Ilanith.
Ella mi lanci• uno sguardo con la coda dell'occhio, proprio alla
maniera di Elly, e disse: - Hai l'aspetto di una che sia stata
assalita da un canguro. Sei "proprio" mal ridotta.
- Non posso far niente per la mia faccia - dissi. - E questa Š opera
di scarafaggi. - Mi tirai su una manica per mostrarle i morsi.
- Bleee - fece, tirando fuori la lingua. - Spero che non ne siano
rimasti altri.
- Solo i sei che ho tenuto per te, da mettere nel tuo letto. Non
vorrei che tu pensassi che mi sono dimenticata di te.
Arricci• il naso e salt• attraverso il banco per venire a piantarmi un
grosso, schioccante bacio sulla guancia. - Mamma Jason, sei la persona
pi dispettosa del mondo. Ma ti dar• lo stesso la tua camera
preferita. - E fece un cenno con il capo in direzione di una coppia
che si trovava alla mia destra -...dal momento che "quei due" l'hanno
appena liberata.
Uno di "quei due" mi scrut•, allungando il collo come una gru miope.
Mi riconobbe all'improvviso e disse: - Abbiamo cambiato idea. Teniamo
ancora la stanza.
- Troppo tardi - replic• Ilanith, con sussiego. - Ma, se desiderate
rimanere, posso darvene una sull'altro lato. Senza veduta. - Un punto
di lode a chi se lo merita, pensai.
- Vedi, Elly? - Era Jen, che tornava trotterellando accanto a Elly e
trascinandosi dietro il Cantastorie. - Vedi? - ripet‚. - Se Mamma
Jason Š qui, io non devo andar via, vero?
- Vero - ripetei.
- Oh, Jen! - Elly s'inginocchi• per stringerla a s‚ in un caloroso
abbraccio.
- E' "questo" che ti preoccupa? Leo l'ha gi spiegato alla tua mamma.
Non c'Š nessun mostro... nessuno ti mander via dal "Loch Moose"!
Jen sembr• rassicurata, ma solo per un attimo. Si incupć poco dopo,
ostentando un'aria sospettosa. - Ma se non c'Š nessun mostro, perch‚
Mamma Jason Š qui?
- Ho bisogno di riposo - dissi, e mi resi conto che era vero. Il
rivedere Elly e i ragazzi era gi di per s‚ una vacanza. - Ho
calpestato abbastanza "Denti di Drago" per questa settimana. E non ho
certo voglia di correre dietro a mostri che svaniscono al primo soffio
di vento.
Elly mi sorrise, di un sorriso che avrebbe sciolto un ghiacciaio e,
per la prima volta da mesi, le mie spalle si rilassarono.
Ricambiai il sorriso. - Si sono riavuti i vostri due avvistatori del
mostro?
- Sć - rispose Ilanith, - e sono anche partiti. - Ridacchi•. -Avresti
dovuto vedere che facce rosse avevano, Mamma Jason.
Mi guardai intorno. - Meglio cosć. Dopo la giornata che ho avuto, li
avrei fatti diventare ancora pi rossi, se fosse toccato a me
occuparmi di loro.
Elly si rialz•, trattenendo Jen accanto a s‚. Ambedue mi scrutarono, e
Jen aveva la stessa espressione penetrante di Elly. - Faremmo meglio
ad accompagnare Mamma Jason in camera sua. Ha bisogno di farsi una
doccia e un sonnellino, prima di qualunque altra cosa.
Ilanith scosse la testa. - Falla mangiare, prima, Elly. Mentre mangia,
le rifaremo la stanza.
- Mi sembra una buona idea - dissi. - Se i ragazzi che servono a
tavola non sono troppo stanchi.
- Alleviamo ragazzi robusti, qui. Vai a mangiare, Annie. - Mi baci•
sulla guancia, poi ricevetti un bacio anche da Jen, e le due si
allontanarono frettolosamente per prepararmi la stanza. Le seguii con
lo sguardo, pensierosa: Jen sembrava ancora preoccupata e mi chiedevo
il perch‚.
Ilanith gir• intorno al banco per prendermi il bagaglio. Infilandosi
tra Leo e me, si mise all'improvviso i pugni sui fianchi.
- Oh, all'inferno le maniere di bordo. Parola d'onore, Mamma Jason,
come "facevano" le persone a presentarsi, ai vecchi tempi? - E con una
espressione di estrema disponibilit, fece le presentazioni.
Lo osservai attentamente, dandogli questa volta una buona stretta di
mano assai convincente. Il suo viso sorridente ispirava la stessa
fiducia di cui godeva la sua reputazione. Naturalmente fui osservata
con la stessa scrupolosa attenzione.
Visto che per un intero mezzo secondo nessuno disse niente, Ilanith
proruppe: - Devo aggiungere dell'altro? Non sono stata esauriente?
Leo sorrise dello stesso sorriso di Elly. Il "Ce", senza dubbio,
pensai. Poi allung• una enorme mano e disse: - Leo, per lei, visto che
non credo di essere pi importante.
Questa dichiarazione colpć Ilanith in modo soddisfacente.
- Annie - replicai, a mia volta, stringendo la mano che mi tendeva.
Non sono molte le persone che hanno le mani della misura delle mie. In
quella di Denness avevo trovato l'equivalente. Fui sorpresa dalla
piacevole sensazione che ne ricavai. Egli la trattenne e io, a mia
volta, non fui molto ansiosa di ritirarla.
Ilanith lo guard• severamente. - Leo, non Š educato esagerare! -Gli
picchiett• la mano, cercando di fargli allentare la presa.
- Questo dimostra quanto poco tu conosca le maniere di bordo -ribatt‚
Leo. - Stavo per offrire alla signora il mio braccio, per condurla
nella sala da pranzo.
- Perfetto rituale dei tempi andati - aggiunsi io. - A cui posso
adattarmi perfettamente, se pu• farlo lui.
Leo offrć il suo braccio, formalmente. Io vi appoggiai la mano. Ci
avviammo con grande sussiego, lasciandoci alle spalle Ilanith pi
sospettosa che mai che il tutto fosse soltanto una messa in scena.
Quando fu sicuro che lei non potesse sentire, Leo ridacchi•. - Non ci
creder, finch‚ non ne avr le prove.
- Lo so. Buon per loro... "accertati sempre di persona" dico io. Ha
per caso sentito qualche suono, "lei", provenire dal lago?
- Sć - rispose. - Ho sentito un paio di rumori, piuttosto strani
provenire di l ultimamente. Non posso per• essere certo che siano
emessi dalla stessa creatura. Ma vivo qui da molti anni e le posso
assicurare che si tratta di suoni nuovi. Uno Š simile a un gorgoglio
di risucchio. Poi, ho sentito qualcosa di cupo, come il muggito di una
mucca... - Alz• una mano. -...non proprio di mucca e neanche di cervo
reale. Conosco entrambi i due suoni. E c'Š un rombare che sveglierebbe
chiunque da un sonno profondo, Š pi forte di uno sparo di fucile.
Le sue labbra si stirarono lievemente. - Ma su quest'ultimo non posso
dire niente di pi preciso. L'ho sentito soltanto nel dormiveglia.
Potrebbe essersi trattato di un sogno, ma non d la sensazione del
sogno... e l'imitazione fatta da Stirzaker rende molto bene l'idea.
Le linee che solcavano la sua fronte si fecero pi profonde. - C'Š
un'altra cosa che lei dovrebbe sapere, Annie. E' un po' di tempo che
Jen sembra spaventata, e n‚ io n‚ Elly riusciamo a capire perch‚.
- Me ne sono accorta. Ho pensato che si trattasse ancora del mostro.
Scosse la testa. - E' da due settimane, circa, molto prima che
Stirzaker e Pastides fossero riusciti a impressionare tutti gli altri.
- Vedr• di saperne di pi.
- Se c'Š qualcosa che posso fare - disse. E allarg• il braccio libero,
a indicare la misura della sua disponibilit.
- Per il momento, pu• godersi la voracit con cui faccio onore ai
"miei" gamberi, affogati nella salsa barbeque di Chris.
Il "Loch Moose" era l'unico luogo su Mirabile dove si potessero
pescare gamberi d'acqua dolce, e di questo andavo molto fiera. Non per
il loro sapore, il cui merito andava interamente alle doti culinarie
di Chris, ma per il fatto che ero stata io a portare le ninfee che li
avevano generati, piantandole io stessa nel "Loch Moose", con la
speranza che da esse venisse fuori qualcosa di buono. Mi ci ero
dedicata per tre anni, per assicurarmi che attecchissero. Avevo
ottenuto anche delle belle libellule, tra i vari esperimenti. I
ragazzi di Elly le usano per acchiappare le aragoste di roccia,
un'altra specialit che Chris prepara alla perfezione.
Finendo di mangiare, mi accorsi con meraviglia che la sala si era
svuotata, a eccezione di una coppia che sapevo essere del luogo, come
Leo. Non potei fare a meno di mostrare la mia sorpresa.
Leo spieg•: - La maggior parte degli ospiti se n'Š andata stamattina.
Approfittiamone. - Poi si alz•, prendendo il mio bicchiere e il suo e
s'inchin•, invitandomi a seguirlo verso uno dei "booth".
Lo seguii e sprofondai in uno dei divanetti, sospirando pienamente
soddisfatta. - Ora - dissi, - mi dica cosa ha sentito da Stirzaker e
Pastides.
Si abbandon• al piacere di una descrizione dettagliata, recitando
ambedue i ruoli. Quando ebbe finito, ero in grado di apprezzare la
reputazione che si era guadagnato come "cantastorie" ed ero certa del
fatto che il suo resoconto fosse assai preciso e veritiero, tanto che
non manc• di imitare il loro modo di parlare confuso dovuto
all'eccitazione.
La loro descrizione della chimera avrebbe potuto spaventarmi fino
all'inverosimile, se i loro racconti non avessero coinciso
esclusivamente sulla misura di quell'essere. Stirzaker gli aveva visto
tendere verso di lui, per acchiapparlo, due specie di enormi mani
simili a chele. Pastides aveva scorto l'ondeggiare di un serpente
d'acqua di lunghezza incredibile, che gli passava davanti. Un altro
punto su cui si trovavano d'accordo, per•, era il suono che quella
creatura emetteva.
Quando Leo finć, non potei fare a meno di ridere. - Scommetto che il
"loro" nonno ha raccontato "loro" storie impressionanti, la sera,
prima di dormire.
- Mio Dio! - esclam• Leo, illuminandosi, all'improvviso. - Il Mostro
di "Loch Ness"! Come ho fatto a non pensarci! - Da quale descrizione?
- Gli sorrisi. Fortunatamente, la domanda non richiedeva una risposta.
- Mamma Jason!
Questo grido fu l'unico avvertimento che ricevetti all'urto dei
cinquanta chili di Susan che mi piombarono addosso, scherzosamente.
- Erano tutti e due ubriachi - disse, con l'enfasi di uno che annunci
la notizia pi importante del secolo. - Avresti dovuto vederli
mangiare! Diglielo tu, Cantastorie, tu li hai visti!
- Ciao anche a te - salutai, - ho appena sentito tutta la storia, con
relativi effetti sonori.
Questo ridimension• la sua euforia, almeno in parte. A sedici anni Š
difficile "frenare" qualsiasi slancio emotivo. Scivolando gi dalle
mie gambe, si accomod• sul divanetto accanto a me, e mi disse: - Ora
mi devi raccontare dei morsi degli scarafaggi.
Be', ne avrei dovuto parlare, prima o poi; tanto valeva quindi che lo
facessi con loro due. Finii con l'eroico tentativo di Mike di salvare
le giunchiglie.
Gli occhi di Susan acquistarono un'espressione sognante. - Le lucciole
- sospir•. - Pensa a come sarebbero state belle intorno al lago di
notte!
- Ci ho pensato - dissi, un po' troppo bruscamente. - Scusami, Susan -
mi affrettai ad aggiungere, - sono ancora molto delusa e arrabbiata.
- Ne ho un'altra per te - continu• lei, cambiando umore. - Rowena, che
abita a circa trentacinque chilometri da quella parte... - e allung•
il braccio, guardando Leo, che glielo spost• pi a sinistra di circa
cinque gradi, poi continu•, con lo stesso tono serio: -...laggi dice
che l'unico modo per evitare i "Denti di Drago" Š sputare sulle piante
il tabacco masticato tutte le volte che ci passi davanti. - Poi guard•
ancora Leo, con sguardo interrogativo: - Io credo che lei "ci creda"
davvero. So che Š cosć!
- Ho paura di sć - ribadć Leo.
- Be', sapremo quale "Ce" controllare, quando qualcosa di strano verr
fuori dalle piante di Rowena, no? - Sospirai. Le superstizioni erano
un altro problema da affrontare.
- Mamma Jason - riprese Susan, con un tono un po' risentito per il mio
modo superficiale di reagire a una questione per lei tanto seria. -
Quanti sono i tipi "autentici" che hanno bisogno del "Ce" dello sputo
di tabacco per germogliare?
- Non scherzo, cara. Non mi aspetto degli "autentici", a queste
condizioni. Potrebbero venir fuori "Denti di Drago" semplici o,
probabilmente, qualcosa di pi complicato. - Feci scorrere il mio
sguardo dall'una all'altro. - Seguite quelle piante. Se spuntasse
qualcosa all'improvviso, di un colore o di una forma un po' strani,
mandatemene un campione immediatamente.
Annuirono, e Susan ebbe un'espressione di compiacimento per l'incarico
ricevuto, mentre Leo sembrava dubbioso. Infine disse: - Ho paura di
non riuscire ancora a capire questa faccenda dei "Denti di Drago"... -
aggiunse improvvisamente imbarazzato.
- Bene - dissi, - basta che non si metta a sputare tabacco
sull'Ambrosia trifida, o a far pipć sulle petunie o innaffiare
l'insalata con l'acqua saponata in cui si Š prima lavato.
Susan mi guard•, incredula. Io continuai: - L'anno scorso la citt
intera di Misty Valley dichiar• che l'unica cosa che rinvigorisse le
petunie Š l'urina. - Agitai le mani per bloccare la domanda che Susan
stava gi per formulare. - Non lo so come l'idea sia saltata fuori,
perci• non me lo chiedere. Non so neanche se lo "voglio" sapere. Il
risultato finale, naturalmente, Š stato che le petunie produssero
coccinelle.
- Autentiche? - chiese Susan.
- No, ma abbastanza simili da essere utili. Graziosi, piccoli
insettivori, e sorprendentemente utili anche contro le aracni da
tessuto. - Le tarme sono native e una vera scocciatura. - E prima che
tu me lo chieda - aggiunsi, - altre cose che "avrebbero" potuto
ottenere con lo stesso "Ce", includevano una specie di formiche
velenose, davvero molto pericolose, e altri due tipi di mangiatori di
grano, uno dei quali si riallaccia a una salamandra ghiotta di uova di
quaglie.
- Oh, mamma mia! - esclam• Susan. - Misty Valley Š il posto in cui ci
riforniamo di uova di quaglie.
- Come chiunque altro su Mirabile - rimarcai. - Nessuno Š riuscito
ancora a ottenere quaglie altrove. - Per far capire meglio a Leo,
aggiunsi: - Le nostre specie terrestri autentiche, che vivono su
terreno roccioso, sono tante e non ci possiamo permettere che un
"Dente di Drago" le distrugga.
Leo sembrava ancora confuso. Dopo un momento, scosse la testa. -Non ho
mai capito niente di tutto questo. Forse, per una volta, posso avere
una spiegazione semplice, alla portata di un artigiano di campane...
Indicai Susan. - La mia assistente sar felice di impartirle qualche
lezione.
Susan sfoder• un sorriso degno di una vincitrice di premio Oscar. -
Tutto ha avuto inizio ancora prima che lasciassimo la Terra, Leo. -
Leo arcu• un sopracciglio. - Noi?
Susan gli dette un leggero pizzicotto sul braccio e disse: - Lo sai
cosa voglio dire! Il genere umano!
Emise un drammatico sospiro e poi continu•, malgrado tutto: - Loro
volevano assicurarsi che noi avessimo tutto quello di cui avremmo
avuto bisogno.
- Ho immaginato che questa fosse la ragione per cui mandarono le celle
con gli embrioni e i geni - disse Leo. Susan annuć. - E' vero. Ma a
quel tempo c'era la fissazione per il sovrappi, ogni sistema
raddoppiato, triplicato, perfino quadruplicato, proprio per essere
"certi" che non si perdesse alcuna specie di cui potessimo aver
bisogno. E inserirono tutto quel sovrappi anche nella banca dei geni.
Mi guard•. Annuć, approvando, e le feci cenno di continuare.
- Ascolta, Cantastorie. Presero i geni, per esempio, di girasole e li
inserirono nelle elici di grano. Pura sperimentazione genetica; ma
sotto particolari condizioni ambientali, pu• accadere che un seme di
grano su cento possa germogliare girasoli.
Nella foga della dissertazione, gli si avvicin• ulteriormente. - E
quell'uno su cento, dato il giusto "Ce", potr produrre api, e cosć
via. Questo Š quello che Mamma Jason chiama "ricollegamento". Alla
fine, potresti ottenere cervi reali.
Leo aggrott• le sopracciglia. - Non riesco a capire come si possa
passare da una pianta a un animale...
- C'Š, di solito, uno stato intermedio... una pianta che si sviluppa
in modo anormale, ma che si presenta perfetta come incubatrice per
quello che Š gi stato innestato nell'elice seguente. - Tacque per un
attimo con espressione enfatica, e poi concluse: - Come vedi, si
tratta di un'idea del tutto "stupida".
A questo punto, decisi di aggiungere qualche cosa. - L'"idea" non era
di per s‚ tanto stupida come la presenti, ragazzina. E' solo che non
hanno annullato gli insetti prima che ce li ritrovassimo addosso.
- Quando lei dice "insetti" - Susan specific• con cipiglio, - intende
"Denti di Drago".
M'intromisi di nuovo: - Due cose sono andate male, Leo. Primo, si
supponeva che esistesse un modo di attivare e disattivare l'elice
primaria, ogniqualvolta fosse stato necessario. Il problema Š che
l'informazione era negli archivi navali che erano andati perduti e a
quel tempo il tutto era ancora in fase sperimentale, cosć che nessuno
di quei primi studiosi pot‚ usufruirne.
"Il secondo problema fu la conseguenza di uno stupido sbaglio.
Dimenticarono che, a lungo andare, ogni pianta e ogni animale muta per
adeguarsi all'ambiente che lo circonda. Una delle conseguenze di
queste mutazioni potrebbe essere il nostro grano, ma chi lo sa che
cosa sta maturando in quei semi di girasole! Quelli, e le chimere,
sono i veri 'Denti di Drago'."
Leo si rivolse a Susan: - Mi spiegheresti anche le chimere, gi che ci
sei?
- Una chimera Š qualcosa che, be', un insieme di due, o anche tre
elementi di origine genetica differente. Di solito, non Š niente che
abbia un aspetto particolare, te ne potresti rendere conto, magari,
soltanto leggendone la storia genetica per intero. Ma con tutte quelle
combinazioni, pu• accadere qualunque cosa.
- Come i canguri reali, per esempio - dissi. - Quella fu una vera
chimera: un lupo sotto le spoglie di un canguro.
- Mi ricordo il filmato su questa notizia - disse Leo. - Faccenda
davvero brutta.
- E anche violenta - continuai. - Quella fu una lotta. E ancora mi
dispiace di aver perso la battaglia. - E nel dirlo, mi resi conto di
quanto ancora mi bruciasse quella sconfitta.
Leo mi guard• sorpreso.
- Li volevo salvare, Leo, ma fui sconfitta ai voti. Non potevamo
davvero permetterci un altro predatore in quella zona.
- Non essere tanto sorpreso, cantastorie - disse Susan. - Non si pu•
sapere se ci• che oggi ci incute timore possa domani diventare utile.
Supponiamo, per esempio, che un giorno si verifichi una
superpopolazione di conigli o qualcos'altro. Un predatore potrebbe
ristabilire l'equilibrio naturale prima che questi mangino tutto il
nostro raccolto. Ecco perch‚ Mamma Jason voleva salvarli.
Leo non sembr• affatto convinto e Susan, all'improvviso, sembr•
esserne offesa. - Il fatto che qualcosa sia brutta, non Š una ragione
sufficiente perch‚ sia eliminata, Leo. Un'aragosta di roccia non ha
certo un bell'aspetto, ma Š indubbio che abbia un sapore delizioso.
- Va bene, ammetto che puoi anche aver ragione. Non condivido per• la
tua idea, quando si tratta di esseri che possano pensare che io abbia
un sapore delizioso.
Susan incroci• le braccia ed emise un altro di quei suoi drammatici
sospiri. - Ora so cosa ti trovi ad affrontare, Mamma Jason - disse
infine. - Ignoranza allo stato puro.
Rimasi sorpresa. Ma per una volta mi trattenni, curiosa di vedere come
Leo avrebbe reagito.
- Non c'Š niente di puro - disse. - Non insultare un uomo che sta
cercando di capire. Un simile atteggiamento non ha mai favorito nessun
progresso. - Tacque un istante, poi riprese: - Ho l'impressione che tu
te la prenda molto a cuore.
Susan abbass• gli occhi. C'era in questo suo evadere una spiegazione,
qualcosa di pi dell'imbarazzo o di cattive maniere. Quando rialz• gli
occhi disse: - Scusami, Leo. E' solo che qualche volta mi arrabbio
"cosć tanto". Mamma Jason...
Questa volta, dovetti intervenire in sua difesa: - Mamma Jason d il
cattivo esempio, Leo. Arrivo qui e mi scaglio contro la stupidit
rampante di tutti gli altri luoghi. Susan, Š meglio informare le
persone, piuttosto che insultarle. Se io mi sfogo in famiglia, e
lancio insulti agli altri, Š una cosa. Ma non mi esprimerei mai come
hai fatto tu con Leo, quando si tratta di qualcuno che si preoccupa
dei propri figli o del proprio raccolto.
- Lo so. Chiedo ancora scusa.
- Scusata - disse Leo. - E' meglio che tu commetta i tuoi errori con
me, traendone qualche lezione, piuttosto che con qualcun altro.
Susan s'illumin•. - Oh, ma io sono testarda, Leo! Tu lo dici sempre!
- Testarda, sć. "Stupidamente" testarda... non me ne ero accorto.
Ancora una volta, Susan, abbassando gli occhi, tradć un imbarazzo pi
che evidente. Cercai di spiegarmene la ragione, ma fui distratta da
uno strano suono che proveniva da lontano. Sconosciuto. Allungai il
collo per ascoltare pi attentamente, ma il mio orecchio fu investito
da una serie di starnuti.
- S... scusa! - riuscć a balbettare Susan, con voce strozzata, tra una
serie di nuovi starnuti. - P... polline! - e ricominci•, con il viso
affondato nel tovagliolo.
Leo mi guard•. Anche lui, come me, sospettava della genuinit di
quell'attacco di starnuti.
- Be' - dissi. - Si pu• essere allergici al polline. - Ma sapevo molto
bene che lei non lo era, e continuai: -...sono venuta sperando di
vedere i vapori dorati del "Loch Moose" e per rilassarmi con un po' di
pesca contemplativa... - volendo dire che non avrei innestato l'amo,
-...prima che diventi buio.
Susan alz• la mano, finć un'altra serie di starnuti poi disse: - E il
tuo sonnellino?
- E che cosa pensi che sia la pesca contemplativa, se non una specie
di sonnellino?
- Oh, gi. Fatti accompagnare da Leo, allora. Lui conosce i posti pi
tranquilli.
- Ne sarei onorato - disse lui.
Lasciammo Susan che si stropicciava il viso. Ci soffermammo nel
corridoio soltanto per prendere le canne e poi, in silenzio, ci
avviammo lungo il viottolo che portava al "Loch Moose". Quando
arrivammo al primo bivio, ruppi il silenzio: - Da quale parte si trova
il suo punto preferito?
Indic• a destra. Me lo ero immaginato. - Il mio Š a sinistra. - E mi
avviai da quella parte. Se Susan non voleva che mi avventurassi nelle
mie solite passeggiate esplorative, ne volevo sapere il perch‚. Leo mi
seguć senza replicare, cosć seppi che anche lui aveva avuto il mio
stesso sospetto.
- Tenga le orecchie aperte. Ho udito un suono, prima che Susan si
facesse venire quell'attacco allergico.
Arrivammo a un altro bivio. Girai a destra e lui mi seguć, sempre in
silenzio. Presto cominciammo a scivolare gi per il pendio che portava
alla spiaggetta degli otteri.
Quando giungemmo su un terreno pi praticabile, Leo si ferm•. -Annie,
ora che ho qualcuno a cui chiedere, potrebbe soddisfare la mia
curiosit?
Fui curiosa, a mia volta. - A che proposito?
- Esisteva davvero il mostro di "Loch Ness"? Ho sempre pensato che
fosse un'invenzione di mia madre.
Mi misi a ridere. - E io credevo che fosse un'invenzione di mio nonno,
specialmente dal momento che diceva che la gente arrivava da tutte le
parti della Terra con la speranza di scorgere il Mostro! Una volta ho
controllato gli archivi della nave. "Esisteva" davvero un posto
chiamato cosć, e la gente vi arrivava da ogni parte per scrutare il
lago!
Ne fu sconvolto tanto quanto ne ero stata io, e capć anche quello che
non avevo detto. - E il Mostro... "era" davvero reale? Era davvero
come raccontano nelle storie?
- Non l'ho mai potuto scoprire.
- Risale forse al periodo pre-fotografico?
- No - dissi. - Questa Š la cosa strana. C'erano alcune foto...
sfocate, foto piatte, del periodo in cui "tutti" avevano macchine
fotografiche... quelle potevano essere fotografie di qualunque cosa.
Dicevano che Nessie fosse troppo timido e che il lago fosse pieno di
torba per poter captare sonogrammi. Un sacco di giustificazioni,
nessun risultato.
- Troppo hashish, eh?
- Era piuttosto di moda, a quei tempi - dissi. - Ma no, non era
questo. Io ho il sospetto che Nessie fosse esattamente quello per cui
il nonno lo usava... una storia. Quello che mi ha sempre affascinato Š
il fatto che la gente andasse a vedere!
Con mia sorpresa Leo ridacchi•. - Lei sottovaluta la curiosit della
gente comune. Io non credo che lei si renda conto di quante persone
siano rimaste incollate alla Tv, mentre voi cacciavate quei canguri
reali. Un po' di brivido attira un vasto pubblico, fa spettacolo.
- Spettacolo un corno - dissi, indignata. - Io ne so qualcosa. E' il
mio lavoro. A loro, quei dannati animali non hanno mangiucchiato gli
stivali.
- Esattamente quello che sostengo io - disse Leo. - Brivido senza
pericolo. I ragazzi di Elly potrebbero essere i primi a descriverle
quanto piacevole sia questa combinazione. Si riguardano le
registrazioni perlomeno due volte la settimana e ogni volta battono le
mani per lei.
Avrei fatto volentieri a meno di sapere certe cose. Sospirai. Voltando
le spalle a Leo, ebbi davanti a me la visione completa del "Loch
Moose" e i suoi contorni, che mi fecero sospirare di nuovo, ma questa
volta di pura estasi.
Il segreto del suo fascino stava nel fatto che, malgrado splendesse
inondato dalla luce del sole che si rifletteva tutt'intorno, "Loch
Moose" nascondeva sempre piccoli angoli che non tutti sapevano vedere.
Per un bel po' mi dimenticai della presenza di Leo accanto a me. No,
ritiro tutto. Ero cosciente della sua presenza, ma anche lui, come me,
era cosć ammaliato da tanta quiete che le parole sarebbero state
superflue.
Poi, una volta risvegliati da quella specie d'incantesimo, ci avviammo
in silenzioso accordo verso le imbarcazioni. Leo continuava a piacermi
sempre pi, e pi ancora mi piaceva in quel momento, mentre sorrideva
al fischiare degli otteri. La scarpata, gi verso il molo, era
cosparsa di violette, la maggior parte delle quali era di quel blu
intenso che ne definisce la specie, ma ogni tanto, tra loro, ne
spuntava una bianca, il che rendeva la fioritura ancora pi vivace.
Alcune, ancor pi nascoste, offrivano un maggiore elemento di
sorpresa, nel loro rosso scarlatto.
Per quanto mi lambiccassi il cervello, non riuscivo a ricordare nessun
trattato sulle violette scarlatte. Mi inoltrai tra i fiori, per
osservare pi da vicino. Strana fibra, oltretutto, i petali, come il
velluto.
- Belli, vero? - disse Leo. - Passi da casa mia, durante questa sua
visita allo chalet, e le mostrer• mezzo acro interamente ricoperto di
viole.
Mi rialzai, fissandolo negli occhi: - Venuti fuori tutti insieme,
all'improvviso? La prima volta quest'anno?
- No. Sono gi tre anni che li trapianto, man mano che li trovo.
- Oh, Leo. Mezza Mirabile pensa che tutto quello che germoglier
saranno denti che mordono e l'altra met non prende neanche le
precauzioni pi elementari. Non trapianti mai, mai, niente di colore
rosso a meno che non sia stato prima sperimentato in laboratorio!
Mi guard•, meravigliato. - Sono pericolose?
- Non ricominci! - Accidenti, avevo perso il controllo, saltandogli
addosso con tutti e due i piedi. - Mi scusi, ma sono ancora sconvolta
dalle giunchiglie rosse.
- Annie, sono troppo vecchio, ormai, per preoccuparmi di qualunque
cosa che sbocci colorata di rosso. Le ho riconosciute, secondo le
descrizioni della mia nonna che le chiamava "pans‚". Con suo grande
rammarico, lei non riuscć mai a farne fiorire alcuna qui, su Mirabile.
Forse, queste non sono pans‚, ma per me lo sono. Mi darebbe molto
fastidio se lei ora mi dicesse di strapparle perch‚ stanno per cacciar
fuori zanzare.
Non mi avrebbe mai perdonata, ne fui sicura.
- Prendiamo un esemplare quando torniamo, Leo. Se presenter qualche
problema, vedr• se potr• neutralizzarlo. - Manifest• una tale sorpresa
che dovetti aggiungere: - Il semplice atto pratico non Š la mia sola
finalit. Non lo Š mai stata. Anche le cose belle mi interessano.
Basta che abbia tempo.
Questo lo lasci• soddisfatto. Continu• a sorridere per tutto il
percorso, fino al limite del bagnasciuga. In due fu pi facile
sospingere la barca e scivolammo sull'acqua fino alla baia, che era
sempre stata il mio luogo preferito. Attraccai a un albero che si
protendeva sull'acqua, lanciai l'amo spoglio nell'acqua e mi appoggiai
all'indietro. Leo fece lo stesso.
Ci• che mi affascinava maggiormente da quel punto era la vista della
spiaggetta degli otteri. Da lć, potevo osservarli senza disturbarli.
Susan aveva cominciato a nutrirli da quando aveva l'et di Jen. Gli
animali si erano tanto abituati che, ormai, si rivolgevano anche ai
visitatori.
Io non approvavo la cosa, ma finch‚ non avesse esagerato, al punto che
le bestiole avrebbero perso la capacit di provvedere a se stesse, non
sarei intervenuta. Credo che Susan ne fosse cosciente. Aveva un senso
innato della misura, assai pi della maggior parte degli adulti che
conoscevo, escluso quelli che facevano parte del team, naturalmente.
L'acqua e il pendio della collina pullulavano del gesticolare degli
otteri. Alcuni formavano nell'acqua un ondeggiare serpentino. Uno di
loro inseguiva una enorme libellula mentre altri due si azzuffavano
sulla scarpata rotolando gi, l'uno sull'altro, per finire poi
nell'acqua, con grandi spruzzi.
Leo mi tocc• un braccio indirizzando il mio sguardo altrove. Aveva
l'espressione accigliata. Seguii il suo sguardo per capire, e mi
accorsi che, proprio sotto la superficie dell'acqua, era in corso un
vero litigio.
- Strano - dissi, parlando ad alta voce per la prima volta da quando
eravamo arrivati. Annuć e continuammo a osservare, ma non potevamo
capire esattamente cosa stesse accadendo, vedendo solo un guizzare di
code muscolose che scuotevano l'acqua, fendendola selvaggiamente. Uno
squittio di rabbia fu seguito da uno squittio di dolore e i due si
separarono, mentre uno di loro si dirigeva a grandi colpi di coda
verso di noi.
Potei solo scorgerlo per un attimo, mentre ci passava davanti, ma mi
sembr• considerevolmente pi grande del suo avversario. Il pi grosso
ottero che avessi mai visto, a dire il vero. Mi chiesi come mai fosse
lui a fuggire, invece del pi piccolo.
Quest'ultimo era gi tornato a giocare. Leo alz• le spalle e sorrise.
- Credevo che la stagione dell'accoppiamento fosse passata - disse. -
E cosć dev'essere per quella femmina, considerando come l'ha trattato.
- Ah - dissi. - Ho perso l'approccio iniziale.
Ci adagiammo all'indietro ancora una volta, completamente rilassati,
distratti soltanto dalle follie degli otteri, che ci fecero fare
diverse risate. Eravamo certi che nulla ci avrebbe interrotti.
Le ombre cominciarono ad allungarsi. Avevamo un'altra mezz'ora a
disposizione, prima che diventasse troppo buio per ripercorrere la
strada verso lo chalet. - Leo - dissi. - Vuole che cominciamo ad
avviarci? Da lei fa scuro molto prima che da noi.
- Mi trattengo allo chalet. Ho promesso a Elly di fare qualche
lavoretto. E poi, non mi dispiace l'idea di gustare un altro piatto di
Chris.
Ci furono un turbinio e spruzzi nell'acqua, alla nostra destra, in
profondit, nell'insenatura. Quell'ottero tanto grande che era stato
cacciato via stava tornando con degli amici. Nel lago c'erano, ora,
due gruppi. Feci dei calcoli mentali, per accertarmi che non potessero
rappresentare un pericolo per l'equilibrio della popolazione dei
gamberi e delle trote, poi presi nota anche della possibilit di
trasferire un certo numero di otteri in un altro lago. Essi si erano
stabiliti bene su Mirabile, ma Š sempre interessante fondare un'altra
colonia da un'altra parte.
Mi voltai per spaziare con lo sguardo ancora di pi, per provare a
contare i nasi e dedurre approssimativamente quanti fossero. Non mi
era facile focalizzarli, tra il battere di code, gli spruzzi e le
ombre che si addensavano sempre pi. C'era qualcosa di strano, per•,
in tutto quel trambusto; ma tenni sotto controllo la mia mente, che mi
riportava le storie udite durante il giorno, e continuai a osservare,
incuriosita.
Vidi la coda poderosa di uno di essi volteggiare attorno a un ramo che
sporgeva sulla superficie dell'acqua, mentre la testa era immersa tra
le ninfee. Sapevo che quello era un punto molto ricco di pesca. Le
trote pensavano che le ninfee fossero un buon posto in cui
nascondersi, e gli otteri, di conseguenza, sapevano sempre dove
trovarle. Poi sussultai, notando che le ninfee stavano sparendo
sott'acqua.
Aggrottai le sopracciglia. Sciolsi la barca e feci un cenno a Leo
perch‚ mi aiutasse ad avvicinarmi. Ci attaccammo ai rami per spingerci
avanti il pi silenziosamente possibile. Inutile: in un turbine di
schizzi improvvisi che inondarono tutt'intorno, gli otteri sparirono.
- Maledizione - dissi. Sciolsi i remi e continuammo a procedere sulla
via del ritorno. La luce se ne stava andando. Remavo affondando i remi
nell'acqua ghiacciata e potevo sentire gli stami delle ninfee, poi
cominciai ad afferrarle e a strapparle con le mani, schizzando Leo.
Egli non protest•. Si rimise invece il fiammifero bagnato nella tasca
della camicia, e ne accese un altro, e potei vedere che le ninfee
erano state quasi completamente rosicchiate. Parecchie altre foglie
erano state staccate dagli steli, ma qualche tempo prima, a giudicare
dal modo in cui gli stessi steli si erano gi richiusi. Gettai
nuovamente la pianta nell'acqua e mi asciugai le mani sui pantaloni.
Leo spense il fiammifero nell'acqua e lo rimise in tasca, insieme
all'altro. Improvvisamente discese l'oscurit, in una quiete assoluta.
Decisi che non fosse prudente rimanere sul posto senza la protezione
di un equipaggiamento adatto, cosć mi appoggiai al ramo sporgente e
spinsi la barca verso la parte illuminata. Ma quando rimossi il remo,
ebbi il secondo shock della giornata.
Quel ramo era lo stesso intorno al quale l'ottero si era avvinghiato,
il che mi rivel• le dimensioni della creatura. Aveva una lunghezza di
quasi tre metri!
Rimasi a rimuginare sui miei pensieri per tutto il tragitto di ritorno
alla pensione. Mi sarei anche dimenticata delle violette, se Leo me
l'avesse permesso. Misi a posto la canna da pesca e presi le violette
con tutte le radici che lui mi porgeva. Vidi Susan e le dissi: - Leo
vorrebbe la lettura genetica di queste. Ci puoi far mandare in camera
un paio di aragoste?
- Arrivano, Mamma Jason. - E dette uno sguardo alle violette. - Belle
- aggiunse. - Spero...
- Sć, anch'io.
- Ehi, credevo che tu fossi venuta qui in vacanza!
- Che altra scusa potrei trovare per attirare Leo nella mia stanza?
- Potresti semplicemente invitarlo, Mamma Jason. E' quello che dici
sempre a noi: semplici e diretti...
- Dovrei tenere il becco chiuso.
- E ti perderesti le delizie dell'aragosta. - E con questo, si volt• e
sparć nella sala da pranzo. Mi soffermai anch'io per dare un'occhiata,
da un angolo... vuota, come prima.
Salimmo di sopra e invitai Leo a entrare in camera, mentre appoggiavo
le violette e mi slacciavo la tuta.
- Per prima cosa le violette - dissi, - dal momento che tra poco
saremo interrotti.
Presi l'esemplare e misi in azione il computer, collegandolo a quello
che avevo in laboratorio. Trovai un messaggio di Mike. - Le
giunchiglie si sono alzate e si presentano bene - diceva, - e il team
Š tornato da Guernsey, trionfante. La chiameremo se avremo bisogno di
lei. Lei faccia lo stesso.
- E ti sei dimenticato di dirmi come va la tua mano, incosciente
-brontolai verso lo schermo, poi scrissi il messaggio perch‚ lo
trovasse la mattina seguente.
Il primo rapporto genetico sulle violette scorse veloce. Tutto ci• che
serviva era un microscopio decente, che portavo con me, e il computer.
Il difficile era farlo scorrere attraverso gli archivi della nave per
trovarne il corrispondente esatto, o qualcosa di molto simile. Potevo
lasciarlo operare tutta la notte, mentre dormivo.
Susan entr• con le aragoste e lanci• uno sguardo al di sopra delle mie
spalle, mentre metteva gi il vassoio. - Mamma Jason, posso seguirlo
io, mentre voi mangiate, se vuoi.
- Certo - dissi, alzandomi e cedendole la sedia. Leo e io ci
concentrammo sulle nostre aragoste, dando ogni tanto un'occhiata al
monitor - Guardi questo paragrafo, Leo - dissi. Susan aveva gi finito
con i preliminari e stava cercando indizi sui geni che potevano essere
decifrati.
Le dita di Susan danzavano sulla tastiera, poi fiss• lo schermo, come
se volesse penetrarlo. Anche Mike ha lo stesso sguardo. Immagino che
il mio sia simile. Lo schermo scruta ogni "oggettino", come direbbe
Susan, e la sua struttura genetica. - Mamma Jason, non riesco a
trovare niente, se non l'elice primaria.
- Okay. - Non vedevo niente neanch'io. - Prova a combaciare con
"violette" - e aggiunsi, rivolgendomi a Leo: - Ci conviene cominciare
dai dati pi semplici. Perch‚ scorrere attraverso tutti i programmi,
tutta la notte, se non Š necessario? - Andai in bagno a sciacquarmi le
dita unte di burro.
- Niente da fare - grid• Susan verso di me.
Quando tornai nella stanza Leo aveva dipinta sulla faccia tutta la sua
delusione.
- Non si abbatta - gli dissi. - Non ci arrendiamo cosć presto. Susan,
chiedi se c'Š un modello per pans‚.
- Pans‚ - ripet‚ Leo, a monosillabi.
Lo trov•. Fortunatamente quello non era stato tra le informazioni che
avevamo perso. - Oh, Mamma Jason, vuoi venire a vedere cosa c'Š qui?
Avevamo il corrispondente.
- Ma che fortunato, Leo! - esclamai. - Sua nonna sarebbe tanto
orgogliosa di lei! - Spalanc• la bocca. - Vuol dire che... sono
davvero pans‚?
- Esatto - risposi, mentre Susan sorrideva, tutta eccitata. Le battei
la mano sulle spalle, sospingendola piano piano nel contempo verso la
porta. - Le porti un esemplare di quelle piantate sul suo terreno, in
modo che possa fare un doppio controllo per la loro stabilit. Ma
credo che abbiamo trovato esattamente quello che lei sperava di
ottenere.
Indicai la parte sinistra dello schermo. - Secondo quanto risulta da
qui, dovrebbe germogliare in ogni colore dell'arcobaleno. Dovremmo,
magari, modificarle un po', a meno che lei non le voglia tutte rosse.
- Autentiche - rispose. - Le voglio autentiche come sulla Terra, visto
che me lo chiede.
- Okay. Domani, allora - dissi a Susan. Lei sorrise ancora e se ne
and•.
Mi sedetti di nuovo al computer. Inserii nella memoria le informazioni
sulle pans‚, poi liberai lo schermo e chiamai tutto ci• che gli
archivi della nave avevano sugli otteri.
Non mangiavano ninfee e non esisteva nessun esemplare che fosse lungo
tre metri. Lo dissi a Leo, indicandogli la genetica in questione.
- Questo vuol dire che c'Š un mostro nel lago?
- Questo non lo posso dire. Non mi preoccupa molto qualcuno che mangia
le ninfee, Leo, ma voglio sapere se si ricollega a qualcosa d'altro.
- Come lo troviamo?
- "Io" estrarr• un esemplare di cellula dalle bestioline.
Le sue labbra di assottigliarono ancora in quel particolare sorrisetto
strano.
- Posso esserle di nessun aiuto? - E allarg• le braccia. - Sono molto
efficiente nel tenermi in disparte ed eseguire ordini. Sono anche un
tiratore di prima scelta e posso distinguere tra un mostro e una
mostruosit. Prometto di non sparare se non sar assolutamente
necessario.
- Mi ci faccia pensare, Leo. - Volevo pi che altro consultarmi con
Elly, su ci• che lui aveva assicurato.
Doveva avermi letto nel pensiero, perch‚ sorrise e disse: - Elly pu•
garantire per me. Ci vediamo domani mattina.
E questo fu tutto. Devo aggiungere, per•, che mi baci• la mano, prima
di uscire. Leo mi piaceva sempre di pi.
Quando se ne fu andato, continuai a riflettere su di lui, poi scesi
gi per parlare con Elly. Mi ripiegai attraverso il banco, facendo
attenzione a non intralciarla mentre puliva, e le dissi: - Dimmi
qualcosa di Leo.
Elly smise di strofinare per un momento, alz• lo sguardo e sorrise. -
Lui Š come te.
- Buono come me, o cattivo come me?
Il suo sorriso si allarg•. - Entrambe le cose. E' testardo, leale,
mantiene segreto un segreto, fa il burbero con i bambini, ma li adora.
- Nessuna relazione stabile? - mi lasciai sfuggire senza accorgermene.
Cercai di rimediare, ma Elly scoppi• a ridere.
- Annie! Ho paura che tu ti stia prendendo una bella cotta per Leo.
E, sempre ridendo, mi venne vicino, mi fece sedere e mi si sedette
accanto, appoggiandosi il mento su una mano. - Non dovrei esserne
meravigliata. Succede a tutti i ragazzi.
Emisi uno dei famosi sospiri di Susan.
- Okay, okay - disse. - Ora, parlando seriamente, l'idea mi piace. Mi
piace Leo e mi piaci tu e penso che andreste molto d'accordo.
- Spara davvero bene, come dice? E' abbastanza prudente?
A questo punto si raddrizz• sulla sedia e il suo sguardo assunse
un'espressione circospetta.
- Non ti spaventare - le dissi decisa. - "Avete" qualcosa nel lago a
cui voglio dare un'occhiata... ma Š un erbivoro e dubito che sia
pericoloso. E' grande abbastanza da catapultare una barca, forse,
ma...
- Vuoi chiamare il team?
- Non credo che sia necessario. Hanno bisogno di un po' di riposo...
- Questa Š la ragione per cui "tu" sei venuta qui. Non Š giusto.
Sviai l'argomento con un gesto della mano. - Elly, dovresti conoscermi
meglio, ormai. Non avrei scelto questa professione, se non fossi stata
una irriducibile ficcanaso. E ho chiesto di Leo perch‚ si Š offerto di
aiutarmi. - Senza volere, avevo assunto un atteggiamento
professionale. - Soldi ed equipaggiamento non sono un problema. E' la
mano d'opera che manca.
- Uno di questi giorni ti prenderai met dei miei ragazzi.
Fui cosć sorpresa che mi girai di scatto e la fissai. Sorrideva, e
quel sorriso sembrava volersi tramutare in un'altra serie di risate. -
Annie certamente ti sarai accorta che la met di questi ragazzi sogna
di diventare proprio come te!
- Ma...
- Oh, povera Mamma Jason. Hai pensato che crescessi una colonia di
piccoli Ellies, qui, vero?
Il fatto era che non ci avevo mai riflettuto molto. Probabilmente, era
per me scontato che Susan e Chris e Ilanith avrebbero, eventualmente,
preso il suo posto allo chalet e...
Elly mi picchiett• sulla mano. - Non ti preoccupare. Chris si occuper
dello chalet, e tu e gli altri verrete a passarvi le vacanze.
Non so perch‚, ma fui assalita da un grande senso di colpa, come se
avessi spezzato una famiglia.
Elly mi abbracci• con grande affetto. - Togliti quell'espressione
dalla faccia. Neanche avessi chimere, invece di ragazzi normali!
L'unica cosa che ti chiedo Š di non aggregarli finch‚ non sei sicura
che siano pronti.
- Ti ammalerai per la preoccupazione!
- No. Mi preoccuper• per loro allo stesso modo in cui mi preoccupo per
te. Ho l'aspetto di un'ammalata?
Si alz• per farsi guardare. Aveva un aspetto eccellente. E lo sapeva.
Sorrise di nuovo e disse: - Prendi Leo con te, e anche Susan, se credi
che sia pronta. Ma ti avverto, lei crede di esserlo, comunque ti
ascolter e accetter la tua decisione.
E questo pose fine all'argomento, per quanto la riguardava. Io me ne
tornai nella mia stanza, sotto il peso delle mie responsabilit.
Mi prendesse un colpo se so come non me ne fossi resa conto da sola,
aggravando, in pi, la situazione, chiamando Susan la mia "assistente"
e facendole fare la lettura genetica sulle pans‚ di Leo. Continuai a
riflettere.
Aveva fatto un gran bel lavoro. Aveva sentito Leo parlare delle sue
pans‚ e non aveva avuto alcuna esitazione nel fare la seconda lettura.
Pi ci pensavo e pi mi convincevo che Elly avesse ragione. Lo strano
era che non ci avessi mai pensato io stessa.
Mi accucciai in quel letto morbido e rimasi ad ascoltare i suoni della
notte che provenivano dal lago, mentre mi chiedevo quando avrei potuto
far cominciare Susan a lavorare con me. Scivolai in un sonno
tranquillo, in cui i miei sogni erano pi piacevoli di quanto non
avessi voluto ammettere con Elly.
Mi svegliai, non completamente riposata, sentendomi scuotere dalle
spalle, insistentemente, e aprii gli occhi, trovandomi a fissarne un
altro paio che, a loro volta, mi fissavano stralunati, a pochi
centimetri dalla mia faccia. Pensando che il bel sogno si fosse
tramutato in incubo, borbottai che se ne andasse e mi rigirai
dall'altra parte.
- Per favore, Mamma Jason - diceva l'incubo. - Per favore, ti "devo"
parlare. Non posso dirlo a Elly e ho paura che le far dispiacere.
Mi tirai su e mi misi a sedere. La piccola Jen risult• essere il mio
incubo materializzato. - Calmati, Jen, dammi tempo. - E con una mano
mi stropicciai gli occhi e il viso, mentre cercavo di focalizzare le
lancette dell'orologio sull'altro polso. Queste mi dissero che avevo
dormito abbastanza da poter affrontare la realt, cosć mi alzai.
Gli occhi di Jen ripresero la loro normale dimensione, poi si
serrarono e da essi cominciarono a fluire grossi lacrimoni. Si volt•
per scappare verso la porta, ma ormai ero sveglia abbastanza e la
riacchiappai in tempo. - Un momento - le dissi. - Tu non puoi venire
qui a dirmi che c'Š qualcosa che potrebbe far del male a Elly, e
subito dopo scappare via. Raccontami tutta la storia.
Cominci• a piagnucolare, tra le lacrime: - E' un "segreto"...
E lei voleva che qualcuno la costringesse a tirarlo fuori. Okay,
l'avrei accontentata. La tenni ferma ai bordi del letto. - Ora
soffiati il naso e dimmi di che si tratta. Da come ti comporti sembra
che sia io la chimera.
- Mi devi promettere di non far del male al Mostro. E' di Susan.
Non promisi niente e aspettai che continuasse. - Non sapevo che fosse
cosć "grande", Mamma Jason! - E allarg• le braccine, per mostrarmi
"quanto" fosse grande, il che dette una dimensione di circa un metro,
ma sapevo, dal volo delle braccine e dal suo seguirle con lo sguardo,
che lei intendeva "molto" pi grande. - Ora ho paura per Susan!
Ripensai alla sua aria smarrita di qualche ora prima. - Che cosa vuol
dire "Š di Susan"?
- Susan scappa di notte per portargli da mangiare. Io non l'ho mai
visto, il mostro, ma deve essere "orribile". Lei lo chiama Mostro e
lui gorgoglia. - E rabbrividć.
La presi tra le braccia finch‚ non si calm•. Ovviamente, tutto questo
doveva durare da un pezzo. Lei violava, ora, il segreto perch‚
Stirzaker ne aveva parlato, descrivendolo in modo tanto
impressionante... - Okay - le dissi, accarezzandola. - Voglio che tu
mi chiami non appena Susan sgattaiola via, per andare a portare da
mangiare al suo Mostro...
Chiuse gli occhi, con aria solenne. - E' l ora, Mamma Jason.
- Okay, dov'Š "l"?
Un muggito proveniente dal lago mi fece balzare in piedi. Corsi alla
finestra mentre ne giungeva un altro. Scrutai nella notte.
Non c'Š la luna su Mirabile, ma per il momento abbiamo una nova
piuttosto efficace. Le radiazioni che manda non sono d'intensit tale
da destare preoccupazione e gli sprazzi di luce che distribuisce sono
sufficienti per distinguere le sagome nell'oscurit.
Qualcosa di enorme ondeggi• attraverso le acque del lago. Scrutai pi
attentamente, cercando di vedere meglio, ma non ci riuscii. Il muggito
si ripet‚ e un altro giunse, in risposta, dalla spiaggia pi lontana.
Qualunque cosa fosse, doveva essere "enorme", ancora pi grande degli
otteri che avevo avvistato nel pomeriggio. Che si fosse gi generato
qualcosa di diverso? Ci fu il fragore di un tuffo seguito da un altro
muggito. Sapevo che Elly non poteva sentire niente dalla sua stanza.
Questa, infatti, si trovava sul versante che si affacciava verso la
collina.
Finalmente riuscii a captare un'altra immagine della creatura, una
testa poderosa, un corpo lungo. In stato di shock, mi resi conto che
era assai simile a quelle sfocate immagini del "Nessie" delle vecchie
foto.
Mi voltai per mettermi addosso qualcosa e urtai Jen che si era
rannicchiata dietro di me, spaventandola a morte. - Calmati, calmati -
le dissi, afferrandola per le spalle. - Vai a chiamare Leo... e digli
di portare il fucile. - E la sospinsi verso la porta. Si precipit•
come se la casa fosse in fiamme.
Lo stesso fece Leo. Prima ancora che finissi d'indossare la tuta,
controllando pi volte che la pistola a fiamme avesse ancora
abbastanza carica, lui era davanti alla porta, con l'arma in mano.
Corremmo insieme gi per le scale, fermandoci una sola volta, per
chiedere a Jen da che parte fosse andata Susan. Jen disse: - Gi al
lago, dice che Š il tuo posto preferito! Pensavo che tu lo sapessi! -
Stava ricominciando a piangere.
- Lo so - la rassicurai. - Tu aspetta qui. Se non siamo di ritorno tra
due ore, sveglia Elly e dille di chiamare Mike al telefono.
- Mike - ripet‚, - Mike. Due ore. - Si accovacci• a terra, davanti
all'orologio a pendolo. Ero convinta che potevo contare su di lei.
Io e Leo accendemmo le torce e c'inoltrammo tra gli alberi. Lasciai
che fosse lui a fare da battistrada, per il momento. Conosceva meglio
di me i viottoli e non volevo perdere tempo. Cercammo anche di fare
molto rumore perch‚, essendo solo in due, era preferibile spaventare e
allontanare eventuali intrusi, piuttosto che doverli affrontare.
Giungemmo alle imbarcazioni a tempo di record. Neanche a dirlo, una
barca mancava. Spingemmo l'altra sull'acqua e ci allontanammo veloci
attraverso il lago. Leo remava mentre io stavo all'erta, con il fucile
in una mano e la pistola a fiamme nell'altra.
Nove volte su dieci, una pistola a fiamme basta a far indietreggiare
un "Dente di Drago" e a farlo scappare da un'altra parte. Il fucile
serve per quella decima, fatidica volta. O nel caso in cui la bestia
si avvicinasse a Susan.
Un paio di forme voluminose frusciarono veloci tra gli arbusti, dal
lato opposto rispetto a noi. Poteva trattarsi di cervi, o forse no. N‚
io, n‚ Leo riuscimmo a vederli.
- Gi - m'intim• Leo e io ubbidii immediatamente, evitando di essere
colpita da uno di quei rami che sporgevano sul lago. Voltandomi a
guardare, scorsi la barca che Susan aveva preso. C'era abbastanza
sabbia in quel punto da poter arenare anche la nostra, e cosć facemmo.
- E va bene, Susan - dissi nell'ombra. - Credo che basti, per ora.
Vieni fuori. Alla "mia" et, ho "bisogno" di dormire.
Leo ridacchi•.
Ci fu un leggero scricchiolio dietro di lui e Susan venne fuori
carponi da un cespuglio con aria imbarazzata. - Volevo soltanto fare
una sorpresa - disse. Si guard• intorno e s'illumin•. - Pu• esserlo
ancora... ma voi li avete spaventati!
- Quando si Š vecchi e scorbutici come sono io, non c'Š niente che
piaccia "meno" di una sorpresa - dichiarai.
- Oh - e cominci• a togliersi i ramoscelli dai capelli. - Allora, se
riesco a farli venir fuori ancora, accetteresti il tuo regalo di
compleanno, con un mese di anticipo?
Io e Leo ci guardammo. Pensammo entrambi a Jen, accovacciata nella
hall, in preda al terrore. - Due ore e non un minuto di pi - disse
Leo.
- Va bene, Susan. Prova a vedere se riesci a farli venire allo
scoperto un'altra volta. Voglio prelevare una cellula campione.
Cercai il mio strumento... grazioso, piccolo gadget. Come una
minuscola freccia, attaccata a un filo. Si spara senza emettere suono,
colpisce con una puntura pi lieve di quella di una mosca (lo so
perch‚ avevo fatto da cavia, facendomene sparare uno da Mike, in
laboratorio), poi si tira il filo, con il campione all'estremit
opposta.
- Sedetevi, allora, e fate silenzio.
Ubbidimmo. Susan si acquatt• di nuovo sotto i cespugli e spinse fuori
un pezzo del pane di Chris, emettendo lo stesso suono di incitamento
che le avevo sentito usare per richiamare i suoi otteri. Capii che
aspettava l'avanzare di qualcosa raso terra. Non certo quella cosa
enorme che avevo visto nuotare nel lago.
Non udivo nessun altro suono provenire da quella parte, con mio grande
sollievo. Desideravo tanto poter credere che tutto questo fosse
soltanto un sogno, ma sapevo che non lo era. La cosa peggiore fu che
scelsi proprio quel momento per ricordarmi che una delle teorie su
Nessie riteneva che si trattasse di un plesiosauro sopravvissuto al
suo tempo.
Stavo per dare l'alt e ordinare di toglierci immediatamente da quel
luogo, per poterci tornare alla luce del giorno e con un team, quando
qualcosa si mosse tra i cespugli. Susan emise il solito suono e
allung• il pane.
La creatura allung• il naso nel circolo di luce formato dalle nostre
torce e sbatt‚ gli occhi verso di noi. Era la creatura vivente pi
tapina che io avessi mai visto: una testa a forma di stivale vecchio,
con due orecchie d'asino attaccate ai lati.
- Su, Mostro - lo stava incoraggiando Susan. - Lo sai quanto ti piace
il pane di Chris. Non ti preoccupare di loro. Fanno un sacco di
chiasso, ma non sono pericolosi.
Lo vedemmo arcuarsi in avanti. Aveva un aspetto ancora pi sgradevole
visto per intero. Quello che pensavo fosse un ottero non lo era. Be',
il corpo era quello di un ottero, con tutto il suo metro e ottanta
circa, ma la testa non combaciava. Dopo un attimo di esitazione, emise
un suono basso incerto, poi soffi• col naso verso Susan e afferr• il
pezzo di pane con le sue zampe da ottero e se lo ficc• tutto in bocca.
Poi muggć, facendoci trasalire tutti e tre.
- Ha imparato a fare cosć soltanto quest'anno - disse Susan, con una
sorta di compiacimento nella voce. I cespugli intorno a noi si
scossero.
Con la coda dell'occhio, vidi Leo sollevare il fucile. Susan lo guard•
preoccupata. - Non sparer, a meno che non accada qualcosa, ragazzina
- le dissi pianissimo, ma in modo che mi sentisse. - Me l'ha promesso.
Susan annuć.
- Okay, Mostro, li puoi far venire fuori, allora.
Non c'era bisogno che lo dicesse. Quel muggito era gi stato un
richiamo. Erano almeno una dozzina, tutti uguali, tutti penosamente
brutti. No, "penosamente" non Š il termine appropriato, erano
"ridicolmente" brutti.
Quello che lei chiamava Mostro si diresse verso di me. Con un naso
come quello degli otteri, mi annus• la mano. Mi prenda un accidente se
quella sembrava la testa di un animale erbivoro. I denti avevano la
capacit d'azzannare bene a fondo, ma apparteneva alla famiglia dei
cervi. Al ramo bruno, comunque.
Un altro si accovacci• sul grembo di Leo. Stava cercando di
slacciargli la fibbia della cintura. Susan lo richiam•, attirandolo
con il pane. - E' una vera ladra. Se non si sta attenti, si porta via
qualunque cosa che brilla. Proprio come gli otteri.
Si assomigliavano proprio. Il comportamento era lo stesso che avevo
visto osservando gli otteri di Susan, ma ora capivo il motivo per cui
gli otteri avevano scacciato uno di questi, nel pomeriggio. Era facile
capire che non erano otteri, anche se loro pensavano di esserlo. Come
gli esseri umani, gli otteri sono molto accorti nel proteggere la
propria specie.
Ben presto, il pane finć. Mostro riunć la truppa e li guid• via,
guardandoci un'ultima volta, al di sopra della spalla.
La colpii con il mio ago prima che Susan potesse protestare. Grugnć e
si rosicchi• il fianco per un attimo, come farebbe un cane con una
pulce, poi si accorse dell'ago che veniva ritirato fuori dalla sua
pelle e vi si avvent• contro.
Rimasi con il filo in mano. Susan salt• su, e cosć fecero gli altri
mostriciattoli, compagni del Mostro.
Leo si mise a ridere. Questo fu sufficiente per allontanarli di
scatto. Io caddi in avanti e Susan mi venne addosso. Anche lei
sghignazzava, rotol• via e si rialz• trionfante con il campione tra le
mani.
- Non ce n'era bisogno, Mamma Jason, ma ho deciso di perdonarti.
Mostro ha creduto si trattasse di un gioco. - Rise ancora e aggiunse,
con aria sbarazzina: - E anch'io.
- Bene - dissi. - Mi dispiace rovinare la festa, ma Š ora di tornare
allo chalet. Domani mattina saremo tutti a pezzi.
Susan sbadigli•. - Credo di sć. Loro perdono ogni interesse una volta
finito il pane.
- Susan, lo riporti tu Leo a casa?
- Tu non vieni? - mi chiese.
- Ci sono due barche. - Susan era cosć assonnata che non si chiese
come mai volevo che Leo salisse sulla barca con lei. Leo mi guard• e
capć; la seguć e si accomod• appoggiando il fucile sulle ginocchia.
Arrivammo allo chalet distrutti dalla fatica. Jen ci accolse con un
gran sorriso di sollievo. Ma due passi pi in l c'imbattemmo in una
Elly accigliatissima, senza contare il cipiglio di Chris, Ilanith e di
mezza dozzina di altri.
- Ho trovato Jen seduta per terra nella hall, di fronte all'orologio -
disse Elly. - Non voleva tornare a letto e non voleva dire perch‚.
Fatto il conto dei nasi, mi sono accorta che ne mancavano tre. Cosć
tu... - e guard• me, naturalmente, - mi devi la spiegazione che hai
proibito a lei di darmi.
- C'Š qualcosa nel lago - dissi. - Abbiamo preso un campione che
esaminer• domani. Ora abbiamo tutti un gran bisogno di dormire.
- Bugiarda - disse Chris. - Qualcuno ha fame? Uno spuntino di
mezzanotte... - dette un'occhiata all'orologio e aggiunse: - Be', c'Š
uno spuntino che vi aspetta...
Ci arrendemmo e la seguimmo in cucina, vinti dal profumo che proveniva
da quella direzione. Sapevo che per me questo avrebbe implicato una
spiegazione esauriente. Voleva dire rivelare il segreto di Susan.
Ci sedemmo e ci tuffammo sulla zuppa di pesce. Chris riempć un vassoio
di cracker. - Non c'Š pane - disse con tono drammatico, gettando
un'occhiata verso Susan, per indicare chi fosse responsabile di questo
deprecabile stato di cose.
Susan abbass• gli occhi. - La prossima volta prender• quei crackers.
Loro preferiscono il tuo pane, per•.
- Se tu avessi "chiesto" - replic• Chris, - io ne avrei preparato
dell'altro.
- Volevo che fosse una sorpresa per Mamma Jason. - Si guard• intorno.
- Voi lo "sapete" quanto sia difficile trovare un regalo per lei! - Si
alz• di scatto e allontanandosi disse: - Aspettate! Torno subito. Vi
faccio vedere!
Mi concentrai sulla mia zuppa. Regalo di compleanno, proprio! Come se
avessi bisogno di altro regalo, oltre a tutti quei ragazzi attorno a
me. Se Susan non avesse aperto la bocca, Elly avrebbe pensato che
fossi stata io a portarla con me, come aveva suggerito poche ore
prima. Alzando lo sguardo, incontrai quello bonario di Elly.
Bene, ero salva, ma Susan non lo era di certo.
Ci fu un rumore di passi gi per le scale e Susan torn• con una enorme
scatola, straripante di fogli e dischetti di computer. Chris spost• la
zuppiera per fare spazio.
Susan tir• fuori il suo computer tascabile e lo innest• al modem. -
L'ho fano bene, Mamma Jason. Guarda se non l'ho fatto bene.
L'album di famiglia non era nelle regole, ma siccome la prima pagina
rappresentava un graziosissimo ologramma (che dedussi appartenesse a
Ilanith), con la scritta di "Buon Compleanno, Mamma Jason, e con
l'imitazione di fuochi d'artificio, non potevo certo disapprovare. La
seconda pagina mostrava una mamma ottero circondata dai suoi cuccioli.
Il cucciolo in primo piano era deforme, simile a quelle creature a cui
Susan aveva dato il pane di Chris.
- Questa Š "Mostro" - stava dicendo Susan, indicandolo con un dito.
Stacc• una striscia di nastro, al di sotto dell'ologramma e lo inserć
nel computer. - Questa Š la sua genealogia - e guard• Chris.
- Ho attirato la madre con il pane per trarne un campione. Gli otteri
vanno pazzi per il tuo pane. Non ho mai usato il pane fresco, Chris,
soltanto quello raffermo.
Chris annuć. - Lo so. Ho immaginato che l'avessi dato tutto agli
otteri.
- "Ghiotteri", direi - s'intromise Leo, sorridendo.
Susan rise. - Mi piace questa definizione. Chiamiamoli "Ghiotteri",
Jason.
- Sono tuoi - risposi, sorridendole. - E' tuo il privilegio di
battezzarli.
- "Ghiotteri" suona bene. - Chris sbirci• al di sopra delle mie spalle
e chiese a Susan: - Perch‚ davi da mangiare a un "Dente di Drago"?
- E' cosć brutto da fare tenerezza. I primi sono stati abbandonati
dalle loro madri. Questa... - Susan batt‚ sull'ologramma di nuovo.
-...ha deciso di tenersi i suoi. E' stata anche ostracizzata per
questo, Mamma Jason.
Annuii distrattamente. Questo succedeva piuttosto spesso. Ne sapevo
abbastanza sulla genealogia che Susan aveva tracciato sul suo Mostro.
Aveva fatto un lavoro esauriente. Io stessa non avrei potuto farlo
meglio.
Esclusivamente erbivori... e tra le cose che avrebbero mangiato
c'erano le ninfee e la gramigna acquatica, questa riflessione arrest•
il corso dei miei pensieri. Alzai lo sguardo: - Mangiano la gramigna!
Sulle guance di Susan comparvero le fossette, in un sorriso gioioso. -
Ne vanno matti! Ecco perch‚ sono tanto ghiotti del pane di Chris pi
che dei crackers!
- Come ti permetti!... - Chris salt• su cosć all'improvviso che Elly
dovette afferrare la sua scodella perch‚ il contenuto non schizzasse
tutt'intorno.
Mi misi a ridere. - Calmati, Chris! Non sta criticando il tuo pane! Tu
usi la farina di brandy e la farina di brandy ha le propriet
nutritive molto simili a quelle della gramigna acquatica.
- Vuoi dire che potrei usare la gramigna per fare il mio pane? - Le
piaceva l'idea. Sedette di nuovo e guard• Susan con interesse.
- No, non puoi - rispose Susan. - Ha molte caratteristiche che gli
esseri umani non possono tollerare.
Leo s'intromise: - Susan, non riesco a seguirti...
- Semplice, Cantastorie. La gramigna Š un grande problema. E richiede
una massiccia mano d'opera. Vicino Torville, tutti vanno gi ai canali
e ai fossati d'irrigazione, una volta al mese circa, a strappare
l'erbaccia con le mani. Quando ho visto Mostro mangiare la gramigna,
ho pensato che valesse la pena tenerlo, se Š possibile, naturalmente.
- Niente male - disse Ilanith. - Mi chiedevo perch‚ le valvole
d'immissione fossero cosć facili da pulire, negli ultimi tempi. - Si
chin• per osservare meglio l'ologramma di Mostro. - Ha due anni ora,
vero?
- Quattro - corresse Susan. Ma anche se avesse avuto solo un anno non
sarebbe stato tanto diverso. - Mamma Jason, ho fatto uno studio
genealogico su di loro, ogni anno. Ho segnato ogni cosa.
L'avevo visto. L'intero. "Ce" era l, insieme ad altri ologrammi, e la
sua ricerca degli equivalenti nei rapporti di bordo. Non c'erano
corrispondenti, per cui questo esemplare era o un "Dente di Drago" o
una classe intermedia. Proprio quest'anno, lei aveva cominciato una
sperimentazione meticolosa sugli elici secondari e terziari.
Vide la quantit del materiale che avevo gi letto del suo rapporto e
disse, in tono di scusa: - C'Š un'elice secondaria, ma non avevo
l'informazione che mi indicasse dove cercare il corrispondente negli
archivi di bordo.
- Tieni - le dissi. E le allungai il campione che avevo prelevato dal
suo Mostro una mezz'ora prima. - Un campione fresco pu• sempre essere
d'aiuto.
Lei lo prese, poi mi guard•, eccitatissima: - Vuoi dire, "io"? Tu vuoi
che ci continui a lavorare "io"?
- Tu vuoi che "io" lavori sul mio regalo di compleanno? - S'illumin•
come se fossi stata io a fare un regalo a "lei".
Mi trattenni dal sorridere e sbadigliai. - Ora vado a letto. Ma
proibisco a chiunque di andare gi al lago, fino a che Susan non abbia
completato le sue analisi...
Elly aggrott• le sopracciglia. - Annie, dobbiamo gettare le reti,
domani, o Chris non avr niente da cucinare.
Dovetti spiegare. - Prenditi un po' di riposo, Elly. C'Š qualcosa nel
lago, e non Š il mangiatore di gramigna di Susan. Io e Leo faremo un
giretto, domani... armati.
- Oh, Mamma Jason! - Susan mi guard•, turbata. - Non pensi che
"Mostro" derivi da un "vero" mostro? - Fu sul punto di piangere.
- Ehi! - La tirai verso di me, in un abbraccio. Per un attimo non
seppi cos'altro dire, poi, ricordai la prima volta che Mike aveva
ottenuto un'alternativa pericolosa, invece di quella che stava
cercando. - Ti dir• la stessa cosa che dissi a Mike, una volta: capita
anche di dover rischiare per trovare ci• che Š utile.
La scostai un po' per osservarla e vedere se avevo ottenuto l'effetto
desiderato. Non proprio. - Ascoltami, cara, lo sai come abbiamo deciso
di trascorrere le nostre vacanze invernali, io e Mike, quest'anno?
Scosse la testa. Se non altro mi stava ascoltando, anche se era ancora
sconvolta. Continuai: - Cercando di creare insieme qualcosa che mangi
la gramigna acquatica. Se invece si tratta di stabilizzare i tuoi
mostri, ci hai risparmiato anni di lavoro!
L'abbracciai ancora. - Questo Š stato il miglior regalo di buon
compleanno che abbia ricevuto da anni a questa parte!
Finalmente, il sorriso riapparve sulle sue labbra, anche se un po'
tremolante.
- Allora, ecco qui il nostro piano. Tu prepari il campione stanotte,
mentre fa ancora fresco, poi ti fai una bella dormita e domani ti
leggi la genealogia. Io e Leo perlustreremo un po' la zona non appena
ci sar abbastanza luce. Tutti gli altri possono dormire fino a tardi.
Questo non servć n‚ a tranquillizzare Elly, n‚ Chris, ma sapevo che
avrebbero ubbidito, anche se esisteva ancora la possibilit di far
evacuare i ragazzi. - Elly - le dissi. - Troveremo una soluzione, te
lo prometto.
Non avevo ancora la minima idea di quale tipo di soluzione avrei
potuto trovare, comunque la tensione nei suoi occhi si allent•. Una
buona notte di riposo le avrebbe giovato molto. Perci•, dopo altri
abbracci, mi trascinai finalmente a letto.
Presto fu di nuovo mattina, troppo presto. Leo, che sia benedetto, si
era gi alzato e mi aspettava.
La prima cosa che volli fare fu una pi accurata perlustrazione sulla
spiaggia degli otteri. Quello era il luogo pi vicino al punto in cui
avevo visto quello strano essere, e pensavo che, forse lć, avremmo
potuto trovarne qualche traccia. Questa parte del lago era illuminata
dal sole piuttosto presto. Fortunatamente, la giornata era abbastanza
luminosa e la bellezza del panorama ti faceva apprezzare di avere
occhi, naso e orecchie.
Mi guardai intorno per un attimo, cercando di orientarmi - poi,
indicai un punto. - Qui intorno, da qualche parte. Sono sicura che Š
qui che ho sentito quel suono. - Poi ci separammo.
Qualcosa di tanto grande doveva, per forza, aver lasciato una traccia
del suo passaggio. L'albero di popcorn fu il mio primo colpo di
fortuna. Qualcuno ne aveva mangiato le foglie pi in basso e aveva
lasciato tracce di zanne qui e lć sul suo tronco. Ma dall'aspetto di
quei segni si poteva stabilire che risalissero a diversi giorni prima.
L'albero di popcorn Š originario di Mirabile, e da questo dedussi che
avevamo a che fare con un essere che poteva avere ancora a
disposizione solo poco tempo da vivere, o con un "Dente di Drago", che
si fosse adattato alle condizioni del "Ce". Comunque, sembrava
trattarsi di un erbivoro, a meno che non fosse una di quelle eccezioni
che piluzzicano gli alberi per puro divertimento.
Comunque era "enorme"! Avrei potuto tener conto del fatto che le
dimensioni che ne risultavano fossero dovute al fatto che l'animale si
sollevasse sulle zampe posteriori, si allungasse nell'azione. Queste
tracce, per•, rivelavano la stessa lunghezza che avevo intravisto alla
luce della nova.
Mi giunse il richiamo di Leo e andai a vedere cosa avesse trovato.
Quando lo raggiunsi, aveva lo sguardo fisso al suolo. - Annie, questa
"cosa" pesa una tonnellata! - E indic• col dito.
Impronte di zampe affondavano profondamente nel terreno umido. Aveva
voluto dire "tonnellata", nel vero senso della parola. Mi avvicinai,
per osservare meglio, poi frugai nel mio bagaglio e tirai fuori gli
attrezzi. - Per favore, Leo, mi procuri un po' d'acqua - e gli porsi
un contenitore ripiegato. - Voglio prendere queste impronte. Ehi! -
aggiunsi, spinta da un improvviso impulso. - Tenga gli occhi bene
aperti!
Egli sorrise. - Difficile che qualcosa di questa dimensione passi
inosservata.
- E' successo fino a questo momento - rimarcai. Non volevo essere
sarcastica, ma soltanto realistica. Vidi, con piacere, che lo aveva
capito.
Tornai a esaminare le impronte. Non erano senz'altro impronte di
cervo, anche se sembravano appartenere alla stessa famiglia. Il cervo
reale era riuscito a sopravvivere, perch‚ si era limitato a nutrirsi
esclusivamente di prodotti terrestri autentici, e questo voleva dire
che non potevo trarre nessuna conclusione dalle analogie. Propendevo
ancora per la teoria dell'erbivoro, forse solo perch‚ volevo
continuare a sperare.
Ero proprio stanca di esseri che pizzicavano, o sbranavano o che, per
una ragione o per un'altra, mi stavano rendendo la vita tanto
difficile. Ero dell'opinione che i "Denti di Drago" cominciassero a
trovare un equilibrio genetico e che cominciassero a produrre qualcosa
di utile.
Mentre mischiavamo il gesso e lo riversavamo nelle orme, mi convinsi
che dovevo essere grata ai divoratori di gramigna di Susan e alle
pans‚ di Leo, senza aspettarmi pi tanto dal nostro enorme pacco a
sorpresa.
- Leo, penso che sia un erbivoro. Ci• non vuol dire che non sia
pericoloso - si sa cosa pu• fare un toro - ma vuol dire che non voglio
che gli si spari a vista.
- Lei non vorrebbe che fosse ucciso a vista, neanche se "fosse" un
carnivoro - replic•. - Se non ho sparato a vista davanti al primo
essere mostruoso, non sparer• certamente su "questo" senza una
ragione.
Lo guardai, colta da estremo imbarazzo. Il nome "Leonov Denness"
avrebbe dovuto dirmi qualcosa, ma ero stata distratta dal suo
soprannome.
Ai tempi in cui era "Leonov Esploratore Denness" egli era stato lo
scout che aveva aperto la strada, e segnato sulla mappa, tutto il
nuovo territorio, da Ranomafana ai confini dall'abitabile! Ritorn•
portando con s‚ campioni di cellule di tutto quello che aveva trovato,
il che rientrava nello scopo del suo viaggio. Ma aveva anche riportato
un esemplare vivo di una creatura che era tanto feroce quanto il
canguro reale e, per di pi, era alato. Quando Nonno Jason gli aveva
chiesto perch‚ avesse rischiato tanto, egli aveva risposto: - E'
meglio osservarne le abitudini, oltre che i geni.
Era poi stato deciso di allontanarlo dalle zone abitate, piuttosto che
ucciderlo. Per quanto fosse feroce, poteva essere allontanato da suoni
forti, come campane di bronzo, ora che ci ripensavo! Ed era utilissimo
per la caccia di quelli che, su Mirabile, erano considerati topi.
Questi topi - rappresentavano, per noi, un problema peggiore delle
grida che eravamo costretti a emettere, fino alla raucedine, per
tenere lontani i loro sterminatori, ogniqualvolta viaggiavamo
attraverso le coltivazioni. - Se lei mi avesse aiutato - gli dissi, -
non mi sarei disturbata a chiedere le sue credenziali a Elly.
- Annie, non pensavo fosse il caso di vantarsi.
- C'Š una certa differenza tra i fatti e il vantarsi. Ora posso
smettere di preoccuparmi della sua integrit e incominciare a
concentrarmi seriamente sul da farsi.
Lasciando le forme a indurirsi, mi avviai davanti a lui verso le
imbarcazioni. - Due barche, oggi, Leonov Esploratore Denness. Lei
perlustra quella parte del lago, io questa. Malgrado mi piaccia la sua
compagnia, questo ci permette di avvistare qualcosa, e prima riusciamo
a concludere questa faccenda, meglio sar per Elly. Fischi, se scorge
qualcosa. Diversamente, ci ritroviamo qui un'ora dopo il tramonto.
Probabilmente avremmo dovuto trattenerci tutta la notte, ma speravo
che questo essere non fosse esclusivamente notturno. Se lo fosse
stato, avrei avuto bisogno di un equipaggiamento pi completo, per cui
avrei dovuto chiamare Mike, e la cosa sarebbe diventata ufficiale e di
dominio pubblico.
Non c'Š niente di pi irritante che aspettare l'emergere della testa
di un "Dente di Drago", anche se si tratta di una testa erbivora. Ci
sono abituata, dopo tutti questi anni, e inoltre c'erano otteri e
ghiotteri da guardare, ed era uno di quei giorni perfetti sul "Loch
Moose". Il "pescare" contemplativo non era una cosa nuova per me. La
cosa snervante era scrutare e aspettare, il che non Š certo
rilassante. Nel retro della mia mente il plesiosauro stava ancora
navigando sinistramente nel "Loch Ness".
I ghiotteri di Susan, per quanto brutti fossero, avevano dimostrato di
essere tanto divertenti quanto gli otteri. Osservandoli, ora, potevo
constatare che la ragazza aveva avuto ragione. Li guardavo tuffarsi e
tornare su con le bocche piene di ninfee e di gramigna acquatica.
Si lev• una leggera brezza, una di quelle brezze tanto piacevoli, per
cui "Loch Moose" era cosć giustamente famoso, una brezza dolce e
profumata di fiori, di pino e di alberi di popcorn.
I pini cominciarono a emettere vapore. Fui grata al "Dente di Drago"
per avermi costretta a essere qui, al momento giusto, per godermi
questo scenario.
Tutto il lago fu coperto dal pulviscolo dorato del polline. Poi si
addens• in una fitta nube a tal punto che non potevo quasi vedere pi
nemmeno la mia stessa mano. Fu allora, naturalmente, che l'udii.
Dapprima, fu un sordo battere di zoccoli sul terreno, poi, come un
qualcosa che scivolava sull'acqua. Qualcosa di voluminoso. Cercai
disperatamente di vedere, attraverso quella foschia dorata, ma mi fu
impossibile.
Ero particolarmente felice che Leo mi avesse raccontato il suo
passato, non avevo cosć da preoccuparmi circa la sua reazione. Sapevo
che si stava comportando esattamente come me, rimanendo in assoluto
silenzio e ascoltando. Tenevo pronta la mia pistola a fiamme in una
mano e la siringa nell'altra. Anche se fosse stato un plesiosauro, una
vampata davanti al muso avrebbe dovuto farlo arretrare. Ma non mi
sentivo di alzare il fucile. L'et, probabilmente, mi ha addolcito.
Mi giungeva ancora il suono dei tuffi degli otteri e dei ghiotteri che
mi circondavano. Anche questo era un buon segno. Non dovevo
considerarlo un pericolo.
I miei nervi, per•, cominciarono a vibrare quando sentii un leggero
sciacquio avvicinarsi. Mi voltai in direzione del suono, ma non
riuscii a distinguere niente. Ci fu un gorgoglio, come di un
mulinello, e poi, improvvisamente, non udii pi niente. Ne dedussi che
si fosse immerso, ma questo non aiut• i miei nervi.
Tutto quello che potevo fare era di non distogliere lo sguardo dal
punto della superficie verso cui avrebbe dovuto dirigersi se avesse
seguito una linea retta, ma questo si trovava nella traiettoria della
mia barca. Guardando gi, direttamente sotto di me, scorsi a malapena
una forma scura, della dimensione della tonnellata che gi avevamo
calcolato.
Si allontan• e scomparve alla mia vista. Poi, a meno di tre metri di
distanza da me, vidi qualcosa riemergere, sollevando schizzi d'acqua
che mi bagnarono completamente. Vidi una testa adornata da un'intera
fioritura di ninfee, che mi fissava.
Avevo pensato che i ghiotteri di Susan fossero il massimo della
bruttezza, ma questo li superava di gran lunga. Anche attraverso la
foschia riuscivo a distinguerlo.
Come i mostri di Susan, aveva la stessa testa a forma di stivale, le
stesse orecchie d'asino, da cui ora sgorgava acqua. Quello che la
notte prima, con un'occhiata fugace, avevo preso per la testa, era, in
effetti, il pi incredibile complesso di corna che avessi mai visto
nella mia vita, come un enorme ciuffo di palme. Queste erano ci• che
Stirzaker aveva scambiato per mani che si tendevano, ora me ne rendevo
conto, solo che adesso erano ricoperte di ninfee scarlatte
aggrovigliate.
Dalla gola pendeva una massa di carne, come una barba gocciolante
d'acqua. Mi fissava con i suoi occhi neri, con aria solenne,
masticando al tempo stesso le ninfee che gli pendevano intorno. Il
polline lo stava ammantando d'oro.
Giuro che non seppi se ridere o piangere.
Per un attimo rimasi lć a guardare, ricambiando il suo sguardo, che
guizzava via, soltanto per un secondo, per adocchiare un'altra ninfea
da masticare. Poi, mi ricordai la ragione per cui ero l e alzai il
mio gadget per prelevare il campione. Riuscii a raggiungerlo al primo
tentativo, e tirai immediatamente il filo.
La creatura scatt• indietro, mi fulmin• con lo sguardo ed emise un
muggito che dovette raggiungere anche Mike nel laboratorio. Poi
cominci• a nuotare verso di me.
- STA' INDIETRO! - urlai. In realt, non mi sembr• infuriato, ma
soltanto incuriosito. Non volevo, per•, certo scoprirlo in questo
modo. Sollevai la pistola a fiamme.
In distanza, giunse un battito di remi. - Annie! - grid• Leo. - Sto
arrivando! Resista!
La creatura indietreggi• nell'acqua e abbass• la testa, ninfee e il
resto, e, incuriosita dal nuovo suono dei remi, cominci• a nuotare in
direzione di Leo. Scorsi in modo fuggevole la sua schiena, all'altezza
delle spalle, seguita dalla curva della groppa e da una piccola coda
come quella di un cervo. La stessa immagine che aveva visto Pastides,
senza dubbio.
Improvvisamente, dalla direzione di Leo venne il fragore di una
campana. La creatura indietreggi• di nuovo, attorcigliando le
orecchie.
In preda al panico, e in un turbine di spruzzi, rigir• su se stessa,
si tuff• sott'acqua per coprirsi alla vista e si diresse a riva. Potei
udire il suo sbattere tra i cespugli, anche al di sopra del suono
della campana.
- Basta, Leo, basta! Se n'Š andato! - Egli ferm• la campana e ci
chiamammo fino a quando non mi trov• tra la nebbia. Nel frattempo,
devo dire, con un certo senso di colpa, ero stata assalita da un
irrefrenabile riso, che non riuscii a controllare, neanche quando Leo,
infine, mi si affianc•. Un riso tale, che le lacrime avevano
cominciato a scendere gi per le guance.
Sulla faccia di Leo, o quanto potevo vedere di essa, si susseguć una
serie di espressioni diverse, in un uguale numero di secondi. Mise da
parte la campana, era una grande campana di bronzo, e sospir• di
sollievo. Anche lui era tutto dorato dal polline.
Mi asciugai gli occhi e gli sorrisi. - Vorrei poter dire "Salvata
dalla campana" ma quell'essere non rappresentava un vero pericolo.
Goffo, forse. Possibilmente aggressivo, se provocato, ma... - scoppiai
a ridere di nuovo.
Leo disse, amabilmente: - Sono certo che mi spiegher meglio quando
riprender fiato.
Annuii. Tirando il campione che avevo prelevato, lo sventolai in
direzione della spiaggetta, per indicargli la direzione verso cui il
nostro mostro si era ritirato. Poi, quando fummo su per la collina, a
met strada, di ritorno allo chalet, dissi: - Per favore, Leo, non mi
chieda niente, finch‚ non ho completato le analisi.
Allarg• le braccia. - Perlomeno, ora so che non si tratta di un
plesiosauro. - Ripensai a quella testa ornata di ninfee, a quelle
mascelle che biascicavano ninfee, e mi sentii sopraffare da un'altra
ondata d'ilarit, ma mi trattenni e la risata si trasform• in sussulti
di singhiozzo.
Quando giungemmo allo chalet, non dovetti chiamare nessuno. Ci
ritrovammo circondati, non appena mettemmo piede sulla loggia. Elly ci
esamin• entrambi da capo a piedi, per cercare ferite, e si ricoprć
anche lei di polline.
- Susan - chiamai, attraverso il caos di una dozzina di domande
simultanee. - Analizzami questo. Vediamo di cosa si tratta. - E le
allungai il campione.
- Io? - squittć lei.
- Tu - dissi. Presi il braccio di Leo, ben al di sopra del fucile, e
aggiunsi: - Vogliamo mangiare qualcosa, e poi voglio esaminare i
risultati di Susan di questa mattina.
Preparai il computer, tra il fumo caldo di una scodella di zuppa di
pesce, e richiamai il campione del ghiottero, a cui Susan aveva
lavorato. Quello che aveva trovato era rilevante.
Tutte le possibilit risultavano per• erbivore, e ci avrei scommesso
che uno di loro avrebbe corrisposto con il mio ridicolo amico del
lago. Ridacchiai di nuovo, devo dire. Mi ero gi fatta un'idea di ci•
che avevamo per le mani, ma dovevo esserne "sicura", prima di lasciar
tornare i ragazzi a giocare nel lago.
Stavamo finendo la nostra zuppa, quando Susan venne gi per le scale,
correndo. Inserć i risultati sul mio monitor. Non era soltanto veloce,
era "brava".
Richiamai gli archivi di bordo e immisi le mie teorie. Al primo
sguardo sembrava un corrispondente, ma continuai a esaminare gene per
gene e trovai l'indicazione.
- E' un corrispondente! - esclam• Ilanith, da dietro di me. - E al
primo tentativo, Mamma Jason!
Tutti si concentrarono sul monitor. - Guarda meglio, ragazzina.
Soltanto al novantanove per cento. - E indicai i geni apparsi. - Vuol
dire che pu• mangiare il tuo albero di popcorn senza prendersi neanche
un leggero mal di stomaco.
Ilanith disse: - A me non interessa. Elly, ti dispiace?
- Non lo so - rispose Elly. - Che cosa Š, Annie? Si pu• convivere con
questa creatura?
Richiamai gli archivi di bordo che riguardavano le caratteristiche
comportamentali dell'esemplare autentico, e mi feci da parte per
permettere a Elly di leggere meglio. - Ho paura che dovrai portare con
te l'arma segreta di Leo quando scendi al lago per pescare o per
nuotare. All'infuori di questo, non credo ci siano altri problemi.
Leo mi dette un colpetto sulle spalle: - Maledetta donna, ma "che cosa
Š"?
Elly si trov• davanti agli occhi qualcosa che poteva essere il gemello
della mia creatura. Dapprima ebbe un moto di sorpresa, poi, anche lei
cominci• a ridere.
- E' la cosa pi ridicola che io abbia mai visto negli ultimi anni!
Dai, Annie, che "cosa Š"?
- Gioia mia, il "Loch Moose" ha il suo primo Alce.
- No! - esclam• Leo, e anche lui scoppi• a ridere, affiancandosi agli
altri, per osservare lo schermo.
Solamente Susan non rideva. Mi afferr• una mano e mi tir• da parte,
per sussurrarmi all'orecchio: - Ce lo faranno tenere, se Š solo
novantanove per cento? Non Š pericoloso, a differenza dei ghiotteri.
Le battei sulla mano. - E' buffo e mene allegria. Penso che potr
essere accettato. - Non avevo l'intenzione di ripetere l'esperienza
dei canguri reali.
- Ora capisco perch‚ l'ho trovata in quello stato - stava dicendo Leo.
E punt• il dito accusatore verso di me. - Questa donna rideva cosć
forte da non riuscire quasi a respirare.
- Lei non aveva visto quella dannata cosa coronata di ninfee
masticare, mentre contemplava quella stranezza nella barca che ero poi
io. Neanche lei avrebbe potuto resistere.
- Incredibile - comment• lui.
- Peggio - gli risposi. - In questo caso, vedere non Š credere.
Infatti, persino io non posso credere in una "cosa del genere". La mia
mente non riesce ad assimilarla.
Rise guardando lo schermo, e poi si volt• ancora verso di me. -Questo,
forse, spiega il mostro di suo nonno. Era cosć ridicolo che chiunque
lo vedesse non poteva crederci.
Non potei trattenermi e lo baciai sulla guancia. - Leo, lei Š un
genio!
Squittć come Susan: - "Io"? Che cosa ho fatto "io"?
- Elly - dissi, - congratulazioni! Tu hai, ora, l'unico chalet su
Mirabile con un "autentico" Mostro tipo "Loch Ness". - Sorrisi a Susan
che, finalmente, si rasseren•.
In uno slancio di compiacenza, continuai, con un certo sussiego: -Leo
costruir delle campane, di modo che ciascuno di voi dello chalet
potr spaventarlo e allontanarlo se dovesse avvicinarsi troppo, vero,
Leo?
- Oh. Lo sa, Annie, che potrebbe essere una buona idea? Se tutti
cominciassero a venire al lago per vedere il Mostro, forse verrebbero
anche "qui". Un Mostro spaventoso, ma innocuo.
- Esattamente. - Lo fissai attentamente. - Cosa dobbiamo fare?
Sorrise. - Continuiamo la tradizione della nostra famiglia.
Raccontiamo storie.
- Pensa che, se mi trattenessi da queste parti per un'altra settimana,
contribuirei a diffondere la leggenda?
- Credo proprio di sć.
- Bene - dissi. - Susan? Che cosa hai deciso? Vai al laboratorio? Se
devo trattenermi qui, qualcuno dovr pure aiutare Mike a coccolare
quelle giunchiglie.
Non ci furono squittii stavolta. La sua bocca si spalanc• e ne venne
fuori una serie di: - Uh, sć. Uh, Elly?
Elly annuć, con un sorriso triste e orgoglioso nel medesimo tempo.
Cosć, mentre si affannavano nei preparativi per la partenza, io ebbi
il tempo di scorrere tutto il materiale degli archivi di bordo sugli
alci e su Nessie. Quando furono pronte per partire, avevo gi
formulato un piano. Congedai Susan con l'incarico di compiere una
lettura genetica completa su entrambe le creature, e ancora pi a
fondo sull'alce, per avere la certezza che non si collegasse a
qualcosa di pi grande e di pi pericoloso.
Poi cominciammo a istruire i ragazzi di Elly. Leo dette a ciascuno di
loro una versione differente da raccontare sul Mostro.
Jen si rivel• la migliore. Si immedesim• a tal punto che, nel
raccontare, i suoi occhi stralunarono e divent• incoerente, esagerando
i particolari di come Leonov Esploratore Denness avesse salvato Annie
Jason Masmajean dal mostro nel "Loch Moose".
Leo port• delle campane dal suo laboratorio. Erano state costruite per
tenere lontane le belve, nei territori del Nord, ma non c'era nessuna
ragione per cui non dovessero funzionare con un mostro di autentica
origine terrestre.
Due giorni dopo lo chalet era pieno di ospiti per la notte e, con
sorpresa e soddisfazione da parte di Elly, tutti speranzosi di
riuscire a scorgere, anche per un attimo, il Mostro del "Loch Moose".
Nella mia stanza, a tarda notte e alla luce della nova, Leo pot‚ per
la prima volta scorgere la creatura che nuotava nel lago. Guard• a
lungo dalla finestra. Dopo un lungo momento, si ricord• di ci• che ci
eravamo prefissi di fare. - Devo svegliare gli altri?
- No - risposi. - Lo diremo domani mattina, a colazione. Chi non Š
riuscito a vederlo stanotte si tratterr ancora, nella speranza di
avere pi fortuna domani sera.
- Sei una perfida vecchiaccia.
Portai la macchina fotografica di Ilanith agli occhi e la puntai verso
il lago. - Sissignore - dissi soddisfatta e, girando volutamente la
lente in modo che fosse sfocata scattai la fotografia.
- E spero che sia venuta male - aggiunsi, guardandolo con un ampio
sorriso.

Titolo originale: The "Loch Moose" Monster.
Copyright 1989 Davis Publications, Inc.
Traduzione di Lydia Di Marco.
















IL PROIETTILE MAGICO.
Brian Stableford.

Lisa non aveva mai provato una sensazione cosć strana quando si era
occupata di un caso, anzi. In realt, non si aspettava pi di essere
chiamata per un caso. Essendo ormai prossima al sessantesimo
compleanno, le mancavano poche settimane alla pensione; era rimasta
inchiodata alla scrivania per la maggior parte degli ultimi due anni.
Questo, tuttavia, non era esattamente un caso. La telefonata che aveva
ricevuto non le aveva completamente chiarito quale sarebbe stata la
sua posizione, ma comunque non avrebbe fatto parte della squadra
investigativa che avrebbe esaminato la scena del fatto.
Essenzialmente, avrebbe avuto compiti di consulente o, per dirla pi
correttamente, di testimone esperto, poich‚ aveva una particolare
conoscenza del luogo e della vittima. Lei stessa era stata una
studentessa del dipartimento di Genetica Applicata quasi quarant'anni
prima e da allora vi si era recata varie volte per scopi puramente
sociali. Conosceva Morgan Miller quanto chiunque altro, anche se
questo non voleva dire un gran che.
Se l'invito avesse riguardato una semplice indagine di polizia le
sarebbe stato rivolto in modo pi rispettoso, ma non era cosć. Sebbene
Miller non avesse mai lavorato direttamente per il ministero della
Difesa, infatti, qualsiasi tentativo di sabotaggio a ricerche nel
campo dell'ingegneria genetica era considerato un pericolo per la
Sicurezza Nazionale, perci• gli Uomini del Ministero avrebbero preso
in mano la faccenda, e certamente avrebbero voluto interrogarla.
Lisa non desiderava certo parlare della sua relazione con Morgan
Miller: pur avendo quella storia fatto parte della sua vita privata
per tanto tempo, non aveva mai interferito con il suo lavoro di
scienziato-poliziotto.
Al telefono non le avevano detto se fosse accaduto qualcosa a Miller,
ma lei lo aveva sospettato nonostante le avessero detto semplicemente
che stavano ancora cercando di mettersi in contatto con lui. A ogni
modo, se non si fosse trattato di una cosa di una certa portata, non
sarebbe certo finita con un attacco incendiario ai topi-cavie di
Morgan Miller.
Quando ci pensava in questi termini, la cosa le sembrava semplicemente
assurda: lanciare una bomba incendiaria su un migliaio di topi era il
pi ridicolo crimine che si potesse immaginare, eppure proprio
l'apparente stupidit della cosa era decisamente sinistra. I topi di
Miller avevano vissuto e proliferato, generazione dopo generazione,
per quasi quattro decenni, indisturbati e ignorati da chiunque tranne
che dallo stesso Miller, e ora sembrava che fossero diventati tanto
importanti da giustificarne la distruzione. Questo turbava molto Lisa,
poich‚ lasciava intendere che Miller avesse avuto dei segreti che non
aveva voluto condividere con lei.
Un segreto solo, comunque.
Tutto ci• non le piaceva e feriva il suo orgoglio, inoltre avrebbe
anche potuto farla apparire sciocca agli occhi degli Uomini del
Ministero, e questo era sgradevole sia da un punto di vista personale,
sia per la posizione che lei occupava nelle forze di polizia. Era una
ben magra consolazione sapere che Morgan Miller era sempre stato per
sua natura un uomo molto riservato: un uomo che amava essere la legge
di se stesso.

La scena che l'accolse al suo arrivo era spaventosa. Il fuoco era
stato spento, ma c'erano ancora i pompieri, che si aggiravano nel
terribile caos che avevano provocato loro stessi: rottami ovunque,
pavimento e muri inondati di schiuma puzzolente. La squadra
investigativa era gi arrivata; tutti accolsero il suo arrivo con
imbarazzati cenni di saluto. L'unica altra faccia familiare era quella
del custode, Tommy, che svolgeva quel lavoro da vent'anni e che la
conosceva per via delle sue telefonate occasionali. Ovviamente, ora
lei gli appariva come una figura amica, una possibile alleata contro
gli ufficiali in uniforme e contro i colpi e gli strali dell'avversa
fortuna. Lo sguardo afflitto che le rivolse era un debole ma accorato
riflesso dei suoi stessi sentimenti.
- Buongiorno, signorina Friemann - le disse con tono desolato. -Ecco
qui tutta la sua maledetta "vita" distrutta. Cosa mai pu• "fare" ora?
Lui l'aveva sempre chiamata "signorina", mai "dottore" (per non
parlare di "sovrintendente", che in teoria era il titolo che le
spettava come poliziotto-scienziato anziano), ma anche stavolta lei
non ci fece minimamente caso: si sentiva un personaggio della
tragedia, e non semplicemente un membro della squadra investigativa.
Lisa spost• lo sguardo verso le gabbie dilaniate, i vetri in frantumi,
i fili elettrici contorti, i frammenti di plastica: tutto era
annerito; e l'odore dei mille topi carbonizzati si mescolava con le
ultime tracce di fumo acre e con le esalazioni nauseabonde della
schiuma viscida.
- Ha cercato di chiamarlo? - domand• Lisa. Erano le quattro del
mattino e il professor Miller avrebbe dovuto trovarsi ben rincalzato
nel suo letto solitario, anche se in realt aveva paura che non fosse
cosć.
- Il suo telefono non risponde - disse Tommy tristemente.
- E' andato via?
- No, che io sappia - rispose il vecchio, continuando a scuotere
incredulo il capo. - Perch‚, signorina...?
- Con chi altri ha provato? Ha cercato di contattare Stella? - Stella
Filisetti era l'ultima ricercatrice arrivata, con la quale Lisa
supponeva che Miller avesse intrecciato un flirt saltuario
parallelamente a quello altrettanto saltuario che aveva con lei.
Sembrava che questo comportamento facesse parte delle abitudini
dell'uomo, e Lisa non se ne preoccupava, per lo meno non al punto di
esserne gelosa, ma non poteva fare a meno di chiedersi se Stella fosse
a parte del segreto che aveva fatto di Morgan Miller un bersaglio.
- Le ho telefonato subito dopo aver chiamato i pompieri, ma non ha
risposto. Mi spiace, signorina: forse avrei dovuto chiamare anche lei,
ma non avevo il suo numero. Non mi sono reso conto subito che era una
faccenda da polizia: tutto quello che ho visto era il fumo, perci• ho
chiamato immediatamente i pompieri, poi il professore e la dottoressa
Filisetti, e infine sono venuto a vedere se avessi potuto fare
qualcosa. Ma non c'era nulla da fare. Signorina, non ho potuto neppure
oltrepassare la porta. Non ho visto nessuno. Mi dispiace.
Il capo dei pompieri, che aveva riconosciuto Lisa da lontano, le si
avvicin• per dirle che si trattava di una bomba ben confezionata,
caricata con esplosivi oltre che con materiale incendiario: qualcuno
aveva di certo tentato di fare un bel disastro. Lisa lo lasci• finire,
prima di dirgli che non era stata effettivamente incaricata delle
indagini. Avrebbe voluto fare qualche domanda all'uomo in uniforme e
ai ragazzi della squadra investigativa, ma doveva stare attenta a
seguire il protocollo, perci• decise di aspettare un momento pi
opportuno.
Arriv• un drappello di uomini avvolti in impermeabili neri che
avrebbero dovuto farli passare inosservati, ma che li rendevano
evidenti come qualsiasi altra uniforme. Lisa aveva contatti abbastanza
regolari con il ministero, ma non conosceva quegli uomini: non sapeva
neppure con quali iniziali segrete si identificasse il loro
dipartimento.
Era abbastanza facile indovinare perch‚ fossero entrati in gioco cosć
rapidamente: il motivo pi probabile per il quale qualcuno tenta di
distruggere il lavoro di uno scienziato Š perch‚ questi ha scoperto
qualcosa che pu• servire ad altri, generalmente a scopo commerciale; e
in effetti gli interessi commerciali erano stati causa di molte bombe
incendiarie del passato. Ma certo, il ministero era sempre molto
ansioso, molto sensibile, quando si trattava di ingegneria genetica.
Un uomo alto, elegante, sulla cinquantina, si present• a Lisa come
Peter Smith. Doveva essere il suo vero nome: nessuno usava pi Smith
come nome di battaglia; era decisamente fuori moda.
- Potremmo trovarci nelle condizioni di dire alla sua squadra di stare
alla larga da questo caso, dottoressa Friemann - disse Smith con un
tono che non pareva troppo di scusa. - Questa faccenda potrebbe essere
nostra.
- Avete trovato Miller? - chiese Lisa, per nulla intenzionata a
mettersi a discutere di giurisdizioni.
- Non ancora. I suoi uomini e i miei sono gi andati a casa sua e io
stesso sto per andarci: sono venuto a prenderla. Sappiamo che lei
conosceva bene il professor Miller e speriamo che ci possa dire
qualcosa di interessante sul suo lavoro.
- Stella Filisetti potrebbe dirvi di pi.
- Non siamo ancora riusciti a localizzarla.
Lei pens• che questa frase implicasse che Stella Filisetti fosse il
sospetto numero uno, ma non cerc• di accertarsene.

Lisa si lasci• guidare da Smith fuori dal laboratorio e gi nel
parcheggio, dov'erano attesi da una Renault nera. Il ministero non
amava di sicuro le auto giapponesi.
La casa di Miller non era molto lontana: il professore amava andare a
piedi al lavoro. Lisa c'era stata molte volte in passato: quello era
il luogo in cui Miller viveva da quando lo conosceva lei. Era una
villetta piuttosto grande, con un giardino piccolo, ma ricco di
vegetazione rigogliosa e florida, e con i muri ricoperti di edera
rampicante. Appariva orribilmente decrepita nella luce fredda e grigia
dell'alba, ma in realt quello era il suo aspetto abituale. Era stata
costruita proprio alla fine del diciannovesimo secolo, pi di
centocinquant'anni prima, e i rattoppi e le modifiche, che pure erano
stati attuati con regolarit, non riuscivano a nasconderne l'et.
Miller doveva averla comperata all'inizio del Millennio.
Mentre scendeva dall'auto e si dirigeva verso la porta, Lisa cerc• di
ricordare quanti anni avesse Morgan Miller. Fatti i debiti conti, anno
pi, anno meno, doveva averne settantasette. Era strano che
continuasse a lavorare, ma l'universit non l'avrebbe certo costretto
ad andare in pensione: si era formato durante gli anni d'oro
dell'ingegneria genetica, prima dell'effetto-serra, della crisi
energetica e del Grande Crollo Economico, e la sua esperienza era tale
per cui valeva certo la pena di mantenerlo al suo posto di lavoro,
nonostante non avesse pienamente realizzato il grande potenziale
intellettivo che aveva dimostrato di possedere da giovane. Non aveva
vinto alcun premio, n‚ la sua fama era mai esplosa. Egli era
semplicemente l'eccentrico uomo dei topi: un'istituzione, una leggenda
nel suo stesso tempo.
Sulla soglia c'era un ispettore in uniforme in attesa: ovviamente in
attesa di Peter Smith. Lisa ebbe un tuffo al cuore, quando l'uomo
sollev• gli occhi verso di lei e poi verso la parte superiore della
casa, facendole capire che doveva seguire il suo sguardo. Su una delle
finestre del primo piano erano ben visibili le tipiche e vistose
ragnatele di crepe prodotte da due proiettili. Smith fece cenno al
poliziotto di aprirgli la porta, e Lisa lo seguć all'interno,
prevedendo gi che cosa vi avrebbero trovato.
E tuttavia le cose erano andate meno peggio di quanto si aspettasse.
Miller non era morto: era stato raggiunto da entrambi i proiettili, ma
nessuno dei due era stato fatale, perci•, pur avendo inondato di
sangue il letto, respirava ancora. Non era difficile capire che i
colpi erano stati sparati da un tetto al di l della strada.
L'ospedale mobile arriv• meno di un minuto dopo la Renault e il
chirurgo di turno entr• deciso, praticamente ignorando i presenti e
facendo sgombrare la stanza mentre il suo staff di supporto erigeva
una tenda sterile.
Dopo aver esaminato cadaveri per tutta la sua carriera, Lisa non era
di certo facilmente impressionabile, ma vedere qualcuno che si ama
andare sotto i ferri Š duro per tutti. Si sentć gelare dentro, troppo
stupefatta per poter ragionare con lucidit sulle domande che le
venivano in mente, nonostante sapesse molto bene che di lć a ben poco
quelle stesse domande le sarebbero state fatte da Smith.
Inaspettatamente, il fatto di non avere la bench‚ minima ombra di
risposta la disturbava: qualcuno aveva sparato a Morgan Miller e lei,
la sua amica, amante e supposta confidente, non sapeva da che parte
cominciare neppure per domandarsene il motivo.
Si sedette su una poltrona a braccioli che ricordava fin troppo bene,
nella stanza usata come studio, con gli occhi incollati al muto
schermo del computer sulla scrivania. Smith stava ancora parlando agli
uomini lć fuori, nel corridoio; cosć Lisa decise di approfittare di
quell'attimo di tregua per rilassarsi, lasciando vagare lo sguardo
sulla biblioteca in dischetti che occupava due pareti. Miller si era
vantato con lei di avere trentamila dischetti, centinaia dei quali
pieni dei suoi stessi appunti e registrazioni, mentre gli altri
contenevano tutti pubblicazioni: riviste, testi, relazioni, tesi. Non
c'era narrativa, niente di leggero: per quello Miller seguiva la Tv o
acquistava videocassette. Una volta le aveva detto senza vergognarsene
di non aver pi letto un romanzo da quando aveva finito la scuola.

Gli Uomini del Ministero non ci misero molto a recuperare quello che
avevano perso. Non disponevano di nessun testimone da interrogare, ma
avevano Lisa. Dal loro punto di vista, lei era la loro unica carta
finch‚ non fossero riusciti a trovare Stella Filisetti, ma questo
avrebbe potuto richiedere un bel po' di tempo, ammesso che fosse stata
davvero coinvolta. Se lo era, ovviamente non aveva agito da sola:
presumibilmente la bomba incendiaria e i proiettili venivano da
esecutori materiali diversi. Lisa sapeva bene che in casi del genere
uno pi uno fa una cospirazione, e che la cosa preoccupava non poco il
signor Smith del ministero.
Incredibilmente Smith, che si manteneva tuttora scrupolosamente
gentile, le prepar• una tazza di tŠ.
- Mentre aspettiamo - le disse con voce pacata, - le sarei obbligato
se volesse dirmi tutto quello che pu• sul lavoro del professor Miller.
Vede, non abbiamo un suo dossier, e mi risulta che lei...? - Lasci• la
domanda in sospeso, con affettata discrezione.
- Eravamo amici - rispose Lisa. - Parlavamo, Š vero, del suo lavoro,
ma qui ci sono tutte le sue registrazioni: potrebbero dirle ben pi di
quanto non possa dirle io.
Smith lasci• scorrere lo sguardo sui ranghi serrati di dischetti. -Con
un po' di tempo - disse, - potremmo farli esaminare da una squadra, ma
intanto dobbiamo agire, e sono certo che comprender che abbiamo
bisogno di tutto quello che lei ci pu• dare. Aveva nemici?
- Ne aveva uno - rispose Lisa con voce piatta, - ma non ho la pi
pallida idea di chi fosse e perch‚. Le assicuro che non sono restia a
collaborare: davvero non lo so.
Smith sorrise debolmente. - Lei ne sa pi di noi - sottoline•. -Perch‚
non comincia a dirci semplicemente che tipo di uomo era?
Sorseggiando il suo tŠ, Lisa si domand• quale fosse in realt la
risposta a quella domanda.
- Le dir• quello che posso - promise. - Voglio lavorarci sopra anche
con la mia testa. Era mio amico. Molto amico.
Smith le sorrise, non con aria di intesa, ma soavemente, e in quel
preciso istante lei si rese conto di non essere "solamente" un
testimone. Finch‚ non avessero studiato il suo dossier con molta
attenzione, lei era il sospetto numero due. Chiaramente, anche gli
Uomini del Ministero iniziavano le loro ricerche basandole su un
principio antico: "cherchez la femme".
- Suppongo che a quei tempi fosse abbastanza insolito, per uno
studente di biologia, ottenere una borsa di studio dalla polizia -
cominci• Lisa. - Ma il lavoro della polizia e la scienza investigativa
stavano diventando sempre pi connessi, e l'identificazione mediante
la caratterizzazione dei geni stava ormai diventando una routine,
anche se per la maggior parte le borse di studio della polizia
andavano a scienziati informatici, poich‚ il crimine collegato al
mondo dei computer era ritenuto l'area pi interessante.
Personalmente, credo di essere stata interessata prima di tutto alla
genetica applicata, e solo in secondo luogo al lavoro di polizia:
quella borsa di studio era in realt un modo per finanziarmi gli
studi.
"Prima del Crollo, c'era una valanga di finanziamenti per la ricerca
in tutte le branche della genetica applicata: l'ingegneria genetica
sui batteri e sulle piante stava gi producendo un forte impatto sulla
produzione alimentare, e c'era grande interesse per la possibilit di
attuarla sugli animali e applicarla poi alla produzione di carne.
Capivamo che la crisi stava per arrivare; era gi iniziato
l'innalzamento del livello del mare a causa dell'effetto-serra. Tutti
sapevano che l'intero sistema agricolo mondiale era sull'orlo del
precipizio e tutte le nazioni sviluppate cercavano di elaborare nuove
teorie nel campo dell'agricoltura industriale allo scopo di svincolare
dai campi la produzione alimentare. Per questo, il dipartimento, nel
periodo in cui ero studentessa qui, fu molto impegnato nello sviluppo
di tecniche di ingegneria genetica sugli animali.
"A quei tempi, Morgan Miller era un personaggio decisamente in vista
nella sua professione. Col passare degli anni, i suoi topi erano
diventati un po' la favola di tutti, ma l'ingegneria animale
furoreggiava. Ci• che gli scienziati stavano imparando a fare ai topi
era semplicemente il primo passo verso l'ingegneria su maiali e
bestiame da allevamento in genere; e le difficolt che si incontravano
non facevano altro che rendere tutto pi stimolante."
- Non vada troppo sul tecnico - la mise in guardia Smith. - Non sono
un esperto.
- L'ingegneria sui batteri e sulle piante Š facile - spieg• Lisa. -
Possono riprodursi con combinazioni sessuali; si possono introdurre
nuovi geni soltanto in un piccolissimo numero di cellule batteriche in
una coltura, ma se in un particolare antibiotico si introduce un gene
capace di conferire l'immunit, si possono facilmente isolare le
cellule trasformate e ottenere una coltura pura che si moltiplica
molto rapidamente. Le piante producono grandi quantit di semi e non Š
difficile iniettare in essi nuovo materiale genetico: quando si
sviluppano Š sufficiente ottenere una sola pianta trasformata in modo
vantaggioso, poich‚ la si pu• facilmente far riprodurre per
clonazione.
"La trasformazione dei mammiferi rappresenta un problema completamente
diverso, poich‚ essi producono relativamente poche cellule-uovo, che
oltretutto sono piuttosto delicate. Se le si estrae da un'ovaia, le si
fertilizza "in vitro" e infine vi si inietta nuovo Dna, se ne
distrugge il novecentonovantanove per mille; e anche l'unica che
comincia a svilupparsi generalmente abortisce in brevissimo tempo. E'
molto difficile produrre un organismo trasformato.
"Molte persone al dipartimento, compreso Miller, stavano cercando di
risolvere questo problema. Il loro obiettivo era quello di trovare un
modo inedito di iniettare nuovo Dna in una cellula-uovo di mammifero
"senza" doverla estrarre dalla sua ovaia. Cercavano di creare virus
artificiali capaci di identificare e di invadere le cellule-uovo senza
interferire con le altre cellule, allo scopo di integrare il proprio
Dna con i cromosomi delle uova. Questi virus artificiali venivano
chiamati virus Mb, dove Mb significava "magic bullet, proiettile
magico", e si sperava che, una volta provate le tecniche-base, si
potesse rapidamente passare dagli animali da laboratorio alle
applicazioni pratiche.
"I virus Mb non erano troppo difficili da sviluppare, sebbene non
fosse cosć semplice equipaggiarli in modo da infettare le sole
cellule-uovo. Ma queste ultime "sono", in effetti, differenziate
rispetto al resto del corpo da marcatori biochimici, che possono
essere usati per innescare i virus. Non conosco i dettagli pi
precisi, perch‚ questo non era il mio campo specifico: il professor
Miller smise di farmi da insegnante, una volta che superai gli stadi
elementari, per diventare un amico.
"So tuttavia che, dopo lo sviluppo dei virus Mb, le ricerche di Morgan
si incagliarono. Va bene trasformare le cellule-uovo nel corpo di un
topo femmina; ma c'Š sempre il problema che queste cellule devono
diventare nuovi topi, e ancora si ha una terribile percentuale di
perdite. La stragrande maggioranza dei topi femmine cui Morgan iniett•
il suo "proiettile magico" semplicemente divent• sterile, poich‚ le
uova trasformate erano incompatibili con lo sperma ordinario. Non
servivano a nulla neppure i topi trasformati che si riusciva a far
nascere in rarissime occasioni: non si possono tagliar via dei pezzi
da un topo vivente come si fa invece con le piante. Per ottenere la
proliferazione ci vogliono due topi di sesso opposto con identiche
trasformazioni: in poche parole, una probabilit su un miliardo.
"Per questo le ricerche si bloccarono. Col passare degli anni, a poco
a poco molti ricercatori abbandonarono questa strada, che si era
dimostrata un vicolo cieco, ma Morgan non voleva arrendersi. Un po'
alla volta perse la sua posizione di avanguardia, e suppongo che sia
andato a finire nelle retrovie. La cosa non lo amareggiava, tuttavia,
poich‚ n‚ la fama n‚ la fortuna lo interessavano: aveva sempre
totalmente investito il suo orgoglio nel lavoro in se stesso, non
nella reputazione. Per farla breve, insistette con i suoi "proiettili
magici": esperimento dopo esperimento, generazione dopo generazione.
Credo che tutti lo rispettassero, per questo, anche se giravano
battute sarcastiche sul suo conto.
"Ricordo che c'era uno strano fatto, a proposito delle cellule-uovo di
mammifero, che da sempre aveva colpito Miller, ed era il modo in cui
la natura sembrava "sprecarle". Nel corso della loro vita, i mammiferi
maschio producono sperma fintanto che i testicoli sono in grado di
farlo, mentre le femmine hanno praticamente l'intera dotazione di
cellule-uovo della loro vita gi al momento della nascita, ma ne
perdono la maggior parte molto tempo prima di raggiungere la pubert e
di diventare fertili.
"In realt, per quanto possa sembrare strano, il numero massimo di
cellule-uovo si registra nell'embrione agli stadi iniziali, e milioni
di esse muoiono ancora prima che la femmina nasca. Non ricordo i dati
esatti a proposito dei topi, ma ricordo che negli esseri umani la
femmina ha circa sette milioni di cellule-uovo al quinto mese di
gestazione e al momento di nascere ne ha solo due milioni, la
stragrande maggioranza delle quali vengono perdute prima del
raggiungimento della pubert. Tenga presente inoltre che la donna le
esaurisce tutte molto prima del termine della sua vita, ossia al
momento della menopausa.
"Quale significato evolutivo tutto questo possa avere, io lo ignoro,
ma so che Morgan Miller ne era affascinato. Una volta mi disse che se
solo avesse potuto trasformare quei milioni di cellule in modo da
preservarle dalla degenerazione, avrebbe potuto prendere le ovaie da
un topo femmina neonato e ottenere un'enorme quantit di animali da
trattare con i "proiettili magici"; successivamente mi disse che se
avesse trovato il modo di far sviluppare quegli embrioni al di fuori
del corpo, in grembi artificiali, avrebbe avuto il caso dalla sua
parte, non contro. Questa Š l'idea che ha dominato la sua ricerca
negli ultimi venti-venticinque anni: credeva che fosse la chiave per
sviluppare tecniche efficienti di ingegneria genetica sui mammiferi.
"Non so dirle a che punto Miller sia arrivato con il suo lavoro, ma so
che non l'ha terminato: non Š mai riuscito a produrre una coppia di
topi di pura razza geneticamente trasformata. Non Š mai riuscito
neppure a realizzare i grembi artificiali necessari per il suo grande
progetto. Per quanto ne so, tutto ci• che Š riuscito a ottenere Š
stata la produzione di generazione su generazione di topi sterili,
colpiti tanto efficacemente dai suoi "proiettili magici", che
avrebbero potuto anche essere morti.
"Credo che riuscisse a ottenere una dozzina di topi trasformati nati
vivi all'anno, ma mai una coppia. Indusse negli animali il gigantismo;
escogit• alcune interessanti alterazioni della biochimica
fondamentale; produsse, in effetti, alcuni scherzi di natura veramente
affascinanti. Ma senza il modo di ottenere una popolazione capace di
proliferare, tutto finć col sembrare piuttosto futile."
- Ma in qualche modo - disse Smith, - deve aver scoperto qualcosa per
cui valeva la pena ucciderlo.
- Questo Š ci• che sembra possibile "adesso" - ribatt‚ Lisa. - Ma
qualunque cosa fosse, vale quanto la mia ipotesi. I topi sono tutti
morti; Miller potrebbe non cavarsela; e la sua assistente di
laboratorio...?
- Pensa che sia stata lei?
Lisa scroll• le spalle. - Non l'ho mai conosciuta a fondo, ma non mi
sembrava un pistolero in grado di usare un fucile ad alta precisione.
Hanno scoperto nulla del suo passato, i suoi uomini?
Scosse la testa. - Nulla di strano. Trentadue anni, nubile, una buona
laurea in Genetica Applicata, dottorato ottenuto a Oxford. E arrivata
qui otto anni fa. E' attiva in politica, ma solo con gruppi femministi
radicali. Vota per i Verdi. Nessun parente all'estero, nonostante il
suo nome. Registrazioni bancarie pulite. Nessun legame significativo
con l'industria.
- In questo caso, sembra che non possiamo far altro che aspettare
Miller - disse Lisa. - Se il chirurgo riesce a salvarlo, potr
raccontarci tutta la storia, altrimenti...
Smith non sembrava particolarmente ottimista in proposito: ovviamente
non si aspettava che un uomo sull'ottantina riuscisse a sopravvivere
con due proiettili nel petto. I suoi pensieri stavano gi avviandosi
lungo altri percorsi di indagine.
- Non si Š mai sposato, vero? - chiese l'uomo cercando di assumere un
tono da semplice conversazione.
- No - rispose Lisa. - Era sposato al suo lavoro. Era un uomo
essenzialmente solitario, al quale piacevano le relazioni casuali e
occasionali. Io gli andavo bene.
- Neanche lei si Š mai sposata?
- No - rispose la donna con voce incolore. - Eravamo due persone dello
stesso tipo. Anzi: tre, se conta anche Stella.
- Potrebbe dire che vi ha usate entrambe - insinu• lui, calmo.
- Oppure che noi abbiamo usato lui. Nessuna gli ha mai fatto scenate
di gelosia, signor Smith. E dubito che Stella gli possa aver sparato
perch‚ era una femminista, anche se lui "era" ridicolmente vittoriano
nel suo comportamento con le donne. Ha trovato l'arma?
Smith scosse il capo.
- Se muore - disse decisa Lisa, - non credo che scoprir nulla finch‚
non ha fatto passare quei dischetti a un vaglio molto accurato. Il
tempo sembra contro di lei.
- Contro di "noi", dottoressa Friemann. Questo caso riguarda anche la
polizia, e anche lei, da un punto di vista personale. Abbiamo
controllato il suo dossier: lei sa che Š nostro dovere. Sono contento
che lei sia pulita e so che possiamo contare sulla sua collaborazione.
Spero che non se la prenda a male se le dico che preferirei che fosse
davvero una questione personale.
Lisa lo fiss•, sentendosi quasi completamente esausta: aveva perso
l'abitudine alle notti in bianco. - Non Š stata una questione
personale - disse con sicurezza. - Nessuno aveva nulla di personale
contro i topi.
Per una volta Smith non pot‚ trattenere un sorriso.
Dietro di lui si aprć la porta ed entr• il chirurgo. Senza mezzi
termini, disse a entrambi che Miller sarebbe stato fortunato se fosse
sopravvissuto due giorni: forse solo poche ore, se fosse stato
imbottito di farmaci per permettergli di rispondere alle loro domande,
invece di poter riposare.
L'Uomo del Ministero non guard• neppure Lisa.
- Faccia quello che deve fare per svegliarlo - disse. - Dobbiamo avere
risposte, e non possiamo aspettare.

Miller era ancora nella tenda sterile che la squadra medica aveva
eretto accanto al suo letto. Quando l'ospedale mobile fu portato via,
rimase un'infermiera anziana, vedetta ufficiale della morte. Smith le
disse di lasciare la stanza e lei obbedć senza fare domande, tuttavia,
permise a Lisa di restare, probabilmente non perch‚ avesse fiducia in
lei, ma perch‚ sperava che la sua presenza potesse dare un po' di
forza allo spirito sofferente del paziente.
Per quanto potesse giudicare Lisa, lo spirito sofferente del
professore avrebbe avuto bisogno di tutto l'aiuto possibile. Era molto
debole e se ci fosse stata qualche speranza di recupero, il chirurgo
non avrebbe mai permesso che lo si imbottisse di medicine per fargli
riprendere i sensi.
Smith non perse tempo davvero. - Professor Miller - gli disse,
-dobbiamo sapere chi le ha sparato e perch‚. Hanno anche bombardato il
suo laboratorio. Tutto Š andato distrutto.
Morgan Miller fiss• il suo interlocutore, ma non sembr• comprendere.
Smith si accigli• e guard• Lisa in cerca di aiuto. Lei scelse una
linea pi morbida.
- Morgan - gli disse dolcemente, sedendosi sul bordo del letto. -Sono
Lisa. Lisa Friemann.
L'uomo gir• lo sguardo per incontrare quello di lei e batt‚ le
palpebre in segno di riconoscimento.
- Lisa - disse debolmente: sembrava sorpreso di riuscire a parlare.
Fece una pausa, evidentemente preparandosi a dire qualcos'altro, e
Smith si concentr•, aspettando con impazienza, ma tutto ci• che Miller
disse fu: - Non fa male.
- No - ribatt‚ Lisa. - Non ti far male.
- Per• sono grave - chiese lui con voce rauca. - Non Š vero?
- Piuttosto grave - ammise la donna. - Non credo che tu possa
ricordare di essere stato colpito. Probabilmente stavi dormendo.
- Un brutto sogno - mormor•. - Un bruttissimo sogno.
- Ti hanno sparato, Morgan. Qualcuno ha sparato dall'altra parte della
strada. Sei stato colpito due volte.
L'uomo sul letto tent• un debolissimo sorriso. - "Proiettili magici" -
disse.
- Questo Š quanto vogliamo sapere - interloquć Smith. - Ci dica
perch‚.
Lisa alz• lo sguardo verso l'Uomo del Ministero.
- Sfortunatamente - disse, fredda - credo che stesse solo scherzando.
- Allora far meglio a dirgli che non abbiamo tempo per gli scherzi -
ribatt‚ l'uomo serrando le labbra.
Lisa torn• a rivolgersi a Miller. - Morgan - chiese, - chi avrebbe
potuto voler bruciare i topi? Sono tutti morti, Morgan. Tutti i topi.
Chi mai avrebbe voluto fare una cosa simile?
Ci vollero alcuni secondi, perch‚ Miller si sforzasse di digerire
l'informazione, poi i suoi occhi si riempirono di lacrime, e Lisa capć
di cominciare a non poterne pi.
- Tutti morti? - chiese con voce tremante.
- Bruciati vivi - rispose. - Tutti carbonizzati. Chi avrebbe potuto
fare una cosa simile?
Miller aprć la bocca per parlare, ma senza produrre alcun suono.
Guard• Lisa, poi guard• alle sue spalle, verso Peter Smith.
- Chi Š? - chiese con voce resa malferma dalle lacrime.
- Il mio nome Š Peter Smith e sono del Ministero della Difesa. Abbiamo
bisogno di sapere perch‚ qualcuno avrebbe potuto desiderare di rubare
i risultati del suo lavoro, o interromperlo. Abbiamo bisogno di sapere
che cosa ha scoperto.
- Difesa? - ripet‚ Miller sbalordito. Dapprima, Lisa pens• che
semplicemente non fosse riuscito a capire, ma poi il morente aggiunse:
- Non c'Š alcuna difesa.
Lisa immaginava l'effetto che parole simili dovevano avere su un uomo
come Smith. Dovevano riportargli alla mente ricordi di tutti i tipi
sulle cosiddette Guerre-Peste, che in realt potevano non essere
guerre, ma che, all'inizio del secolo, avevano cancellato dalla faccia
della terra un terzo della razza umana.
- Cosa?... - cominci• Smith, ma Lisa lo zittć con un gesto irritato.
- Dicci dove cercare, Morgan - continu• lei. - Dacci i riferimenti.
Deve trovarsi nelle tue documentazioni, da qualche parte. Non hai
bisogno di cercare di spiegarci. Di' solo dove cercare.
Ma Miller volse il capo, rifiutando di guardarli entrambi. Aveva le
sopracciglia aggrottate, come se stesse riflettendo con tutta
l'intensit che gli consentivano i farmaci. Smith aprć di nuovo la
bocca, ma la richiuse non appena incontr• lo sguardo di Lisa.
Finalmente, dopo un'attesa che sembr• interminabile, Miller disse: -
E' nascosto. "Nessuno" sa.
- Qualcuno ha dato fuoco ai topi - disse pazientemente Lisa. -
Qualunque cosa tu abbia nascosto, qualcuno sa, "adesso". Devi dirci di
cosa si tratta.

Miller gir• la testa da una parte all'altra, ancora evitando di
guardarli. I farmaci inibivano le sue risposte motorie, ma non
potevano eliminare del tutto la sua agitazione.
- Cerca di non muoverti - disse Lisa. - Devi conservare tutta la tua
forza. Pi tempo ci vuole, pi energia sprechi. Per l'amor di Dio,
Morgan, parla, "subito", cosć potrai riposare.
Ma tutto ci• che rispose Morgan, con voce resa pesante dall'angoscia e
dai farmaci, fu: - Non lo sa nessuno. Non lo sa nessuno.
- Allora devi dirlo a noi, ora - insistene Lisa dolcemente. - Devi
dircelo. Devi pur dirlo a qualcuno, Morgan: non si possono portare
segreti nella tomba.
Smith la guard• accigliato, ovviamente dubitando che fosse una buona
cosa spiegare a Miller che stava morendo, ma non disse nulla,
apparentemente pago di affidarsi al giudizio di lei. Ma Morgan Miller
non rispose alla sua supplica. Entrando nella stanza, Lisa non era
sicura che lo scienziato avesse qualcosa da dire, ma quello che stava
succedendo adesso era semplicemente sbalorditivo. Si sentiva sempre
pi furibonda perch‚ Morgan Miller custodiva qualche segreto che non
aveva mai condiviso con lei e che neppure ora avrebbe condiviso,
nonostante fosse sul suo letto di morte. Il punto di vista della
sicurezza nazionale, se pure ce n'era uno, non la disturbava pi di
tanto: quello che provava era un senso di tradimento "personale".
- Professor Miller - disse Smith severo, quando capć che Lisa non
avrebbe ottenuto alcuna risposta. - Lei ci deve dire tutto. E'
assolutamente necessario.
Miller lo guard•, incurvando le labbra grinzose. I suoi occhi
apparivano molto brillanti. - Cosa mi far? - chiese con voce rauca. -
Mi vuole torturare?
- Si pu• sapere cosa diavolo sta succedendo, qui? - domand•
imperiosamente Smith a Lisa. - A che gioco sta giocando, costui?
Fu Lisa, questa volta, ad aggrottare le sopracciglia. - Non
comprendiamo, Morgan. Non capiamo perch‚ non vuoi parlarci. Stiamo
cercando di prendere le persone che ti hanno sparato, le persone che
hanno dato fuoco ai topi. E stata Stella Filisetti, Morgan? Potrebbe
avere una qualsiasi ragione per fare una cosa del genere?
Miller cerc• di scuotere il capo, sforzandosi di tirar fuori la mano
destra da sotto le coperte. Tent• di asciugarsi le lacrime dagli
occhi, ma aveva molte difficolt a controllare i movimenti.
- Stella? - disse, pi parlando a se stesso, che non rispondendo alla
domanda. - "Deve" essere Stella. Come... non lo sa nessuno! "Nessuno"
lo sa.
Qualcuno buss• bruscamente alla porta e Smith si gir• per aprirla.
Lisa non riusciva a vedere chi fosse, n‚ sentiva quanto veniva
freneticamente sussurrato. Poi, Smith si volt• nuovamente verso di
lei, con un'espressione di angosciata indecisione, e le fece un cenno
verso la porta.
- Hanno localizzato la Filisetti - disse. - E' sotto controllo.
Dobbiamo andare a prenderla, dobbiamo scoprire quante altre persone
sono coinvolte e stroncare l'intera faccenda sul nascere, anche se non
sappiamo di cosa si tratti.
- Mi lasci restare qui - sussurr• lei. - Penso di riuscire a fargli
dire qualcosa, se c'Š tempo. Ho migliori possibilit, da sola: se c'Š
qualcuno al mondo in cui lui ha fiducia.
Smith esit•, poi acconsentć con un cenno del capo. A passi veloci si
avvicin• al letto, chinandosi sopra la tenda di plastica per guardare
Morgan Miller, che aveva chiuso gli occhi. Non c'era modo di sapere se
li avrebbe mai riaperti: Smith si gir•, fece un cenno brusco a Lisa e
se ne and•.
Lisa torn• verso il letto, trascinando una vecchia poltrona
sbrindellata sul cui schienale aveva deposto tante volte i suoi abiti.
Si sedette e finalmente, ora che era inosservata, cominci• a piangere.
Erano molti anni che non piangeva, e sper• che non le accadesse mai
pi.
Lisa non avrebbe certamente confessato, sia che qualcuno glielo avesse
chiesto, sia che fosse lei stessa a chiederselo in segreto, che amava
Morgan Miller. Lo "aveva" amato, molto tempo prima, ma era passato
tanto tempo anche da quando aveva superato quel sentimento, cosć come
aveva superato tutte le passioni e praticamente tutti gli affetti.
Rimaneva, tuttavia, qualcosa per cui Morgan Miller le era pi vicino
di qualsiasi altro essere umano: stava morendo sul loro letto, nel
quale un assassino gli aveva sparato mentre dormiva, come quasi sempre
faceva, da solo. Se questo non era il momento giusto per le lacrime,
non ce ne sarebbero sicuramente stati altri.
Per parecchi minuti, Lisa fu contenta di mantenere il silenzio, per
assorbire nella parte pi profonda di s‚ il suo dolore. Poi si rialz•,
and• verso la testiera del letto, tolse il microfono che Smith aveva
collocato dietro a essa, lo avvolse accuratamente in un fazzoletto e
se lo mise in tasca.
- Morgan, bastardo! - disse a voce bassa. - Me lo devi dire, capito?
Mi senti? Tu "devi" dirmelo, ne ho pieno diritto.
Morgan Miller riaprć gli occhi.
- Ges, Lisa - disse debolmente. - L'hanno fatto per davvero. Mi hanno
ucciso per davvero.
- Sć - ribatt‚ lei con voce piatta. - E' un miracolo che tu abbia
ancora un po' di tempo. Qualunque cosa sia, qualcuno ne Š al corrente.
Io voglio sapere. Non ti ho mai chiesto altro, mai. Ma ora voglio
sapere, Morgan; "voglio" sapere.
Morgan Miller sorrise, di un sorriso che gli aveva visto centinaia di
volte sulle labbra pallide: un sorriso di superiorit. Non le era mai
andato a genio. Si rimise a sedere sulla poltrona e aspett•.
- Lisa - disse lui piano. - "Non" ti piacer.
- Dimmelo lo stesso - ribatt‚ lei con quel tono freddo, sardonico, che
"lui" doveva aver sentito centinaia di volte, e che probabilmente
nemmeno a lui andava a genio. - Non vorrai andare nella tomba tenendo
un segreto nascosto alla sola donna che tu abbia mai amato, vero?
- Dannazione, no. - E poi con una voce che era poco pi di un sussurro
gelido continu•: - Come potrei farti una cosa simile?
Fece una lunga pausa, mentre Lisa aspettava, calma.
La loro era stata una relazione che aveva sempre messo a dura prova la
sua pazienza e la sua sensibilit.
- E' stato un puro colpo di fortuna - disse Miller, restando
abbastanza calmo e rilassato. La sua voce era debole, ma non pi
rauca: sembrava quasi in stato di trance. - Una probabilit su un
milione. Ho cercato di lavorare sulla biochimica, ma non sono mai
riuscito a venire a capo di nulla. La proteina-chiave Š una sorta di
controllore, come quelli che fungono da interruttori per i geni
selezionati in diversi tipi di cellule specializzate.
"E' stato un virus-proiettile, uno di quelli che ho specificamente
adottato per infettare gli ovociti, e doveva servire a preservare le
cellule-uovo, ad abbattere la percentuale di dispersione. E in qualche
modo le preservava: evitava che morissero tanto rapidamente, cosć che
i topi infettati nascessero con qualcosa come il novanta per cento
delle uova immagazzinate intatto. Non c'erano trasformazioni
somatiche: dapprima pensai di non aver ottenuto niente del tutto,
tranne che gli ovociti potessero essere preservati in qualsiasi
femmina infettata dal virus. Mantenni in vita-un certo numero di topi
per seguire l'evoluzione degli ovociti, ma quando raggiungevano l'et
giusta, la pubert non aveva luogo. Niente ovulazione. I topi erano
sterili. A quel punto, tutto mi sembr• ancora pi inutile, ma
continuai a monitorarli, per sicurezza.
"Sezionai parecchio tessuto, per seguire il ritmo di degenerazione,
senza vedere alcunch‚ di insolito: il ritmo era ancora piuttosto
lento. Poi, mi accorsi dell'anomalia: un ovocito aveva cominciato a
dividersi, formando quello che sembrava un tumore. Non una nascita
virginea, capisci? Non si stava formando un embrione ordinario, e le
nuove cellule sembravano disperdersi, come il cancro in metastasi.
Sembr• allora che il virus fosse un assassino, mantenni sotto
osservazione i restanti topi vivi per vedere cosa sarebbe accaduto.
Aspettai che manifestassero sintomi esterni, ma non ce ne furono.
Aspettai, aspettai e le dannate cose non morivano.
"Non morivano per nulla. Mai.
"E poi, finalmente, capii. Gli ovociti che si stavano sviluppando
producevano nuove cellule giovani che gradualmente prendevano il posto
delle cellule maternali nel corpo della madre: producevano nuovi
individui, era vero, ma non individui "separati". A mano a mano che
invecchiava, la madre diventava un mosaico, tranne che per il fatto
che le nuove cellule non erano geneticamente diverse: questi ovociti
mostri erano figli-cloni diploidi dell'originale, e ringiovanivano in
continuazione il corpo ospite. Invece di vivere l'unica vita
programmata nella sua cellula-uovo originaria, ogni topo viveva una
intera serie di vite, cannibalizzando le sue stesse cellule-uovo.
Quella cosa maledetta, l'avevo infettata di immortalit.
"Forse ricorderai la vecchia battuta della gallina che sarebbe
semplicemente il modo con cui un uovo fa un altro uovo. Il Dna Š
sempre stato immortale; i nostri cromosomi vivono per sempre:
semplicemente usano gli organismi come mezzi per scambiare i loro geni
individuali con ci• che li circonda. I batteri e i protozoi
generalmente non danno preoccupazioni: le loro cellule non fanno altro
che continuare a dividersi. Ci voleva soltanto un piccolo tocco
genetico per avviare i cromosomi dei topi su un nuovo percorso, cosć
da permettere loro di esprimere la loro immortalit mediante una serie
di individui che sarebbero cresciuti soltanto per rimpiazzarsi l'uno
con l'altro dentro lo stesso corpo, eliminando le cellule vecchie
esattamente come un serpente in crescita cambia periodicamente la
pelle.
"Avevo una mappa genetica completa del virus-proiettile che aveva
innescato il processo. La sua capacit infettiva era specifica per i
topi, ma non lo era il Dna attivo. Sapevo che avrei potuto progettare
un virus capace di fare la stessa cosa alle cellule uovo umane: due o
tre colpi mancati, probabilmente, ma il problema non era difficile.
Equipaggiato con quella mappa genetica, chiunque avrebbe potuto farlo
in qualsiasi laboratorio appena decente. Ma senza la mappa, anche
sapendo che la cosa era fattibile, sarebbe stato impossibile: tu sai
quanti modi ci sono di permutare quattro basi in una catena di Dna
lunga centinaia di unit. Sapevo che ci sarebbero voluti ancora
centinaia di anni prima che qualcun altro potesse imbattersi in un
simile colpo di fortuna. Perci• nascosi la mappa."
Lisa aveva ascoltato in silenzio, non voleva interrompere il flusso
delle sue parole poich‚ temeva che, se lo avesse arrestato, avrebbe
potuto rivelarsi molto difficile farlo riprendere. Ora, tuttavia,
Morgan Miller si era interrotto di sua spontanea volont e fissava
Lisa con occhi brillanti come quelli di un uccello, aspettando la sua
reazione, quasi sfidandola a trovare da sola le motivazioni che lo
avevano determinato.
- Dunque, hai scoperto l'immortalit? - domand• Lisa. - E hai deciso
di mantenere il segreto fra te e i topi?
Lo scienziato annuć brevemente, senza rispondere.
Lisa si accorse di aver trascurato qualcosa. - Tu hai trovato il modo
di rendere immortali le "femmine" - si corresse. - "Solo" le femmine.
Miller annuć nuovamente.
- Cosa hai cercato di fare, poi? - continu• la donna. - Di trovare un
"proiettile magico" capace di trasformare nello stesso modo le cellule
spermatiche? Nello spirito della parit dei diritti?
- Non avrebbe funzionato - rispose lui, piano. - Una cellula
spermatica non ha un apparato biochimico di supporto: Š soltanto un
mucchietto di cromosomi e i suoi geni possono diventare attivi solo
dopo aver invaso un'altra cellula, in certo qual modo proprio come un
virus. In termini biochimici, i maschi sono sempre stati parassiti
delle femmine. Quando gli ovociti possono funzionare da soli, una
specie non ha veramente bisogno dei maschi.
Lisa pens• alle implicazioni di quanto aveva scoperto Morgan Miller e
a quanto egli aveva fatto, o non aveva fatto, in proposito. - Quanto
tempo fa, Morgan? - chiese lei improvvisamente.
Miller cerc• di scrollare le spalle, ma senza riuscirci. -
Quarant'anni - rispose.
"Quarant'anni fa" pens• Lisa freddamente. "Allora ero innamorata di
Morgan Miller, e il mio corpo conteneva migliaia di cellule-uovo.
Centinaia di migliaia di vite potenziali. E lui sapeva: anche allora,
lui sapeva."
Lei aveva naturalmente capito da tempo che Morgan Miller non l'amava,
non l'avrebbe mai amata e non le avrebbe mai dato un figlio: perch‚
avrebbe dovuto sentirsi sconvolta dal fatto che lui conosceva un modo
per farla diventare un elisir di lunga vita e non ci aveva neppure
provato?
"Qualsiasi cosa accada ora" pens•, "Š troppo tardi. Sono troppo
vecchia e non ho pi cellule uovo."
Ma Stella Filisetti, ricord•, era ancora abbastanza giovane per
quello.
- Perch‚ lo hai detto a Stella? - gli chiese.
- Non gliel'ho detto, ma evidentemente era pi intelligente di quanto
pensassi. Una dozzina di topi immortali in una popolazione di
migliaia, e tutti identici: pensavo che fossero ben nascosti anche in
piena vista. Ma a lei i topi erano sempre piaciuti: aveva per loro una
sorta di curiosa e sciocca affezione. Il sentimentalismo Š "tanto"
fuori luogo in un biologo.
- Sei un bastardo, Morgan - disse Lisa con voce gelida. - Se non ti
avesse sistemato lei, giuro che ti avrei sparato io stessa. - E mentre
diceva queste parole, era lei stessa sorpresa di quanto forte fosse la
tentazione di farlo. Eppure in qualche modo era strano: non sentiva il
furore della rabbia passionale. Se, come si sentiva tentata di fare,
avesse strappato la tenda e lo avesse soffocato con il cuscino, lo
avrebbe fatto abbastanza freddamente. Ma sapeva benissimo che non
avrebbe prodotto alcun vantaggio.
- Bene - disse Morgan dolcemente. - E' venuto fuori, comunque. Quando
ha capito che c'era qualcosa sotto deve aver frugato fra le mie
documentazioni con molta attenzione, e probabilmente avevo troppe
copie della mappa. Forse avrei dovuto distruggerla, se avessi
sinceramente voluto salvare il genere umano. - Marc• debolmente le
parole "genere umano" per sottolineare che intendeva dire esattamente
quello, e null'altro.
- E tu volevi farlo? - chiese Lisa. - Voglio dire, volevi salvare il
genere umano?
Miller fece una smorfia. - Il mondo mi piaceva abbastanza cosć com'era
- disse. - Nonostante i disastri provocati dall'effetto-serra,
nonostante le Guerre-Peste, nonostante il problema energetico,
nonostante il collasso economico. Non era un brutto mondo, per uno
come me. E tuttavia sono felice di non aver avuto figli: i soci di
Stella faranno certamente di tutto perch‚ il futuro sia ben diverso.
- Gli uomini di Smith l'hanno trovata - gli disse Lisa. - Con ogni
probabilit riusciranno a farsi dare la mappa, a meno che lei non ne
abbia gi distribuite un migliaio di copie. Ma in realt non credo che
lo abbia mai pensato: il semplice fatto di aver bombardato il
laboratorio e di aver cercato di ucciderti fa credere che non
intendano rendere pubblica la loro piccola scoperta. Sono certa che
vorranno tenersela per s‚: non c'Š molto di sentimentale, dopotutto!
Di nuovo, il sorriso di Miller si contrasse in una smorfia. -
Autentico spirito di fratellanza!
Lisa studi• l'espressione del suo viso con molta attenzione. - Perch‚
non l'hai detto a Smith? - gli chiese.
- Non ne ho avuto il tempo.
- Oh, sć, che l'hai avuto! Ma tu ti sei tirato indietro. Hai aspettato
che se ne andasse e hai detto tutto a me. Perch‚?
- Perch‚ hai neutralizzato il microfono? - controbatt‚ lui.
- Perch‚ mi rendeva consapevole di essere al centro dell'attenzione
generale. Ho pensato che avrei preferito un po' di privacy insieme a
te.
- Non mi piacciono gli Uomini del Ministero - disse Miller. - Il mio
primo istinto Š sempre quello di non dire loro nulla.
- In realt sembra che il tuo primo istinto sia sempre quello di non
dire nulla a "nessuno" - osserv• Lisa.
- L'ho detto a te.
- Quarant'anni pi tardi.
- Troppo tardi per te, forse. Ma non ti ho mai ritenuto una persona
egoista, Lisa, e questa Š una cosa che ho sempre ammirato in te:
autentico altruismo; senso del dovere. Sei sempre stata la mia
preferita.
Lisa lo osserv•, rendendosi conto che lui stava giocando a un qualche
gioco: la stava stuzzicando, giocando al gatto con il topo. Eccolo l,
sul suo letto di morte, a godersi l'idea che dopotutto il futuro del
mondo avrebbe ancora potuto finire nelle sue mani: lui avrebbe potuto
determinarlo, giocarci, disporne a suo piacimento.
Di nuovo quella vocina che la spingeva a ucciderlo, ma non volle darle
ascolto.
Invece, lo sapeva molto bene, avrebbe aspettato, ascoltato e capito
cosa lui avrebbe deciso di fare. Se lui avesse voluto, le avrebbe
detto dove trovare un'altra copia della mappa. Se lui avesse voluto,
sarebbe morto in silenzio, lasciando allo scrupoloso signor Smith il
compito di passare al setaccio le sue documentazioni scientifiche. Non
c'era bisogno di pensarci su un gran che, per indovinare cosa avrebbe
fatto.
Ci fu una lunga pausa, durante la quale rimasero con gli occhi
dell'uno fissi in quelli dell'altra, aspettando di scoprire chi
avrebbe rotto per primo il silenzio e che cosa lui o lei avrebbe
detto.

Gli agenti del Ministero della Difesa arrestarono Stella Filisetti
poco pi tardi, quello stesso giorno, e nel giro di qualche ora
attuarono altri sette arresti. Dopo un processo che si svolse in
segreto per via delle implicazioni per la sicurezza nazionale, otto
donne vennero condannate al carcere a tempo indefinito in una localit
non specificata.
Quando Peter Smith torn• a casa di Morgan Miller, il professore era
ancora vivo e rimase vivo abbastanza da ripetere tutto ci• che aveva
detto a Lisa Friemann. Gli Uomini del Ministero cominciarono un esame
estremamente accurato e dettagliato dei dischetti contenenti i dati di
Miller, per trovare la famosa e cruciale mappa genetica.
Iniziarono anche a cercare Lisa Friemann, ma quando riuscirono a
trovarla, era gi troppo tardi.
Ormai, decisamente troppe persone avevano visto la mappa, e il mondo
si era gi imbarcato verso la sua nuova era.

Titolo originale: "The Magic Bullet"
Copyright 1989 "Interzone".
Traduzione di Gabriella Campioni.








1937: ANDATA E RITORNO.
Nancy Kress.

- Sono preoccupato per mia nipote - disse Harry Kramer porgendo
l'altra met del suo sandwich a Manny Feldman che lo accett• con aria
golosa. Il sandwich era enorme: spesse fette di manzo e copiosa salsa
cren imprigionati fra due bei pezzi di pane croccante. La panchina
sulla quale sedevano era assediata da uno stormo di piccioni affamati.
- Tua nipote Jackie, la scrittrice - disse Manny. Harry non gli
toglieva gli occhi di dosso; voleva accertarsi che mangiasse,
bisognava spronarlo come un bambino a tal riguardo ed era sempre
troppo magro. Quantomeno cosć la pensava Harry. Ma, del resto,
rifletteva, non soltanto Manny era ridotto a un misero mucchietto di
ossa, pure Jackie e il mondo intero. Era bastato un fugace attimo di
distrazione da parte sua perch‚ ci• accadesse; e ora era come se ogni
cosa e ogni persona avessero assunto dimensioni pi ridotte,
striminzite. Harry osserv• soddisfatto un insolente rivolo di salsa
che, sfuggito dalle labbra di Manny, gli si insinuava adesso nella
rada barbetta.
- Sć, Jackie - rispose Harry.
- Che cosa c'Š che non va con lei? Sta forse male? - chiese Manny
lanciando un'occhiata allo strudel di ciliegie dalla pasta ben
lievitata che Harry teneva in mano. Harry gli allung• anche quello. -
Me lo dai tutto? Non posso accettare!
- Avanti, Manny, non fare storie. Io non lo voglio, e poi, tu devi
mangiare. No, Jackie non sta male; ma Š molto infelice. - Manny,
troppo impegnato a masticare un enorme boccone di strudel, non disse
niente; allora Harry gli mise una mano sul braccio e ripet‚: - Ho
detto che Š infelice.
Manny si precipit• a mandare gi il boccone e chiese: - Come fai a
saperlo? L'hai vista questa settimana?
- No, la vedr• martedć prossimo. Mi porter un libro scritto da un suo
amico. Ma io lo so che Š triste perch‚ ho letto questo... - ed
estrasse una rivista da una tasca interna del cappotto quasi nuovo, di
autentico tweed e con i bottoni di legno. Dalla copertina della
rivista patinata una donna sorrideva sprezzante: le guance scavate,
come quelle di chi vive di stenti: evidentemente neppure lei mangiava
a sufficienza.
- Ma questo non Š un libro - osserv• Manny.
- Lo so, ma Jackie scrive anche racconti che vengono pubblicati su
riviste. Senti un po' qui: "Mi trovavo nel giardino retrostante casa
mia, tutt'attorno a me il prato concimato a tossine, d'un verde
talmente brillante da sembrare di plastica, quando mi accorsi che la
terra era morta. Sć, morta, e noi esseri umani brulicavano sulla sua
superficie come le larve brulicano su una carogna, imprimendo
febbrilmente su di essa la nostra sagoma e lasciando sull'assurda
terra le nostre bavose scie". Ti sembrano forse queste le parole di
una donna felice, Manny?
- Accidenti, no! - rispose lui.
- E il brano prosegue tutto su questo tono. "Non sono della tua specie
i lettori ai quali mi rivolgo", dice lei. E poi mi sorride, senza mai,
nemmeno per errore, far vedere i denti. - Harry spalanc• le braccia e
proseguć: - Ma come pu• un nonno esimersi dal leggere ci• che scrive
sua nipote?
Manny mand• gi l'ultimo boccone di strudel mentre ai suoi piedi i
piccioni sbattevano rabbiosi le ali. - Davvero non fa mai vedere i
denti quando ride, proprio mai?
- Mai.
- Accidenti! - esclam• di nuovo Manny. - Te la mangi tutta
quell'arancia?
- No, questa Š per te. Portatela a casa. Ehi, ma ti sei gi fatto
fuori tutto il sandwich?
- No, pensavo di portarmelo a casa - rispose Manny umilmente,
indicando il cartoccio di carta marrone, da macellaio, che faceva
capolino dalla tasca del consunto cappotto.
Harry annuć in segno di approvazione. - Bene, bene. Avanti, prendi
anche l'arancia: l'ho comprata per te.
Manny ubbidć. In quel mentre tre ragazzi che bighellonavano nei
paraggi portandosi appresso enormi radio schiamazzanti sfilarono
davanti alla panchina sulla quale erano seduti i due vecchi. Manny
fece per portarsi le mani alle orecchie, ma, dopo aver ricevuto da uno
dei tre, quello che ostentava una verde criniera, un'occhiataccia che
non prometteva niente di buono, riport• le mani in grembo. Il ragazzo
scaravent• per terra una bottiglia di birra vuota che and• in frantumi
proprio ai piedi di Manny. Harry scocc• un'occhiata torva al giovane
mentre Manny mantenne lo sguardo fisso davanti a s‚. Quando il
frastuono provocato dai tre scem•, Manny si rivolse a Harry: - Grazie
per l'arancia. La frutta costa cosć cara in questo periodo dell'anno.
Ancora accigliato Harry rispose: - Non nel 1937.
- Harry, ti prego, non ricominciare.
- Perch‚ non mi vuoi credere? - ribatt‚ Harry. - Pensi forse che
potrei permettermi di comprare tutta questa roba da mangiare se
dovessi pagarla ai prezzi del 1988? E pensi che potrei permettermi
questo bel cappotto? Ti Š capitato per caso di vedere bottoni simili
sui cappotti di questi tempi? Hai mai visto sandwich avvolti in carta
come questa, se non all'epoca in cui tu eri bambino? Avanti,
rispondimi. Perch‚ non vuoi credermi?
Manny sbucciava l'arancia con movimenti lenti. La buccia del frutto
era chiara e ogni spicchio conteneva molti semi. - Harry, non
ricominciare con questa storia.
- Ma, insomma, perch‚ non ti decidi a venire nella mia stanza a vedere
con i tuoi occhi?
Manny seguit• a suddividere l'arancia in tanti spicchi. - La tua
stanza... una modesta stanza ammobiliata in un albergo dell'Assistenza
Sociale. Perch‚ dovrei venire a vederla? So gi che ci troverai le
stesse cose che ci sono nella mia: un letto, una sedia, un tavolo, un
piatto caldo e un paio di scatolette di roba da mangiare. No, grazie,
preferisco che ci incontriamo qui, al parco, almeno respiriamo un po'
d'aria fresca. - Manny rivolse all'amico un'occhiata timida; con una
mano stringeva l'arancia sbucciata. - Ti prego di non fraintendermi,
non ti dico queste cose per inimicizia, tu sei molto buono; mi porti
un mare di prelibatezze. E poi ci facciamo delle lunghe chiacchierate,
sei la famiglia che non ho, Harry. E tutto questo mi basta, non c'Š
bisogno che io venga a vedere il posto dove vivi, perch‚ tanto Š
uguale al mio.
Harry lasci• perdere. Talvolta Manny manifestava un atteggiamento tale
per cui era decisamente impossibile smuoverlo dalla propria posizione.
Cacciava la testa sotto la sabbia e lć la lasciava. - Mangia
l'arancia, Manny.
- E' buona, sai. Forza, parlami ancora di Jackie.
- Jackie. - Harry scroll• il capo. In quell'istante due ragazzini
sfrecciarono davanti a Manny e Harry in sella alle loro biciclette.
Uno dei due sterz• bruscamente puntando Manny e quando gli fu
abbastanza vicino gli rub• lesto l'arancia di mano. - Benoneee!
Harry scocc• un'occhiata di fuoco al ragazzino che, a guardarlo
meglio, si rivel• di sesso opposto. Manny si strofin• sui pantaloni le
mani appiccicose di succo d'arancia. - E' davvero tutto cosć
deprimente ci• che scrive, Jackie?
- Tutto - rispose Harry. - Senti questo brano. - Tir• fuori un'altra
rivista, questa per• di formato pi piccolo, la carta era grossolana e
in copertina campeggiava il disegno stilizzato delle parti intime di
una donna. In copertina! Harry teneva la rivista aperta sulla pagina
che lo interessava con il palmo ben disteso per coprire il disegno, il
che rendeva arduo non mancare la presa durante la lettura.
- "Guard• sua madre nell'unico modo che le era possibile guardarla;
con disprezzo, sć, disprezzo per tutti i tradimenti e i compromessi di
cui era costellata la sua vita, disprezzo per quelle tristi rughe che
increspavano appena gli angoli della sua bocca ed erano il ricordo di
tante sconfitte, disprezzo per quell'abito sgargiante e stonato,
troppo giovanile per i suoi anni sprecati, disprezzo pure per quella
borsetta di pelle, Gucci naturalmente, pingue di luridi soldi ottenuti
svendendo la propria vita a un uomo che da tempo ormai quella vita non
chiedeva pi."
- Ehi, accidenti - esclam• Manny. - Ha scritto questo di sua "madre"?
- Scrive cosć a proposito di tutti quanti. Sempre.
- E dov'Š Barbara?
- Di nuovo a Reno. Un altro divorzio.
Quante volte aveva gi divorziato? Dopo la seconda volta, valeva
ancora la pena tenere il conto? Harry aveva deciso di no. Immaginava
la vita di sua figlia Barbara come un'enorme roulette, simile a quelle
che facevano vedere in televisione, e, al posto della pallina, c'erano
tanti omini d'argento che rimbalzavano senza tregua da una casella
rossa a una nera. Ma non le girava mai la testa?
- E io che pensavo che fosse capace di tanto amore - osserv• Manny
mestamente.
- Ed Š cosć - rispose Harry brusco.
- Non parlavo di Barbara, ma di Jackie. Tanto... non so, credevo che
ci fosse tanta dolcezza sotto quella scorza dura.
- Sć, quella scorza dura - ripet‚ Harry cupo. - E' spinosa come un
cactus. Ma hai ragione, Manny, ho capito cosa intendi dire: Jackie
avrebbe bisogno di qualcuno che l'addolcisca un po'. Che le dia un po'
d'amore. Anche se io le voglio bene...
I due vecchi si scambiarono uno sguardo. - Harry... - cominci• Manny.
- Lo so, lo so. Io sono soltanto suo nonno, il mio amore non conta, Š
scontato come l'aria che respira. "Sei fantastico, Popsy", dice lei, e
poi mi sorride senza mai farmi vedere i denti. Sć, Manny, hai proprio
ragione! - disse Harry alzando la voce e saltando in piedi. - Hai
ragione; quello di cui ha bisogno Jackie Š un uomo che le voglia bene!
Manny lo guard• con fare allarmato. - Non ho detto che...
- Accidenti, perch‚ non ci ho pensato prima?
- Harry...
- Anche le sue storie... sono un'accozzaglia di omicidi, luoghi
infami, finali tristi. Quella ragazza ha bisogno di vivere
un'esperienza felice che le infonda fiducia nell'amore, che le insegni
a scrivere storie meno drammatiche.
Manny lo fiss• intensamente. Harry si sentć invadere da un impeto di
affetto. Proprio lui, Manny, gli aveva suggerito la soluzione!
Piccolo, grande Manny.
- Jackie una volta mi ha detto: "Scrivo storie realistiche". Questo mi
ha detto! - ricord• Manny.
- Dunque, secondo lei non esiste amore nella realt! Ma se l'amore
entrasse nella sua vita, allora la dolcezza potrebbe diventare il tema
delle sue storie. Ha bisogno d'affetto, Manny. Sć, le ci vuole un
ragazzo bravo e simpatico!
Due uomini in tuta da jogging passarono di lć correndo. Uno dei due
pos• un piede sui cocci della bottiglia di birra. - Possibile che ci
caschi tutte le volte, cazzo! - sbrait• chinandosi per controllare che
la Reebok non avesse subito danni. - Fottutissimo parco!
- Be', che cosa pretendi? - grugnć l'uomo che era con lui guardando in
tralice Manny e Harry. - Dal momento che sono riusciti a ripulire pure
il Lago Erie, potrebbero anche...
- Fottuti relitti umani! - ringhi• l'altro e ripresero a correre.
- Credo proprio che non sar facile trovare il tipo di ragazzo che
possa far cambiare idea a Jackie - osserv• Harry.
- Harry, credo che dovresti pensare a...
- Non lo cercher• qui - esordć Harry d'un tratto. - Non qui, ma
laggi, nel 1937.
- Harry...
- Gi - disse Harry annuendo convinto. Un brivido di eccitazione lo
percorse come corrente elettrica, illuminandolo. Che grande idea aveva
avuto! - Sć, tutto era diverso nel 1937!
Manny rimase in silenzio. Quando si alz•, la manica del cappotto che
si era leggermente sollevata mise in evidenza il numero impresso sul
polso. - Nemmeno nel 1937 era tutto rose e fiori, Harry - osserv• con
un filo di voce.
Harry prese le mani di Manny nelle sue. - Lo far•, Manny. Trover• un
uomo per lei laggi, e lo porter• qui.
Manny tir• un grosso sospiro. - Ci vediamo domani al club degli
scacchi, Harry? All'una, va bene? Domani Š martedć.
- Va bene, cosć ti metter• al corrente sul mio piano.
- Okay, Harry. Io sono con te, lo sai vero?
Anche Harry si alz•; teneva ancora Manny per mano. Un uomo di mezza
et raggiunse barcollando la loro panchina sulla quale si accasci•
sprigionando folate di whisky. - Maledette checche! - disse squadrando
Manny e Harry con aria di scherno.
- Buona notte, Harry.
- Manny, se soltanto accettassi di venire con me... Laggi, con
pochissimi soldi potresti fare molte cose...
- Ci vediamo domani all'una al club degli scacchi.
Harry guard• l'amico allontanarsi trascinando la gamba: molto
probabilmente il ginocchio aveva ripreso a dolergli. Avrebbe tanto
desiderato che Manny si facesse visitare da un buon medico. Forse un
medico avrebbe anche saputo dare una risposta alla sua magrezza.

Harry torn• all'albergo a piedi. Nella hall alcuni vecchietti erano
sprofondati in poltroncine dal rivestimento logoro, bruciacchiato
dalle sigarette, con lucidi aloni l dove tante persone si erano
sedute per interminabili ore. Ore e ore, pens• Harry; dal grado di
usura del retro dei loro pantaloni, si sarebbe potuta indovinare l'et
di quelle persone. E ora scendeva la sera e nessuno si sarebbe mosso
di lć fino alle prime luci dell'alba. A quel pensiero Harry scroll• il
capo.
Per l'ennesima volta l'ascensore era fuori servizio. Prese le scale
per salire al terzo piano, ma a met strada si ferm•, frug• nelle
tasche: gli erano avanzate cinque monete da venticinque centesimi, sei
decine due nichelini e otto penny. Torn• nella hall e chiese alla
receptionist: - Potrebbe darmi due dollari in cambio di questa moneta,
per favore? Preferirei due biglietti vecchi.
La donna dietro al banco lo guard• sospettosa. - Lei ha gi pagato
l'affitto?
- Ma certo - rispose Harry. Malvolentieri la donna gli cambi• i soldi.
- Grazie, la trovo molto carina questa sera, signora Raduski. - Lei
rispose con uno sbuffo.
Una volta giunto in camera, Harry si mise a cercare il suo cappello
che, infine, trov• sotto il letto. Come era finito l sotto? Lo ripulć
dalla polvere e lo indoss•. Gli era costato tre dollari e venticinque
centesimi. Aprć l'armadio, si cre• un varco fra gli abiti appesi alle
grucce di metallo - mentre compiva quell'atto gli capitava spesso di
pensare a se stesso come a un nuovo MosŠ tornato a spartire le acque,
vi entr• ed eseguć, quasi senza pensarci, una piccola, ma decisa
contorsione sul versante destro dell'armadio, vicino alla manica del
suo abito buono di lana grigia.
Si ritrov• nello squallido angolo di un magazzino; si era tenuto un
po' troppo sulla destra. Le ragnatele gli sfiorarono il cappello.
Attravers• lo sgombro stanzone di cemento fino al punto in cui erano
state ammonticchiate cataste di legna e si fece strada fra queste.
Pure sulle cataste, che evidentemente non venivano utilizzate granch‚
per qualsiasi tipo di costruzione, si erano adagiate grandi ragnatele.
Mentre varcava la soglia del magazzino, Harry incontr• il guardiano
notturno che, proprio in quel momento, entrava in servizio.
- Tutto tranquillo oggi, Harry?
- Tranquillo come in chiesa, Rudy - rispose Harry. Rudy scoppi• in una
fragorosa risata; rideva spesso e non era il tipo a cui piacesse
importunare le persone con molte domande. Probabilmente doveva aver
pensato che Harry fosse un nuovo assunto, il giorno in cui lo aveva
visto per la prima volta uscire dal magazzino in una sorta di trance.
Mentre Harry, dopo aver ben osservato la faccia di Rudy, rotonda e
priva di espressione, era giunto alla conclusione che, quasi
certamente, aveva ottenuto quel lavoro perch‚ era lo zio, il cugino, o
chiss diavolo cosa, di qualche pezzo grosso. A quell'idea, Harry
aveva provato un moto d'approvazione; ogni famiglia doveva prendersi
cura dei suoi membri. Aveva detto a Rudy di aver perso la chiave e
gliene aveva chiesta un'altra.
Fuori dal magazzino era pomeriggio inoltrato. Harry s'incammin• e,
dopo un po', si ritrov• in mezzo alla folla; gruppi di persone gli
venivano incontro, lo superavano, si spostavano da un marciapiede
all'altro. Caratteristica comune di uomini e donne era che tutti
indossavano un cappello. Le signore portavano cappellini di velluto o
di lana impreziositi da velette ricamate che scendevano fino sopra al
naso e indossavano vestiti lunghi, eleganti, le cui stoffe esibivano
disegni raffinati. I signori, invece, indossavano fedora e abiti
informi uguali a quello di Harry. Quando raggiunse il parco, si trov•
fra gruppetti di bambini; i maschi portavano pantaloni lunghi neri e
scarpe pesanti, e le femmine gonne con i bottoni. Erano tutti vestiti
come se fosse domenica mattina.
I carretti dei venditori ambulanti costeggiavano le strade su cui si
affacciavano anche negozi. Harry compr• un paio di calze, di spessa
lana grigia, per ottantanove centesimi. Quando il negoziante gli prese
di mano il biglietto da un dollaro, Harry trattenne il fiato: ogni
volta in quell'occasione sentiva lo stomaco fare una capriola. Ma
nessuno badava mai alla data che compariva sui vecchi dollari. Compr•
anche due arance pagandole cinque centesimi l'una e poi, pensando a
Manny, ne compr• una terza. In un negozio che vendeva anche caramelle
si procur• una copia di "G-8 And His Battle Aces" a quindici
centesimi: "All'angolo del collezionista", nell'altra epoca, gli
avrebbero offerto senza batter ciglio una trentina di dollari in
cambio di quella rarit. Infine acquist• una Coca-Cola alla ciliegia
per un nichelino e si diresse al parco.
- Oh, mi scusi - gli disse un giovanotto dopo essergli finito addosso
mentre camminava lungo il marciapiede. - Mi dispiace moltissimo! -
Harry lo squadr• per benino; ma no, era troppo giovane. Jackie aveva
ventotto anni.
Un gruppetto di ragazzini gli sfrecci• accanto, la loro meta era il
cinema dove c'era Spencer Tracy in "Capitani coraggiosi". Harry and• a
sedersi su una panchina verde sotto una rigogliosa coppia di olmi.
Qualcuno doveva aver dimenticato una rivista; Harry la prese in mano
per vedere a quale giorno risalisse: ventotto settembre. La copertina
esibiva un giovane soldato nazista immortalato nell'atto di compiere
il saluto militare. Il pensiero di Harry torn• a Manny e,
accigliandosi, ripose la rivista a faccia in gi.
L'ora successiva Harry la trascorse a studiare attentamente le persone
che si avvicendavano in quella zona. Quando il buio gli rese
difficoltosa l'osservazione, decise di tornare al magazzino e, lungo
il percorso, cedette alle lusinghe di una torta di mele che vendevano
in un panificio dove una tenda scostata, al di l del banco, gli
permise di spiare un uomo che, in maniche di camicia, era chino su un
abbondante piatto di stufato. La scena gli si present• in una soffusa
luce gialla. La torta di mele gli cost• altri trentadue centesimi.
Una volta raggiunto il magazzino, Harry vi entr• servendosi della
chiave, pass• oltre a Rudy, imbambolato davanti alla radio che
trasmetteva "Paris Night", e punt• l'angolo infestato dalle ragnatele
da dove era partito. Quando uscć dall'armadio, si ritrov• ancora una
volta nella sua stanza, al terzo piano. Fuori le sirene ululavano e
non volevano saperne di smettere.

- Allora, come va? - chiese Manny lasciando cadere briciole di torta a
profusione sulla scacchiera, che Harry si affrettava a spazzare via.
Manny gli aveva mangiato un cavallo.
- Credo che mi ci vorr un bel po' di tempo per trovare il tipo adatto
- osserv• Harry. - Mi piacerebbe trovare qualcuno entro martedć
prossimo quando uscir• a cena con Jackie, ma non credo che ce la far•;
non Š facile. La persona che cerco deve avere determinate
caratteristiche; deve essere giovane e attraente ma al tempo stesso
matura per capire Jackie. Deve essere dolce di natura per aiutare
Jackie, ma anche forte per sopportare lo choc di compiere un salto di
cinquantadue anni nel tempo. E poi deve essere istruito, un uomo cosć
dovrebbe essere spinto dalla curiosit e non lasciarsi sconvolgere pi
di tanto dal mio armadio. Non credi?
- Faresti meglio a tenere d'occhio la regina - lo mise in guardia
Manny muovendo la sua torre. - Allora dimmi, come hai intenzione di
cercarlo?
- Ci vuole tempo - ribadć Harry. - Mi sono messo in moto, comunque.
Manny scroll• il capo. - Non sar facile attirare un uomo qui e
convincerlo che appartiene a quest'epoca. Inoltre, dovrai impedire a
questo qualcuno di fare marcia indietro e di rituffarsi nel tuo
armadio. Non so, Harry; ci ho pensato molto, ma sono convinto che non
si tratti di una cosa semplice. Pensa se tu commettessi un errore; se
sottraessi al 1937 un personaggio importante!
- Non preoccuparti, non sceglier• nessun personaggio in vista.
- Pensa per• se ti sbagliassi e portassi qui tuo nonno e se, una volta
qui, gli succedesse qualcosa.
- Mio nonno era gi morto nel 1937.
- Ma insomma, pensa allora se tu portassi qui me; io vivo gi in
quest'epoca.
- Okay, ma non vivevi qui nel 1937.
- E se portassi qui te stesso?
- Nemmeno io vivevo qui.
- E allora pensa se...
- Basta, Manny - lo interruppe Harry. - Non sceglier• nessuna persona
importante. N‚ porter• qui nessuno con l'intenzione di farlo rimanere
in quest'epoca per sempre. Mi limiter• a far fare un viaggetto a un
tipo simpatico che far• conoscere a Jackie; un tipo con il quale lei
possa uscire, andare a ballare... un uomo che le faccia capire che
esistono anche persone buone al mondo. Insomma, Manny, qualcuno che
l'aiuti a vedere la vita pi rosea. La mia scelta cadr su un uomo
"puro". Vedi, sono certo che di persone cosć ne potrei trovare anche
qui in giro, ma il problema Š che, non conoscendole, mi risulterebbe
troppo difficile organizzare l'incontro con Jackie. Sarebbe tutto pi
facile se potessi andare a scegliere l'uomo giusto in un'altra epoca.
Accidenti, non mi sembra cosć complicato. E poi cosa ci trovi di tanto
rischioso?
- E' rischioso, Harry - controbatt‚ Manny assumendo nuovamente quella
sua espressione ostinata e Harry si chiese come fosse possibile che un
tipo cosć mingherlino esibisse un'aria tanto decisa. Harry tir• un
grosso sospiro e mosse il suo ultimo cavallo.
- Guarda, Manny, ti ho portato alcune paia di calze di pura lana.
- Grazie, quel cavallo non ti aiuter un granch‚.
- Mi Š venuta un'idea: le conferenze! Oggi non si usa pi, ma allora
erano molto in voga. Sai, non c'era la televisione, andare al cinema
costava troppo e cosć la gente andava alle conferenze, tanto pi che
l'ingresso era libero.
- Hai ragione - rispose Manny. - Quand'ero giovane le frequentavo
anch'io. Harry, sta di fatto che il tuo piano comporta dei rischi.
- Invece no - rispose Harry testardo come un mulo.
- Guarda che, inoltre, il 1937 non Š stato un anno facile.
- Funzioner, Manny, funzioner!
- Non ti resta che provare - convenne Manny.
Quella sera stessa Harry torn• indietro nel tempo; al pomeriggio del
sedici settembre. Dalle macchine dispensatrici di quotidiani il "New
York Times" annunciava che il Presidente Roosevelt e John L. Lewis si
erano intrattenuti a vicenda in una piacevole conversazione alla Casa
Bianca. Un pacchetto di sigarette costava 13 centesimi. Le donne
indossavano calze lunghe di cotone e scarpe dai ticchettanti tacchi a
spillo. Mezzo chilo di cioccolatini di una delle migliori marche, la
Schraff, costava sessanta centesimi. I ragazzini si rivolgevano a
Harry chiamandolo: "Signore".
Harry frequent• sei conferenze nel giro di due giorni. Una certa
Madame Trefania tenne una conferenza sulla teosofia davanti a un
auditorio gremito di donne malvestite che la ascoltavano corrugando le
labbra sottili. Nel corso di un'altra conferenza un sindacalista
sobill• gli astanti a tal punto che Harry abbandon• l'auditorio dopo
mezz'ora. Altrove un missionario magrino e nervoso proiettava
diapositive su un insediamento religioso in Cina. Un archeologo appena
rientrato dal Messico, dove aveva compiuto degli scavi, tenne senza
partecipazione alcuna un discorso asettico sui templi di quel paese;
ad ascoltarlo c'erano tre persone. Un democratico che auspicava
l'avvento del New Deal parl• accalorandosi dell'importanza di aiutare
i meno abbienti; il medesimo si rivolgeva alle donne presenti
chiamandole: - Sorelle. - Infine, proprio quando Harry cominciava a
disperare, s'imbatt‚ fortunosamente nella persona che faceva al caso
suo.
Presso un museo si teneva una serie di conferenze il cui tema era: "La
scienza di oggi e di domani". Harry ascolt• un giovanotto magro, dalla
barba rossiccia, parlare con idealistica passione di viaggi sulla
luna, sui pianeti e verso le stelle. Harry si ritrov• a pensare che,
paragonato a un viaggio per le stelle, un'escursione nel 1989 sarebbe
parsa ragionevolmente breve a quel giovane che aveva caldi occhi
nocciola e senso dell'umorismo. Quando parl• della vita a bordo delle
navicelle spaziali, si sofferm• brevemente sui vantaggi che avrebbe
comportato per le donne il non dover pi indulgere in noiosissime
faccende domestiche. Fum• per tutta la durata della conferenza; si
accendeva la sigaretta con gesti tipicamente maschili, congiungendo le
mani a coppa attorno a essa e strizzando gli occhi. Dichiar• che la
fantasia era la dote umana che pi avrebbe aiutato gli uomini ad
adattarsi al futuro. Indossava scarpe lucidissime. Ma ci• che colpć
maggiormente Harry era quel luccichio nei suoi occhi, tipico dei boy
scout di buona volont, che gli ricordarono le vecchie copertine del
"Sunday Evening Post" venduto a cinque centesimi.
Dopo la conferenza Harry rimase seduto sulla sua sedia in prima fila,
in attesa che se ne andasse anche l'ultima ragazza dalle labbra
carminie, che ancora si aggirava attorno al conferenziere, Robert
Gernshon. Di tanto in tanto Gernshon lanciava a Harry un'occhiata
densa di un curioso interesse. Infine la ragazza dalle labbra carminie
e corrucciate abbandon• l'auditorio sculettando.
- Salve! - esordć Harry. - Sono Harry Kramer. Ho molto apprezzato la
sua conferenza. Mi piacerebbe farle vedere qualcosa che dovrebbe
trovare di suo interesse.
Lo sguardo del giovane assunse un'espressione diffidente. - Non mi
fraintenda, si tratta di qualcosa di "scientifico". Ecco, guardi - e
cosć dicendo allung• a Gernshon una vantage light con filtro.
- Com'Š lungo questo filtro - osserv• il giovane. - Di che cosa Š
fatto?
- E' fatto di... una nuova sostanza utilizzata in modo specifico per i
filtri. Ha un gusto pi delicato e filtra meglio la nicotina; fa meno
male, insomma. E adesso guardi questo. - Harry esibć un bicchierino di
plastica di MacDonald's. - Anche questo Š costituito da un nuovo
materiale. Molto economico; usa e getta.
Gernshon tocc• il bicchierino. - Ma chi Š lei? - domand• in tono
pacato.
- Uno scienziato. Mi interessa la scienza del futuro, proprio come a
lei. Ci terrei a invitarla a vedere il mio laboratorio, che poi Š
anche la mia casa.
- La sua casa?
- Sć: Š una specie di laboratorio, dal momento che mi cimento
esclusivamente in piccoli esperimenti. - Harry sentć crescere
l'emozione dentro di s‚; quegli occhi color nocciola lo fissavano con
tale intensit! Gli venne in mente Jackie e pens• a ci• che scriveva:
la morte della Terra, i vermi e le carogne, quel sentimento di
disprezzo per sua madre. Che cosa avrebbe detto Gernshon? E "quando"
avrebbe detto la sua quel Gernshon?
- Grazie - pronunci• finalmente il giovane. - Dunque, mi dica, quando
preferirebbe che venissi a trovarla?
- Subito - rispose Harry cercando di rammentare che ore fossero. Ma
per quanto si sforzasse, la sua memoria gli restituiva soltanto flash
di sale di conferenze e ancora sale di conferenze.
E fu cosć che Gernshon seguć Harry. Erano le nove e mezzo di sera di
un venerdć diciassette del mese di settembre. Harry condusse il
giovane lungo il tragitto facendo di tutto per mantenere viva la
conversazione e quindi distrarre il suo uomo. Lo inform• che era molto
interessato all'argomento viaggi nello spazio. Gli disse, anzi, che
aveva sempre sognato di potersi trasferire su un altro pianeta dove
respirare boccate d'aria purissima a pieni polmoni. Proseguć
rivelandogli che i suoi eroi erano quei biologi che avevano scoperto
la complicatissima struttura del Dna. Confid• poi a Gernshon che la
scienza era tutta la sua vita. Intanto quest'ultimo camminava via via
pi immerso nel proprio silenzio.
- Naturalmente, come la maggior parte degli scienziati, mi sento pi a
mio agio quando ho a che fare con quello che ritengo essere il mio
campo di battaglia, sa com'Š! - s'affrett• ad aggiungere Harry.
- E quale sarebbe il suo campo di battaglia, dottor Kramer? -
interloquć Gernshon pacatamente.
- L'elettricit - rispose Harry e, cosć dicendo, colpć Gernshon sulla
nuca con un massiccio candelabro di ottone che aveva estratto al
momento opportuno dalla tasca del cappotto. L'arma incriminata gli era
costata tre dollari al Monte di Piet.
Avevano oltrepassato negozi e carretti di venditori ambulanti ed erano
giunti in un punto in cui sorgevano magazzini e costruzioni che
ospitavano uffici abbandonati. Non c'erano passanti nei dintorni n‚
ladruncoli n‚ venditori ambulanti n‚ giustizieri n‚ bande di punk.
C'erano soltanto lui e quell'uomo che aveva colpito alla nuca con un
candelabro. Harry pens• che, dopotutto, non poteva considerarsi
migliore di certi teppistelli. Ma, del resto, come avrebbe potuto
comportarsi diversamente? Non aveva altra scelta se non quella di
colpire Gernshon con mano leggera, e cosć aveva fatto, tant'Š che il
giovane torn• in s‚ quasi prima che Harry avesse portato a termine
operazioni quali legargli mani e piedi, bendargli gli occhi e
imbavagliarlo. - Mi dispiace, mi dispiace - non faceva che ripetere
Harry. Gernshon non esibiva certo la cera di una persona alla quale le
scuse potessero importare qualcosa. Harry trascin• il giovane
all'interno del magazzino. Rudy si era addormentato sulle pagine di
"Spicy Stories". Harry si tir• appresso sbuffando il corpo esanime di
Gernshon: doveva pesare sui settantacinque chili - grazie al cielo
l'aveva scelto snello - fino all'angolo del magazzino pi distante
dall'entrata, varc• il cancello e si infil• dentro l'armadio.
- Mi ascolti bene - disse Harry a Gernshon con fare incalzante dopo
avergli tolto l'imbavagliatura, - se la testa le duole molto, sono
disposto a chiamare subito un medico. Si sta riprendendo? Crede che lo
shock possa avere gravi conseguenze?
Gernshon, lungo disteso sul tappeto nella camera di Harry, lo fissava
senza proferire parola.
- Senta, lo so che forse tutto questo le sembrer spaventoso! Comunque
voglio dire che non sono un pervertito n‚ un pazzo; ma pi
semplicemente un nonno con un problemino: sua nipote. E per risolverlo
ho bisogno del suo aiuto. Vedr, non le ruber• molto tempo. Diciamo
che adesso lei si trova "ben oltre" quel luogo dove teneva le sue
conferenze. Sć, ben oltre. Ma non dovr soggiornare qui a lungo,
glielo prometto. Due settimane al massimo, dopodich‚ la far• tornare
indietro, parola mia. E vedr, faremo in modo che anche per lei questo
viaggio risulti un'esperienza importante.
- Mi liberi.
- Sć, certo. Subito, ma a un patto: che lei non mi aggredisca dal
momento che sono l'unica persona in grado di farla tornare da dove Š
venuto. - E nel pronunciare quelle parole Harry ebbe un'illuminazione.
- Diciamo che io sono una sorta di operatore turistico e che lei ora
si trova all'estero con me!
Gernshon gett• un'occhiata attorno a s‚ nella squallida stanzetta. -Mi
liberi - ripet‚.
- Sć, lo far•. Fra due minuti, cinque al massimo. Prima per• voglio
spiegarle alcune cose.
- Dove mi trovo?
- Nel 1989.
Gernshon non aprć bocca. Harry spieg• la situazione in maniera un po'
confusa, parlando il pi in fretta possibile. Disse a Gernshon che lui
aveva la capacit di trasferirsi dal 1989 al settembre del 1937 come e
quando voleva e che poteva aiutarlo a fare altrettanto senza problemi.
Lo inform• che aveva intrapreso quel viaggio particolare pi volte e
che non comportava alcun pericolo. Non manc• di metterlo al corrente
anche del fatto che un misero assegno dell'Assistenza Sociale, datato
1989, poteva valere assai di pi ai valori monetari del 1937. Parl•
anche, en passant, degli strudel di Manny. Sfior• soltanto l'argomento
Jackie poich‚ pens• che si sarebbe presentata un'occasione migliore
per affrontare il tema delle "difficolt familiari". Del suo armadio,
invece, non parl• affatto, anche se gli risultava difficile non posare
lo sguardo sulle ante del medesimo. Ci• che tuttavia non tralasci• di
menzionare fu che nel 1989 era difficile trovare persone che non
fossero amareggiate, che non si sentissero stanche, messe alla berlina
da una vita che non era affatto rose e fiori, che mai riservava una
dolce sorpresa. Harry si accingeva a prodursi in una tirata
sull'innocenza quando Gernshon ripet‚ nuovamente, ma questa volta in
tono pi deciso: - Mi liberi!
- Ma certo - si affrett• a rispondere Harry. - Non mi aspetto che lei
mi creda ciecamente. Perch‚ poi dovrebbe credere di essere stato
sbalzato nel 1989? Ma, prego, lo scopra con i suoi occhi. Guardi
fuori, sono le prime luci del mattino. L'unica cosa che voglio
aggiungere Š: stia attento l fuori! - Dopo quelle parole Harry liber•
Gernshon e rimase per qualche istante con gli occhi ben chiusi in
attesa che accadesse qualcosa.
Poich‚ tutto tacque, li riaprć. Gernshon era gi vicino alla porta. -
Aspetti! - grid• Harry. - Le servir del denaro! - Affond• la mano in
tasca e ne estrasse una banconota da venti dollari, oculatamente messa
da parte per quell'occasione assieme a tutta la moneta di cui
disponeva.
Gernshon valut• il denaro con attenzione senza proferire parola,
dopodich‚ aprć la porta e uscć. A quel punto Harry si lasci• cadere
esausto sulla poltrona e rimase ad aspettare. Il giovane torn• tre ore
dopo: era pallido e in un bagno di sudore. - Mio Dio! - furono le sue
prime parole.
- So cosa sta per dimmi... - lo precedette Harry. - L fuori Š una
giungla. Prenda qualcosa da bere.
Gernshon accett• di buon grado la miscela che Harry gli aveva versato
nel bicchiere solitamente riservato al suo spazzolino da denti. Mentre
trangugiava la bevanda cattur• con lo sguardo la bottiglia che Harry
aveva lasciato sul com•: "Seagram's V.O." si leggeva in minuscoli
caratteri sull'etichetta di metallo. Un attimo dopo scagliava il
bicchiere contro la parete e si nascondeva la faccia fra le mani.
- Mi dispiace - si scus• Harry. - Ma costava soltanto tre dollari e
trentasette centesimi al litro.
Gernshon era impietrito.
- Mi dispiace proprio - ripet‚ Harry allargando le braccia e
lasciandole ricadere subito dopo con fare scoraggiato. - Desidera
forse... un'arancia?

Ma Gernshon si riprese prima di quanto Harry si aspettasse. In capo a
un'ora era gi comodamente sprofondato nella consunta poltrona di
Harry e gli rivolgeva domande sulle navicelle spaziali; due ore dopo
prendeva appunti e tre ore dopo era di nuovo il giovane intelligente e
affascinante che Harry aveva visto alla conferenza. Harry, dal canto
suo, rispondeva come meglio poteva manifestando tutta la pazienza di
cui era dotato; era esterrefatto di fronte alla disponibilit mentale
di Gernshon. Eppure non doveva essere stato facile; se fosse toccato a
lui, Harry, di saltare a piŠ pari cinquant'anni di vita, come si
sarebbe comportato? E se si fosse trovato lui, d'un colpo, nel 2041?
Il solo pensiero gli procur• un brivido.
- Lo sa che andare al cinema costa sei dollari?
Gernshon non lo consider•. - Stavamo parlando dello sbarco sulla luna.
- No, abbiamo cambiato argomento. Adesso voglio rivolgerle io qualche
domanda, Robert. Lei crede che la Terra sia morta? E che le persone
striscino sulla sua superficie come vermi su una carogna? Pensa mai a
cose di questo genere?
- Io... be', no.
Harry approv• con un cenno del capo. - Bene, bene. Pensa mai a sua
madre con disprezzo?
- Ma certo che no. Senta, Harry...
- No, tocca a me fare le domande. Crede che se una donna si sposa e,
poniamo il caso, il matrimonio non funziona perfettamente, ma
dall'unione nasce un bel bambino, anzi, diciamo una bambina, lei crede
che in questo caso la vita di quella donna potrebbe essere definita un
fallimento, una sconfitta?
- No, io...
- Che cosa penserebbe se vedesse disegnate sulla copertina di una
rivista le parti intime femminili?
Gernshon arrossć. Harry ebbe la sensazione che quel rossore lo
infastidisse, ma che non potesse fare nulla per evitarlo.
- Benissimo! - esclam• Harry. - E adesso ci pensi bene prima di
rispondere a quest'altra domanda. Rifletta: la vita Š dolce e amara in
pari dosi?
Gernshon lo fiss•. Harry si accorse che a furia di parlare avevano
saltato il pranzo. - Rifletta. ma mi dia una risposta entro oggi.
- Sć, certo - rispose Gernshon. - Credo che la realt sia pi dolce
che amara, ma soprattutto sia strana. Sć, strana. - Tutto d'un tratto
Gernshon assunse un'espressione confusa. - Mi dispiace, volevo
semplicemente dire che... tutto questo Š successo cosć...
- Metta la testa fra le gambe - gli suggerć Harry. - Va meglio adesso?
Bene. C'Š una persona che vorrei farle conoscere.
Manny era seduto sulla solita panchina al parco. Era tardo pomeriggio
quando vide arrivare Harry e Gernshon e sulla sua faccia si dipinse
un'espressione corrucciata. - Harry, dove sei stato ieri e
l'altroieri? Ero preoccupato, sono venuto a cercarti all'albergo...
- Manny, ti presento Robert - esordć Harry.
- Adesso capisco... - rispose Manny senza tendere la mano al giovane.
- E' lui l'uomo - gli spieg• Harry.
- Harry, Harry!
- Piacere di conoscerla, signore - intervenne Gernshon porgendo la
mano a Manny. - Temo di non aver capito il suo nome. Io mi chiamo
Robert Gernshon.
Manny squadr• il giovane da capo a piedi. Fiss• lo sguardo sulla mano
tesa, pass• poi a studiare l'abito oltremodo ampio e la cravatta
larga, valut• il sorriso educato e quella luminosit negli occhi da
bravo ragazzo. Le labbra di Manny articolarono silenziose la parola:
"signore"?
- Ho un mucchio di cose da raccontarti - disse Harry.
- Puoi raccontarle anche a lei, allora; ecco che arriva Jackie.
Harry guard• in lontananza. Dall'altra parte del parco una donna in
jeans avanzava con passo deciso e veloce nella loro direzione. -
Manny! Ma Š soltanto lunedć!
- Le ho detto io di venire oggi - rispose Manny. - Harry, renditi
conto, sei mancato per due giorni! Nessuno al tuo albergo mi sapeva
dire che fine avessi fatto...
- Ma, Manny, santo cielo! - sbott• Harry mentre Gernshon guardava
l'uno e l'altro con la fronte aggrottata. Nel contempo Jackie li aveva
individuati e li salutava sventolando la mano.
Era dimagrita ancora, constat• Harry. Non erano passate pi di due
settimane dall'ultima volta che si erano visti, eppure le guance
parevano pi scavate e nuove piccole rughe le sfioravano gli occhi.
Rughe stente che colmarono di tristezza il cuore di Harry. Sua nipote
indossava una maglietta sulla quale campeggiava la scritta: LA VITA E'
BASTARDA... E POI MUORI. Sottobraccio aveva una rivista e una
bomboletta simile a quelle contenenti lacca per capelli, ma che celava
in realt una sostanza lacrimogena.
- Popsy! Eccoti qua. Manny mi ha detto che...
- Manny si Š sbagliato - la interruppe Harry. - Jackie, tesoro, il tuo
aspetto Š... be', sono felice di vederti. Vorrei presentarti una
persona - ecco, questo Š Robert, un mio amico. Robert ti presento
Jackie Snyder - aggiunse infine rivolgendosi a Gernshon.
- Salve - disse Jackie. Abbracci• Harry e poi anche Manny. Harry not•
che il giovane aveva fissato lo sguardo sui jeans attillatissimi di
lei.
- Robert Š uno... scienziato - la inform•, ma non si tratt• di
un'uscita felice e Harry capć, nel medesimo istante in cui aprć bocca,
che non era il modo giusto di esordire. La scienza, intesa in senso
lato, era un argomento tab per Jackie. Lei si ravvi• i capelli con
una scrollata del capo scoprendo finalmente gli occhi. - Ah, davvero?
Spero che non ti occupi di chimica.
- Be', vorrei precisare che non sono uno scienziato nel vero senso
della parola - si schermć Gernshon gentilmente. - Preferisco
considerarmi un divulgatore di nuovi concetti scientifici; mi diletto
a scrivere di scienze per rendere tali argomenti comprensibili a
tutti.
- E quali sarebbero questi nuovi concetti scientifici? - chiese
Jackie.
Gernshon era sul punto di spiegarsi meglio, ma non ci riuscć. Un
ragazzino gli sfrecci• davanti scivolando su uno skateboard e lanci•
un petardo che per un istante assord• tutti loro.
Quasi contemporaneamente un aereo pass• sopra le loro teste
accompagnato da un rombo. - E' difficile spiegarlo - riprese Gernshon
abbozzando un sorriso.
- Guarda che il mio cervello funziona; anche le donne sono in grado di
afferrare argomenti del genere - osserv• Jackie gelida.
- Jackie, tesoro - intervenne Harry, - che cosa hai portato con te? Il
tuo nuovo libro?
- No - rispose Jackie. - Si tratta di quel libro che ti avevo
promesso. Non l'ho scritto io, ma un mio amico. E' fantastico!
Racconta la storia di un uomo che viene buggerato dal suo socio in
affari il quale, a sua insaputa, vende la societ a un'organizzazione
criminale e cosć finisce che il poveretto si ritrova incastrato. In
prigione quest'ultimo conosce un tizio che ha fondato una setta
religiosa, La Casa della Divina Disperazione, e quando i due escono di
lć avviano una nuova attivit, La Suicidi Associati, e aiutano le
persone a togliersi la vita a prezzi fissi. Insomma, il libro Š un
formidabile atto d'accusa nei confronti dell'America d'oggi.
Gernshon emise una sorta di flebile lamento.
- E' una commedia - aggiunse Jackie.
- Suona un po'... come dire, deprimente - azzard• Gernshon.
Jackie si volse verso di lui e scandć: - E' la realt.
Harry vide Gernshon guardarsi attorno: un uomo seduto su una panchina,
la testa ciondoloni, le mani abbandonate in grembo; giornali e
cartocci di MacDonald's sospinti dal vento e avvolti in una nuvola di
polvere; un cestino dell'immondizia rovesciato per terra. Nei pressi
di un albero rinsecchito e recintato da una struttura di ferro battuto
alta circa un metro, un ragazzino li osservava con occhi da vecchio.
- Ti ho portato un'altra cosa, Popsy - disse Jackie. Harry sperava che
Gernshon notasse come si addolciva la voce di Jackie quando si
rivolgeva a lui. - Guarda, una sciarpa. E' di pura lana di lama. Tiene
caldissimo!
- Mia madre ha una sciarpa uguale a questa - osserv• Gernshon. - No,
anzi, forse non Š di lana la sua, ma di pelliccia.
La faccia di Jackie mut• espressione. - Che tipo di pelliccia?
- No... non sono sicuro che si tratti di pelliccia.
- Spero proprio che non sia di qualche specie in via d'estinzione.
- No, certo che... Sicuramente non Š la pelliccia di un animale che
rischia di scomparire.
Jackie lo fiss• un po' pi a lungo. Il ragazzetto che li osservava da
un po' s'incammin• proprio nella loro direzione. Harry vide Gernshon
guardare quel tipino con un moto di sollievo; doveva essere sugli
undici anni ma indossava gi un abito dal taglio perfetto e scarpe di
fattura italiana. Manny si spost• per porsi fra Gernshon e il
ragazzino. - Jackie, tesoro, Š sempre un piacere rivederti.
Il ragazzino sfior• Gernshon e lo oltrepass• a testa bassa mentre con
voce infantile, quasi un sussurro, diceva: - Crack...
- Basta prenderne uno e con lo stesso stampo ogni mamma fa il suo -
comment• Gernshon allegramente rivolgendo un sorriso complice a Harry,
intendendo dire che almeno i ragazzini non erano cambiati nonostante
fossero passati cinquant'anni. Ma, avendo sentito le parole di
Gernshon, il ragazzino si era voltato di scatto nella sua direzione.
- Che cosa hai detto di mia madre?
Jackie emise una sorta di grugnito. - No, non parlava con te, lascia
perdere - gli disse.
- Sono un tipo che non perdona, io - sbott• l'altro e, cosć dicendo,
si allontan• camminando all'indietro con passi lenti.
- Mi dispiace. Non ho capito bene che cosa sia successo, ma mi
dispiace - disse Gernshon accigliato.
- Scherzi o dici sul serio? - scatt• Jackie astiosa. - Che diavolo ti
Š saltato in mente. Non lo sai che questo parco Š l'unico luogo dove
Manny e mio nonno possono respirare un po' d'aria buona?
- Ma io... io intendevo...
- Quello spacciatore faceva sul serio quando ha detto che non perdona!
- Non mi piace affatto il tuo tono, n‚ il tuo linguaggio - obiett•
Gernshon.
- Il mio linguaggio? - scatt• Jackie serrando le labbra. Manny guard•
Harry e si coprć la faccia con le mani. A una decina di metri da loro,
il ragazzino di poco prima emise d'un tratto un urlo come quello di un
animale sgozzato, talmente acuto che tutti e quattro si voltarono di
scatto verso di lui. Due ragazzi grandi e grossi si stavano gi
dirigendo di gran carriera nella sua direzione. La faccia del bambino
si contorse in una smorfia; all'improvviso sembrava persino pi
piccolo della sua et. Prese a correre come un disperato, inciamp•,
emise un secondo urlo strozzato e si precipit•, come in preda a un
terrore che non aveva nulla di umano, verso la strada, superando una
panchina sull'orlo del parco.
- No! - grid• Gernshon. Harry si volt• nella direzione di provenienza
dell'urlo, ma Gernshon non era gi pi nei paraggi. Un attimo dopo
Harry vide un camion mastodontico sopraggiungere sulla strada a
velocit sostenuta, capt• l'urlo di Jackie e subito gli si present•
agli occhi la scena di Gernshon che con il suo corpo agile e muscoloso
si avventava sul ragazzino. Il camion pass• oltre i due accompagnato
da un gran stridore di freni.
Gernshon e il ragazzetto si rimisero in piedi sul lato opposto della
strada.
I clacson delle auto di passaggio risuonarono nelle loro orecchie. -
Lasciami stare il vestito! Mi hai rovinato il vestito! - sbrait• il
ragazzo. Una luce rossa lampeggia in lontananza e una pattuglia della
polizia si ferm• nei pressi dei due. La coppia di ragazzi grandi e
grossi se la diede a gambe e un secondo dopo, come per incanto, anche
il ragazzino tratto in salvo da Gernshon se l'era squagliata.
- Se l'Š filata - disse il poliziotto con fare scoraggiato sporgendosi
dal finestrino dell'auto sulla quale non spiccava nessuna scritta. -
Forse Š meglio cosć. - E se ne and• anche lui.
- Si Š fatto male? - chiese Manny a Gernshon aprendo per la prima
volta la bocca. Il giovane esibiva un colorito cinereo e Harry gli
mise un braccio attorno alle spalle.
- No - rispose Gernshon rivolgendo a Manny un sorriso dolce. - Mi sono
soltanto sporcato un po'...
- Che fegato! - fu il commento di Jackie mentre, con la fronte
aggrottata, osservava Gernshon. - Perch‚ l'hai fatto?
- Prego?
- Perch‚? CioŠ, visto che il ragazzo Š quel poco di buono che Š,
insomma, dal momento che tutto, in questo posto... - abbracci• con un
movimento delle braccia il parco intero; la sua faccia assunse
un'espressione indifesa mentre gesticolava con le mani giovani e forti
e Harry si sentć stringere il cuore. - Insomma, perch‚ prendersi la
briga? - aggiunse.
- Un poco di buono? Si tratta di un ragazzino e basta...
Manny lo guardava con aria scettica. Harry si spost• davanti all'amico
per nascondere con il proprio corpo la sua faccia e prevenire domande
da parte del giovane. - Sentite, m'Š venuta un'idea. Sembra che voi
due abbiate tante cose su cui discutere, argomenti del tipo: perch‚
aiutare il prossimo, eccetera... Perch‚ non andate a cena assieme?
Offro io... ho voglia di farvi un regalo! - Estrasse dalla tasca un
altro biglietto da venti dollari; alle sue spalle avvertć Manny
agitarsi.
- Oh, no, non posso accettare - protest• Gernshon nel medesimo istante
in cui Jackie interveniva perentoria con un: - Popsy...
Harry si prese la faccia fra le mani e la preg•: - Accetta, Jackie,
fallo per me. Di' di sć, senza domande, senza tirare in ballo la
questione femminile. Soltanto per questa volta; fammi un piacerino,
Jackie.
Jackie rimase in silenzio per un interminabile istante prima di
prodursi in una smorfia, ma infine annuć rivolgendo a Gernshon
un'occhiata vagamente ironica.
Quest'ultimo si schiarć la voce e disse: - Be', veramente, sarebbe
meglio se andassimo a cena tutti e quattro insieme. Mi sento un po' in
imbarazzo, ma devo dire che i prezzi sono decisamente pi alti in
questa citt rispetto a... be', non so... ma se andassimo in un locale
non troppo caro, preferirei: che ne direste di una tavola calda? Sono
certo che potremmo trovarci bene tutti e quattro.
- No, no - intervenne Harry. - Noi abbiamo gi mangiato - e, su quella
dichiarazione, si sentć subito addosso gli occhi di Manny.
- Certamente non voglio... amico, cosa credi che stia bollendo in
pentola? Si tratta soltanto di fare un piacere a mio nonno. Hai forse
paura che ti salti addosso? - cominci• Jackie inalberandosi.
Harry not• la fugace, del tutto involontaria, occhiata che Gernshon
lanciava agli attillatissimi jeans di Jackie. Capć pure che il giovane
si era pentito subito dopo di non essere stato capace di deviare lo
sguardo. Harry vide che anche Manny e Jackie avevano fatto caso a quel
particolare e che Gernshon stesso si era accorto di essere stato
beccato. Manny si lasci• scappare una sorta di mugolio. Sulla faccia
di Jackie si stava addensando un'espressione talmente torva che Harry
rimase di stucco quando Gernshon si rivolse a lei con inaspettato
savoir-faire.
- No, certamente non mi aspetto che tu mi salti addosso - le rispose
con fare pacato. - Esiste un'altra ragione per la quale preferirei che
andassimo a cena tutti e quattro insieme. Io sono molto legato a mia
moglie, Jackie, e non farei mai nulla che potrebbe anche minimamente
ferirla. Pu• anche darsi che tutto ci• vi sembri bislacco, ma Š cosć!
Harry rimase di stucco, a bocca aperta. Manny cominci• a tremare.
Harry sper• tanto che l'amico non fosse in procinto di lasciarsi
andare a una sonora risata. Invece, Jackie, dopo aver fissato Gernshon
per un po', si illumin• in volto con uno dei sorrisi pi spontanei che
Harry le avesse mai visto sulle labbra.
- Ehi! - esclam• Jackie a bassa voce. - Ci• che hai detto Š molto
carino, davvero! Maledettamente, genuinamente carino!
Bruscamente il tempo cambi•; la temperatura scese di diversi gradi: si
respirava aria di neve, ma non fiocc•. Tutti i pomeriggi Harry e Manny
si incontravano per fare assieme una breve passeggiata, poi andavano
al club degli scacchi, in un caffŠ, alla stazione degli autobus o in
una biblioteca dove c'era un banco un po' nascosto sul quale i due
potevano mettersi a mangiare senza essere visti. In occasione di uno
di questi incontri Harry port• a Manny un prelibato panino con
maionese (gli era costato sessantatr‚ centesimi) e un paio di guanti
di lana d'importazione, comprati per un dollaro a una svendita di fine
stagione.
- Allora, dimmi, dove sono andati, oggi? - chiese Manny il sabato del
loro incontro togliendosi i guanti per sbirciare il contenuto del
panino che teneva in mano e che annus• deliziato. - Salsa cren, la mia
preferita. Ti sei ricordato, Harry.
- Al museo, credo - rispose Harry con aria abbattuta.
- Quale museo?
- Cosa vuoi che ne sappia. Robert non mi ha detto altro che: "Oggi
andiamo al museo, Harry", tutto qui. Se n'Š uscito alle otto del
mattino senza aggiungere altro.
Manny smise per un attimo di masticare. - Ma quale museo apre alle
otto del mattino?
Harry pos• sul tavolo il suo pane di segale imbottito con pastrami, da
trentanove centesimi. Aveva perso qualche chilo negli ultimi giorni.
- Forse si accontentano di fare un po' di conversazione. Sai, Harry, i
giovani d'oggi parlano molto... - s'affrett• ad aggiungere Manny.
Harry lo squadr• torvo. - Intendi dire che tu e Leah, quando eravate
giovani, e avevate occasioni di restare soli, passavate il tempo a
fare conversazione?
- Harry, faresti meglio a parlare subito con quel Gernshon. No, anzi,
con lei. - Poi, dopo aver riflettuto meglio, decise: - No, scusa, Š
meglio che tu parli con lui.
- Parlare non servir a niente - ribatt‚ Harry. Era pallido e le sue
parole suonavano decise. - Devo rimandare Gernshon da dove Š venuto.
- Rimandarlo da dove Š venuto?
- Manny, ma capisci? Gernshon Š sposato. Io volevo aiutare Jackie,
dimostrarle che la vita pu• riservare momenti felici, che non Š sempre
una battaglia. Quali momenti felici credi che potr vivere se si
innamorer di un uomo sposato? Sai come finiscono queste cose?
Jackie... - a quel punto gli si strozz• la voce in gola. Come era
potuto accadere tutto ci•? Proprio a lui che desiderava soltanto il
bene di Jackie. Perch‚ era finita cosć? - Deve tornare da dove Š
venuto, Manny.
- Ma come? - chiese Manny venendo all'aspetto pratico della faccenda.
- Non puoi colpirlo di nuovo alla testa. L'altra volta t'Š andata bene
e lui si Š risvegliato, ma potrebbe andarti male e tu non vuoi averlo
sulla coscienza, vero? E se gli facessi vedere il tuo?
- Il mio armadio? Manny, se soltanto per una volta tu accettassi di
venire con me, per un dollaro potresti avere...
-...sć, se tu gli facessi vedere come funziona il tuo armadio, poi lui
potrebbe tornare qui in qualsiasi momento lo desideri. Dunque, vediamo
come potresti agire...
Un baccano improvviso fece sussultare in due vecchi; stava
sopraggiungendo qualcuno. - I bibliotecari! - sussurr• Manny. Entrambi
si affrettarono a sgombrare il banco e a ficcare i sandwich, la birra
da quindici centesimi e lo strudel nei sacchetti della spesa. Manny,
colto dal panico, vi gett• dentro anche i guanti di lana. Harry ripulć
il banco dalle briciole. Quando l'intruso svolt• l'angolo formato da
due scaffali di libri, Harry era chino su "L'arte di creare fiori di
carta" e Manny su "Porcellane della Dinastia Yung Cheng". E l'intruso
era: Robert Gernshon.
Il giovane si lasci• cadere su una sedia. Era cinereo. In una mano
stringeva un fascicolo di fogli, la scrittura che campeggiava su uno
di questi era un inseguirsi di scarabocchi scritti con mano
tremolante.
Dopo un attimo di silenzio, Manny esordć diplomaticamente: - Da dove
viene, Robert?
- Dov'Š Jackie? - domand• Harry.
- Jackie? - ripet‚ Gernshon con voce roca. Harry capć a quel punto che
il giovane aveva pianto e ne rimase sconvolto. - Non lo so, sono
giorni che non la vedo.
- Giorni? - chiese Harry.
- No, cioŠ, io... io...
Manny si mise a sedere ritto sulla sedia; fiss• intensamente Gernshon
da sopra le pagine di "Porcellane della Dinastia Yung Cheng" e poi
abbass• il libro sul banco. Si and• a sedere vicino a lui e con
delicatezza gli prese i fogli di mano. Gernshon si chin• sopra il
tavolo e nascose la testa fra le braccia.
- Mi dispiace terribilmente, mi sono comportato come un bambino... -
disse, sconquassato dai singhiozzi. Manny sparpagli• i fogli sul banco
della biblioteca. Oltre agli appunti scritti a mano c'erano pure due
libriccioni, uno dalla copertina nera e l'altro pi simile a un
pamphlet. I titoli: "Memorie da Auschwitz" e "Conto alla rovescia per
Hiroshima".
Per un lungo istante nessuno dei tre aprć bocca. Poi Harry, senza
rivolgersi a nessuno in particolare, esordć: - Pensavo che andasse a
visitare i musei delle scienze e delle tecniche.
Con fare quasi casuale Manny cinse con un braccio il giovane Gernshon.
- E cosć adesso sa che sar meglio per lei se si terr alla larga da
questi due luoghi. Tanta gente avrebbe dovuto essere avvertita in
anticipo. - Harry non aveva mai visto sulla faccia di Manny
l'espressione che esibiva in quel momento e gli suon• del tutto nuova
pure la voce con la quale il suo amico gli disse: - Hai ragione tu,
Harry. Deve tornare indietro.
- Ma Jackie...
- Jackie pu• benissimo cavarsela senza la "dolcezza" di questo giovane
- replica Manny aspro. - Suvvia, dimmi che cosa c'Š di cosć terribile
nella sua vita da richiedere tutto questo? Versa forse in fin di vita?
E' indigente? E' forse un mostro di bruttezza? C'Š qualcuno che la
minaccia nel cuore della notte? Avanti, Harry, lascia che Jackie trovi
da s‚ la strada della felicit! Ci riuscir, vedrai.
Harry rispose con un gesto d'impotenza. L'espressione decisa che
campeggiava sulla faccia di Manny non venne meno; una scultura lignea
illuminata dalle aspre luci al neon. - Il problema Š anche lui...
Manny, penso a tutte le cose che sa, adesso.
- Avresti dovuto pensarci prima, non adesso!
Gernshon sollev• lo sguardo. - Non dica cosć, mi dispiace... E' stata
la scoperta... non avrei mai creduto che gli esseri umani...
- No - intervenne Manny. - Gli esseri umani possono essere molto
crudeli. E dunque, lei Š venuto qui in biblioteca ogni giorno, e ha
letto tutto quello che c'Š da leggere?
- Sć, e ho visitato anche alcuni musei. Vi ho visto entrare qui altre
volte. Ho letto molto... volevo sapere.
- E cosć adesso sa tutto - osserv• Manny con il medesimo tono di voce
di poco prima, sorprendentemente duro e distaccato al tempo stesso. -
Anche lei sopravviver.
- Jackie Š al corrente di tutto questo? Sa che si sta dedicando allo
studio della storia? - gli domand• Harry.
- No.
- E lei Robert, che cosa se ne far ora di tutte queste informazioni?
Harry trattenne il respiro; e se Gernshon avesse rifiutato di tornare
indietro? Il giovane rispose a quella domanda lentamente: - Dapprima
avevo deciso di non tornare, di dimenticare la mia vita laggi.
Pensavo: "Come potr• sopportare la seconda guerra mondiale, i campi di
concentramento?". Vede, io ho dei parenti in Polonia. E poi la bomba
atomica, la guerra di Corea e i gulag, il Vietnam, la Cambogia, il
terrorismo, l'Aids...
- Non si Š lasciato sfuggire proprio nulla, eh - mormor• Harry.
-...assistere a tutto questo impotente, senza nemmeno il beneficio
della speranza; sapere che tutto ci• sta gi scritto nel grande libro
della storia. Come potr• rimanere a guardare conoscendo gi il tragico
finale di ogni evento?
- Tutto dipender da quale angolazione vorr guardare alla storia -
osserv• Manny, ma Gernshon non parve sentirlo.
- Tuttavia non posso rimanere qui, laggi c'Š Susan che mi aspetta...
noi desideravamo un bambino... adesso ho bisogno di tempo per
decidere.
- No, non c'Š tempo per decidere - intervenne Harry. - Robert, lei
deve tornare. Ammetto che Š stato tutto un errore. Mi dispiace, ma
deve tornare.
- Il Libano, il Ddt, la Rivoluzione Culturale, il Nicaragua, il
disboscamento, l'Iran... - recit• il giovane.
- La penicillina - aggiunse Manny come illuminato, e la sua barbetta
tremol•. - I diritti civili, il Mahatma Gandhi. Il vaccino antipolio.
E poi... le lavatrici! - Harry fiss• l'amico con aria sconcertata; che
un tempo avesse lavorato in una lavanderia manuale?
- Certo, volendo guardare al futuro con pi pessimismo si vedono:
Hitler, Auschwitz, Hoovervilles, il grande fungo atomico di Hiroshima
- proseguć Manny in tono sempre pi pacato.
- Io non so da che punto voglio guardare il futuro - confess•
Gernshon. - Devo pensarci. E' tutto troppo complicato... e poi c'Š
anche quella ragazza.
Harry s'irrigidć. - Jackie?
- No, no, una ragazza che io e Jackie abbiamo conosciuto un paio di
giorni fa in un caffŠ. Come Š entrata non riuscivo a credere ai miei
occhi. Pi la guardavo e pi la confusione non mi permetteva di
capire. E probabilmente anche lei provava le mie stesse sensazioni,
almeno cosć credo. Capite, quella ragazza era identica a me in tutto e
per tutto... non saprei spiegarvi, Š difficile. Comunque io sentivo
che anche lei viveva in quel momento il mio medesimo stato d'animo.
L'ho salutata, ma non mi sono presentato, non ho osato. - A quel punto
la sua voce si ridusse a un sussurro. - Credo che quella ragazza sia
mia nipote.
- Oh, Dio! - esclam• Manny.
Gernshon si alz• in piedi, fece cenno di raccogliere i suoi fogli e i
due libretti, poi ci ripens• e li lasci• perdere. Anche Harry si alz•
e in modo cosć brusco che Gernshon non pot‚ fare a meno di scoccargli
un'occhiata severa dall'altro capo del banco della biblioteca. - Vuole
colpirmi di nuovo, Harry? Ha forse intenzione di uccidermi?
- Ucciderla? Ma cosa dice! - intervenne Manny con tono cortese. -Pensa
forse che uno di noi sarebbe capace di tanto, Robert?
- In un certo senso mi avete gi ucciso; non c'Š dubbio che ora non
sono pi quello di prima.
Manny si strinse nelle spalle. - E dunque perch‚ non provare a essere
una persona migliore?
- Dannazione, credo proprio che non capiate il mio dramma!
- No, Š lei che non capisce, si comporta come un bambino. Cosć stanno
le cose e non c'Š nulla che lei possa fare per cambiare il corso della
storia. Qualsiasi cosa lei possedesse prima di arrivare qui, pu•
ritrovarla in questa nostra epoca. Mi dica un po': in tutti quei libri
che ha letto ha forse trovato scritto qualcosa su di s‚, qualcosa di
personale? Si Š ritrovato nei libri di storia? O forse nel materiale
archiviato in questa biblioteca?
- Ci vogliono due settimane di tempo affinch‚ l'anagrafe possa portare
a termine le ricerche dei certificati di nascita e morte - rispose
Gernshon abbattuto.
- Quindi lei, Robert, non ha perso nulla, perch‚ in verit non sa
proprio niente - osserv• Manny. - Tutto quello che sa Š storia, e la
storia Š alla portata di tutti. Se vorr, di fatti storici potr
apprenderne molti altri e non le coster nulla, sar invece l'uso che
della storia far ad avere un suo prezzo.
Gernshon era immobile, non dimostrava in alcun modo di approvare quei
discorsi; pos• il suo sguardo su Manny e d'un tratto nei suoi tristi
occhi nocciola Harry colse un guizzo che lo indusse a liberarsi di un
sospiro a lungo trattenuto inconsciamente. Ed ecco che come per
incanto il vecchio fra loro era Gernshon con i suoi cinquantadue anni
in pi acquisiti nel breve arco di una settimana; appariva di gran
lunga pi vecchio di quanto lo fosse stato Harry tornando a quel
millenovecentotrentasette dei "Capitani coraggiosi", dei cappelli a
tesa larga e dei lindi parchi cittadini. Ma quella di Gernshon era
un'epoca generosa alla quale il giovane sarebbe tornato volentieri;
erano tempi che Harry stesso avrebbe scelto per s‚ se non fosse stato
per Jackie e Manny... e Harry non riuscć a guardare Gernshon mentre
questi si allontanava lungo il corridoio stretto fra due file di
scaffali stipati di libri, avanzando nell'aria polverosa come se
camminasse sull'acqua.
D'un tratto Gernshon si ferm•, non si volt• verso i due vecchi, ma
parlando da sopra la spalla disse: - Torner• indietro, stanotte
stessa. Lo far•.
Quando se ne fu andato, Harry non pot‚ fare a meno di confessare: - E'
tutta colpa mia.
- Sć, Harry - convenne Manny.
E, in un certo senso, il fatto che tutto dipendesse da lui complicava
oltremodo la questione.

Gernshon accett• di farsi bendare, dopodich‚ Harry lo condusse
attraverso l'armadio, il magazzino e poi lungo le strade. Nessuno dei
due si dimostrava particolarmente abile nel procedere in quelle
condizioni; in pi occasioni finirono l'uno addosso all'altro per poi
riprendere il cammino con passo esitante e tornare a inciampare nel
nulla. Quand'erano ancora nel magazzino, per un soffio Gernshon non
and• a sbattere contro una delle cataste di legna, si salv• soltanto
grazie a uno strattone che giunse, deciso, da parte di Harry e che
procur• a quest'ultimo un indolenzimento dorsale. A un certo punto del
loro cammino, Harry si ferm• dietro l'angolo di un edificio, piegato
in due dal dolore; da lć rimase a osservare Gernshon che si toglieva
la benda e si allontanava poi con passo incerto stringendo gli occhi
alla luce forte del mattino.
Nonostante l'acuto dolore alla schiena implorasse Harry di tornare a
casa, lui scoprć di non poterlo fare. Perch‚ no? Semplicemente perch‚
non poteva! Attese che Gernshon fosse un puntolino all'orizzonte,
dopodich‚ si diresse con andatura sghemba al parco. Una giostra girava
accompagnata da una vivace musica d'organetto dal titolo: 24
settembre. Due bambini che non aveva mai visto prima se ne stavano in
piedi a breve distanza dalla giostra e la guardavano con occhi colmi
di desiderio, ma con espressioni rassegnate. Sulle linde aiuole
brillavano costellazioni di fiori. Un negro pass• di lć, la testa
china, gli occhi inchiodati al marciapiede. Due ragazzine saltavano la
corda sotto la vigilanza benevola di una donna in uniforme bianca e
blu. Sul marciapiede, proprio al di l della giostra, qualcuno aveva
disegnato con un gessetto una svastica. Il negro ci pass• sopra con il
suo passo strascicato. Una Lincoln Zephyr V-12 sfrecci• lungo la
strada; era un'automobile che valeva millenovanta dollari. Pur con
tutta la pi buona volont Harry non sarebbe mai riuscito a farla
entrare nell'armadio.
Quando Harry torn• dal suo viaggetto, trov• Manny che dormiva come un
ghiro rannicchiato sul copriletto di ciniglia bianco, pagato tre
dollari e ventotto centesimi.

- Che cosa ho risolto, Manny? - chiese Harry amaramente. Era l'alba di
una giornata luminosa e calda, un'estate indiana insperatamente
piacevole. Gli alberi del parco ostentavano rami nudi che si
stagliavano contro lo sfondo turchino del cielo. Manny indossava un
vetusto maglione rosso, mentre Harry portava una camicia da lavoro di
flanella. Harry era seduto a disagio sulla panchina, di tanto in tanto
cambiava posizione e, a ogni movimento, una smorfia gli si disegnava
sul viso. Era domenica e le persone che erano andate a passeggiare nel
parco lo lordavano sbarazzandosi di involucri di gelato, mozziconi di
sigarette, lattine di coca-cola, pop-corn, fazzolettini di carta e
persino giornali. Le strilla dei bambini che giocavano facevano a gara
con le urla roche dei piccioni litigiosi.
- Adesso l'atteggiamento di Jackie nei confronti della vita sar
persino pi duro di prima. Dopotutto, perch‚ dovrebbe essere
diversamente? - osserv• Harry. - Finalmente aveva conosciuto un tipo
in gamba... e ora non rivedr mai pi quest'uomo. E io non ho fatto
nulla per alleviare la sofferenza di Gernshon: prima ho rovinato la
sua vita, poi ho rovinato la mia schiena e alla fine di tutto questo
non mi rimane che un grande senso di colpevolezza. Non c'Š pi rimedio
a niente, Manny.
Manny non rispose; guardava in lontananza a occhi stretti
l'andirivieni lungo il vialetto serpeggiante.
- Non so che pesci pigliare, Manny. Non so nemmeno pi cosa dire.
- Guarda, sta arrivando Jackie - esordć d'un tratto Manny.
Harry sollev• lo sguardo. Strinse gli occhi, li strabuzz•, fece per
alzarsi, ma la schiena glielo impedć. Cosć rimase seduto dov'era con
gli occhi sgranati.
- Popsy! - esclam• Jackie. - Cercavo proprio te!
Jackie era raggiante. Harry not• subito che le rughe avevano
abbandonato il contorno dei suoi occhi, cosć come quell'espressione
dura non tendeva pi i suoi tratti. Harry pens• sbigottito che persino
l'andatura di Jackie sembrava pi sciolta. La luce diffusa della
felicit creava una sorta di alone tutt'attorno a lei. Teneva per mano
una donna snella dai capelli rossi, i lineamenti marcati e gli occhi
nocciola dallo sguardo diretto.
- Ti presento Ann - disse Jackie. - Devo dirti una cosa, Popsy. -Si
sedette sulla panchina a fianco di Harry, che rimase stretto fra lei e
Manny, e gli fece scivolare il braccio sulla spalla continuando a
stringere la mano di Ann la quale sorrideva con fare incoraggiante.
Manny fissava la donna come se avesse visto un fantasma.
- Vedi, Popsy, a lungo io mi sono trovata a combattere per ottenere
qualcosa che per me era molto importante. So di essere stata spesso
brusca e cattiva, ma non volevo... be', io credo che tutti abbiano
bisogno di qualcuno da amare, questo me l'hai ripetuto spessissimo
anche tu e so bene quanto siate stati felici tu e la nonna per tanti
anni. Pensavo che io non avrei mai conosciuto quel tipo di felicit e,
vedi, un sacco di persone attorno a me rendevano ogni mio tentativo di
sperare il contrario molto difficile. Ma ora... be', ora c'Š Ann al
mio fianco, e io volevo che tu lo sapessi.
La stretta di Jackie sulla spalla di Harry si fece un po' pi decisa e
il suo sguardo divenne supplichevole. Ann guard• Harry fisso negli
occhi. E lui si sentć come se fosse sul punto di annegare.
- Lo so che per te il mio nuovo atteggiamento nei confronti della vita
deve giungere come uno schock - proseguć Jackie. - Ma so anche che hai
sempre desiderato che io fossi felice. Quindi spero che vorrai bene ad
Ann come gliene voglio io.
Harry punt• lo sguardo dentro agli occhi della donna dai capelli
rossi. Capiva perfettamente cosa gli stava chiedendo sua nipote, ma
non credeva alle proprie orecchie, non gli sembrava possibile, cosć
come gli era difficile credere che altrove, in altri paesi lontani da
lć, il tempo atmosferico fosse decisamente diverso. Uragani, siccit,
soli cocenti mentre magari lć una pioggerellina gelida penetrava fin
nelle ossa.
- Credo che di tutte le persone che ho conosciuto in vita mia Ann sia
la pi "normale", la pi sensibile, la pi dotata di un'onest morale.
- Ummm - mugugn• Harry.
- Popsy?
Jackie lo guardava fisso. Pi lui rimaneva in silenzio e pi il
sorriso sulle labbra di lei svaniva e questa volta, Harry lo aveva
notato, nel sorridere Jackie aveva scoperto finalmente i denti. Erano
bianchissimi, regolari e anche molto aguzzi.
- Io... io... ciao, Ann - disse infine Harry.
- Vedi, Ann, te l'avevo detto che sarebbe stato un tesoro! - grid•
Jackie rivolgendosi alla donna. Sciolse Harry dall'abbraccio e con un
saltino si alz• dalla panchina, sprigionando energia e felicit. - Sei
fantastico, Popsy! Anche tu, Manny. Ah, dimenticavo, questo Š Manny
Feldman, il migliore amico di Popsy. Manny ti presento Ann Davis.
- Piacere di conoscerla - disse Ann che aveva una voce bassa, roca e
un sorriso dolce. Harry continuava a pensare al fenomeno degli opposti
agenti atmosferici in diverse parti del mondo e si sentiva in balia di
uragani, vittima di siccit e soli cocenti.
- So bene che non vi aspettavate tutto questo - ribadć Jackie.
- Non ce l'aspettavamo - ripet‚ Harry e non riuscć ad aggiungere
altro.
- Il fatto Š che era giunto il momento per me di uscire dall'armadio -
continu• Jackie.
Su quelle parole Harry emise un flebile lamento. Manny riuscć invece a
chiedere: - Quindi lei vive qui, Ann?
- Oh, sć. Vivo qui da sempre e anche la mia famiglia vive qui.
- Jackie... Jackie ha gi conosciuto qualcuno della sua famiglia?
- Non ancora - intervenne Jackie. - Credo che sia un po' complicato
combinare un incontro con i suoi genitori; ma vedremo di fare anche
questo.
- Sai, Jackie, vorrei tanto che tu avessi conosciuto mio nonno. Credo
proprio che lo avresti trovato fantastico almeno quanto il tuo Popsy.
Era un tipo in gamba - disse Ann.
- Era? - ripet‚ Harry debolmente.
- Sć, purtroppo Š morto un anno fa. Ma io lo ricordo ancora come un
uomo favoloso, sensibile e molto intelligente.
- E cosa... cosa faceva?
- Insegnava storia all'universit e poi era molto attivo come membro
di alcune associazioni umanitarie quali Amnesty Intemational, l'Aclu e
altre. Durante la Seconda guerra mondiale fu membro delle leghe
ebraiche di liberazione, aiutava gli ebrei a fuggire dalla Germania.
Manny annuć. Harry riuscć a vedere ancora una volta i denti di Jackie.
- Ci piacerebbe avervi a cena da noi, presto - disse Ann con un
sorriso. - Sono una buona cuoca, sapete?
Manny aveva gli occhi lucidi.
- So che dev'essere duro per voi... - disse Jackie; ma Harry capć che
sua nipote non pensava sinceramente che per loro tutto ci• fosse
difficile da accettare. Per lei era tutto normale come il sole nel
cielo, inaspettato forse, ma di certo non strano, e nemmeno fuori dal
comune, fuori dal tempo. Sul marciapiede, davanti alla panchina
dov'erano seduti, raggi di luce solari disegnavano lunghe strisce.
D'un tratto Jackie disse: - Ehi, Popsy, ma lo sai che Š stato il tuo
amico Robert a farci conoscere? Te ne avevo gi parlato?
- Sć, tesoro - rispose Harry. - Sć, me ne avevi gi accennato.
- Sai, Š un tipo un po' imbranato, ma tutto sommato Š in gamba.
Quando Jackie e Ann se ne furono andate i due vecchi rimasero a lungo
in silenzio. Poi, finalmente, Manny disse con fare diplomatico: - Vuoi
una merendina, Harry?
- Secondo te Š felice, Manny?
- Sć. Ti ho chiesto se vuoi una merendina.
- Pensa, non lo ha nemmeno riconosciuto.
- No. Ripeto: vuoi una merendina?
- Tieni, prendi questa. L'ho comprata stamattina apposta per te -disse
Harry allungando all'amico un'arancia, una sorta di palla dal colore
carico e dalla buccia levigata. Il frutto era grosso, polposo,
certamente succoso e privo di semi, era stato coltivato per essere
cosć: perfetto.
- Buon appetito, Manny - augur• Harry. - Quest'arancia l'ho pagata
novantadue centesimi.

Titolo origine: "The Price of Oranges".
Copyright 1989 Davis Publications Inc.
Traduzione di Susanna Molinari.

















UNA VOLTA HO TOCCATO IL CIELO.
Mike Resnick.

C'era un tempo in cui gli uomini avevano le ali.
Ngai, che sta seduto sul Suo trono in cima al Kirinyaga, oggi monte
Kenya, conferć agli uomini il dono del volo per permettere loro di
raggiungere i frutti succosi che crescono sui rami pi alti degli
alberi. Ma un giorno, uno dei figli di Gikuyn, il primo uomo, dopo
aver visto l'aquila e l'avvoltoio librarsi in cielo e sfidare i venti,
volle unirsi al volo dei rapaci. Vol• in alto e ancora pi in alto
tant'Š che ben presto si innalz• al di sopra di tutte le creature
capaci di volare.
Quando meno se l'aspettava, per•, la mano di Ngai lo ghermć.
- Che cosa ho fatto mai per essere trattato in questo modo? - chiese
il figlio di Gikuyn.
- Io vivo sulla cima del Kirinyaga perch‚ questa Š la montagna pi
alta del mondo - rispose Ngai, - e nessuno deve osare librarsi al di
sopra di me.
E cosć dicendo strapp• le ali al figlio di Gikuyn. La stessa sorte
tocc• poi a tutti gli uomini affinch‚ nessun essere umano potesse pi
sorvolare il trono di Ngai.
E' per questo motivo che oggi i discendenti di Gikuyn guardano agli
uccelli con un senso di privazione e invidia. Ed Š per la medesima
ragione che nessuno di loro mangia pi i frutti succosi che crescono
sui rami pi alti degli alberi.

Nel mondo di Kirinyaga volano molti uccelli che devono il loro nome
alla montagna sacra, dimora di Ngai. Li abbiamo portati con noi,
assieme a molti altri animali, il giorno in cui l'Eutopian Council ci
concesse un volo charter e noi, veri membri della trib kikuyu,
abbandonammo il Kenya, una patria che non portavamo pi nei nostri
cuori. La nostra nuova terra ospita il marab e l'avvoltoio, lo
struzzo e l'aquila, l'uccello tessitore e l'airone e molte altre
specie. Anch'io, Koriba, che sono il "mundumugu", lo stregone, gioisco
alla vista della molteplicit di colori che essi sfoggiano e traggo
conforto dal loro canto. Ho trascorso molti pomeriggi seduto davanti
alla mia "boma", appoggiato contro il tronco di una secolare acacia,
ad ammirare il variopinto piumaggio degli uccelli e ad ascoltare le
melodie di quelli venuti ad abbeverarsi al fiume che percorre in un
succedersi di anse il nostro villaggio.
Fu proprio uno di quei pomeriggi che ricevetti la visita di Kamari,
una bambina non ancora tredicenne. Mi venne incontro, lungo il
sentiero che separava la mia "boma" dal villaggio, tenendo nel palmo
della mano qualcosa di molto piccolo e grigio.
- "Jambo", Koriba - mi salut• lei.
- "Jambo" - risposi io. - Che cosa mi hai portato, bimba?
- Guarda - mi disse tendendo la mano nel cui palmo si dibatteva
debolmente, per sfuggire alla presa, un giovane falco pellegrino. -
L'ho trovato nella "shamba" della mia famiglia. Non sa volare.
- Eppure sembra che abbia gi messo le penne - osservai io alzandomi
in piedi. Ma, un attimo dopo, notai che l'uccello aveva un'ala piegata
in maniera tale per cui formava uno strano angolo. - Ho capito! Ha
un'ala spezzata - dichiarai.
- Puoi guarirlo, "mundumugu"? - chiese Kamari.
Esaminai l'ala brevemente mentre la bimba teneva il capino del giovane
falco scostato dalla mia mano, arretrai di un passo e dissi: - Posso
curarlo, Kamari. Ma non potr• farlo volare. Intendo dire che l'ala
guarir, ma non sar mai pi abbastanza forte da reggere tutto il suo
peso. Credo proprio che prima o poi dovr• ucciderlo.
- No! - grid• lei stringendosi il falco al petto. - Tu lo farai vivere
e io mi prender• cura di lui!
Osservai il piccolo rapace per un momento, poi scrollai il capo.
- Sar lui a non voler pi vivere - obiettai.
- Perch‚ no?
- Perch‚ ha volato alto nel cielo e ha provato le carezze dei venti
caldi.
- Non capisco - rispose Kamari aggrottando la fronte.
- Quando un uccello ha toccato il cielo, non pu• pi accontentarsi di
trascorrere le sue giornate senza volare.
- Ci penser• io a renderlo felice - protest• con fermezza. - Tu lo
guarirai e lui vivr.
- Io lo curer• e tu ti prenderai cura di lui - ribattei io, ma subito
dopo aggiunsi: - Comunque, lui non vivr.
- Quanto vuoi, Koriba? - mi chiese inopinatamente, come se stesse
conducendo un affare.
- Non tratto mai con i bambini - fu la mia risposta. - Verr• a trovare
tuo padre domani e sar lui a pagarmi.
Ma lei scroll• il capo con l'aria di chi Š inamovibile. - Questo falco
mi appartiene e pagher• io per le sue cure.
- Molto bene - risposi ammirando il suo carattere poich‚ molti
bambini, e tutti gli adulti, temono il loro "mundumugu" e mai
oserebbero contraddirlo o dimostrarsi apertamente in disaccordo con
lui. - Per un mese terrai pulita la mia "boma"; verrai qui tutte le
mattine e tutti i pomeriggi. Mi preparerai le coperte per la notte e
riempirai il recipiente dell'acqua; inoltre ti dovrai accertare che io
disponga sempre della legna per accendere il fuoco.
- Mi sembra giusto - disse dopo un istante di riflessione e aggiunse:
- Ma come ci comporteremo se l'uccello morir prima della fine del
mese?
- In tal caso imparerai che un "mundumugu" ne sa pi di una piccola
kikuyu - risposi.
Kamari sollev• il mento e dichiar•: - Non morir. Gli farai guarire
l'ala, adesso?
- Sć.
- Ti voglio aiutare, Koriba.
Scrollai il capo. - Non ho bisogno d'aiuto, ma costruirai per il falco
una gabbia dove lo terremo prigioniero perch‚, se cercher di muovere
l'ala troppo presto, se la romper nuovamente e io sar• costretto a
ucciderlo.
Kamari mi consegn• il piccolo rapace. - Torno subito - mi promise e
corse via in direzione della sua "shamba".
Portai il giovane falco pellegrino nella mia capanna; era davvero
troppo debole per ribellarsi e cosć mi fu facile legargli il becco. Mi
dedicai poi a quella delicata operazione che consisteva nel
rimettergli in loco l'ala spezzata e quindi fasciargliela affinch‚ non
fosse pi in grado di muoverla. Il falco emetteva grida di dolore
mentre io gli manipolavo gli ossicini per riassestarglieli e quando
non si lamentava mi osservava senza battere ciglio. Nel giro di una
decina di minuti avevo portato a termine l'operazione.
Kamari torn• un'ora dopo; teneva in mano una gabbietta di legno.
- Ti sembra abbastanza grande, Koriba? - mi chiese.
Gliela presi di mano e la esaminai.
- Forse Š fin troppo grande - risposi. - Il tuo falco non dovr
trovare nemmeno il pi piccolo spazio per muovere l'ala, non prima che
questa sia guarita.
- Non si muover - mi promise lei. - Lo terr• d'occhio io, tutto il
giorno, ogni giorno.
- Lo terrai d'occhio tu, tutto il giorno, ogni giorno? - ripetei
divertito.
- Sć.
- E allora chi terr pulita la mia capanna e la mia "boma"? E chi
provveder a riempire il mio recipiente dell'acqua?
- Mi porter• la gabbietta sempre appresso quando verr• qui - ribatt‚
lei.
- Bada che la gabbia sar molto pi pesante quando ospiter il falco -
le feci notare.
- Quando sar• grande dovr• portare carichi assai pi pesanti di questo
sulla schiena poich‚ sar mio dovere lavorare i campi e raccogliere la
legna per la "boma" di mio marito. Dunque questo sar un buon
esercizio per me. - Rimase in silenzio per qualche minuto poi mi
chiese: - Perch‚ sorridi, Koriba?
- Perch‚ non mi capita spesso di farmi erudire da una bambina come te
- le risposi continuando a sorridere.
- Non stavo erudendo nessuno - fu la sua dignitosa risposta. -Stavo
semplicemente spiegando.
Mi portai una mano alla fronte per ripararmi gli occhi dal forte sole
del pomeriggio e le chiesi: - Non hai paura di me, piccola Kamari?
- E perch‚ dovrei?
- Perch‚ io sono il "mundumugu".
- Questo significa soltanto che tu sei pi in gamba degli altri -
rispose lei con un'alzata di spalle e scagli• un sasso a un pollo che
si accingeva ad avvicinarsi alla gabbia; questi schizz• via
protestando con grida roche. - Un giorno o l'altro sar• anch'io in
gamba come te.
- Davvero?
Kamari annuć con sicurezza. - Sai, sono gi capace di contare meglio
di mio padre e poi ho una memoria di ferro.
- Dici sul serio? Ricordi proprio tutto? - le chiesi voltandomi
leggermente mentre una brezza calda sollevava un turbine di sabbia
tutt'attorno a noi.
- Ti ricordi la storia dell'uccello del miele, quella che hai
raccontato ai bambini del villaggio prima del periodo delle piogge?
Annuii.
- Potrei ripetertela da cima a fondo - mi assicur•.
- Intendi dire che la ricordi bene?
Kamari scroll• il capo con foga. - Posso ripeterti quella storia per
filo e per segno.
Mi sedetti per terra a gambe incrociate. - Avanti, racconta - le dissi
lasciando vagare lo sguardo prima lontano e soffermandolo poi su una
coppia di giovani che pascolavano il bestiame.
La bambina si ingobbć cosć da apparire vecchia quanto me e poi, con
voce che suonava come la versione giovanile della mia, cominci• a
raccontare imitando i miei gesti.
- Esiste un uccellino del miele dalle piume color marrone che
assomiglia oltremodo a un passero e, al pari del passero, Š molto
cordiale. Pu• succedere che questo uccellino venga al vostro "boma",
vi chiami, aspetti che voi vi avviciniate e poi voli via portandovi
con s‚ nei pressi di un alveare. Una volta giunti lć, voi dovrete
raccogliere un piccolo fascio d'erba e quindi dargli fuoco mettendo
cosć in fuga le api. Attenti per•, dovete "sempre" - a quel punto
Kamari enfatizz• l'avverbio proprio come avevo fatto io - lasciare un
po' di miele anche per l'uccellino, poich‚ se lo terrete tutto per
voi, la prossima volta lui vi condurr dritto nelle fauci della
"fisi", la iena, o magari nel deserto dove non c'Š acqua e dove
morireste di sete. - La storia era finita; in un attimo la gobba svanć
e sul faccino di Kamari comparve un sorriso.
- Vedi? - disse inorgoglita.
- Vedo - risposi io scacciando un moscone che mi si era posato sulla
guancia.
- Sono stata brava? - mi domand•.
- Sć, sei stata brava.
Lei mi fiss• con aria pensierosa. - Forse quando morirai diventer• io
il "mundumugu".
- Ti sembro prossimo a lasciare questa terra? - le chiesi.
- Be', sei molto vecchio, oramai sei gobbo e rugoso, e dormi molto.
Per• sar• contenta se non morirai ancora per un po'.
- Far• di tutto per non deluderti a questo proposito - ribattei
ironico. - E ora, porta a casa il tuo falco.
Mi accingevo a impartirle qualche consiglio sulle cure che avrebbe
dovuto dedicare al rapace, ma fu lei a prendere la parola per prima.
- Non credo che vorr mangiare, oggi. Per• a cominciare da domani gli
procurer• grossi insetti e almeno una lucertola al giorno. E non gli
far• mai mancare l'acqua.
- Sei un'ottima osservatrice, Kamari.
Mi sorrise di nuovo, dopodich‚ corse via verso la sua "boma".
Fu di ritorno il giorno dopo, all'alba. Aveva con s‚ la gabbia che
pos• in un punto al riparo dal sole. Riempć poi una ciotolina con
dell'acqua che attinse da uno dei miei recipienti e la deposit• dentro
la gabbia.
- Come sta il tuo piccolo falco, stamattina? - le chiesi sedendomi
vicino al fuoco poich‚, nonostante gli ingegneri planetari
dell'Eutopian Council abbiano assegnato a Kirinyaga un clima identico
a quello del Kenya, il sole non aveva ancora riscaldato l'aria
mattutina.
- Non ha ancora mangiato - mi rispose aggrottando la fronte.
- Lo far quando avr fame - le dissi avvolgendomi nella coperta. -
Vedi, era abituato a sorprendere le prede scendendo in picchiata dal
cielo.
- Per• beve l'acqua che gli do - osserv•.
- Questo Š un buon segno.
- Non potresti fare un incantesimo che lo guarisca all'istante?
- Il prezzo di un incantesimo sarebbe troppo alto - risposi avendo gi
previsto quella domanda. - E' meglio che le cose seguano il proprio
corso naturale.
- Alto quanto?
- Troppo alto - ripetei considerando chiuso l'argomento. - Non Š ora
che tu ti metta al lavoro, Kamari?
- Sć, Koriba.
Trascorse i minuti successivi alla nostra breve conversazione
indaffarata a raccogliere la legna per il fuoco e a riempirmi i
recipienti con l'acqua del fiume. Poi entr• nella mia capanna, la
rassett• e predispose le coperte per la notte. Ne uscć poco dopo con
un libro in mano.
- Che cos'Š questo, Koriba? - mi domand•.
- Chi ti ha dato il permesso di toccare ci• che appartiene al tuo
"mundumugu"? - la redarguii severamente.
- Come posso pulire, Koriba, senza toccare? - ribatt‚ e nella sua voce
non ravvisai la bench‚ minima traccia di paura.
- E' un libro.
- Che cos'Š un libro, Koriba?
- Non ti riguarda - le risposi. - Rimettilo al suo posto.
- Posso dirti che cosa credo che sia? - mi domand• lei.
- Avanti, dimmelo - risposi incuriosito.
- Hai presente tutti quei segni che fai per terra quando getti le ossa
per chiamare la pioggia? Be', io credo che qui dentro ci siano tutti
quei segni.
- Sei una bambina molto sveglia, Kamari.
- Te l'avevo detto - rispose risentita del fatto che non avessi voluto
crederle sulla parola. Osserv• il libro per un istante poi me lo mise
sotto il naso. - Che cosa significano questi segni?
- Molte cose - risposi.
- Quali, per esempio?
- Non ti riguardano.
- Ma tu lo sai, per•.
- Io sono un "mundumugu".
- Ci sono altre persone qui a Kirinyaga in grado di leggere questi
segni?
- Il tuo capo, Koinnage, e altri due capi - le risposi innervosito
poich‚, mio malgrado, era riuscita a coinvolgermi in quella
conversazione il cui fine gi prevedevo.
- Ma tutti quelli che hai nominato sono vecchi - controbatt‚ lei. -
Sai, dovresti insegnarmi a leggere cosć quando voi morirete ci sar
qualcuno in grado di decifrare questi segni.
- Questi segni non sono importanti - le dissi. - Sono stati inventati
dagli europei. I kikuyu non avevano bisogno dei libri prima
dell'arrivo in Kenya degli europei. Non c'Š bisogno di saper leggere a
Kirinyaga, che Š il nostro mondo. Quando Koinnage e gli altri due capi
moriranno, qui tutto torner a essere come molti, molti anni fa.
- Dunque sono segni malvagi? - concluse lei.
- No - le risposi. - Non si tratta di segni malvagi. E' semplicemente
che non hanno alcun senso per i kikuyu; appartengono all'uomo bianco.
Kamari mi restituć il libro. - Mi potresti leggere questi segni?
- Perch‚?
- Sono curiosa di sapere che cosa ha inventato l'uomo bianco.
La fissai per un lungo istante, indeciso sul comportamento da
adottare.
- E va bene, ma soltanto per questa volta e mai pi - dissi infine.
- Va bene - convenne lei.
Sfogliai il libro: si trattava di una traduzione in lingua swahili di
una raccolta di poesie inglesi. Ne scelsi una a caso e cominciai a
leggere:

"Vivrai con me e il mio amore sarai
e le gioie della terra al mio fianco scoprirai
colline e praterie, campi e vallate
montagne dalle guglie inzuccherate.
Da un picco roccioso staremo a guardare
i pastori il gregge pascolare
in riva ai fiumi da cui nascono cascate
ove gli usignoli compongono sonate.
L ti offrir• un letto di rose
cogliendo a una a una le pi deliziose
un cappello di fiori e un gonnellino
ti ricamer• con foglie di gelsomino.
Una cintura di spighe e ranuncoli gialli
con gemme d'ambra e cascate di coralli
tu a queste gioie una lacrima consacrerai
vivrai con me e il mio amore sarai."

- Non capisco - disse Kamari aggrottando la fronte.
- Te l'avevo detto che non avresti capito - replicai. - E adesso metti
via il libro...
Annuć e scomparve dentro la mia capanna per uscirne di corsa in preda
all'emozione un paio di minuti dopo.
- E' una storia! - esclam•.
- Di che cosa stai parlando?
- I segni che leggi! Non ho capito proprio tutto, ma in questo libro
si parla di un guerriero che chiede a una ragazza di sposarlo! -
Rimase in silenzio per un attimo poi proseguć: - Tu la racconteresti
meglio, Koriba. In questa storia non si parla mai n‚ di "fisi", la
iena, n‚ di "mamba", il coccodrillo che vive nel fiume e potrebbe
mangiare il guerriero e sua moglie. Per• si tratta di una storia! Sai,
prima pensavo che quei segni fossero formule magiche per i "mundumugu"
come te.
- Sei in gamba ad aver capito che si tratta di una storia - osservai.
- Me ne leggeresti un'altra? - mi chiese con entusiasmo.
Scrollai il capo e dissi: - Non ricordi il nostro patto? Soltanto una
e basta.
Kamari chin• la testa con un'espressione pensierosa e quando la
risollev• era raggiante: - Allora insegnami a leggere i segni.
- Se cosć facessi contravverrei alla legge dei kikuyu - le spiegai. -
A nessuna donna Š permesso di leggere.
- Perch‚?
- Perch‚ la donna ha altri compiti: coltivare i campi, macinare il
grano, tessere e portare in grembo i figli di suo marito - le risposi.
- Ma io non sono una donna - obiett• Kamari. - Sono soltanto una
bambina.
- Ma diventerai una donna - ribattei, - e una donna non deve leggere.
- Ma se tu mi insegni a leggere adesso, quando sar• grande avr• gi
disimparato tutto.
- Forse che l'aquila disimpara a volare o la iena a uccidere?
- Non Š giusto, per•.
- Che sia giusto o no, Š cosć.
- Non capisco perch‚.
- Allora ti spiegher• meglio. Siediti, Kamari.
Si sedette per terra, di fronte a me, tutta protesa in avanti, pronta
ad ascoltarmi con attenzione.
- Molti anni fa - cominciai, - i kikuyu vivevano ai piedi del
Kirinyaga, il monte sulla cui cima dimora Ngai.
- Lo so - mi interruppe lei. - Poi vennero gli europei e costruirono
le citt.
- Mi hai interrotto - la rimproverai.
- Mi dispiace, Koriba - si scus• lei. - Ma conosco gi questa storia.
- Non la conosci fino in fondo - replicai. - Prima che arrivassero gli
europei, noi vivevamo in armonia con la nostra terra. Allevavamo il
bestiame e aravamo i campi e mettevamo al mondo tanti bambini che
prendevano il posto di coloro che morivano di vecchiaia, per colpa di
brutte malattie, o che perivano nelle guerre contro i masai, i
wakamba, i nandi. A quel tempo la nostra vita era semplice, ma noi
eravamo soddisfatti.
- E poi sono arrivati gli europei! - proseguć lei.
- Giusto, poi arrivarono gli europei e portarono con loro nuove
usanze.
- Usanze malvagie.
Scrollai il capo. - Per gli europei quelle non erano affatto usanze
malvagie - precisai. - Io ne so qualcosa perch‚ ho studiato nelle loro
scuole. Ma quegli usi non si addicevano ai kikuyu. N‚ ai masai, ai
wakamba, agli embu, ai kisi: insomma, a nessun'altra trib. Accadde
per• che noi, dopo aver visto come si vestivano gli europei, che tipo
di costruzioni erigevano e quali macchine costruivano, cercammo di
imitarli. Fu cosć che le nostre citt conobbero mali quali la
sovrappopolazione e l'inquinamento, la terra divenne sterile e gli
animali cominciarono a morire. Persino l'acqua dei fiumi risult•
avvelenata. Cosć, quando l'Eutopian Council ci permise di trasferirci
nel mondo di Kirinyaga, noi abbandonammo il Kenya e venimmo a vivere
qui in armonia con le antiche usanze, quelle che si addicono ai
kikuyu.
Rimasi un attimo in silenzio e poi proseguii: - Un tempo i kikuyu non
avevano una lingua scritta e quindi non sapevano leggere, e poich‚ noi
ci stiamo sforzando di creare il nuovo mondo di Kirinyaga Š giusto che
la nostra gente non impari n‚ a leggere n‚ a scrivere.
- Ma che cosa c'Š di positivo nel non sapere n‚ leggere n‚ scrivere? -
mi chiese. - Il solo fatto che non sapessimo leggere prima dell'arrivo
degli europei non pu• rendere la lettura qualcosa di malvagio.
- Vedi, Kamari, saper leggere ti aprirebbe gli occhi sull'esistenza di
altri modi di vivere e di pensare e potresti scoprire di essere
insoddisfatta della tua vita qui nel mondo di Kirinyaga.
- Ma tu sai leggere eppure non sei infelice.
- Io sono il "mundumugu" - le dissi. - Sono abbastanza saggio da
sapere che quelle che leggo sono bugie.
- Ma le bugie non fanno sempre male - insist‚ lei. - Tu le racconti a
ogni piŠ sospinto.
- Un "mundumugu" non racconta bugie alla sua gente, - sbottai in tono
severo.
- Tu le chiami storie, come quella del leone e della lepre o di come
nacque l'arcobaleno, ma in verit sono tutte bugie.
- Sono parabole - precisai.
- Che cos'Š una parabola?
- Una specie di storia.
- Una storia vera?
- In un certo senso.
- Vuoi dire che per un senso Š vera e per un altro Š una bugia?
-chiese e poi, prima che io potessi risponderle, aggiunse: - Ma scusa,
Koriba, se posso ascoltare una bugia perch‚ non posso leggerla?
- Ti ho gi spiegato il perch‚!
- Non Š giusto - ribatt‚ Kamari.
- Forse no - convenni, - ma le cose stanno cosć e, tutto sommato, Š un
bene per la trib.
- Non riesco ancora a capire perch‚ dici che Š un bene - si lament•
lei.
- Perch‚ noi siamo tutto ci• che rimane. Tanto tempo fa i kikuyu
provarono a trasformarsi in qualcosa di assolutamente estraneo a loro
e il risultato non fu che divennero dei kikuyu cattivi o infelici, ma
semplicemente che fondarono una nuova trib i cui membri si chiamano
kenioti. Quelli di noi che sono venuti a Kirinyaga lo hanno fatto per
preservare le vecchie usanze; se le donne imparassero a leggere,
alcune di loro potrebbero scoprire di essere scontente della loro vita
qui e decidere quindi di andarsene. Cosć, un bel giorno, noi ci
ritroveremmo senza pi kikuyu.
- Ma io non voglio andarmene da Kirinyaga! - protest• lei. - Io voglio
diventare grande qui, e voglio dare tanti figli a mio marito e
coltivare i campi della sua "shamba" e poi, quando sar• vecchia,
prendermi cura dei miei nipoti.
- Vedi? Queste sono le cose per le quali si spera che tu ami la vita.
- Ma voglio anche leggere di altri mondi e altre epoche.
- No - dissi scrollando il capo.
- Ma...
- Non voglio sentire proteste - la interruppi. - Il sole Š gi alto e
non hai ancora portato a termine le tue mansioni; inoltre, devi ancora
andare a lavorare alla "shamba" di tuo padre e poi tornare qui nel
pomeriggio.
Si alz• in piedi senza aggiungere una parola e si mise subito al
lavoro. Quand'ebbe finito, prese con s‚ la gabbia e si incammin• verso
la sua "boma".
La guardai allontanarsi, poi rientrai nella mia capanna dove attivai
il computer per chiedere al Centro Grandi e Piccole Manovre se non
fosse possibile operare un piccolo cambiamento orbitale poich‚ da
oltre un mese incombeva sul villaggio un clima oltremodo arido. Il
Centro mi rispose affermativamente e, un paio di minuti pi tardi, mi
incamminai sul sentiero tortuoso che conduceva nel cuore del
villaggio. Mi accovacciai a terra con un cauto movimento e svuotai
sulla sabbia il mio sacchetto di pelle che conteneva ossa e talismani.
Cominciai poi a invocare Ngai pregandolo di far scendere su Kirinyaga
la rinfrescante pioggerella che il Centro mi aveva promesso per il
tardo pomeriggio.
Presto i bambini del villaggio si raggrupparono attorno a me, come
facevano sempre quando lasciavo la mia "boma" sulla collina.
- "Jambo", Koriba! - gridavano in coro.
- "Jambo", miei coraggiosi, giovani guerrieri - risposi rimanendo
seduto per terra.
- Perch‚ sei venuto al villaggio questa mattina, Koriba? - mi chiese
Ndemi il pi coraggioso dei ragazzini.
- Sono venuto per chiedere a Ngai di bagnare un po' i nostri campi con
le sue lacrime di compassione - dissi, - poich‚ non abbiamo visto la
pioggia questo mese e il raccolto ha sete.
- Ora che hai finito di parlare a Ngai, ci puoi raccontare una storia?
- fu ancora Ndemi a parlare.
Sollevai lo sguardo in direzione del sole cercando di capire che ore
fossero.
- Ho tempo per raccontarvene soltanto una - risposi. - Poi dovr•
incamminarmi per i campi e disporre nuovi talismani sugli
spaventapasseri affinch‚ continuino a proteggere il vostro raccolto.
- Che storia ci racconterai, Koriba? - mi chiese un altro ragazzino.
Mi guardai in giro e notai Kamari nel gruppo delle bambine.
- Credo che vi racconter• la storia del leopardo e dell'averla -dissi.
- Non la conosco - osserv• Ndemi.
- Sono forse cosć vecchio da non avere pi storie nuove da raccontare?
- domandai e Ndemi abbass• lo sguardo. Attesi che l'attenzione di
tutti fosse rivolta a me e poi cominciai.
- C'era una volta una giovane averla molto, molto astuta e curiosa che
poneva di continuo un gran numero di domande a suo padre.
"'Pap, perch‚ noi averle mangiamo gli insetti?' chiese un giorno.
"'Perch‚ siamo averle e le averle mangiano gli insetti' rispose il
padre.
"'Ma siamo anche uccelli' ribatt‚ la giovane averla. 'E certi uccelli,
l'aquila per esempio, mangiano i pesci'. "'Ngai ha deciso che noi
averle non dobbiamo mangiare i pesci' rispose il padre 'quindi,
quand'anche fossimo sufficientemente forti per cacciare e uccidere i
pesci, se li mangiassimo ci sentiremmo male'.
"'Hai mai mangiato un pesce, tu?' chiese l'averla al padre.
"'No' rispose questi.
"'E allora come fai a sapere che ci sentiremmo male?' domand• l'averla
e quello stesso pomeriggio vol• al fiume dove vide sguazzare un
pesciolino che cattur• e mangi•. Fu cosć che stette male per un'intera
settimana.
"'Hai imparato la lezione, dunque?' chiese il padre all'averla quando
questa guarć.
"'Ho imparato che non devo mangiare i pesci' rispose. 'Per• devo farti
un'altra domanda. Sai dirmi perch‚ fra tutti gli uccelli le averle
sono le pi codarde? Ogniqualvolta vediamo un leone o un leopardo
voliamo sui rami pi alti dove rimaniamo nascoste in attesa che il
pericolo sia passato'.
"'I leoni e i leopardi ci mangerebbero se riuscissero a prenderci'
rispose il padre. 'Perci• dobbiamo fuggire da loro'.
"'Allora perch‚ non mangiano anche lo struzzo, pure lui Š un uccello'
osserv• la giovane e scaltra averla. 'Se un leone o un leopardo
attaccano lo struzzo, lui li uccide con un micidiale calcio'.
"'Ma tu non sei uno struzzo' rispose il padre che cominciava a essere
stanco delle domande del figlio.
"'Ma sono un uccello, vero?, e quindi imparer• a sferrare calci come
lo struzzo' e trascorse un'intera settimana a provare e riprovare a
tirar calci agli insetti e ai ramoscelli caduti degli alberi che si
trovavano sul suo cammino.
"Poi un giorno la giovane averla si imbatt‚ in un "chui", un leopardo
e, quando questi le si avvicin•, non fuggć sui rami pi alti
dell'albero pi vicino bensć rimase coraggiosamente a terra pronta ad
affrontarlo.
"'Sei molto intrepida giovane averla a non fuggire da me' osserv• il
leopardo.
"'Io sono un'averla molto scaltra e non ho paura di te' rispose
l'uccello. 'Mi sono allenato e ora so sferrare calci come lo struzzo:
se ti avvicini ti faccio vedere'.
"'Giovane averla, io sono un leopardo molto vecchio e non posso pi
fare del male a una mosca' disse la belva. 'Sono pronto a morire.
Forza, tira un calcio e sottrai questo essere tapino alla sua
miseria'.
"La giovane averla si avvicin• al leopardo e gli assest• un calcio in
pieno muso; ma la belva scoppi• in una fragorosa risata, spalanc• le
fauci e inghiottć, quella giovane e scaltra averla.
"'Che stupido uccello' comment• il leopardo sghignazzante 'avere le
pretese di essere ci• che non era! Se fosse volato via, come fanno
tutte le averle, oggi io non mi sarei potuto sfamare, ma poich‚ ha
voluto essere ci• che non era, non ha fatto altro che riempire il mio
stomaco. Forse, dopotutto, non si trattava affatto di un uccello molto
scaltro"'.
La storia era finita e io rimasi in silenzio con lo sguardo fisso su
Kamari.
- E' finita? - chiese una delle bambine.
- Sć - risposi.
- Perch‚ l'averla pensava di poter essere come lo struzzo? - chiese
uno dei bambini pi piccoli.
- Forse la piccola Kamari pu• rispondere - dissi.
Tutti i bambini si volsero verso Kamari la quale, dopo qualche minuto
di esitazione, rispose: - C'Š una differenza fra il desiderare di
essere uno struzzo e il desiderare di sapere ci• che uno struzzo sa -
disse guardandomi dritto negli occhi. - L'errore dell'averla non
consiste nel fatto che avesse sete di sapere bensć nel credere di
poter agire come uno struzzo.
Ci fu un attimo di silenzio mentre i bambini consideravano la risposta
di Kamari.
- Ha ragione Kamari, Koriba? - chiese infine Ndemi.
- No - risposi io, - poich‚ quando l'averla ha imparato a scalciare ha
dimenticato di essere un'averla. Dovete sempre ricordare chi siete, e
conoscere troppe cose vi pu• indurre a dimenticarlo.
- Ci racconteresti un'altra storia, Koriba? - chiese una bambina.
- Non adesso - risposi io alzandomi. - Ma stasera, quando torner• al
villaggio a bere "pombe" e a godermi le danze, forse vi racconter• la
storia dell'elefante e del saggio bambino kikuyu. Su, bambini, non
avete nessuna mansione da portare a termine, ora?
I bambini si dispersero, tornarono ai loro "shamba" e ai pascoli
mentre io mi fermavo alla capanna di Juma per consegnargli un unguento
che gli lenisse i dolori reumatici dai quali era afflitto
ogniqualvolta si avvicinavano le piogge. Andai poi a trovare Koinnage,
bevvi "pombe" insieme a lui dopodich‚ discussi le questioni del
villaggio con il Consiglio degli Anziani. Infine me ne tornai alla mia
"boma" poich‚ Š mia abitudine concedermi un sonnellino nelle ore pi
calde della giornata e la pioggia si sarebbe fatta attendere ancora
per un paio d'ore.
Trovai Kamari ad aspettarmi. Aveva raccolto un altro fascio di legna,
aveva attinto l'acqua al fiume e ora stava riempiendo alcuni secchi di
pastura per le capre. Entrai nella capanna e, lanciando un'occhiata al
falco pellegrino rinchiuso nella gabbia, scrupolosamente sistemata
all'ombra, le chiesi: - Come sta il tuo giovane rapace, oggi?
- Ha cominciato a bere, ma continua a non voler mangiare, - mi inform•
in tono preoccupato. - Se ne sta tutto il tempo con il capino rivolto
verso il cielo.
- Ci sono cose pi importanti del cibo per lui - le spiegai.
- Io avrei finito il mio lavoro - mi disse lei. - Posso andare a casa,
Koriba?
Annuii e Kamari se ne and• mentre io spiegavo le coperte per mettermi
a dormire.
La settimana successiva Kamari venne alla mia "boma" tutte le mattine
e tutti i pomeriggi. Poi, l'ottavo giorno, mi annunci• che il falco
pellegrino era morto.
- Avevo previsto che sarebbe successo - le dissi con gentilezza.
-Quando un uccello ha cavalcato i venti, non pu• adattarsi a vivere
senza volare.
- E quindi la morte Š il destino di tutti gli uccelli che non possono
pi volare? - mi chiese.
- Sć. Alcuni di loro si adattano e dopo un po' trovano persino
piacevole il senso di sicurezza che offre la gabbia, ma i pi muoiono
di dolore poich‚, dopo aver toccato il cielo, non possono sopportare
di aver perso il dono del volo.
- Ma perch‚ noi uomini ci ostiniamo a costruire le gabbie se in esse
gli uccelli si sentono a disagio?
- Perch‚ le gabbie fanno sentire meglio noi uomini - le risposi.
Lei rimase un attimo in silenzio poi disse: - Manterr• la parola data
e continuer• a pulire la tua capanna e la tua "boma", andr• a
raccogliere la legna e ad attingere l'acqua al fiume per te, anche se
il falco Š morto.
Annuii. - Questo era il nostro patto.
Kamari mantenne la parola e venne due volte al giorno per altre tre
settimane. Poi, a mezzogiorno del ventinovesimo giorno, dopo che ebbe
portato a termine tutte le sue faccende, fece ritorno alla "shamba"
della sua famiglia. E fu poco dopo la sua partenza che il padre di
Kamari, Njoro, comparve lungo il sentiero che conduceva alla mia
"boma".
- "Jambo", Koriba - mi salut• Njoro con un'espressione preoccupata sul
volto.
- "Jambo", Njoro - dissi rimanendo seduto. - Perch‚ sei venuto alla
mia "boma"?
- Koriba, io sono un uomo molto povero - esordć acquattandosi vicino a
me. - Ho soltanto una moglie la quale non mi ha dato nessun figlio
maschio, soltanto due femmine. La mia "shamba" Š una delle pi piccole
del villaggio e l'anno scorso le iene hanno ucciso tre delle mie
mucche.
Sapevo gi dove sarebbe arrivato con quel suo discorso e lo ascoltavo
rivolgendogli appena lo sguardo in attesa che concludesse.
- Povero come sono - proseguć, - l'unico pensiero da cui traevo
conforto era che mi sarei sostentato nella vecchiaia con quanto mi
avrebbero offerto in cambio delle mie due figlie i loro futuri mariti.
- Fece una pausa e poi riprese: - Sono un brav'uomo, Koriba. Sono
certo di meritarmi quanto mi spetta.
- Nessuno sostiene il contrario - dissi.
- E allora perch‚ vuoi insegnare a Kamari a diventare un "mundumugu"?
- mi domand•. - Lo sanno tutti che un "mundumugu" non si sposa.
- Te l'ha detto Kamari che diventer un "mundumugu"? - gli chiesi.
Lui scroll• il capo. - No, non rivolge la parola n‚ a me n‚ a sua
madre da quando tu l'hai scelta per sbrigare le faccende qui alla tua
"boma".
- Allora ti sbagli - replicai. - Nessuna donna pu• diventare
"mundumugu". Che cosa ti fa pensare che io stia impartendo a Kamari
degli insegnamenti in questo senso?
Njoro affond• la mano nell'ampia tasca del suo "kikot" e ne estrasse
una pezza di pelle di gnu conciata sulla quale, scarabocchiate con un
carboncino, si leggevano le parole:

SONO KAMARI
HO DODICI ANNI
SONO UNA BAMBINA

- Kamari sa scrivere - disse in tono accusatorio. - E le donne non
sanno scrivere. Soltanto i "mundumugu" e i grandi capi come Koinnage
lo sanno fare.
- Lascia che risolva io questo problema, Njoro - gli dissi prendendo
in mano il pezzo di pelle conciata. - Mandami qui Kamari.
- Ho bisogno di lei allo "shamba" ancora per tutto il pomeriggio.
- Falla venire qui immediatamente - ordinai.
Njoro tir• un sospiro e annuć. - E va bene, Koriba. - Rimase in
silenzio per qualche secondo poi mi chiese: - Sei sicuro che non
diventer un "mundumugu"?
- Ti do la mia parola - lo rassicurai sputandomi sulle palme delle
mani in segno di onest.
Il padre di Kamari sembr• sollevato e torn• alla sua "boma". Kamari
fece la sua comparsa lungo il sentiero antistante la mia capanna pochi
minuti dopo.
- "Jambo", Koriba - disse.
- "Jambo", Kamari - risposi. - Sono molto scontento di te.
- Non era sufficiente la legna che ho raccolto per te stamattina? - mi
chiese.
- La legna era sufficiente.
- Forse i recipienti non erano colmi d'acqua?
- I recipienti erano colmi.
- E allora che cosa ho fatto di male? - chiese allontanando con un
gesto pressoch‚ inconscio una delle mie pecore che le si era
avvicinata.
- Non hai mantenuto la promessa che mi avevi fatto.
- Non Š vero - protest•. - Sono venuta qui tutte le mattine e tutti i
pomeriggi anche dopo la morte del falco.
- Mi avevi promesso che non avresti pi toccato i miei libri -
dichiarai.
- Dal giorno in cui mi hai proibito di farlo, io non ho pi toccato un
libro.
- E allora spiegami questo - le dissi facendole vedere la pezza di
pelle che recava la sua scrittura. - E come hai imparato a scrivere se
Š vero che non hai mai pi preso un libro in mano? - inquisii.
- Ho imparato a scrivere dalla scatola magica - rivel•. - Non mi avevi
detto che non potevo toccare nemmeno quella.
- La mia scatola magica? - chiesi aggrottando la fronte.
- Sć, la scatola animata, quella tutta colorata.
- Intendi dire il mio computer? - le domandai, sorpreso.
- E' una scatola magica - ribadć lei.
- Dunque Š stato il computer a insegnarti a leggere e a scrivere?
- No, ho imparato da sola - rispose con aria felice. - Ma Š ancora
troppo poco quello che so. Vedi, io sono come l'averla della tua
storia, in fin dei conti non sono sveglia come credevo di essere.
Leggere e scrivere sono due cose molto difficili.
- Ti avevo proibito di cimentarti nella lettura - la redarguii,
sforzandomi di tenere per me qualsiasi commento lusinghiero poich‚
aveva commesso una grossa infrazione della legge.
Kamari scroll• il capo.
- Tu mi avevi detto che non potevo toccare i tuoi libri - ribadć
ostinatamente.
- Ti avevo avvertito: alle donne Š proibito imparare a leggere -
replicai. - Mi hai disobbedito. E quindi sarai punita. - Rimasi un
secondo in silenzio e poi le ordinai: - Continuerai a lavorare qui per
altri tre mesi, inoltre dovrai cacciare per il tuo "mundumugu" due
lepri e due roditori. Chiaro?
- Sć.
- Ora vieni con me alla mia capanna. C'Š un'altra cosa che devi
imparare.
Kamari mi seguć.
- Computer attivati! - dissi.
- Attivato - rispose la voce metallica del computer.
- Scandaglia la capanna e dimmi chi c'Š con me.
Le lenti sensoriali del computer luccicarono per un istante.
- Con te c'Š Kamari wa Njoro - rispose il computer.
- Sarai in grado di riconoscerla se la vedrai di nuovo?
- Sć.
- Quello che sto per impartirti Š un ordine primario. Non dovrai mai
pi conversare con Kamari wa Njoro in nessuna lingua n‚ ricorrendo ad
altre forme di comunicazione.
- Ricevuto e memorizzato.
- Ora disattivati - ordinai, poi mi girai verso Kamari. - Hai capito
che cosa ho fatto?
- Sć - disse lei, - e lo trovo ingiusto. Io non ho disobbedito ai tuoi
ordini!
- La legge dice che le donne non devono essere in grado n‚ di leggere
n‚ di scrivere - obiettai. - E' chiaro che tu non l'hai rispettata.
Non dovr accadere mai pi. E ora vai, torna al tuo "shamba".
Kamari si conged• a testa alta. Finch‚ mi fu possibile vederla
mantenne un portamento eretto, di sfida. Io tornai ai miei impegni;
impartii ai bambini gli insegnamenti su come dipingersi il corpo in
occasione dell'imminente cerimonia per la circoncisione, dovetti poi
tessere un contro-incantesimo per il vecchio Siboki il quale aveva
rinvenuto nel suo "shamba" sterco di iena, segno inconfutabile che era
rimasto vittima di una maledizione e, infine, richiesi al Centro
Grandi e Piccole Manovre un ulteriore adattamento orbitale affinch‚
anche le pianure occidentali potessero godere di un clima meno arido.
Quando tornai alla mia capanna per il sonnellino pomeridiano, scoprii
che Kamari era gi venuta; ogni cosa, infatti, era sistemata in
perfetto ordine.

Nei due mesi successivi la vita al villaggio seguć il suo corso senza
grandi sorprese. Gli abitanti si dedicarono alla mietitura, il vecchio
Koinnage si spos• per la terza volta e, per festeggiare l'evento,
venne celebrata una festa di due giorni con danze e grandi bevute di
"pombe"; le brevi piogge arrivarono puntuali, e nacquero tre bambini.
Persino l'Eutopian Council, che aveva sollevato obiezioni sulla nostra
usanza di lasciare i vecchi e gli infermi in balia delle iene, ci
abbandon•. Scovammo la tana di una famiglia di iene e ne uccidemmo
prima i cuccioli, poi la madre quando torn• dalla caccia. A ogni luna
piena io sacrificavo una mucca, non una semplice capra, bensć una
mucca grande e grossa, per ringraziare Ngai della sua generosit,
poich‚ aveva riversato su Kirinyaga abbondanti doni.
Durante quel periodo mi capit• raramente di vedere Kamari. Veniva da
me al mattino, quando io ero al villaggio a praticare i riti
propiziatori per la pioggia, e poi tornava nel pomeriggio, quando io
ero in giro a distribuire talismani fra gli ammalati e a fare quattro
chiacchiere con gli Anziani, ma sempre, quando facevo ritorno al mio
"shamba", capivo che lei era stata lć poich‚ era tutto in perfetto
ordine e non mi mancavano mai n‚ legna n‚ acqua.
Poi, un pomeriggio, dopo la seconda luna piena, tornai alla mia
"boma", dopo aver dato a Koinnage alcuni consigli su come poteva
risolvere una disputa sollevatasi attorno a un appezzamento di terra,
e quando entrai nella mia capanna notai che il computer era acceso: lo
schermo mi trasmetteva un'accozzaglia di strani segni. All'epoca in
cui avevo conseguito le mie lauree in Inghilterra e negli Stati Uniti,
avevo imparato l'inglese, il francese e lo spagnolo e, naturalmente,
conoscevo anche il kikuyu e lo swahili, ma quei segni non
appartenevano a nessuna lingua e non si trattava nemmeno di formule
matematiche nonostante comprendessero numeri, lettere e interpunzioni
varie.
- Computer, ricordo perfettamente di averti disattivato, stamattina -
dissi accigliandomi. - Perch‚ sei acceso, adesso?
- Mi ha attivato Kamari.
- E si Š dimenticata di disattivarti prima di andarsene?
- Sć.
- Lo immaginavo - dissi torvo. - Ti attiva ogni giorno?
- Sć.
- Non ti avevo impartito l'ordine di non comunicare mai pi con lei in
nessuna lingua? - chiesi sconcertato.
- Allora mi puoi spiegare perch‚ hai disobbedito?
- Non ho disobbedito, Koriba - rispose il computer. - Sai bene che
sono stato programmato in modo tale per cui mi Š impossibile
disobbedirti.
- E allora spiegami cosa significano questi segni che leggo sullo
schermo.
- Questa Š la lingua di Kamari - rispose. - Non fa parte delle
millesettecentotrentadue lingue immesse nella mia memoria, e dunque io
non sono venuto meno agli ordini di Koriba.
- Hai creato tu questa lingua?
- No, Koriba. L'ha inventata Kamari.
- Ma tu l'hai aiutata in quest'opera?
- No, Koriba.
- E' una lingua a tutti gli effetti? - chiesi. - Tu la capisci?
- Sć, Š una lingua a tutti gli effetti e io la capisco.
- Dunque se Kamari ti rivolgesse una domanda in questa lingua tu
saresti in grado di risponderle?
- Sć, ammesso che la domanda non sia troppo complicata. Quella di
Kamari Š una lingua molto limitata.
- E se per rispondere tu dovessi tradurre la domanda da una lingua
conosciuta nella lingua di Kamari, non contravverresti alle mie
direttive?
- No, Koriba.
- Hai gi risposto a domande che ti sono state rivolte da Kamari?
- Sć, Koriba, l'ho fatto - rispose il computer.
- Capisco - dissi. - Attendi nuove disposizioni.
- Attendo.
Abbassai il capo, pensieroso, e valutai il problema. Che Kamari fosse
una bambina sveglia e dotata era fuor di dubbio; non soltanto aveva
imparato a leggere e a scrivere da sola, ma aveva persino inventato un
linguaggio tutto suo, logico e coerente, un linguaggio che il computer
era in grado di capire e per mezzo del quale poteva risponderle. Io le
avevo impartito degli ordini precisi e Kamari, senza contravvenire
apertamente a questi ultimi, era riuscita a raggiungere il suo fine.
Il suo modo di agire era scevro di malizia? Kamari aveva semplicemente
sete di sapere, il che, di per s‚, era ammirevole; ma questo aspetto
costituiva soltanto una faccia della medaglia.
L'altra faccia della medaglia costituiva, invece, una minaccia per
l'ordine sociale che avevamo stabilito a Kirinyaga con tanta fatica e
tanto impegno. Uomini e donne sapevano quali erano le loro
responsabilit e accettavano di buon grado di assolvere a esse. Ngai
aveva dato le lance ai masai, le frecce ai wakamba, i computer e le
stampanti agli europei; ma nelle mani di noi kikuyu aveva messo il
badile per poi assegnarci la terra fertile attorno al sacro albero dei
fischi che cresceva alle pendici del Kirinyaga.
Un tempo noi kikuyu avevamo vissuto in armonia con la terra, ma erano
passati molti anni da allora. Poi nel nostro mondo era stata
introdotta la scrittura, e noi eravamo divenuti prima schiavi e in
seguito cristiani e soldati e operai e meccanici e politici, insomma,
ci eravamo trasformati in tutto ci• per cui non eravamo venuti al
mondo. Era successo una volta, poteva succedere di nuovo.
Eravamo giunti nel mondo di Kirinyaga per creare una perfetta societ
kikuyu, una societ utopica, era possibile ora che una ragazzina
portasse in s‚ il seme della nostra distruzione? Non sapevo trovare
una risposta per quella domanda, ma era un dato di fatto che i bambini
crescevano e potevano diventare Ges, Maometto, Jomo Kenyatta, ma
anche Tippoo Tib, il pi crudele schiavista di tutti i tempi, o Idi
Amin, colui che aveva massacrato la sua stessa gente. Oppure, pi
spesso, diventavano dei Friedrich Nietzsche e dei Karl Marx, uomini
innegabilmente brillanti, ma capaci di influenzare masse di uomini
meno brillanti e meno dotati. Facevo bene a tenermi in disparte,
sperando che l'influenza di Kamari sulla nostra societ fosse benigna,
quando gli eventi storici erano lć a dimostrarmi che era molto pi
facile che accadesse il contrario? Prendere una decisione era
doloroso, ma avevo un'unica scelta.
- Computer, ti devo impartire un nuovo ordine che annulla quello
precedente - dissi infine. - Non dovrai comunicare con Kamari in alcun
modo e per nessun motivo. Se ti dovesse attivare, dovrai rispondere
che Koriba ti ha proibito nella maniera pi assoluta di avere a che
fare con lei, dopodich‚ dovrai disattivarti, ricevuto?
- Ricevuto e memorizzato.
- Bene! E ora disattivati.
Quando tornai dal villaggio il mattino seguente, trovai i recipienti
dell'acqua vuoti, le coperte non erano state piegate e la mia "boma"
era sporca di sterco di capra.
I kikuyu considerano onnipotente il loro "mundumugu", ma questi Š
anche un uomo capace di intenerirsi. Decisi cosć di perdonare le
infantili manifestazioni di Kamari e non andai a lamentarmi da suo
padre n‚ ordinai ai bambini del villaggio di evitarla.
Quel pomeriggio lei non si fece vedere e io rimasi invano ad
aspettarla vicino alla mia capanna nell'intenzione di metterla al
corrente delle misure che avevo adottato nei suoi confronti.
All'imbrunire mandai a chiamare Ndemi e gli ordinai di riempirmi
d'acqua i recipienti e di pulire la mia "boma"; lui non os•
disobbedire al suo "mundumugu", si limit• a manifestare il proprio
disprezzo per le faccende in cui era costretto a cimentarsi.
Passarono altri due giorni e di Kamari nessuna traccia; decisi dunque
di convocare Njoro, suo padre.
- Kamari non ha mantenuto la sua parola - gli dissi quando arriv•. -
Se non verr a pulire la mia "boma" oggi pomeriggio, mi vedr•
costretto a invocare una "thahu" su di lei.
Il padre di Kamari mi guard• sconcertato. - Kamari dice che le hai gi
mandato una maledizione. Volevo chiederti a questo riguardo se
dobbiamo scacciarla dalla nostra "boma".
- No - risposi scrollando il capo. - Non scacciarla. Non ho ancora
invocato nessuna maledizione su di lei, ma oggi pomeriggio dovr
venire a lavorare da me.
- Non so se sar abbastanza in forze per farlo - mi rispose Njoro. -
Sono tre giorni che non tocca n‚ acqua n‚ cibo, se ne sta seduta
immobile nella capanna di mia moglie. - Rimase un attimo in silenzio
poi aggiunse: - Qualcuno deve averle mandato una maledizione: se non
sei stato tu, forse potrai fare qualcosa per liberarla dal male.
- Hai detto che non mangia e non beve da tre giorni? - gli chiesi.
Lui annuć.
- Verr• a trovarla - dissi alzandomi e seguii Njoro lungo il sentiero
tortuoso che portava al villaggio. Quando raggiungemmo la "boma" di
Njoro, lui mi condusse alla capanna di sua moglie, chiam• fuori la
madre di Kamari, la quale era oltremodo preoccupata, e si fece da
parte mentre io entravo. Kamari era seduta nel punto pi distante
dalla porta, era appoggiata con la schiena al muro, con le braccia
cingeva le sue esili gambe e teneva il mento schiacciato contro le
ginocchia.
- "Jambo", Kamari - dissi.
Lei mi fiss• ma non aprć bocca.
- Tua madre Š preoccupata per te; tuo padre mi ha detto che non vuoi
pi n‚ bere n‚ mangiare.
Kamari rimase in silenzio.
- Ascoltami bene - le dissi parlando lentamente. - Ho preso una
decisione per il bene di tutta Kirinyaga e non la cambier•. Poich‚ sei
una donna di questa trib, dovrai vivere la vita per la quale sei
stata messa al mondo. - Feci una pausa dopodich‚ proseguii: - Tuttavia
n‚ i kikuyu n‚ l'Eutopian Council sono indifferenti ai desideri dei
singoli individui. Qualunque membro della nostra trib pu• andarsene,
se lo vuole; in base al documento che abbiamo firmato all'epoca in cui
ci venne concesso questo mondo, non devi fare altro che recarti in
quel luogo che si chiama Haven dove una nave del Centro Grandi e
Piccole Manovre verr a prenderti per condurti in una localit di tua
scelta.
- Io conosco soltanto Kirinyaga - rispose lei. - Come posso scegliere
un'altra casa se non mi Š neppure permesso di sapere qualcosa su
luoghi diversi da questo?
- Non lo so - ammisi.
- Koriba, io non voglio andarmene! - protest•. - Questa Š la mia
terra, qui sono fra la mia gente. Sono una bambina kikuyu, non una
masai e neppure un'europea. Voglio portare in grembo i figli del mio
futuro marito e coltivare la sua "shamba"; raccoglier• la legna per
lui e tesser• con le mie mani gli indumenti che vestir. Sć, lascer•
la "shamba" dei miei genitori e andr• a vivere con la sua famiglia.
Far• tutto questo senza lamentarmi, Koriba, se soltanto tu mi
permetterai di imparare a leggere e a scrivere!
- Non posso - risposi mestamente.
- Ma perch‚ no?
- Kamari, chi Š l'uomo pi saggio che conosci? - le chiesi.
- Il "mundumugu" Š sempre l'uomo pi saggio della trib.
- Allora devi avere fiducia nella mia saggezza.
- Ma io mi sento come il falco pellegrino - ribatt‚ lei e la
disperazione in preda alla quale si trovava le incrin• la voce. - Lui
ha trascorso la sua vita sognando di volare fra le nuvole mentre io
sogno di leggere parole sullo schermo del computer.
- Tu non puoi affatto paragonarti al falco - mi opposi. - Lui non era
pi in grado di fare ci• per cui era nato.
- Koriba, so che non sei cattivo, ma stai sbagliando - mi disse con
solennit.
- Se Š cosć, allora dovr• arrendermi - conclusi.
- Tu per• stai chiedendo a me di arrendermi - protest• Kamari. - E'
questa la tua grande colpa, Koriba.
- Se oserai ancora una volta attribuirmi una colpa, sar• costretto a
invocare per davvero una maledizione su di te - la redarguii poich‚
nessuno si sarebbe mai azzardato a rivolgersi con quelle parole a un
"mundumugu".
- Che cosa puoi fare ancora? - chiese amaramente.
- Potrei trasformarti in una iena, un animale immondo che si ciba di
carne umana e si aggira soltanto nell'oscurit. Potrei riempirti il
ventre di spine affinch‚ ogni tuo movimento diventi agonia. Potrei...
- Koriba, sei soltanto un uomo e hai gi fatto tutto il male che
potevi fare - rispose lei con un filo di voce.
- Non voglio sentire altro - dissi. - Ti ordino di mangiare e di bere
ci• che tua madre ti porta; ti aspetto alla mia "boma" oggi
pomeriggio.
Uscii dalla capanna e dissi alla madre di portare a Kamari una banana
schiacciata e dell'acqua. Andai poi alla "shamba" del vecchio Benima;
una mandria di bisonti aveva attraversato i suoi campi distruggendo il
raccolto, quindi sacrificai una capra per scacciare la maledizione che
era scesa sulla sua terra.
Quand'ebbi finito con Benima feci visita a Koinnage che mi offrć
"pombe" appena preparato. Koinnage si lament• con me di Kibo, la sua
nuova moglie, la quale si schierava con Shumi, la seconda consorte
contro Wambu, la moglie pi vecchia.
- Puoi sempre divorziare e farla tornare alla "shamba" della sua
famiglia - suggerii.
- Koriba, mi Š costata venti mucche e cinque capre! - si lament•. -
Credi che la sua famiglia me le restituir?
- No, non lo far.
- Allora non divorzier•.
- Come vuoi - risposi con un'alzata di spalle.
- Inoltre Š molto forte e anche molto carina - continu•. - Vorrei
soltanto che non continuasse a litigare con Wambu.
- Ma perch‚ litigano? - gli domandai.
- Bisticciano per stabilire chi deve andare a prendere l'acqua o a chi
tocca rammendare i miei indumenti o a chi spetta riparare il tetto
della mia capanna. - Fece una pausa e continu•: - Si azzuffano persino
per decidere a chi tocca trascorrere la notte con me, come se, a tal
proposito, il mio parere non contasse affatto.
- Capita mai che litighino su un'opinione? - gli chiesi.
- Su un'opinione? - ripet‚ lui come se gli fosse estraneo il
significato di quella parola.
- Sć, un'opinione. Come quelle di cui si parla in certi libri.
Koinnage scoppi• a ridere. - Ma, Koriba, sono donne! Loro non hanno
opinioni. - Seguć un breve silenzio dopodich‚ mi chiese: -Nemmeno per
noi uomini hanno importanza le opinioni, vero?
- Non lo so - risposi. - La mia era soltanto una curiosit.
- Sembri preoccupato, Koriba - not• lui.
- Dev'essere stato il "pombe" - mentii. - Sai, ormai sono vecchio e
forse per me era troppo forte.
- Vedi, colpa di Kibo che non vuole mai dare retta a Wambu quando le
d consigli su come farlo fermentare. Dovrei proprio decidermi a
mandarla via - e cosć dicendo lanci• un'occhiata a Kibo la quale
portava un fascio di legna sulla schiena giovane e forte - per• Š cosć
carina e giovane. - Ma, appena pronunciate quelle parole, lo sguardo
di Koinnage prese a errare oltre la nuova moglie, verso il villaggio.
- Dev'essere morto il vecchio Siboki.
- Come fai a saperlo? - gli chiesi.
- Guarda, stanno bruciando la sua capanna - mi rispose indicando una
colonna di fumo che saliva in cielo.
Guardai nella direzione da lui indicatami. - Ma quella non Š la
capanna di Siboki - osservai. - La sua "boma" Š situata pi a ovest.
- Chi ªaltri viveva laggi di vecchio e infermo, che fosse vicino alla
morte? - mi chiese Koinnage.
Fu un attimo e io sentii dentro di me, con la medesima certezza con la
quale affermo che Ngai siede sul Suo trono in cima alla montagna
sacra, che Kamari era morta.
Mi incamminai a lunghi passi verso la "shamba" di Njoro. Quando
raggiunsi la mia meta, la madre di Kamari, sua sorella e sua nonna
intonavano gi, con voce rotta dal pianto e i volti solcati dalle
lacrime, il canto funebre.
- Che cosa Š successo? - chiesi avvicinandomi a Njoro.
- Perch‚ lo chiedi quando sei stato tu a farla morire! - rispose lui
aspramente.
- Non ho colpa della sua morte - protestai.
- Sei stato tu, non pi tardi di questa mattina, a minacciare di
invocare una maledizione su di lei - insist‚. - Cosć hai fatto e
adesso Kamari Š morta e a me rimane soltanto una figlia da offrire in
moglie, e come se non bastasse sono stato costretto a far bruciare la
sua capanna.
- Smettila di preoccuparti per la capanna e per i profitti che potrai
trarre concedendo in moglie una sola figlia o imparerai a tue spese
che cosa vuol dire essere maledetto sul serio da un "mundumugu"! -
sbottai.
- Kamari si Š impiccata nella sua capanna con una corda ricavata da
una pezza di pelle di gnu.
Dalle "shamba" vicine giunsero altre cinque donne e si unirono al
canto funebre.
- Si Š impiccata nella sua capanna? - ripetei.
Lui annuć. - Se almeno si fosse impiccata a un albero, la sua capanna
sarebbe stata risparmiata dalla maledizione e io non mi sarei trovato
costretto a darle fuoco.
- Zitto! - scattai, cercando di raccogliere i pensieri che mi
turbinavano nella mente.
- Non era una cattiva figlia - continu• lui. - Perch‚ le hai mandato
una maledizione, Koriba?
- Non le ho mandato nessuna maledizione - dissi chiedendomi se stessi
dichiarando il vero. - Io volevo soltanto salvarla.
- Chi altri, oltre a te, Š in possesso della medicina che tutto
guarisce? - chiese timoroso.
- Tua figlia non ha rispettato la legge di Ngai - risposi io.
- E dunque Ngai si Š vendicato! - mugol• Njoro manifestando tutta la
sua paura. - E dimmi, Koriba, su quale altro membro della mia famiglia
si accanir dopo Kamari?
- Su nessun altro, Njoro. Soltanto Kamari ha infranto la legge.
- Io sono un uomo poverissimo - disse Njoro cauto, - persino pi
povero di prima, ora che Kamari Š morta. Quanto ti devo offrire
affinch‚ tu accetti di chiedere per me a Ngai di perdonare mia figlia
e accogliere il suo spirito con piet?
- Glielo chieder•, Njoro, che tu mi paghi o no - gli risposi.
- Non mi farai pagare? - mi chiese.
- No.
- Grazie, Koriba! - esclam• con entusiasmo.
Io rimasi lć, in piedi, a osservare la capanna in balia delle fiamme
cercando di non pensare al corpicino di Kamari che ardeva lć dentro.
- Koriba - mi chiam• Njoro dopo un lungo silenzio.
- Che cosa vuoi ancora? - gli chiesi irritato.
- Non sappiamo cosa fare della corda; poich‚ ora anche quella Š
maledetta noi abbiamo paura a bruciarla. Ora so che quei segni sono
opera di Ngai e non tua e ho timore persino a toccarla. La porteresti
via con te?
- Di che segni stai parlando? - gli chiesi.
Mi prese per un braccio e mi condusse davanti alla capanna in fiamme.
Per terra, a una decina di passi dall'entrata, giaceva la corda di
pelle di gnu con la quale Kamari si era impiccata, su di essa erano
stati scarabocchiati molti segni strani, gli stessi che avevo visto
sullo schermo del mio computer tre giorni prima.
Mi abbassai e raccolsi la corda poi mi rivolsi a Njoro. - Se davvero
il tuo "shamba" Š stato colpito da una maledizione, io la scaccer• e
la prender• su di me - dissi.
- Ti ringrazio, Koriba! - rispose lui oltremodo sollevato.
- Adesso devo andare a preparare l'incantesimo - dissi bruscamente e
mi avviai lungo il sentiero che conduceva alla mia "boma". Giunto a
destinazione entrai nella mia capanna portandomi appresso la corda di
pelle di gnu.
- Computer, attivati - ordinai.
- Attivato.
Misi davanti alle lenti sensoriali del computer la corda con la quale
Kamari si era uccisa.
- Riconosci questi segni? - gli chiesi.
Le lenti luccicarono brevemente.
- Sć, Koriba. Sono i segni di Kamari.
- Che cosa dicono?
- Si tratta di un verso:

"Io so perch‚ il falco in gabbia la morte ha bramato, poich‚ come lui
il cielo ho toccato".

Quel pomeriggio tutti gli abitanti del villaggio si recarono alla
"shamba" di Njoro; le donne piangenti intonarono il coro. Il canto
funebre dur• per tutta la notte e il giorno successivo. Ma non pass•
molto tempo prima che Kamari venisse dimenticata, poich‚ cosć Š la
vita e, dopotutto, non si trattava che di una bambina kikuyu.
Da quel giorno, ogniqualvolta trovo un uccello con un'ala spezzata, mi
prodigo per farlo guarire. Ma gli uccelli dalle ali spezzate muoiono
sempre e allora io li seppellisco nei pressi della montagnola di terra
che indica il luogo in cui un tempo si trovava la capanna di Kamari.
E' proprio in quelle occasioni che ripenso a lei e mi scopro a
rimpiangere di non essere un uomo qualunque con il suo bestiame e la
sua terra, un uomo con pensieri semplici, e non un "mundumugu"
costretto a vivere con i rimorsi generati dalla sua saggezza.

Titolo originale: "For I Have Touched the Sky".
Copyright 1989 Mercury Press, Inc.
Traduzione di Susanna Molinari.



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