Maria Venturi Butta la luna

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Maria Venturi

Butta la luna

(2004)

Dedico questo libro a Willy Molco.

E a Aliza e Gaia, l'eredità di amore che mi ha lasciato.

ANTEFATTI

(Le radici, l'infanzia e l'adolescenza di Cosima)

Roma, 16 marzo 1977

La denuncia dei vicini di casa sembra essere fondata. Da quattro

settimane due giovani donne di colore e una bambina di circa un anno che
si dice sia bianca, occupano lo scantinato dello stabile sito al numero
civico 3 di Vicolo del Gallo, in zona Prenestino. La mia richiesta di entrare
e di rivolgere qualche domanda ha suscitato la violenta reazione di una
delle due donne. Ritengo opportuno appurare l'identità e la provenienza di
questo nucleo familiare e, soprattutto, verificare le condizioni in cui la
bambina vive. A quanto ho appreso dagli stessi vicini, lo scantinato è privo
di servizi igienici e non idoneo alla abitabilità.

(Segnalazione dell'assistente sodale Elide Greco all'ispettrice di polizia femminile

Angela Bianconi)

Roma, 31 marzo 1977

Recatomi con il collega Francesco Colò in Vicolo del Gallo 3, ho

verificato quanto segue:

– Le abitanti dello scantinato sono le sorelle gemelle Alyssa e Fatma

Calangida, di nazionalità nigeriana. La bambina, figlia di Alyssa e di
un bianco, risponde al nome di Cosima ed è nata a Roma undici mesi
fa. La paternità è ignota.

– Fatma e Alyssa svolgono lavori di collaborazione domestica e pulizie

di uffici. La bambina Cosima trascorre la giornata presso l'asilo nido
privato "I sette nani". La retta mensile viene puntualmente pagata.

– Lo scantinato di 25 mq occupato dalle Calangida, pur umido e

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fatiscente, fu abitato fino a cinquant'anni fa e risulta ancora accatastato
come vano abitabile. Il proprietario ha provveduto agli allacciamenti
della corrente elettrica e ai lavori di muratura per sistemare un water e
un lavandino in un incavo della parete.

(Rapporto dell'agente Lino Forleo all'ispettrice Angela Bianconi)

Roma, 30 aprile 1977

Ho sottoposto Cosima Calangida, di dodici mesi, alla visita e agli esami

richiesti. Non ho rimarcato alcun segno di maltrattamenti o di incuria: al
contrario, mi è apparsa una bambina pulita, curata e ben nutrita. Gode di
ottima salute e tutti i parametri di vitalità e di crescita sono nella norma.

(Certificazione del pediatra Guido Andretti al giudice minorile Salvatore Jotta)

Roma, 25 giugno 1977

Caro Salvatore, nella relazione allegata ho espresso con gli impersonali

toni dell'ufficialità il mio parere di psicologa sul caso di Cosima
Calangida. Ma con questa lettera, da amica, voglio andare oltre,
spiegandoti perché sarebbe un atto di inaccettabile violenza e ingiustizia
dichiarare la bambina adottabile e toglierla alla madre e alla zia. La loro
storia, così come è stata ricostruita e messa agli atti, può effettivamente
apparire quella di due diciannovenni spericolate e inaffidabili. Ma non è
affatto così. Alyssa e Fatma, prime di otto figli, sono nate in uno dei
villaggi più poveri del Paese più povero del mondo, da una famiglia di
pastori fulbe: l'etnia dei paria.

Fino ai dieci anni sono vissute nel più totale isolamento, accudendo agli

animali e ai fratelli più piccoli. Si esprimevano con le poche parole di un
gergo tribale che probabilmente nemmeno figura tra i duecento dialetti
censiti in Nigeria.

La loro sorte ebbe un riscatto quando un agronomo italiano,

accompagnato da un interprete del luogo, arrivò nel villaggio per fare dei
rilevamenti e si addentrò sino all'insediamento delle quattro famiglie fulbe
tra le quali figurava quella dei Calangida. Immagino che l'impatto sia stato
sconvolgente: l'uomo si trovò di fronte alla miseria totale, assoluta.

Due giorni dopo tornò dai fulbe con la moglie, a bordo di una jeep

riempita di riso, farina, biscotti, pane, latte in polvere, scatolame. Quando
cominciarono a scaricare, decine di bambini corsero verso il mucchio e si
buttarono carponi alla ricerca del pane, spingendosi tra loro e lanciando
urla inarticolate. Sembravano cani affamati.

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La moglie dell'agronomo girò la testa e vide Alyssa. Immobile davanti al

suo tugurio, teneva la sorella Fatma stretta per una mano impedendole di
muoversi. Pensando che avessero paura, prese un pacchetto di biscotti e si
avvicinò alle due bambine. Fatma afferrò il pacchetto e con un balzo da
scimmia sparì all'interno. La donna fissò Alyssa, stupita che restasse ferma
anziché inseguire la sorella per avere la sua parte di biscotti. Non voglio
scadere nella retorica, ma penso che nel viso di quella creatura selvatica,
ricoperto di sporco e di mosche, già allora si scorgessero dignità e fierezza.

Sta di fatto che una settimana dopo Alyssa lasciò la sua famiglia per

trasferirsi a Malumfashi, dove l'agronomo e la moglie risiedevano con gli
altri tecnici della società Interstrade. La coppia avrebbe voluto prendere
anche Fatma, ma la madre si oppose, con gesti furiosi e voce acuta:
l'interprete tradusse che di quella figlia non poteva assolutamente fare a
meno. L'altra era stramba, se la prendessero pure, ma Fatma no, ci sapeva
fare con le bestie come con i fratelli piccoli.

Sorvolo i particolari sul momento in cui le gemelle furono costrette a

dividersi, ma ritengo importante sottolineare che la separazione fu
straziante. Nate da un accoppiamento animalesco e casuale, cresciute come
bestie da fatica in un contesto dove l'istinto di sopravvivenza è la sola
regola e il solo bisogno, Alyssa e Fatma erano legate da un forte
sentimento. Alyssa, quella che noi definiremmo la gemella leader, era
ritenuta shanga e cioè diversa, stramba solo perché, miracolosamente,
nella sua natura erano sopravvissute le peculiarità dell'essere umano.

Nel suo sguardo fisso si scorgeva il bagliore di un'anima che le tenebre

dell'abbrutimento non avevano spento. Alyssa, inconsapevolmente,
pensava. Quando alzava la testa per guardare il cielo stellato o vedeva i
fratellini razzolare nei liquami come le galline cominciava a tremare,
sopraffatta da "qualcosa" che non riusciva a controllare e le causava
piccoli urli disarticolati: più tardi avrebbe capito che erano stupore,
tristezza, rabbia, paura. Sua madre e le donne fulbe correvano e
cominciavano a scrollarla con violenza per scacciare lo spirito maligno.

La bambina restava per terra, dolorante e stordita, fino a quando la

gemella non riusciva a riportarla alla coscienza. Fatma viveva come in
simbiosi con Alyssa e istintivamente assorbiva le percezioni e i sentimenti
che lei le trasmetteva. Come ti dicevo, la sorte di Alyssa cambiò quando si
trasferì a Malumfashi. Per dieci anni era praticamente vissuta allo stato
selvaggio in un tugurio senza acqua e senza luce. Non aveva mai visto un
libro, una bambola, un paio di scarpe. Il solo mondo che conosceva era
quello in cui la sua gente si era insediata: mille metri quadrati di terreno

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arido e incolto in cui non riusciva a spuntare neppure un filo d'erba o un
fiore selvatico perché i polli, affamati e scarniti, beccavano anche i semi
portati dal vento. La prima volta che vide un fiore Alyssa scoppiò in
lacrime.

Il suo recupero, secondo quanto la scienza ci dice, era praticamente

impossibile. E invece due mesi dopo la bambina riusciva a esprimersi e a
farsi capire. Venne adottata da tutta la comunità italiana e le cure e l'affetto
da cui fu circondata dischiusero la sua mente e fecero sbocciare la sua
anima, come un germoglio alla luce del sole.

A dodici anni Alyssa aveva imparato a leggere, a scrivere, a parlare

correttamente l'italiano, che divenne la sua lingua madre. Ma, soprattutto,
aveva imparato a sorridere: tutti gli esseri umani sanno ridere, ma hai mai
visto un sorriso nel viso di un bambino infelice? Attraverso i suoi sorrisi
Alyssa esprimeva stupore, serenità, gratitudine. Grazie alla sensibilità della
coppia che l'aveva presa con sé il suo legame con la gemella non si spezzò
mai.

Una volta al mese l'autista nigeriano del cantiere andava dai Calangida

con la jeep carica di alimenti e riportava con sé la piccola Fatma. Durante i
due giorni che le era concesso di restare a Malumfashi si ristabiliva la
simbiosi con la sorella e mese dopo mese anche Fatma cominciò a
esprimersi e a capire.

Ma nel 1973 la Interstrade decise di chiudere i cantieri nigeriani e di

riportare i tecnici e le loro famiglie in patria: i disordini interni e
l'opposizione al generale Gowon avevano creato un clima incandescente.
Alyssa rifiutò di seguire in Italia quelli che ormai considerava i veri
genitori: non poteva separarsi per sempre da Fatma. Oltre ad amarla al di
sopra di tutto, si sentiva responsabile di lei e abbandonarla le avrebbe
spezzato il cuore.

Alyssa depositò in banca la somma che la coppia italiana l'aveva

obbligata ad accettare e si mise subito alla ricerca di un nuovo lavoro.
Aveva soltanto diciassette anni, ma l'istinto di sopravvivenza sviluppato
nella prima infanzia e i connaturati talenti coltivati amorosamente durante
l'adolescenza l'avevano resa una giovane donna combattiva e determinata.
In un Paese in cui tuttora oltre la metà della popolazione femminile è
analfabeta, lei parlava correttamente l'inglese e l'italiano. E vantava una
buona istruzione scolastica. Nulla le faceva paura. Grazie
all'interessamento dell'uomo che aveva lavorato come autista nel cantiere
degli italiani trovò un posto da centralinista in un albergo di Abuja. Ma
avrebbe dovuto trasferirsi troppo lontano dal luogo in cui viveva la

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gemella e lo rifiutò.

L'autista le segnalò un'altra opportunità di lavoro: a pochi chilometri di

distanza da Malumfashi si era da poco insediato un altro cantiere, di una
società inglese, e la direzione stava cercando del personale del luogo per le
pulizie e per la mensa. Alyssa venne presa come donna delle pulizie: la
paga era miserevole e il lavoro decisamente poco gratificante, ma la
gemella avrebbe potuto raggiungerla più facilmente. E fu al cantiere che
avvenne lo sciagurato incontro con l'uomo che l'avrebbe messa incinta.

Alyssa, arrivata a questo punto, si è chiusa come un riccio. Dell'uomo mi

ha detto soltanto che arrivò dall'Italia per collaudare dei pozzi e si fermò al
cantiere per tre mesi. Si accorse di essere rimasta incinta sei settimane
dopo la sua partenza.

Del loro rapporto non mi ha raccontato alcun particolare, ma

sicuramente per lei fu il primo e grande amore: l'ho capito dalla sofferenza
che trapelava dalle poche parole, dalla sua riluttanza a rievocare, tipica di
chi ha ancora paura del passato. Conoscendo la fierezza di Alyssa, credo
che non si sarebbe mai data a un uomo senza avere la certezza di essere
ricambiata. Io penso, realisticamente, che quel tecnico ne fosse molto
attratto. Lei era, ed è, una ragazza molto bella. E intelligente, appassionata,
piena di vita.

Ma anche se ne fosse stato innamorato, era un rapporto senza futuro: lei

era nera, lui bianco. Lei una domestica, lui un laureato (o diplomato). È
significativo che, al momento di partire, lui non le avesse lasciato né un
recapito né un numero telefonico.

Ma torniamo ai fatti. Giunta al sesto mese di gravidanza, quando non

poté più nascondere il suo stato, Alyssa restò senza lavoro e senza
alloggio. È stata Fatma a raccontarmi quei drammatici giorni. Licenziata
dai bianchi, sua sorella dovette affrontare anche l'emarginazione e il
disprezzo della sua gente. Al generale Gowon, rovesciato da un colpo di
stato, era subentrato Mohammed, un duro castigatore di corruzioni e
malcostumi e un fanatico predicatore dell'orgoglio nazionale.

Alyssa, allevata dai bianchi e messa incinta da un bianco, per gli abitanti

di Malumfashi era una traditrice, una puttana. Quando si recò in banca per
prelevare i soldi che vi aveva depositato seppe che le erano stati sequestrati
come provento di traffici illeciti. Non bastasse, all'uscita venne picchiata a
sangue da una pattuglia di militari ibo.

Fu il vecchio autista del cantiere a soccorrerla. La caricò sulla jeep e la

riportò nel tugurio dei fulbe, l'unico rifugio possibile. Ma la madre, nel
rivedere dopo otto anni la gemella shanga, cadde a terra e cominciò a

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contorcersi furiosamente gridando di portarla via. Fatma salì sulla jeep con
un balzo simile a quello con cui, bambina affamata, aveva rubato la scatola
di biscotti, e seguì la sorella.

Avrai notato, caro Salvatore, che non ho mai fatto il nome della coppia

italiana che salvò e crebbe Alyssa. Sia lei sia la gemella me lo hanno
taciuto, e ne ho capito la ragione: fu grazie a questa coppia che poterono
lasciare la Nigeria. Entrambe mi hanno taciuto in che modo, sicuramente
per proteggere chi le ha fatte entrare nel nostro Paese.

E qui aggiungo un altro tassello alla storia di Alyssa, affinché tu possa

comprendere a fondo la sua personalità. Alyssa, che nel frattempo era
giunta all'ottavo mese di gravidanza, per il bene della creatura che
aspettava vinse il proprio orgoglio e dalla Nigeria andò direttamente a
Reggio Calabria per cercare l'uomo che l'aveva messa incinta. Fu l'autista
amico a cercare – e a darle – l'indirizzo, e le gemelle vi si recarono col
cuore in gola.

Anche su questo episodio Alyssa si è chiusa come un riccio, ma

attraverso il breve racconto di Fatma posso immaginare quanto umilianti e
penosi siano stati i momenti che visse.

Quando suonarono il campanello, una anziana donna si affacciò alla

finestra e nel vedere al cancello quelle due ragazze di colore con una sacca
ai piedi le invitò ad andarsene scambiandole per le solite venditrici di
fazzoletti di carta o di tovagliette.

Alyssa e Fatma insistettero: e posso immaginare anche l'incredulità della

povera donna quando apprese che una delle due ragazze aveva avuto una
relazione con suo figlio e stava per avere un bambino da lui. All'incredulità
subentrò l'angoscia: il figlio si era sposato il mese prima e si trovava con la
moglie nel Gabon, dove la sua impresa lo aveva mandato.

La paura di uno scandalo, ma anche una obiettiva sensibilità d'animo,

impedirono alla donna di scacciare Alyssa e Fatma. Le tenne a casa sua per
una notte e, dopo che furono riposate e rifocillate, fu Alyssa stessa a
volersene andare. La donna le diede tutti i soldi contanti che aveva in casa
e le accompagnò alla stazione. Fu grazie a quei soldi che riuscirono ad
arrivare a Roma e pagarsi un posto per dormire.

Un mese dopo, quando ha partorito, Alyssa ha voluto chiamare la

neonata Cosima: il nome della compassionevole donna che l'aveva
assistita, il solo legame con il padre e la famiglia di lui.

Dopo il parto, Alyssa ha ricominciato a lavorare: lo stesso lavoro che fa

adesso, quello di domestica e donna delle pulizie. Cosima trascorre otto
ore al giorno in un asilo nido, come molti figli di donne lavoratrici, e la zia

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e la madre alternano i loro orari in modo da non lasciarla nemmeno un
istante da sola quando la riportano a casa.

È vero: chiamare "casa" l'umido e fatiscente scantinato in cui vivono è

improprio, ma è l'unico alloggio che attualmente possono permettersi.

La sola colpa di Alyssa è quella di essere povera. Ma è una povertà

dignitosa in cui non esiste traccia di degrado affettivo e morale. Tutti i
rapporti concordano nel definire Cosima una bambina pulita, sana, ben
nutrita. E, aggiungo, appassionatamente amata. Ecco perché ribadisco che
strapparla alla sua famiglia per dichiararla adottabile sarebbe la peggiore
delle violenze.

E non solo: equivarrebbe a negare ai poveri il diritto di mettere al mondo

i figli visto che glieli portiamo via. Paradossalmente sarebbe più onesto
fare una legge per vietargli la riproduzione o addirittura renderli sterili.
Quanti uomini degni, quanti geni sono nati e hanno trascorso l'infanzia in
una stamberga? La povertà può trasformarsi in sfida, stimolo, volontà di
rivalsa.

Invece di continuare a perseguitare le sorelle Calangida con umilianti

controlli e processi sommari, diamo loro una mano. E indaghiamo sulle
famiglie e sull'impresa di pulizie che le sottopagano – in nero – rendendo
problematico un loro vero inserimento nel nostro Paese.

(Lettera inviata dalla psicologa Elena Marini al giudice minorile Salvatore Jotta)

Roma, 22 luglio 1977

... E pertanto, vista ed esaminata tutta la documentazione, si stabilisce

che Cosima Calangida resti con la madre Alyssa che eserciterà la
genitoriale potestà. Si dispone tuttavia che una assistente sociale segua la
crescita della bambina con visite mensili segnalando eventuali problemi o
difficoltà che dovessero insorgere all'interno del nucleo familiare. Lo
spirito di queste visite dovrà essere di supporto e non di controllo.

(Dalla sentenza emessa dal giudice minorile Salvatore Jotta)

Roma, 25 novembre 1979

L'inserimento di Cosima nell'asilo materno presenta a mio avviso

qualche problema, ed entrambe le maestre lo confermano. A tre anni e
mezzo non ha ancora imparato a socializzare e la sua tendenza a isolarsi e
a svolgere attività autonome scoraggia ogni approccio da parte degli altri.
Il mio tentativo di coinvolgere la madre in questo problema ha avuto effetti
controproducenti e ritengo che la psicologa Marini, l'unica persona di cui

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si fida, dovrebbe intervenire...

Alyssa Calangida ha una personalità molto forte e, allo stesso tempo,

tende superficialmente a "pensare in positivo" minimizzando ogni
situazione negativa.

Quanto a sua sorella Fatma le riconosco una forte capacità affettiva, ma

all'atto pratico mi sembra una zia educativamente inesistente: adora
Cosima e la asseconda e la vizia...

(Da una relazione dell'assistente sociale Flaminia Cella al giudice minorile)

Roma, 8 gennaio 1980

Cara Elena, i miei scontri con la Cella stanno diventando sempre più

estenuanti perché proprio non ci capiamo. Vuoi sapere l'ultima? Ha
accusato me e mia sorella Fatma di volere razzisticamente esasperare la
negritudine di Cosima soltanto perché l'abbiamo portata alla festa della
Befana con le treccine! Siccome sono cascata dalle nuvole, ha aggiunto la
sua bella analisi psicologica: io e mia sorella non sopportiamo che la
bambina abbia la pelle molto più chiara della nostra e possa sembrare una
bianca. E per paura di perderla la "cannibalizziamo", isolandola sempre di
più.

Di vero c'è che Cosima non riesce a inserirsi nell'asilo e tende a svolgere

attività autonome. Posso dare la spiegazione più semplice? Una delle
maestre sta per andare in pensione. Pesa quasi ottanta chili, fatica a
muoversi e non fa che lamentarsi dei suoi dolori. L'altra maestra è una
donna di trent'anni tornata al lavoro dopo la nascita dell'ultimo figlio e un
anno di aspettativa. È sempre affannata e di corsa, e credo che veda l'asilo
come una pausa di riposo dalle fatiche domestiche.

Cosima è una bambina sveglia abituata sin da piccola ad essere molto

attiva e stimolata: in quell'asilo si annoia perché non vi si fa alcun gioco
creativo, non vi si svolge alcuna attività fisica, non si compie alcuno sforzo
per intrattenere i piccoli e sollecitare un interesse che li accomuni. Non
escludo che l'isolamento di Cosima abbia come causa anche la
consapevolezza di essere diversa.

Nel suo piccolo mondo conosce soltanto bambini che hanno la pelle

bianca, un papà, una mamma che viene ad accompagnarli e a riprenderli
con la macchina. E vivono in una casa decente, si scambiano inviti,
frequentano corsi di nuoto. Col nostro stipendio di commesse, io e Fatma
potremmo permetterci soltanto di lasciare il fetido scantinato in cui
viviamo da quasi tre anni: ma benché siamo ormai residenti in Italia, e
abbiamo uno stipendio fisso, i padroni di casa non si fidano di avere come

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inquiline due negre sole con una bambina.

Cosima lo capisce. Si rende conto che nessun bambino la invita alle

festine di compleanno perché nessuna madre ha piacere che i figli
familiarizzino con una compagna che vive in una stamberga con due
negre. Certamente ne soffre, ma non voglio addolcirle la realtà o
raccontarle delle favole. Queste sofferenze la spingeranno a reagire e la
rafforzeranno.

Tornando all'accusa della Cella (io esaspererei la "negritudine" di mia

figlia) mi sembra ridicola. Cosima deve crescere senza vergognarsi delle
sue radici africane e io mi rifiuto di nascondergliele così come di
considerarla "una bella bambina bianca abbronzata tutto l'anno": è un'altra
idiozia dell'assistente sociale.

Così facendo prenderei in giro mia figlia spingendola a credere che

essere nata con la pelle più chiara della mia le renderà tutto più facile.
Scusa lo sfogo, Elena, ma sono davvero esasperata. Una cosa vorrei da te:
non potresti dire al giudice di liberarmi dalla Cella e, se proprio necessario,
farmi "supportare" da una assistente sociale meno cretina?

(Lettera di Alyssa Calangida alla psicologa amica Elena Marini)

Roma, 15 giugno 1987

Studiosa, attenta e mentalmente sveglia, l'alunna Cosima Calangida ha

ottimamente concluso il primo ciclo di istruzione.

(Giudizio dell'insegnante riportato sul certificato di ammissione alle Scuole

Medie)

Roma, 7 aprile 1989

La mia migliore amica è Cosima Calangida. Abita a Trastevere

all'ultimo piano di un palazzo accanto al mio, ma purtroppo non è mia
compagna di scuola perché sua madre l'ha iscritta a una media più vicina al
suo negozio.

Mi dispiace molto perché Cosima è allegra, simpatica, generosa. È una

ragazzina mulatta. Sua madre e sua zia provengono dall'Africa e appena
arrivate in Italia erano molto povere, ma lei è nata a Roma e non è mai
stata in Africa.

Anche se non facciamo la stessa media, nei pomeriggi liberi studiamo

insieme nel negozio di sua madre e di sua zia. Vendono vestiti, poster,
quadri, statuine e collane etniche. Sono due persone molto originali, ma
simpaticissime, e Cosima le prende in giro perché portano vestiti

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coloratissimi e girano con le treccine. Come ho detto, è molto allegra, però
se le dici una parola sbagliata si arrabbia e ti tiene il muso.

Le voglio bene perché non si dà delle arie anche se è la più ricca del suo

palazzo. È sincera, sa ascoltare i problemi, ci si può fidare di lei e non fa
mai pettegolezzi.

(Tema d'italiano dell'amica Clelia)

Roma, 10 gennaio 1993

Cara mamma, il nostro rapporto è bello e sereno soltanto perché

abbiamo tacitamente eretto la barriera di argomenti tabù? Mi rifiuto di
crederlo. Non ti ho mai fatto domande su mio padre perché ciò che mi hai
raccontato quando ero bambina ha appagato ogni mia curiosità: è una
persona che non mi interessa, una figura della quale, grazie a te e a zia
Fatma, non ho mai avvertito la mancanza.

Da anni ho smesso di punzecchiarti per il tuo ostinarti ad apparire e

restare una "africana a Roma": crescendo ho capito che le tue radici sono
quelle e le rispetto. Ma anche tu devi rispettare me. Il nostro scontro – il
primo! – è iniziato perché non ho accettato di fare un viaggio in Nigeria
con te. Senza lasciarmi il tempo di spiegartene le ragioni, hai cominciato a
sproloquiare: io avrei paura delle mie origini e mi vergognerei della mia
metà nera. Come prova hai rievocato la lontana mattina in cui mi chiusi in
bagno e mi tagliai stizzosamente le quarantaquattro treccine annodate dalla
zia Fatma.

Avevo undici anni, mamma! Conosci una sola bambina di quell'età che

ami le trecce? Io le detestavo. Come tutte le mie amichette, adoravo i
capelli lunghi e sciolti. Tutto qui.

Pensando che io viva tra tabù e vergogne segrete, sottovaluti gli esempi

e gli insegnamenti che mi hai dato. Sono una diciassettenne serena e
l'essere una mulatta alta, slanciata, con labbra carnose e occhi dorati
potrebbe essere addirittura un colpo di fortuna se volessi sfondare nel
mondo della moda o della canzone.

Ma non ho queste stupide ambizioni. Se non ho ancora avuto un ragazzo

(cosa che preoccupa moltissimo zia Fatma!) è perché mi sento molto più
adulta e intelligente di quelli che finora ho conosciuto. E torniamo al
viaggio. La Nigeria non mi interessa e non ho bisogno di un impatto con il
cuore dell'Africa povera e nera per trovare me stessa. Io sono radicata in
questo Paese, con i piedi ben posati per terra, e sono altri i posti che
desidererei visitare e le culture che vorrei conoscere...

(Lettera di Cosima alla madre Alyssa)

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Roma, 16 gennaio 1993

Cara Alyssa, nella lettera di Cosima, che hai voluto sottoporre al mio...

parere di psicologa, non trovo nulla di allarmante. Il suo "eccesso di
sicurezza" è tipico della metà dei suoi coetanei: l'altra metà è rappresentata
dai diciassettenni che non si piacciono e si sentono disadeguati e insicuri.
Cosima è una ragazza matura e molto intelligente. Dalle fiducia e non
starle addosso. Ma, soprattutto, accetta che sia diversa da te, la mamma
africana che tutti adoriamo. Cosima, come lei stessa ha affermato, ha i
piedi ben posati per terra. Quella che a te sembra "freddezza" è soltanto
realismo e razionalità...

(Lettera della psicologa Elena Marini ad Alyssa Calangida)

Roma, 12 maggio 1995

Cara Elena, all'ultimo momento ho deciso di cambiare facoltà e di

iscrivermi a Scienze dell'educazione. Resto sempre nell'ambito della
Psicologia, ma penso che mi sarà più facile trovare un posto di lavoro con
una laurea meno specialistica che però mi dischiuderà un maggior numero
di porte...

(Lettera di Cosima alla psicologa Elena Marini)

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PRIMA PARTE

I

L'appuntamento con i Fabris era alle undici, davanti al Santa Dorotea.

Cosima vi giunse un quarto d'ora prima, e si impose di non innervosirsi
perché non erano ancora arrivati. Le undici sono le undici, pensò mentre
infilava la sua Clio tra il furgone di una tintoria e una motocicletta, e
soltanto per i fanatici come me essere puntuali significa giungere in
anticipo.

Attraversò la strada e andò ad attenderli davanti al portone dell'istituto.

Non aveva mai incontrato quella coppia, e di loro sapeva solamente ciò
che la sera prima le aveva detto il giudice minorile: lei insegnante, lui
titolare di una piccola impresa edile. Entrambi trentaduenni, risiedevano a
Ostia in una villa di proprietà. Erano sposati da dodici anni, senza figli, e
da oltre sei avevano fatto domanda per poterne adottare uno.

Finalmente l'attesa era finita: tempo un paio d'ore e sarebbero rientrati a

casa con il bambino di colore che la giovanissima madre aveva
abbandonato nella nursery dell'ospedale e che, dichiarato adottabile, da tre
mesi si trovava nell'istituto Santa Dorotea.

I Fabris erano davvero idonei, come avevano stabilito la psicologa,

l'assistente sociale e il giudice della seconda sezione? Le undici e due
minuti. Cosima sollevò lo sguardo dall'orologio e fu quasi lieta di non
scorgerli perché quel pur minimo ritardo le offriva un motivo per
giustificare l'animosità nei loro confronti.

Perché il giudice Centa continuava ad affidarle, quasi esclusivamente,

casi di bambini di colore abbandonati, maltrattati, strappati alle loro
famiglie? Era un tacito riconoscimento dell'obiettività e dello scrupolo con
cui cercava di affrontare ognuno di questi casi? Oppure glieli affidava
soltanto per competenza, in quanto nessuno avrebbe potuto gestirli meglio
di lei, figlia di una donna di colore che ben conosceva i problemi dei
bambini di colore? Il pessimo umore di quella mattina portava Cosima a
propendere per l'ultima ipotesi. Ma, comunque fosse, Centa
sopravvalutava la sua capacità di analizzare serenamente certe situazioni.

Ogni volta che lei toccava con mano l'inadeguatezza di una madre o lo

sfruttamento dell'intera famiglia, ogni volta che doveva accettare il
ricovero di un minore in un istituto come il Santa Dorotea, ogni volta che
l'onestà le imponeva di stendere una relazione favorevole a una coppia
affidataria, doveva farsi violenza per non lasciarsi emotivamente

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coinvolgere. Erano i soli momenti in cui riaffioravano i ricordi della sua
prima infanzia: otto anni durante i quali era stata oggetto di un contenzioso
senza fine. L'avevano spogliata, visitata, interrogata, controllata. Avevano
ispezionato la sua biancheria, frugato tra i suoi quaderni per leggere i primi
"pensierini", controllato periodicamente lo scantinato in cui vivevano.
Soltanto grazie all'intervento di una psicologa illuminata, Elena Marini,
questa persecuzione era finita e lei era stata dichiarata non adottabile.

Quante Alysse rischiavano di soccombere soltanto perché nessuna

psicologa era venuta in loro soccorso? Ma d'altro canto poteva esistere
un'altra Alyssa? Sua madre aveva come illuminato la sua infanzia. Nel
misero scantinato c'erano state anche allegria, speranza, gioia. E zia Fatma.
Non aveva mai sentito la mancanza della televisione o di una bambola
perché i loro racconti e i loro giochi erano stati un grande divertimento e
un grande stimolo per la sua fantasia.

Una delle tante psicologhe che ebbe l'incarico di seguirla avanzò l'ipotesi

che la personalità di Alyssa fosse talmente forte da condizionare quella
della figlia rendendole problematico sviluppare l'autonomia mentale e
l'autostima. Era avvenuto il contrario: la personalità della madre l'aveva
spinta, d'istinto, a continue affermazioni di autonomia; e la profonda
ammirazione a emularla. Voleva dimostrarle di essere sicura, combattiva e
tenace quanto lei, e per questo era stata la prima della classe per tutto il
liceo, si era laureata con centodieci e lode e sei mesi dopo superava una
selezione di ottanta candidati cominciando a lavorare per il Tribunale dei
minori. Era stata la sua rivalsa.

La sua laurea non l'abilitava a valutare l'idoneità delle coppie affidatarie:

ma questo limite, anziché frustrarla, la rassicurava: i due anni fin lì
trascorsi a contatto con le realtà più dolorose l'avevano portata alla
consapevolezza di non essere adeguata per una responsabilità tanto grande.
La sua lucidità era sopraffatta dai condizionamenti personali e, a dispetto
di ogni evidenza, nessuna madre adottiva le sembrava più idonea di quella
naturale.

Le undici e venti. Altri dieci minuti e me ne vado, pensò sempre più

innervosita.

Ne erano passati circa cinque quando vide una coppia sbucare dalla

strada di fronte e dirigersi correndo verso il Santa Dorotea. Erano
sicuramente i Fabris. Soltanto quando furono a pochi metri da lei si mosse
per andargli incontro.

«La dottoressa Calangida?» l'uomo affermò, più che chiedere. «Scusi il

ritardo, ma c'è stato un incidente e siamo rimasti in coda fino a poco fa.»

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Sua moglie fissò Cosima. «Ci scusi davvero. Eravamo partiti alle otto e

mezzo per arrivare puntuali.»

Quello sguardo mortificato e ansioso trasformò il nervosismo di Cosima

in disagio. Non sopportava di mettere le persone in difficoltà e soltanto in
quel momento si rese conto del modo raggelante con cui li aveva
avvicinati. Abbozzò un sorriso, come a far capire che l'argomento era
chiuso. «Entriamo, la direttrice ci sta aspettando.»

La segretaria, una suorina dal volto rotondo e i modi garbati, li fece

accomodare nel salottino antistante l'ufficio: madre Nunzia, la direttrice,
era appena uscita con il pediatra per accompagnarlo nella nursery, ma
sarebbe rientrata presto.

Cosima si sedette di fronte ai Fabris. «Mentre aspettiamo» disse quando

rimasero soli «possiamo parlare del mio ruolo di supporto. La prima cosa
da chiarire è che non dovrete sentirvi né controllati né sotto esame ma,
appunto, supportati. Per qualunque problema, per qualunque dubbio,
potrete rivolgervi a me.»

«Avremo i problemi di tutti i genitori, e non ci fanno certamente paura»

replicò l'uomo. «Quanto ai dubbi, come potremmo averne? Stiamo
aspettando questo momento da sei anni.»

«Ma forse non questo bambino.»
«Come può dirlo, dottoressa Calangida?» interloquì la donna con voce

vibrante. «L'abbiamo sentito nostro fin dalla prima volta che l'abbiamo
visto! È un bambino così tenero... Bellissimo...»

Cosima annuì. «Purtroppo i neonati di colore sono i più belli.» Vide su

di sé lo sguardo perplesso dei due e, prevenendo il loro interrogativo,
spiegò con voce amara: «Gli angioletti negri dai grandi occhi di velluto
crescono e smettono di fare tenerezza. L'amore dei genitori adottivi
devono meritarselo».

«Noi non avremo questo problema» proruppe la donna.
«Signora Fabris, lo avrà suo figlio perché il razzismo è come una pianta

inestirpabile. Ci saranno sempre persone che non sopportano i neri, gli
omosessuali, gli zingari, i lavavetri, i mendicanti. E il vostro bambino»
Cosima soggiunse rivolgendosi anche all'uomo «fin dall'età dell'asilo
dovrà misurarsi con i figli di queste persone... Avete idea di quante
umiliazioni, quanta rabbia, quanto rancore possono annidarsi anno dopo
anno nell'animo di un bambino che cresce sentendosi emarginato, diverso?
Sei mesi fa ho riportato in un istituto come questo un ragazzino senegalese
di quindici anni, respinto dall'ultima famiglia che lo aveva avuto in affido.

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Una brava coppia come voi lo aveva preso quando ne aveva sei, e otto
mesi dopo si arrese: era un bambino aggressivo, ribelle, intrattabile. Altre
tre brave coppie ci hanno riprovato, ma nessuna ce l'ha fatta.»

L'uomo fissò Cosima e si schiarì la voce. «Lei è la figlia di Alyssa

Calangida, vero?»

«Sì. Ma mia madre...»
«Abbiamo letto su Oggi la sua storia. Io e mia moglie abbiamo riflettuto

molto prima di adottare un bambino di colore e ribadisco che siamo pronti
per affrontare tutti i problemi che arriveranno: anche i suoi. Sappiamo che
sua madre è una persona eccezionale, senza confronti, ma anche
l'emarginazione e le lotte che ha dovuto affrontare sono stati al di là di
ogni confronto. La sua storia dimostra che la capacità di amore e la forza
di volontà possono sopravvivere a tutto. E nostro figlio sarà fortunato
perché non dovrà lottare da solo. Potrà sempre contare sul nostro aiuto.»

«E voi sul mio» Cosima disse.
Sembravano davvero due brave persone e, mezz'ora dopo, quando madre

Nunzia li accompagnò nella nursery per prelevare il piccolo, Cosima si
disse che sì, forse era stato davvero fortunato a trovare due genitori come i
Fabris. Nel congedarsi da loro, istintivamente li abbracciò. Non era nella
sua natura lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e non credeva nelle favole.

Sua madre la rimproverava spesso: tu pensi sempre al peggio! Alla

risposta di essere, semplicemente, realista, Alyssa incalzava: tu confondi il
realismo con il disfattismo. Nella vita accadono anche le cose belle e
buone, e perciò non si può negare che siano reali.

Il pensiero di sua madre la deconcentrò per tutto il giorno. L'articolo a

cui avevano accennato i Fabris raccontava la storia di Alyssa Calangida
proprio come una favola: quella della piccola selvaggia diventata una
donna ricca e stimata. Da una capanna dell'Africa nera all'attico di un
palazzo per metà suo, dal negozietto di cianfrusaglie al grande emporio di
oggetti e abiti etnici segnalati da tutte le riviste di moda.

La descrizione della fiabesca ascesa sorvolava sui pregiudizi e le

meschinità contro cui sua madre e la gemella avevano dovuto scontrarsi
per oltre dieci anni. Ma questo non era da imputarsi alla superficialità
dell'articolista: Alyssa aveva dimenticato tutto e perdonato tutti, e non
voleva ombre del passato nella sua vita meravigliosa. Negava che il
razzismo fosse inestirpabile e portava se stessa e la gemella come esempio:
le persecuzioni erano finite quando la gente aveva cominciato a
familiarizzare con loro, a conoscerle meglio, a capire che il colore della

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pelle non le rendeva né temibili né inferiori.

Alyssa si rifiutava di comprendere che esisteva una forma di sommerso

razzismo anche nella popolarità di cui godeva: si era conquistata coi soldi
la libertà di essere se stessa, e tutti i salotti le erano aperti perché le sue
eccentricità, le sue allegre provocazioni e la sua esuberanza facevano di lei
un personaggio irresistibilmente diverso che portava ovunque la nota di
colore. Il suo emporio era un ritrovo alla moda dove le signore si davano
appuntamento per curiosare, rovistare, chiacchierare: ma quante di loro
sapevano andare oltre la moda etnica per scorgere la creatività e la bellezza
di ciascun oggetto? Quante di loro sapevano che per Alyssa quell'emporio
rappresentava la riconciliazione col passato e un mezzo per mantenere la
propria identità e le proprie radici?

Due volte all'anno si recava in Nigeria, dove si era ormai creata una rete

di fornitori all'ingrosso. Ma, fatti gli ordini, si addentrava nei villaggi
dell'interno alla ricerca di manufatti e vecchi oggetti d'uso comune che
pagava generosamente. Ogni volta ne ritornava incantata e, al suo arrivo a
casa, apriva le valigie e contemplava in un silenzio quasi religioso i suoi
"tesori": l'accostamento di colori dei tappeti, le linee pure dei vasi e delle
stoviglie in terracotta, gli arditi intrecci del cuoio e i disegni essenziali dei
monili in argento o rame erano una struggente testimonianza di creatività e
fantasia.

Ma le signore facevano gli acquisti più importanti con il metro in mano

o con l'arredatore di fiducia. Nessuna di loro era veramente amica di
Alyssa o le avrebbe confidato i problemi più intimi. Né si aspettavano che
Alyssa parlasse dei suoi: davano per scontato che la sua vita meravigliosa
fosse ormai risparmiata da ogni amarezza, e nessuna aveva condiviso il
suo strazio quando, durante un viaggio in Nigeria, aveva saputo che la sua
famiglia e tutte quelle degli altri pastori fulbe da anni erano sparite. Al
posto dei fatiscenti tuguri sorgeva una piantagione di canne da zucchero.
Qualcuno le disse che erano stati uccisi e sepolti lì sotto.

Cosima arrivò immalinconita e tesa alla fine di quella giornata. Lasciò la

macchina nel garage e percorse velocemente il tratto di strada che la
separava da casa. Aveva fretta di arrivare, di immergersi nella vasca da
bagno per togliersi di dosso tutte le tensioni. Ma già entrare nella zona
pedonale di Trastevere bastava a rilassarla. Benché conoscesse ogni
scorcio, ogni angolo e ogni insegna, guardarsi attorno le dava la stessa
sensazione di benessere e di allegria che aveva provato diciotto anni prima,
quando erano andate ad abitare lì. Lei frequentava allora la terza
elementare e Alyssa, grazie al primo negozietto, era riuscita ad

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accantonare i soldi necessari a pagare tre mesi di deposito cauzionale e tre
mesi anticipati per affittare l'appartamento all'ultimo piano di un vecchio
palazzo. Era poco più di un solaio, ma spazioso e pieno di luce. Per loro,
che arrivavano da uno scantinato, era stato come salire in Paradiso.

Alyssa non aveva mai voluto andarsene da lì. Più avanti, quando la

proprietaria era morta, i nipoti le avevano venduto quell'appartamento
sordi alle proteste degli altri inquilini. Anno dopo anno, tutti i guadagni
delle due gemelle erano stati investiti in quel palazzo, per rilevare tutti gli
appartamenti via via messi in vendita nella loro scala. L'unico a non cedere
era stato il notaio Argenzi: il primo piano era di sua proprietà, con un
doppio appartamento adibito ad abitazione e a studio. Ogni volta che era
necessario un intervento di riparazione o di restauro scoppiava tra loro una
furibonda guerra di millesimi.

Ma Cosima era certa che dietro quella guerra esistesse un rapporto di

reciproca stima e rispetto. Accelerò il passo e varcò il portone dirigendosi
verso l'atrio della scala B.

Mario, il portiere, le si parò davanti fissandola con un ghignetto

divertito. «Conserva il fiato per la salita, gazzella.» Indicò l'ascensore: dal
pomolo pendeva un rettangolo di cartone attaccato con una cordicella e la
scritta GUASTO, sottolineata tre volte.

«Oh, no!» gemette Cosima. «Si è guastato di nuovo?»
«Per sempre. Ormai è fuori norma e quelli della manutenzione hanno

detto che non possono fare più niente.»

«Che cosa c'è di tanto divertente?»
«Bisognerà fare un nuovo impianto, come nell'altra scala.» Ridacchiò di

nuovo. «Argenzi ha già detto che lui abita al primo piano e dell'ascensore
non gliene può importare di meno. A tua madre verrà uno sturbo. Hanno
appena finito di litigare per le nuove fioriere del cortile.»

«E tu, in questa guerra, ci sguazzi!» Rise anche Cosima. Adorava Mario.

Quante ore, da bambina, aveva trascorso nella sua guardiola? Per anni
Mario era stato il loro difensore, il loro unico amico.

«Domani ci sarà una assemblea degli inquilini per convincere tua madre

a fare il nuovo ascensore. Mettici una buona parola anche tu, Cosima.»

«Puoi giurarci. Non voglio certamente fare otto piani di scale a piedi

ogni giorno.» .

«Alyssa è diventata proprio una grande spilorcia. Ogni volta che deve

tirare fuori una lira strilla come un'aquila!» disse Mario. Ma la sua voce
era piena di affetto. Pochi mesi prima Alyssa si era rifiutata di licenziarlo
per affidare il palazzo a un portinaio più giovane, come avrebbero voluto

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gli inquilini. E Argenzi, una volta tanto, era stato d'accordo con lei.

«Adesso fammi andare» Cosima disse.
«Buona salita, gazzella.» Si batté una mano sulla fronte. «Mi stavo

dimenticando! È arrivato un mazzo di fiori per te.»

Il viso di Cosima si rabbuiò. «Buttali come gli altri.»
«Era un peccato. Li ho dati al bambino pakistano che alla sera vende i

fiori nelle trattorie e nei...»

«Alla sera i bambini della sua età dovrebbero andare a dormire!»
«Ci va alle undici e mezzo. Dopo cena, invece di guardare la televisione,

dà una mano alla famiglia.»

«Lasciamo perdere.»
«Attaccata al mazzo c'era una lettera. Se aspetti, vado a prenderla.»
«Buttala nel cesso.»
Mario la guardò con una strana espressione tra il compiaciuto e il

divertito. «La dottoressa Calangida non perdona, eh?»

Sono fatti miei, Cosima fece per dirgli. Ma si trattenne per tempo,

avvertendo il ridicolo di quella frase. Dal primo giorno in cui si erano
trasferite lì, Mario aveva condiviso ogni piccolo e grande evento della loro
vita. Per Alyssa era il consigliere, il confidente, l'angelo custode. Una
specie di "stregone" a capo di quella tribù che aveva ricostruito nella scala
B del palazzo.

Il malumore di Cosima passò di colpo. «Immagino che in questi giorni

tu e mia madre abbiate parlato molto di Stefano. Secondo voi, perché si è
rifatto vivo?» chiese ironicamente.

«La risposta sicura si può avere dalla sua lettera. Per questo io e Alyssa

pensiamo che devi leggerla. Forse si è pentito.»

«Pentito di che? Non è colpa sua se è un... Mario, l'argomento è chiuso.

Non c'è niente da capire per la semplice ragione che di Stefano non mi
importa più niente.»

«Ma otto mesi fa eri a pezzi.» Nella voce di Mario vibrò una nota di

odio. «È arrivato il momento di fargliela pagare. Lui ti ha lasciato? Adesso
lo lasci tu. Leggi la lettera e gli rispondi che il suo pentimento se lo può
ficcare in quel posto.»

«Lo capirà da solo.»
«Perché vuoi toglierti la soddisfazione di dirglielo?»
«Ci penserò» Cosima tagliò corto.
«Dottoressa, a me non mi fai scemo. Sei più zuccona di tua madre, e ho

capito benissimo che non gli risponderai mai.»

«Bravo. Adesso vuoi lasciarmi salire? Sono stanca morta.»

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Mario estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca. «Dai, sali in ascensore che

ti accompagno.»

«Ma non è guasto?»
Mario le strizzò l'occhio. «Così Argenzi deve credere. Ci metterà

settimane per mettersi d'accordo con tua madre sul nuovo impianto, e io mi
sono portato avanti mettendolo con le spalle al muro. Argenzi bara dicendo
che dell'ascensore non gliene importa niente, gli serve per i clienti dello
studio e anche per...»

«Tu e mia madre siete diabolici!»
«L'idea è mia» Mario tenne a puntualizzare. «E sono stato io a

imboccare il tecnico. Ma vuoi salire o no?»

Chagussoud: come aprì la porta di casa, Cosima avvertì l'odore acre del

piatto preferito di Alyssa e Fatma, un pastone a base di semola di manioca,
pollo, pomodori secchi, latte cagliato e cumino. Lei si era sempre rifiutata
di mangiarlo, insensibile a tutte le mozioni ricattatorie di sua madre: era il
piatto ricco della nostra infanzia! Quando mia madre e le donne fulbe
preparavano lo chagussoud, una volta all'anno, per noi bambini era una
festa! Almeno assaggialo!

«Fa schifo. Preferisco i supplì», Cosima aveva stabilito, una volta per

tutte, a sette anni.

Quando entrò in cucina, sua madre stava spolpando con espressione

estasiata una aletta di pollo. «Ciao, dottoressa. Vuoi favorire?» la prese in
giro.

«Basta il profumo, grazie.»
Fatma si alzò da tavola. «Per te c'è il polpettone di verdure, adesso te lo

scaldo.»

«Finite pure la vostra mappazza nigeriana. Io vado a fare un bagno e

mangerò dopo.»

Alyssa sollevò lo sguardo su di lei. «Mario ti ha dato la lettera di

Stefano?»

«Qualunque cosa abbia scritto, non mi interessa.»
Sperava di doverlo ripetere per l'ultima volta.
«Ne sei proprio sicura? È stato il tuo ragazzo per tre anni, e questo

significa che qualche qualità gliela trovavi.»

«Certo. Amava la natura, gli animali, i film di Almodóvar, le poesie di

Walt Whitman. E scopava divinamente.»

Fatma avvampò. «Ti sembra il modo di parlare?»
La sorella le fece cenno di lasciare perdere. «Non volevo farti arrabbiare,

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Cosima, ma soltanto aiutarti a vedere chiaro in quello che provi. Se sei
ancora legata a lui, vinci l'orgoglio e riprendilo... A quanto pare ha delle
qualità insospettabili» scherzò. Tornò subito seria. «Tre anni sono tanti, e
non si dimenticano facilmente.»

«Mamma, la cosa più difficile da dimenticare è stato il ridicolo del

nostro rapporto. Mi si spezza ancora il cuore se penso alla mia
imbecillità.»

Per tre anni ho creduto di amare un piccolo Romeo esaltato dal gioco

della passione, Cosima pensò poco dopo sotto la doccia. Con Stefano non
ho condiviso niente di quello che realmente mi interessava e mi
coinvolgeva: ho vissuto il nostro rapporto come una ricreazione, come una
romantica storia di fidanzatini. Non abbiamo mai progettato nulla, mai
affrontato un discorso adulto...

Stefano era sparito dalla sua vita otto mesi prima, rivelandosi di colpo

l'adulto tremebondo e senza spina dorsale che era. In una breve lettera, che
le aveva fatto consegnare in ufficio da un Pony express, le spiegava di
"aver preso coscienza" dei molti problemi che il loro legame comportava e
"per onestà" ne doveva prendere temporaneamente le distanze. Suo padre
gli aveva proposto di trasferirsi per qualche mese a New York, dagli zii, e
gli era sembrata un'opportunità da non perdere. Lontano da lei, si sarebbe
potuto finalmente concentrare nella preparazione dell'ultimo esame e della
tesi: laurearsi era il primo passo per raggiungere l'autonomia; cominciava a
sentirsi in colpa per essere ancora, a ventisei anni, un universitario
mantenuto dalla famiglia.

La lettera terminava con una citazione di Chabrol liberamente aggiustata

per esprimere la sua inadeguatezza di fronte al loro amore: tutto questo
cielo per niente...

L'incredulità e il disagio con cui Cosima aveva letto la lettera erano stati

travolti da un irrefrenabile moto di ilarità. Come aveva potuto lasciarsi
abbagliare da quel trombone? Stefano era talmente inconsistente che le
riuscì impossibile persino detestarlo. Per molti mesi aveva invece detestato
la propria imbecillità. Ma, ancora una volta, era stato il suo connaturato
senso dell'umorismo a salvarla.

Dopotutto, in quei tre anni le era capitato anche qualcosa di buono:

grazie a Stefano aveva fatto una grande abbuffata di film d'autore, letto
libri "imperdibili" e scoperto la poesia. Un idiota con il pallino della
cultura era decisamente meglio di un idiota e basta. Né poteva
sottovalutare il dovergli una iniziazione sessuale appagante: prima di
incontrarlo non aveva mai avuto un vero rapporto.

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Ma era una storia finita. Come aveva detto a sua madre, qualunque cosa

lui dovesse dirle o spiegarle, non le importava più nulla.

II

Alyssa aveva una fiducia cieca nella bontà dell'istinto e considerava

l'indecisione una trappola fuorviante opposta dalla mente. Ma tutte le sue
sicurezze vacillavano di fronte alle scelte e ai comportamenti della figlia.
Aveva accettato che Cosima fosse diversa da lei e si era rassegnata a non
interferire, ma quando la vedeva affrontare una situazione o risolvere un
problema come mai lei avrebbe fatto, il solo modo per tranquillizzarsi era
cercare di capire.

Ne discuteva con la gemella, chiedeva un parere al portiere Mario e alla

fine si rivolgeva alla psicologa Elena Marini, la sola persona a cui
riconoscesse la facoltà di esprimere giudizi inappellabili. Alyssa non
credeva a un Dio provvido e onnipresente, ma vedeva in Elena il segno
tangibile di una "presenza" che aveva dato una svolta alla sua vita.

Era stata lei a impedire che Cosima le venisse tolta per essere data in

adozione, lei a farle ottenere il permesso di soggiorno, lei a trovarle il
primo posto di lavoro regolare, lei ad aiutarla a prendere in affitto – e in
seguito comperare – la casa di Trastevere. Con il trascorrere degli anni, il
loro rapporto si era fatto ancora più profondo.

Elena era diventata un punto di riferimento anche per Cosima, e Alyssa

non ne era affatto gelosa. Al contrario, la rassicurava che esistesse almeno
una persona capace di farsi ascoltare da quella testarda di sua figlia e,
soprattutto, di scorgere un filo di logica in certi comportamenti
incomprensibili.

Cosima stessa, a volte, le appariva un enigma. L'improvviso ritorno in

scena di Stefano e l'ostinazione con cui sua figlia si rifiutava di incontrarlo
avevano acuito il suo senso di impotenza. Non capiva nulla e non poteva
fare nulla.

Fu a quel punto che decise di telefonare a Elena: potevano vedersi, al più

presto? Elena la invitò a cena a casa sua, quello stesso giorno. E la sola
vista dell'amica valse a rasserenare Alyssa. Mangiò con appetito la frittata
di verdure e le zucchine ripiene che Elena aveva comperato in rosticceria e
tra un boccone e l'altro le parlò del suo progetto di organizzare delle
mostre periodiche di arte africana nel suo emporio, del successo che
avevano avuto le vendite dei vecchi bronzetti nigeriani e dei tappetini

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orditi e tramati a mano da Fatma, piccoli gioielli di creatività. Sua sorella
era una vera artista!

«Cosima non è come noi» disse a un tratto. «Ero venuta da te per parlarti

del suo rapporto con Stefano, ma ho capito che è un falso problema. Lo
sai, vero, che si è rifatto vivo all'improvviso e da una settimana sta
inutilmente cercando di incontrarla?»

«Ieri ho visto Cosima al Santa Dorotea e me ne ha parlato. È una storia

finita, Alyssa.»

«Finita perché? Dopo tre anni lui è sparito senza neanche avere il

coraggio di spiegargliene la ragione. Non ti sembra strano che adesso
Cosima rifiuti di vederlo, di capire che cosa è successo? Non ti sembra
strano che non abbia almeno la curiosità di sapere perché è tornato e che
cosa vuole da lei?»

«Alyssa, tua figlia è una ragazza razionale. Quali curiosità dovrebbe

avere nei confronti di una persona che non le interessa e non stima più?»

«Il vero problema è questo: Cosima mi sembra emotivamente paralizzata

dalla sua razionalità.»

«Vuoi rubarmi il mestiere?» la prese in giro Elena.
«Tanti anni fa una tua collega mi fece osservare che Cosima era una

bambina troppo assennata, troppo riflessiva. Avrei dovuto ascoltarla,
invece di risentirmi e strillare che non capiva niente.»

«Cosima è la figlia che avrei voluto avere. Smettila di colpevolizzarti:

dovresti essere invece orgogliosa per come l'hai cresciuta.»

«Con l'aiuto di Fatma, sono riuscita a darle una casa, il benessere, un

titolo di studio... Ma che cosa altro ho fatto? Cosima è un'ottima figlia, è
vero, ma non credo che questo sia un grande successo educativo perché
nella vita non si è figli e basta. È capace di costruire un vero rapporto di
coppia? È abbastanza forte per accettare di mettersi in gioco, di soffrire?
Ha avuto il primo ragazzo a diciotto anni compiuti e a ventitré, quando ha
incontrato Stefano, era ancora vergine. Non dirmi, per piacere, che è una
brava ragazza con la testa sulle spalle... E non ripetere che voglio rubarti il
mestiere se penso che il dramma di Cosima è non avere ancora trovato una
propria identità. Ha rifiutato la sua metà africana, ma una madre con la
pelle nera la fa sentire diversa anche dalle persone con la pelle bianca.»

Alyssa tacque per qualche istante. «Cosima è molto protettiva con me, e

non mi ha mai raccontato le umiliazioni o i problemi che sicuramente ha
avuto... Qualche volta mi sembra così disincantata, così piena di rabbia.»

«Questo non è vero» Elena ribatté con forza.
«Però non puoi negare che viva come in difesa. A volte è troppo

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disincantata, troppo dura nei suoi giudizi.»

«Il lavoro che facciamo è di trincea. Ogni giorno si toccano con mano

violenze e ingiustizie inimmaginabili.»

«Agli inizi credevo che avesse scelto questo lavoro spinta

dall'ammirazione per te. E invece l'ha fatto per me, per avere una rivalsa al
posto mio.»

«Sbagli di nuovo, Alyssa. Tua figlia ha scelto il lavoro che era più

congeniale alla sua natura battagliera e generosa. Sa che non potrà
cambiare il mondo, ma nel suo piccolo si impegna perché non peggiori.»

«Se tornassi indietro, non la rintronerei più con storie di povertà e di

ingiustizia: la riempirei di bambole e vestitini invece che di libri e la
iscriverei a un corso di danza.»

«Vuoi dire che avresti preferito avere una figlia frivola e narcisista?»
«Sicuramente sarebbe stata più felice.»

Per la prima volta in vent'anni parlare con Elena non fu di alcun aiuto ad

Alyssa: se possibile, lasciò l'amica ancora più preoccupata e confusa.
Rientrò a casa poco prima di mezzanotte.

Fatma e Cosima erano in soggiorno e stavano guardando un film alla

televisione. Alyssa si sfilò il cappotto e andò a sedersi accanto a loro. «Se
mi raccontate che cosa è successo, posso guardare anch'io.»

Fatma la zittì con un dito sulle labbra. «Ormai è finito» disse in fretta,

senza distogliere lo sguardo dal televisore.

«Stai guardando anche tu, Cosima?»
«Sì, mamma.»
«Ma stasera non c'era il tuo sceneggiato, Fatma?»
«È finito un'ora fa» Cosima rispose al posto della zia. «Adesso stiamo

guardando questo film.»

«Da quando vi piacciono i gialli?»
«Mamma, sparisci.»
«Ehi, che modi!»
«Stanno arrestando il vero assassino» intervenne Fatma. «Ti sembra il

momento di fare conversazione?»

«Va bene, me ne vado.»
Alyssa si alzò e andò in cucina. Mise nella lavastoviglie i piatti della

cena, che erano stati lasciati dentro al lavello, e scopò le briciole dal
pavimento. Poi passò a pulire il ripiano della cucina a gas.

Cosima entrò in quel momento. «Mamma, che fai? Domattina viene...»
«È finito il vostro film?»

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«Sì. Va' a letto, mamma, domattina penserà Rina a riordinare.»
Alyssa rispose con un mugugno. Perché si era lasciata convincere a

prendere una domestica a ore? Non solo detestava essere servita, ma la
mandava in paranoia.

«Mamma, sto parlando con te. Che cosa viene a fare la donna delle

pulizie se le fai trovare tutto in ordine?»

«Appunto. Non serve a niente.»
Sopraggiunse anche Fatma. «Visto che sei di cattivo umore, Ali, tanto

vale che te lo dica subito. Tre ore fa è venuto il notaio Argenzi: chiamerà
un tecnico di sua fiducia per riparare l'ascensore.»

«Ma che cosa c'è da riparare? È un sarcofago scricchiolante vecchio di

sessant'anni! Anche quelli dell'altra scala hanno fatto un impianto nuovo!»

Cosima ridacchiò. «Argenzi sostiene che non intende gettare dei soldi

per alimentare il tuo antagonismo con i condomini dell'altra scala.»

«Questa battuta l'ha già detta quando abbiamo rifatto le ringhiere e

messo la lampada nuova dell'atrio. Non può cambiare repertorio?»

«Senti quest'altra, sempre di Argenzi: se non ti rassegni a vivere in un

vecchio palazzo di Trastevere, perché non ti comperi una lussuosa villa
con piscina all'Olgiata?»

Gli occhi di Alyssa fiammeggiarono. «Se quello spilorcio di Argenzi

non si rassegna a pagare le spese di manutenzione, perché non mi vende i
suoi appartamenti e non si trasferisce in un bel condominietto moderno?»

Fatma la fissò con disapprovazione. «Argenzi è un signore e tu e Mario

avete cominciato a fargli la guerra quando si è rifiutato di farvi mettere un
acquario di pesci tropicali nell'ammezzato.»

«Era una nota di allegria! Ce lo avrebbero invidiato tutti! Ma questa

volta non l'avrà vinta. Voglio un bell'ascensore con l'apertura automatica
e...»

Si interruppe avvertendo il ridicolo di quella discussione. Si smontò

all'improvviso. Ma che gliene importava dell'ascensore, dell'acquario, delle
risse con Argenzi? Sarebbe tornata a vivere in uno scantinato pur di vedere
Cosima sposata con una brava persona e madre di un bel bambino.

Sentendo su di sé lo sguardo della figlia, disse in fretta: «Si è fatto tardi,

andiamo a letto».

«Come sta Elena?»
«L'hai vista ieri, dovresti saperlo. Perché non me l'hai detto?»
«Mi capita spesso di incontrarla, mamma. Lavoriamo nello stesso...»
«Va bene, va bene.»
«Si può sapere che cosa ti ha preso?»

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«Non ci parliamo mai! Non mi racconti mai niente di te!»
«Non so che cosa dovrei raccontarti. La mia vita ti sembra così

avventurosa e segreta?»

«Purtroppo no. Alla tua età dovresti frequentare amici, viaggiare,

divertirti.»

«Mi hai scambiata per Naomi Campbell?»
«Non occorre essere una donna famosa per avere un mucchio di amici o

un fidanzato.»

Cosima restò qualche istante zitta, indecisa se rispondere seriamente o

buttarla in ridere.

Alyssa incalzò: «Non puoi negare che fai una vita da monaca santa».
«Faccio la vita che ho scelto, e il mio giro di amicizie include soltanto

persone che mi piacciono. Non ti nascondo niente e non hai niente di cui
preoccuparti, mamma.» Cosima ribatté col tono eccessivamente gentile di
chi sta perdendo la pazienza.

Era il momento di fermarsi. Ma Alyssa da mesi si arrovellava nell'ansia

e si poneva interrogativi che non osava esprimere. Ora che il silenzio era
stato spezzato, non poteva ritrarsi vilmente accontentandosi di una
rassicurazione generica.

«Però non hai un fidanzato» disse d'un fiato guardando negli occhi la

figlia. Si sentì come l'acrobata che abbandona la presa per lanciarsi in un
triplo salto senza rete. Non poteva più tornare indietro.

Cosima ricambiò l'occhiata. «No, non ho un fidanzato» rispose con una

strana voce inespressiva.

«Sei bella, sei intelligente, sei giovane: ti sembra normale?» Alyssa

chiese. Varcato il familiare confine della prudenza e del pudore, si era
addentrata con spericolatezza nell'ignoto.

Cosima, curiosamente, sembrò capire il suo stato d'animo. «Ci stai

dando sotto, eh?» osservò con un sorriso tra il divertito e il rassegnato.

«Sono tua madre. Voglio capire.»
«Credo che tu ti sia costruita un castello di paure... attribuendomi dei

problemi che non ho...» Adesso era lei ad apparire in difficoltà. Cercò con
cura le parole. «Non sono mai stata una ragazza smaniosa di essere
corteggiata, di piacere. Fino alla terza liceo ho frequentato soltanto i
compagni di scuola, e mi sembravano così infantili, così immaturi...
Stefano aveva due anni più di me e quando l'ho incontrato, lo confesso,
cominciavo a sentirmi una mosca bianca. Ero la sola ventitreenne ancora
vergine... La sola che non avesse mai avuto un vero rapporto di coppia. Ho
fatto l'errore di cedere a questo stupido complesso, ma non volevo

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ammetterlo. E così ho inventato a Stefano tutte le qualità che cercavo, che
cerco in un compagno...»

«Ma che cosa è successo, tra voi? Perché è finita?» Alyssa non poté

trattenersi dal chiedere.

Cosima esitò. «Aveva detto ai suoi genitori che io ero colombiana. E

quando hanno scoperto che ero mezza nera, sono stati presi dal panico e
hanno spedito il figlio a New York.»

«Oh, cielo! Ma perché non me l'hai detto subito?»
«L'ho saputo stamattina. Uscendo per andare al lavoro, l'ho trovato sotto

al portone col volto afflitto... Voleva giustificarsi, dirmi che non era colpa
sua, che nonostante tutto mi ama ancora. Non fare quella faccia, mamma,
se non mi avesse fatto pena gli sarei scoppiata a ridere in faccia. Quello
che sto cercando di dirti è che non voglio più imbattermi in un imbecille
come lui. E non mi basta trovare un uomo senza pregiudizi cretini, uno che
si senta un eroe perché accetta una donna che potrebbe dargli un figlio con
la pelle nera. Voglio ancora di più: un uomo da amare con orgoglio e con
gioia. Ricordi, mamma? Qualche anno fa ti chiesi perché non ti eri mai
sposata. Nemmeno a me sembrava normale che una donna eccezionale
come te fosse sola. Mi rispondesti che io, tua sorella e il lavoro
riempivamo la tua vita e non chiedevi altro. È quello che adesso sta
accadendo a me. Spero di trovare l'uomo giusto, ma nel frattempo non mi
sento né frustrata né fallita.»

Alyssa continuò a rigirarsi nel letto in balia di una rabbia incontenibile.

Stefano era stato per tre anni con sua figlia vergognandosi di dire ai
genitori che era per metà nera. Fingendo che fosse colombiana. Tanto che
c'era, perché non spacciarla per una bella ragazza romana "abbronzata tutto
l'anno", come una assistente sociale idiota aveva definito Cosima
bambina?

L'ira costrinse Alyssa ad alzarsi. Girò per la stanza come un animale in

gabbia, incapace di stare ferma, ma la paura di svegliare la figlia la
costrinse a tornare a letto. Per assicurarle un'esistenza dignitosa era
scappata dal suo Paese portando con sé un'altra vita da salvare, quella di
Fatma. Quante case aveva pulito? Quante scale aveva lavato? Ripensando
ai primi anni, le sembrava di non avere mai sollevato la schiena. Aveva le
mani piagate dai detersivi e le ossa rotte. A volte era talmente stanca che
gli occhi le si riempivano di lacrime. Ma mentre lavorava, strofinava,
correva da un posto all'altro la sua mente irradiava energia al corpo
stremato. Nessuno poteva fermarla, sapeva che alla fine di quel tunnel

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c'era la luce e vi avrebbe condotto Cosima e Fatma. Non si era mai sentita
onnipotente e libera come in quegli anni. Il futuro dipendeva da lei, era lei
l'artefice del loro destino.

Il pensiero di Stefano le strappò un gemito. Tutto quello che era riuscita

a fare per Cosima era stato vanificato dall'incontro con uno stupido
razzista. E non poteva fare nulla per preservare sua figlia da altri incontri
umilianti e infelici. Questa sensazione di impotenza la faceva stare male.

Era uno di quei momenti in cui Alyssa avrebbe voluto avere il dono

della fede e pregare. La prima volta che aveva sentito parlare di Dio, il
padre onnipotente e misericordioso dei cattolici, era stato a Malumfashi,
nel villaggio degli italiani. Quel Dio buono, circondato da tantissimi santi
e con una bella famiglia aveva colpito la sua fantasia.

"Prega. Chiedigli quello che desideri", le diceva la sua mamma italiana.

Ma ben presto aveva capito che il Dio dei cattolici era come gli spiriti
evocati dai pastori fulbe, insensibile e lontano.

Come poteva essere onnipotente un padre che lasciava il figlio morire

sulla croce tra due ladroni? Come poteva impietosirsi per i dolori degli
uomini quando non aveva avuto nessuna misericordia per il dolore della
Madonna?

Alyssa aveva fatto battezzare e in seguito cresimare Cosima perché le

era sembrato giusto che, vivendo in Italia, fosse allevata con la religione
degli italiani. Per anni l'aveva accompagnata in chiesa, tutte le domeniche,
ma non era mai riuscita a pregare. Se mai fosse esistito, Dio era
lontanissimo dall'inferno terreno e non vedeva la fame, la malattia, la
violenza, la paura, l'odio che sconvolgevano gli uomini.

Don Eugenio, il prete della sua parrocchia, una volta le aveva chiesto

scandalizzato e affranto: "Ma come puoi vivere con questo vuoto dentro di
te? Davvero non riesci a sollevare la testa da questo inferno terreno?".

Oh, sì. Lei fin da bambina aveva imparato a sollevare la testa. E anche se

non lo pregava e non lo chiamava Dio, lei lo vedeva nel cielo stellato, in
un fiore, nei tramonti rossi, in un quadro, nel sorriso di un bambino. "Dio"
era la bellezza, il colore, la pace. Era il profumo dello chagussoud, il
sapore della festa. Dio era anche l'uomo giusto che Cosima aspettava.

Lo troverà, si disse con forza. Il pensiero di Alyssa andò a Sani Buhari,

il pittore che aveva conosciuto in uno dei suoi primi viaggi in Nigeria.
Mentre Cosima le parlava della sua vita di solitudine era stata sul punto di
confessarle che si sbagliava, perché per otto anni era stata legata a un
uomo eccezionale. Sani, il gigante gentile, l'artista dotato anche del talento
del cuore. Alto e massiccio, aveva inaspettatamente modi delicati.

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Ogni volta che andava in Nigeria, Sani la ospitava nella sua bella casa.

Era stato un amante rispettoso, appassionato e adorante. Ma col passare del
tempo quel rapporto gli era apparso sempre più frustrante. Incontrarla due
volte all'anno non gli bastava più: voleva che lei tornasse a vivere in
Nigeria, voleva sposarla e avere dei figli. E Cosima? "Sarò per lei un buon
padre. E ritroverà qui le sue radici", era stata la risposta.

Ma le radici di Cosima erano in Italia. E anche le mie, Alyssa pensò. Era

stata una coppia di italiani a salvarla. Aveva imparato a parlare, a leggere e
a pensare nella loro lingua. L'Italia le aveva dato il riscatto, il lavoro, il
benessere. E così la storia d'amore era finita e Sani non aveva voluto
vederla più.

Ricordando le mani di Sani sul suo corpo, le grosse labbra sulle sue,

avvertì l'oscuro disagio che le aveva sempre impedito di abbandonarsi
completamente a lui. Si sentiva "diversa". Aveva, come Sani, la pelle nera
ma la sua anima era ormai diventata bianca. Una figlia con i lineamenti
regolari e armoniosi aveva modificato anche i suoi modelli estetici.

Guardandosi allo specchio, non poteva certamente definire gradevoli le

sue labbra tumide o il suo naso camuso. Le clienti dell'emporio le
ripetevano che sembrava la sosia di Woopy Goldberg: adorava
quell'attrice, ma bella non era certo.

Le cinque. Alyssa sentì il rintocco della pendola e, poco dopo, la porta

della stanza di Cosima aprirsi. Si impose di restare a letto. "Anche
l'insonnia fa parte della privacy" sua figlia le aveva detto scherzando una
volta, quando l'aveva sentita alzarsi ed era corsa in cucina per chiedere se
stava poco bene o le serviva qualcosa. Cosima era una miniera di battute, a
volte anche sarcastiche. Il senso dell'umorismo non le mancava certo. Ma
c'era qualche dote che sua figlia non avesse?

III

L'istituto Cesare Gallone conservava il nome del nobiluomo che agli

inizi del Novecento aveva lasciato lo stabile in eredità all'Opera protezione
dell'infanzia abbandonata. Era una palazzina di tre piani, originariamente
signorile, che nel gennaio del 1944 venne frettolosamente sgombrata e
requisita dai tedeschi. Alla fine della guerra ospitò dodici famiglie di
sfollati che, rientrate nella Capitale, avevano trovato la loro casa distrutta
dai bombardamenti.

Nel 1952 la palazzina tornò libera, ma era ormai ridotta in condizioni

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disastrose. L'Opera che ne era proprietaria non disponeva dei fondi
necessari per riattarla e così rimase inutilizzata per quattro anni, fino a
quando fu rilevata dal Comune. Ne occorsero altri quattro per concludere i
lavori di ristrutturazione.

Lo stabile fu allargato eliminando il giardino circostante e alla fine la

palazzina perse la struttura e l'eleganza originarie per diventare il tipico
scatolone di cemento degli anni Sessanta.

Dopo essere stata adibita a vari usi, da quindici anni era diventata un

istituto scolastico e di accoglienza per adolescenti sottratti alla potestà dei
genitori e dichiarati adottabili. Ma, salvo rare eccezioni, pochi riuscivano a
trovare una famiglia e il loro destino era restare al Gallone sino al
compimento della maggiore età.

Cosima aveva fatto la tesi di laurea proprio sugli adolescenti che, senza

aver commesso alcun reato e senza alcuna pericolosità sociale, erano
costretti a subire un provvedimento di ricovero quasi sempre vissuto come
ingiusta detenzione. Non si era limitata a descrivere le psicopatologie che
ne derivavano ma nella seconda parte aveva concretamente illustrato le
iniziative, i comportamenti e gli approcci con cui gli operatori potevano
prevenire o affrontare queste psicopatologie.

Prima della stesura della tesi, Cosima aveva trascorso molte giornate al

Gallone, a contatto coi ragazzi, e Amadei, il direttore, le aveva dato un
prezioso aiuto.

Il rapporto con l'istituto era proseguito anche dopo la laurea: quando

aveva cominciato a lavorare per il Tribunale dei minori, uno dei primi
incarichi era stato quello di seguire i ragazzi più problematici dando un
supporto agli operatori. La collaborazione proseguiva da due anni. Tre
pomeriggi alla settimana Cosima si recava al Gallone e ancora una volta
aveva trovato l'aiuto più prezioso nel direttore.

Il primo impatto con quell'incarico era stato molto duro, perché gli stessi

ragazzi che, durante la stesura della sua tesi, si erano mostrati collaborativi
e reattivi avevano eretto un impenetrabile muro di ostilità. In che cosa
stava sbagliando? Con quali comportamenti li aveva delusi? Il direttore la
esortò a non mettersi in discussione: i ragazzi, le spiegò, avevano soltanto
smesso di vedere in lei il personaggio di passaggio, ludico e stimolante.
Nel momento in cui si era ripresentata come una operatrice, era diventata
parte del sistema che li teneva rinchiusi, e perciò una "nemica" di cui
diffidare.

Tutti i test, le attività di aggregazione e le tecniche di approccio che

Cosima aveva esposto nella sua tesi le apparvero mere teorie pateticamente

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inadeguate ai problemi che avrebbe dovuto risolvere. I ragazzi le
sbattevano in faccia, provocatoriamente, le loro realtà. Ciascuno aveva una
diversa storia di miseria, violenza o abbandono, ma il meccanismo di
difesa era uguale per tutti: la corazza dell'indifferenza.

Erano insensibili a ogni sollecitazione, a ogni discorso. E quando

qualcuno riusciva ad aprire una piccola breccia, erigevano la barriera della
rabbia.

Per qualche settimana Cosima lavorò con l'angosciosa certezza che per

quegli adolescenti non poteva esistere né futuro né riscatto. Erano usciti
dall'età più importante, quella formativa, conoscendo soltanto il peggio
della vita. Nessuno gli aveva insegnato il rispetto e l'amore, i loro occhi
non avevano mai visto un'immagine di bellezza. Cosima continuava a
svolgere il proprio incarico con scrupolo, ma sempre più frustrata dalla
certezza di gettare il seme in un terreno arido, di parlare un linguaggio che
nessuno riusciva a capire.

Perché non impari tu a parlare il loro? L'interrogativo la colpì come

una folgorazione mentre era sul punto di arrendersi. E in quello stesso
istante ricordò un lontano episodio che zia Fatma le aveva raccontato,
risalente agli anni in cui lei e la gemella vivevano ancora nelle baracche
dei fulbe.

Una mattina si erano alzate e avevano visto una piantina verde. Sull'esile

stelo si alzava un fiore bianco venato di rosa. La piantina era spuntata nel
solco arido di un carretto, e le gemelline erano rimaste a bocca aperta di
fronte a quella miracolosa visione.

Cosima afferrò al volo quel momento di verità illuminante e al

disfattismo subentrò la lucidità della ragione. Abbandonò gli atteggiamenti
compartecipi, si vietò di lasciarsi sopraffare dalla compassione, depose la
presuntuosa aspettativa di veder "germogliare" autostima, speranza e buoni
sentimenti in ragazzi che neppure ne comprendevano il senso.

Doveva seminare a piene mani, ma con pazienza. E senza mai perdere la

speranza che un seme riuscisse miracolosamente ad attecchire nelle loro
anime. Si adeguò al loro linguaggio, lasciò che sfogassero la loro rabbia. E
fece leva sui soli valori che conoscevano, quelli della furbizia e
dell'impunità, dimostrando con esempi rozzi che la gentilezza rendeva più
facile ottenere qualcosa, che odiare la società serviva soltanto a vivere da
emarginati, che continuare a rimuginare sulle sopraffazioni patite
significava restare incatenati al passato...

Benché fosse contraria a ogni forma di antagonismo, Cosima organizzò

una struttura ricreativa gestita, a rotazione, da un gruppo di ragazzi

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incaricati di elaborare iniziative stimolanti e organizzare manifestazioni in
cui coinvolgere tutti i compagni.

Negli ultimi mesi la struttura ricreativa si era impegnata in un corso di

pittura, tenuto da un artista amico del direttore, e nell'allestimento di una
recita. Cosima non si illudeva certo di avere risolto i problemi dei ragazzi:
il loro coinvolgimento era discontinuo e molti neppure partecipavano a
queste attività. Ma l'apatia generale era stata smossa, come un sasso gettato
in uno stagno, e i meccanismi di difesa si erano allentati.

Quel pomeriggio Cosima varcò il portone dell'istituto con un quarto

d'ora di ritardo: era andata a Ostia a trovare i Fabris e non aveva potuto
rifiutare il loro invito a pranzo. Il piccolo cresceva bene e sembrava
davvero che avesse trovato due bravi genitori.

«Il dottor Centa la sta aspettando nel suo ufficio» le disse il portinaio

sporgendosi dalla guardiola.

Cosima salì a piedi la rampa di scale che conduceva alla direzione. La

porta era aperta e davanti a Sandro Centa era seduto il direttore didattico.
Si arrestò sulla porta.

«Vieni, Cosima» Centa le indicò la poltroncina davanti a sé. Aspettò che

fosse seduta. «Stamattina, durante la ricreazione, Fabrizio è stato sorpreso
mentre passava a due compagni uno spinello. Abbiamo perquisito la loro
camerata e...»

Amadei, il direttore didattico lo interruppe. «Dottoressa Calangida, da

qualche giorno ne avevo il sospetto, ma adesso è diventato una certezza: al
Gallone circolano anfetamine, hashish e altre porcherie. Lavoro qui da
dodici anni, e posso assicurarle che quello della droga era uno dei pochi
problemi che non avevamo. Fabrizio Nardi è riuscito a stabilire un contatto
esterno e, temo, a organizzare uno spaccio. Lei non si era mai accorta di
niente?»

«No. Dovrebbe sapere meglio di me, professore, che questi ragazzi

hanno purtroppo una straordinaria capacità di simulare e di mentire. Devo
ricordarle da quali famiglie provengono?» chiese in tono altrettanto
polemico.

Dopo l'iniziale disponibilità, Amadei si era rivelato un uomo autoritario

e pieno di sé e lei ne aveva ormai un'opinione totalmente negativa.

Il professar Amadei la guardò con un ghignetto sarcastico. «Non ha

proprio niente da ricordarmi o da insegnarmi, dottoressa. Se lei fosse...»

Centa non lo lasciò finire. «Siamo qui per parlare del problema che si è

creato, non per fare polemiche inutili.»

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«Il problema ha una unica soluzione: chiudere il centro ricreativo. Non

soltanto ha portato indisciplina e anarchia tra i ragazzi, non soltanto li ha
deconcentrati dai doveri scolastici, ma ha consentito dei pericolosi contatti
con l'esterno dell'istituto.»

Centa fermò con un'occhiata la replica di Cosima. «Sia pure con parole

sbagliate, caro professore, lei ha sottolineato gli aspetti più positivi del
centro ricreativo.»

«Ne ho dimenticato uno, il più positivo in senso assoluto: è una struttura

voluta dalla dottoressa Calangida, la star della psicologia e dell'istituto.»

Centa trattenne a stento l'ira. «È indubbiamente l'operatrice migliore che

sia entrata al Gallone.»

«Io la penso esattamente al contrario, e farò un nuovo esposto perché sia

destinata ad altro incarico.»

«Avrà l'esito degli altri» Centa disse tra i denti.
Cosima fissò Amadei interrogativamente. «Di quali esposti sta

parlando?»

«Di quelli che ho fatto in questo ultimo anno, e vanamente, al Tribunale

minorile e al competente ufficio del Comune. Purtroppo lei sembra
intoccabile, dottoressa.»

«Lo è: per la sua professionalità e il suo impegno» ribatté Centa.
Sul viso del direttore didattico comparve di nuovo il ghignetto

sarcastico. «A renderla intoccabile è il tabù della diversità. La paura di
apparire razzisti o discriminatori ci fa tollerare ogni sopraffazione e
ogni...»

«Si vergogni» lo interruppe Centa rosso in viso. «Farò io un esposto.

Non la voglio più nel mio istituto.»

«Questo si vedrà.» Amadei si alzò. «La lascio con la musa della

psicologia. Se ha bisogno di me, sono nel mio ufficio.»

Non appena fu uscito, Cosima chiese all'amico: «Perché non mi hai mai

parlato degli esposti di Amadei contro di me?».

«Non ne valeva la pena.»
«Neppure al Tribunale minorile mi hanno detto, niente.»
«Dovresti sapere la stima che hanno di te. E lo stesso vale per i docenti

dell'istituto. Sostengono a spada tratta la struttura ricreativa e sono in
aperto conflitto con Amadei. È una delle ragioni per cui chiederò che
venga sostituito.»

«Resta il problema della droga, e oggi stesso dovrò informare il giudice

della mia sezione. Come è entrata in istituto? Attraverso quali contatti?
Dovremo coinvolgere anche gli insegnanti. E intanto voglio parlare con

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Fabrizio: come si giustifica? Che cosa ha detto?»

«Niente. Si è chiuso in un mutismo assoluto.»
«Dov'è, adesso?»
«In dormitorio.»
«Vado da lui.» Si alzò.
Si alzò anche il direttore. «Cosima, sono mortificato... Amadei è la

persona più meschina che...»

«Io ne ho conosciute molte altre. Come hai detto prima, non vale la pena

di parlarne. Manda qualcuno al Centro con i ragazzi mentre io sono con
Fabrizio.»

Centa si schiarì la voce. «Ventidue anni fa il mio unico figlio è morto

per una overdose di eroina. Né io né mia moglie avevamo nemmeno
sospettato che si drogasse. Aveva vent'anni, faceva l'università, sembrava
un ragazzo equilibrato, sereno...»

Cosima restò per qualche istante in silenzio, il viso pieno di dolore.

«Non lo sapevo...» mormorò.

«Non lo sa nessuno. La tragedia è successa a Milano, dove allora

vivevo.»

«Deve essere stato terribile.»
«Mia moglie non si è ancora ripresa. Io ho trovato in questo istituto una

ragione per sopravvivere. Ogni volta che vedo un ragazzo salvarsi, il mio
rimorso mi dà tregua.» Si interruppe. «E adesso sono molto preoccupato
per quello che sta succedendo.»

«Ti prometto che scoprirò in che modo la droga è entrata al Gallone e la

butterò fuori.»

«Non ti ringrazierò mai abbastanza di tutto quello che fai per i miei

ragazzi.»

Fabrizio era sdraiato sul letto e quando vide Cosima entrare continuò

ostentatamente a leggere un giornaletto.

Cosima glielo strappò dalle mani. «Alzati.» Gli indicò alcune sedie in

fondo allo stanzone. «Dobbiamo parlare, andiamo lì.»

«Non ho niente da dire.»
«Questo lo vedremo. Intanto ascolterai me.»
Fabrizio scese dal letto e infilò le scarpe da tennis dilungandosi ad

allacciare le stringhe.

«Forza, non ho tempo da perdere.» Percorse lo stanzone accertandosi

che il ragazzo la seguisse. Una sedia era rotta e Cosima ne cercò un'altra.

Fabrizio si sedette di fronte e lei e la guardò provocatoriamente. «Mi

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dispiace doverla ricevere qui. Un po' squallido, non le pare?»

«Molto squallido. Ma mai quanto la cella di un carcere.»
Il ragazzo si irrigidì. «Che cosa c'entra il carcere?»
«Fra tre anni sarai maggiorenne e uscirai dal Gallone: se manterrai i

contatti giusti e ti metterai alla grande in certi giri, è lì che finirai.»

«Quante storie per due canne e quattro pasticchette!»
«È una quantità sufficiente per finire in galera. Leggiti i codici, prima

di...»

Fabrizio fece una smorfia. «Sono codici di merda di una giustizia di

merda. Io ho passato anni qui dentro, e l'amante di mia madre che mi
costringeva a succhiargli il cazzo se l'è cavata con sei mesi.»

Fece per alzarsi, ma Cosima lo trattenne per un braccio. «Se il giudice

minorile non ti avesse sottratto a tua madre, avresti passato tutti questi anni
a fare la stessa cosa.»

«Mi lasci andare.»
«No. La tua storia è terribile, Fabrizio. Ti hanno devastato l'infanzia e

purtroppo ne porterai i segni per tutta la vita. Ma in questo istituto, che non
pretende di sostituire una buona famiglia e non è certo una confortevole
residenza, hai trovato delle persone che ti rispettano e ti capiscono. E che,
soprattutto, stanno cercando di darti gli strumenti per costruirti un futuro.
Uscirai da qui con un diploma, sarai aiutato nella ricerca di un posto di
lavoro e nel frattempo avrai un assegno di mantenimento. Sette ragazzi su
dieci, è una statistica di questo istituto, riescono a farcela. Vuoi essere tra i
tre che è impossibile recuperare? Quelli che preferiscono inseguire
guadagni più facili e, imitando i padri o le madri che odiano, si mettono a
spacciare, a rubare, a fare i magnaccia?»

«Io odio davvero mia madre» Fabrizio disse torvo.
«E allora liberati dal ricordo di quello che ti ha fatto. Non permetterle di

devastare anche la tua vita adulta. Spacciare droga è una cosa infame,
Fabrizio.»

«Io non ho spacciato! Ho portato un po' di roba e l'ho data ai miei

amici.»

«Dove l'hai presa? Da chi?»
«Questo non posso dirlo» rispose Fabrizio, sulla difensiva.
«Se non lo farai, parlerò col giudice e ti farò sbattere in un carcere

minorile. Al Gallone non era mai entrata la droga.»

«Per forza. I ragazzi non hanno nessuno che li venga a trovare e vivono

come carcerati.»

«I carcerati non vanno al cinema, alle mostre, alle gite scolastiche... Non

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escono soli come è stato concesso a te. Ti eri conquistato la fiducia di tutti
e l'hai tradita nel peggiore dei modi. Te lo ripeto: o dici chi ti ha dato la
droga oppure domani stesso sarai allontanato da qui.»

«È questo il rispetto e la comprensione di cui blatera? Mi farebbe

davvero mandare in un carcere minorile?»

«Il mio rispetto è solo per i ragazzi che se lo meritano. E ho il dovere di

salvaguardarli da chi mette in pericolo il loro futuro e vanifica tutto quello
che nell'istituto si sta facendo per aiutarli.»

Le spalle di Fabrizio si piegarono. Dopo qualche istante di silenzio

sollevò su di lei uno sguardo supplice. «Non posso dirglielo. Abbia fiducia
in me, dottoressa, non porterò mai più delle porcherie qui dentro...»

«Non basta. All'esterno c'è qualcuno che si è servito di te per creare un

contatto con il Gallone e fare entrare della droga. Se non lo fermiamo,
troverà un altro contatto.»

«Non posso dirglielo!» Fabrizio gridò.
«Non devi avere paura di minacce o di rappresaglie. Qui sei protetto.»
«Io non ho mai avuto paura di nessuno. Nemmeno quando mi

riempivano di botte per...»

«Fabrizio, basta col passato. Adesso stiamo parlando del guaio in cui ti

sei cacciato, e senza essere stato costretto da nessuno. Se davvero non hai
paura, dimostralo coi fatti e dimmi il nome di quella persona.»

«La roba me l'ha data Sabrina, mia sorella. Mi era venuta voglia di

vederla e la settimana scorsa, quando sono uscito per ordinare le pitture e i
pennelli, ho fatto un salto nella mia vecchia casa.»

Cosima strinse gli occhi. «Credevo che anche tua sorella fosse stata

affidata a un istituto.»

«Tre mesi fa ha compiuto diciotto anni e mia madre se l'è ripresa in casa.

Sabrina è una gallina dalle uova d'oro e ora che è diventata maggiorenne
può farla battere senza pericoli.»

«Questo lo dici tu!» proruppe Cosima con indignazione. «Tua madre

può essere denunciata per sfruttamento della prostituzione, con
l'aggravante di...»

«Le lasci perdere, se mia madre finisce in galera a mia sorella tocca farsi

anche i suoi clienti.»

«Come puoi essere così cinico?»
«È la realtà. Lei ci ripete sempre che non dobbiamo avere paura della

verità, che dobbiamo essere realisti.»

«Essere realisti non significa accettare passivamente tutto, non provare

indignazione e rabbia.»

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«Sabrina è una poveretta. Che altro poteva fare?»
«Poteva accettare l'aiuto dell'istituto, rivolgersi a un'assistente sociale,

andare a fare la domestica... Tutto fuorché ricascare nel degrado. A quanto
pare, oltre a prostituirsi spaccia anche droga.»

«Questo no, mica è scema! Ne tiene un po' per uso personale: roba

leggera, mica ero o coca. Mi ha visto giù di corda e mi ha dato qualcosa.
Ho sbagliato, lo so. Ma non posso farla pagare a mia sorella.»

«Riuscire a toglierla da quella vita sarebbe la sua fortuna.»
«Non credo. Dovrebbe vedere che casa si sono fatte. Hanno anche la

vasca con l'idromassaggio.»

Cosima evitò di rispondergli e si congedò da lui dicendogli che era

compito del direttore valutare quanto era successo e prendere le decisioni
del caso.

Riferì fedelmente a Sandro Centa il suo colloquio con Fabrizio e alla

fine non riuscì a nascondere la propria amarezza. «Era uno dei ragazzi che
ritenevo più impegnati, più decisi a tagliare i ponti col passato. Era il
leader del centro ricreativo, quello che trascinava gli altri con il suo
entusiasmo.»

«Domani manderò la Giannini a parlare con sua sorella. È una

bravissima assistente sociale, e prima di prendere qualunque iniziativa
voglio sentire che cosa ne pensa. Non possiamo escludere che Fabrizio sia
stato raggirato o plagiato dalla sorella. O che alla fine tutto si possa ridurre
a una bravata: ha preso la droga e per farsi bello l'ha distribuita agli
amici.»

Cosima annuì. «Sono d'accordo con te. Ma comunque stiano le cose, c'è

qualcosa che mi lascia perplessa. È come se Fabrizio si fosse dimenticato
di compiacermi con la recita del bravo ragazzo per apparire quello che è:
un quindicenne indurito, confuso, pieno di contraddizioni.»

«Ma tu continua a seminare» Centa la esortò.

Due settimane dopo accadde qualcosa di sbalorditivo: un miracolo nato

dall'intrecciarsi di eventi del tutto casuali.

Rosaria Giannini, l'assistente sociale incaricata dal direttore dell'istituto

di parlare con la sorella di Fabrizio, fece un resoconto amarissimo della
situazione: la sorella del ragazzo faceva la prostituta e non si poteva
accusare la madre né di istigazione né di sfruttamento perché si trattava di
una sua libera scelta. Il degrado morale aveva irrimediabilmente segnato
quella diciottenne. Uscita dall'istituto, il suo unico desiderio era stato
riscattarsi dalla povertà e vivere nel lusso. Aveva scelto la strada più facile,

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ed esercitava il mestiere senza vergogna e senza disagio, attenta solamente
a non incorrere nell'illegalità.

L'assistente sociale aveva convinto Centa e Cosima a non essere troppo

rigidi con Fabrizio: quel ragazzino le faceva una profonda pena, non
soltanto per le violenze fisiche e lo sfruttamento di cui era stato vittima,
ma per l'ambiente in cui era cresciuto. Un deserto totale di valori, di
intelligenza, di affetti.

La Giannini stava occupandosi, in quei giorni, del caso di una bambina

di tre anni data in affido temporaneo a una coppia non più giovanissima,
che stava per trasferirsi a Milano. Ovviamente il trasferimento non
pregiudicava l'idoneità della coppia, ma la piccola Alena, di origine
albanese, era orfana di madre ed era stata portata in un istituto quando il
padre era finito in galera per rapina.

Le sue condizioni, psicologiche e di salute, erano drammatiche e gli

stessi genitori affidatari avevano chiesto un supporto al Tribunale minorile
quando l'avevano portata a casa. La partenza da Roma comportava
l'esigenza di trovare un'assistente sociale, una logopedista e una psicologa
anche nella nuova città.

Rosaria stessa si mise in contatto con il Tribunale minorile di Milano e

risolse il problema. Fu durante l'incontro con la coppia che parlò del caso
di Fabrizio. Lo fece con rabbia, con amarezza: perché nessuno aveva
segnalato gli abusi di cui era stato vittima per anni? L'indifferenza dei
vicini era stata forse la peggiore delle violenze che gli erano state fatte,
perché se fosse stato strappato subito alla sua orribile madre sicuramente
avrebbe trovato una famiglia disposta ad amarlo e a crescerlo. Adesso, a
quindici anni, nessuno lo voleva più.

Colpiti da questo racconto, sconvolti dalla sorte del ragazzo, il giorno

dopo i coniugi Alfonsi si erano recati all'istituto per conoscere Fabrizio. E
Fabrizio li aveva conquistati.

Senza un attimo di esitazione, seguendo la voce della loro natura

generosa, avevano deciso di rimandare la partenza e di chiedere
l'affidamento di Fabrizio. Le pratiche furono svolte con una rapidità
inconsueta, ma giustificata dall'eccezionalità del caso: la coppia era di
indiscutibile affidabilità, e sicuramente l'unica che desiderasse davvero
farsi carico di un adolescente problematico. E Fabrizio aveva già trascorso
troppi anni in uno stato di incolpevole reclusione.

Cosima andò a salutarlo mentre stava preparando la valigia con le sue

poche cose.

«Ha visto? Ce l'ho fatta! Gli sono piaciuto!» Fabrizio disse con

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esultanza.

Per la prima volta Cosima non seppe che cosa dire. Lo abbracciò in

silenzio, il cuore stretto da un confuso senso di disagio e di allarme.

IV

La guerra dell'ascensore si era conclusa senza né vincitori né vinti: il

"traballante catafalco" difeso strenuamente dal notaio Argenzi rimase al
suo posto, ma il vecchio impianto venne completamente rifatto, con tutti i
dispositivi di sicurezza voluti da Alyssa e un motore idraulico.

A questo scopo fu necessario allargare e ristrutturare il gabbiotto di

cemento che si trovava sul terrazzo. Al momento di saldare il conto, la
guerra ebbe una breve ripresa: Alyssa pretendeva che fosse quantificato il
"danno biologico" arrecatole dal rumore e dal trambusto dei lavori, ma
Argenzi definì ridicola la richiesta. L'avvocato di Alyssa le sconsigliò di
insistere: si trattava, in effetti, di una pretesa indifendibile.

Alyssa, che non si rassegnava alle sconfitte, dopo aver pagato il conto

annunciò alla sorella e alla figlia che "non sarebbe finita lì". Una sera al
termine di aprile Cosima tornò a casa e vide un monumentale acquario
troneggiare alla destra dell'ascensore. Decine di pesci guizzavano in un
susseguirsi di rocce, tunnel, piantine tropicali e sassi colorati: il tutto
sfarzosamente illuminato.

«Come hai fatto a convincere Argenzi?» Cosima chiese, stupita, a sua

madre.

«È una decisione che ho preso da sola. Un blitz» ridacchiò Alyssa.
«Mamma, sei impazzita? Dopo tutte le discussioni che ci sono state,

credevo che avessi rinunciato all'acquario.»

«Adesso ho cambiato idea.»
«Argenzi ti costringerà a toglierlo!»
«Questo lo vedremo. Dovrà farmi causa e la perderà, perché non gli ho

chiesto di contribuire alla spesa e ho il diritto di fare tutti gli abbellimenti
che credo, visto che sono padrona di dieci appartamenti su dodici.»

«Hai detto abbellimenti
«Certo. Ho scelto il modello Oceano super, con tutti gli optional

comprese le gallerie di corallo: il massimo degli acquari... Non dirai che
non ti piace!»

«E come no? Sembra la Versailles dei pesci.»
«Guarda che con le tue battute non mi smonti.»

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«Allora sarò seria: fai una tragedia ogni volta che arriva il conto delle

spese condominiali e poi spendi una fortuna per un Oceano super.»

«Fare un dispetto ad Argenzi non ha prezzo! E sto aspettando con ansia

le sue reazioni: purtroppo in questi giorni è fuori Roma e dovrebbe tornare
domani: così mi ha detto Mario.»

Cosima provò un moto di tenerezza per sua madre. Era impossibile

irritarsi per i suoi puntigli, i suoi capricci, le sue testardaggini da bambina
perché con la lunga lotta contro una sorte avversa non si era conquistata
solamente la dignità di essere umano, la libertà e la ricchezza, ma aveva
anche riscattato la sua infanzia negata. Una parte di lei non se ne sarebbe
staccata più: la donna determinata e manageriale avrebbe convissuto per
sempre con la bambina.

E fu con infantile delusione che al lunedì sera Alyssa disse alla figlia: «È

incredibile: poco fa ho incontrato Argenzi davanti all'ascensore e mi ha
salutato senza neanche accennare all'acquario. Appena entrata in casa ho
citofonato in portineria per sapere se si era lamentato con Mario: niente.
Non so proprio come spiegarmelo.»

«Forse il tuo Oceano super gli è piaciuto da impazzire.»
«Non dire sciocchezze. Forse mi farà scrivere dal suo avvocato.» Nello

sguardo di Alyssa balenò un lampo di eccitazione.

Quando Mario e la moglie erano stati assunti come portinai dello stabile,

i genitori del notaio Argenzi erano già morti. Il loro grande appartamento,
che si estendeva su tutto il primo piano, era stato affittato a un funzionario
dell'ambasciata americana che viveva lì con la moglie, quattro figli e due
domestiche.

Sette anni prima il funzionario era tornato a New York e Alyssa,

interessata all'acquisto dell'appartamento, aveva chiesto a Mario di
metterla in contatto con il proprietario. Il notaio Argenzi, attraverso Mario,
le fece sapere che per il momento non intendeva vendere.

Le speranze di un ripensamento caddero qualche mese dopo, quando

Alyssa seppe che il notaio aveva deciso di trasferirsi nel palazzo. Il grande
appartamento fu ristrutturato e diviso in studio e abitazione. Al termine dei
lavori, durati tre mesi, un'impresa di traslochi trasportò tutti gli arredi dello
studio.

Quelli dell'abitazione arrivarono invece direttamente da un mobilificio,

nuovi di zecca. La cosa suscitò la sorpresa di Mario, che subito ne parlò ad
Alyssa, e divenne un mistero appassionante come un giallo: dove erano
finiti i mobili della vecchia casa? Possibile che Argenzi non avesse portato

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via nulla?

Fu Alyssa ad apprendere casualmente, da una cliente del suo emporio,

che il notaio Argenzi si era appena separato dalla donna con cui aveva
convissuto per molti anni. Ne dedusse che la casa era di proprietà di lei e
per questa ragione il notaio aveva dovuto comperare i mobili per la nuova
abitazione.

Mario riuscì ad avere qualche altra informazione sul nuovo condomino

interrogando una impiegata dello studio notarile. Argenzi era stato sposato
con una milanese. Dopo il divorzio, avvenuto alla fine degli anni Settanta,
la donna era tornata a vivere nel Nord con il loro unico figlio, che all'epoca
era un ragazzino.

Nei sei anni trascorsi dall'arrivo di Argenzi nel palazzo nessuno aveva

mai visto questo figlio. Mario ed Alyssa, facendo due calcoli, avevano
stabilito che doveva avere ormai superato la trentina. Che lavoro faceva?
Era sposato?

Alyssa non riusciva a capacitarsi che questo figlio si fosse scordato di

avere un padre, a meno che non avesse subito un torto imperdonabile: ma
quale? Il notaio, nonostante il suo caratteraccio, era una persona perbene.
Viveva, porta a porta, tra casa e ufficio. A parte le due segretarie del suo
studio e la filippina che andava a fare le pulizie, non si era mai vista una
donna andare da lui.

«Vuoi smettere di impicciarti dei fatti degli altri?» Cosima ripeteva

spesso alla madre.

Tre giorni dopo il ritorno di Argenzi dal suo breve viaggio, nel "giallo"

si aprì uno spiraglio. Erano le otto del mattino quando Mario citofonò in
casa Calangida. Rispose Alyssa.

«Apri subito la televisione e guarda il telegiornale di Raiuno» Mario le

disse con voce concitata.

Alyssa corse in soggiorno e dopo pochi istanti gridò alla figlia e alla

sorella di correre.

«Che cosa succede?» chiese Cosima.
«Devo capire, silenzio.»
Il conduttore stava parlando di un fatto di cronaca nera avvenuto a

Milano.

Una donna, trovata brutalmente assassinata in una piazzola della

Rivoltana, era stata identificata nel corso della notte: si trattava di Luisa
Marchi, la moglie trentaduenne del magistrato milanese Nicola Argenzi,
scomparsa da casa cinque giorni prima. La donna lasciava una bambina di

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sei anni. Poco tempo prima un altro lutto aveva colpito il magistrato: sua
madre era rimasta vittima di un incidente stradale.

Il conduttore passò poi a parlare del traffico sulle autostrade.
Prima che Alyssa avesse il tempo di aprire bocca, il citofono squillò di

nuovo. Era Mario. «Avete sentito? Il marito della vittima è il figlio del
notaio. Argenzi è uscito un'ora fa, di gran corsa, e ho sentito che diceva al
tassista di portarlo all'aeroporto. Che tragedia!»

«È davvero una tragedia» Alyssa ripeté, sconvolta, alla figlia e alla

sorella. «Che cosa possiamo fare per quel pover'uomo?»

«Lasciarlo in pace» Cosima rispose brusca.
Il "giallo della Rivoltana", come venne ribattezzato, per tutta la giornata

occupò notiziari e telegiornali e si arricchì di particolari intriganti. Il
magistrato Argenzi e la moglie si erano separati legalmente otto mesi
prima, ma vivevano sotto lo stesso tetto per amore della figlia Matilde,
affetta dalla sindrome di Down.

La portinaia dello stabile, intervistata, lasciò intendere che era

soprattutto il padre a occuparsi della bambina... No, non trovava strano che
il dottor Argenzi non avesse denunciato la sua assenza... Sua moglie era
solita allontanarsi spesso...

La migliore amica della vittima nel corso di un'altra intervista rivelò che

la nascita di una figlia handicappata aveva sconvolto la povera Luisa.
Dopo il parto era caduta in una profonda crisi di depressione. Luisa veniva
descritta come una donna molto bella e molto fragile.

I cronisti non risparmiarono i particolari più impietosi: la vittima era

stata trovata senza scarpe e senza indumenti intimi. L'assassino l'aveva
freddata con quattro colpi di pistola, uno dei quali sparato in pieno viso,
quasi a volerla sfregiare. O rendere problematico il suo riconoscimento.

Nicola Argenzi stava collaborando attivamente ma non era in grado di

fornire alcun elemento utile all'identificazione dell'assassino e gli
inquirenti brancolavano ancora nel buio...

Cosima era sempre più indignata per la commistione di banalità,

ipocrisia e illazioni con cui si stava morbosamente dando corpo a quella
tragedia.

Anche Alyssa era indignata. Al di là delle liti e delle provocazioni,

aveva sempre rispettato il notaio Argenzi ed era sinceramente addolorata
per lui.

Due giorni dopo il ritrovamento della donna, Cosima uscì dall'ascensore

e vide il notaio Argenzi. Era fermo a pochi passi da lei e teneva una mano

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sulla spalla di una bambina che stava contemplando l'acquario di Alyssa.

Cosima si fermò per qualche istante. Proseguire come se non l'avesse

visto? Salutarlo senza fare alcun cenno a quanto era accaduto?

Fu Argenzi a toglierla dall'imbarazzo. Dopo averle rivolto un gesto di

saluto, le si avvicinò. «Ringrazi sua madre, Cosima. Ho appena trovato
nella cassetta della posta la sua lettera.»

Cosima ignorava che Alyssa gli avesse scritto, ma non se ne stupì. «Di

qualunque cosa abbia bisogno, può contare su di noi» replicò. Quella frase
le sembrò la più convenzionale e stupida che potesse dirgli.

Ma il notaio la ringraziò con calore. E indicando la piccola col visetto

incollato davanti all'acquario le disse: «È Matilde, la figlia di mio figlio.
L'ho portata con me fino a quando...» La voce gli si spezzò. Subito si
riprese. «Ho chiesto a Mario se riesce a trovare una brava donna in grado
di badare alla bambina. E lo chiedo anche a lei, Cosima. Col suo lavoro,
forse le sarà più facile.»

«Mi interesserò oggi stesso, stia tranquillo.»
«Grazie... Matilde non ha molta confidenza con me e...» Il notaio si

interruppe. «È una bambina molto sensibile e intelligente, nonostante il
suo... handicap.»

Cosima sorrise. «A quanto sembra, le piace molto l'acquario. Mia madre

ne sarà felice.»

Sorrise anche il notaio. «Ieri sera, quando siamo arrivati da Milano, non

riuscivo a smuoverla da lì. E la prima cosa che stamattina mi ha chiesto è
stata di portarla qui a salutare i pesci.»

Cosima si avvicinò alla piccola e si curvò su di lei. «Ciao, Matilde.»
«Ciao.» Non distolse il visetto dall'acquario.
«Lo sai che questi pesci sono arrivati qui con la loro bella casa

galleggiante perché volevano conoscerti e diventare tuoi amici?»

«Tu li conosci?» la bambina chiese sollevando lo sguardo su di lei.
«No. Lo sai che per due giorni se ne sono stati nascosti tra le piantine e

dentro le gallerie? Aspettavano te.»

«Dove abitavano? A Milano?»
Cosima indicò il pesce più grande e colorato. «Lui è il nonno di tutti i

pesci... Mi ha detto che vuole parlare soltanto con te.»

«Ma non mi ha detto niente! Lo vedi? Non parla.»
«È un linguaggio muto. Mentre si muove, apre e chiude la bocca... Tu

devi capire quello che vuole dirti.»

Matilde schiacciò nuovamente il viso contro il vetro, le labbra strette e lo

sguardo fisso. «Ha detto che è contento che sono arrivata!» esclamò dopo

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qualche istante.

Il notaio Argenzi rivolse a Cosima uno sguardo pieno di gratitudine e

prese la nipotina per un braccio. «Adesso torniamo a casa. Devi fare
colazione e...»

«I pesci non vogliono! Io resto qui.»
«Devono fare colazione anche loro» intervenne Cosima. «Verrai a

trovarli più tardi.»

«Perché abitano qui? Questa è una scala, non una casa.»
«La loro casa è l'acquario... Lo sai come si chiama? Oceano.»
«E i pesci come si chiamano?»
«Non me l'hanno voluto dire. Dovrai chiederglielo tu. Ma più tardi,

quando...»

«Perché non portiamo questa casa di sopra, nella stanza dove dormo

io?» Matilde la interruppe.

«Hanno scelto questo posto, e forse non vogliono spostarsi. Glielo

chiederemo fra qualche giorno. Intanto tu li verrai a trovare e farai vedere
al pesce nonno che sei una bravissima bambina.»

«Si chiama Attilio come questo nonno.» Matilde indicò il notaio

Argenzi. «Me l'ha appena detto» aggiunse.

«Guarda! Ti sta dicendo anche di andare a fare colazione...»
«Va bene, vado. Tu come ti chiami?»
«Cosima.»
«Vai a fare colazione anche tu?»
«No, sto andando a lavorare.»
«Anche il mio papà va sempre a lavorare. Ma tu stasera torni?»
«Certo. Io abito in questo palazzo. In alto, all'ultimo piano... Se vuoi,

quando torno ti porto a vedere la mia casa.»

«Adesso no?»
«Adesso ho tanti bambini che mi aspettano.»
«Per fare colazione?»
«Sì, proprio così.»
«Sono bravi?»
«Sì, bravi come te. Ci vediamo stasera, Matilde.»
«Me lo dai un bacio?»
«Certo!» La sollevò da terra e la piccola le allacciò le braccia attorno al

collo, strofinando il viso contro il suo. Cosima avvertì una fitta di
tenerezza struggente.

Il "giallo della Rivoltana" divenne sempre più intricato e si arricchì di

quei particolari morbosi che appassionano l'opinione pubblica. Gli

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inquirenti scoprirono che da oltre un anno Luisa Argenzi aveva una
relazione con Alfredo Alessi, il figlio di un ricco commerciante di gioielli.
Alfredo lavorava con lui.

I giornali pubblicarono la sua fotografia: era un ventottenne col fisico da

fotomodello e lo sguardo irridente. Una delle tante ex fidanzate lo
descrisse come un ragazzo generoso, allegro, appassionato, ma molto
possessivo e geloso. I sospetti sul "playboy d'oro", come venne
folcloristicamente ribattezzato per la sua professione, caddero subito
perché aveva un alibi di ferro: quando l'amante era stata assassinata si
trovava a Londra ed era rientrato a Milano dopo il ritrovamento del corpo.

Nicola Argenzi dichiarò che dopo la separazione la moglie era stata

libera di frequentare chi volesse e che lui ignorava la relazione con Alessi,
ma la sorella suora della defunta rilasciò una testimonianza che lo mise in
difficoltà: due giorni prima della tragedia tra Luisa e il marito era
scoppiato un grave litigio. Ne ignorava il motivo, ma sua sorella le aveva
confidato che la convivenza era ormai diventata impossibile e il marito
l'aveva praticamente costretta a cercarsi un'altra casa.

Questo le appariva strano: era stato proprio Argenzi, dopo la

separazione, a chiedere alla moglie di restare sotto lo stesso tetto. La donna
avanzò il sospetto che suo cognato avesse scoperto la relazione di Luisa:
ma non era compito suo trarne le conclusioni...

Cosima, con l'aiuto dell'assistente sociale Rosaria Giannini, riuscì a

trovare una donna che stesse tutta la giornata in casa del notaio a occuparsi
di Matilde per tutto il tempo necessario. Si trattava di una cinquantenne
che, rimasta vedova, si era attivamente impegnata nel volontariato. Il suo
arrivo si rivelò provvidenziale, ma non valse a risollevare il morale di
Attilio Argenzi.

Ogni volta che Alyssa leggeva un giornale o ascoltava un notiziario dava

in escandescenze: stanno insinuando che l'assassino è il marito! Ieri lo
hanno interrogato tre volte!

«Mamma, non sappiamo nulla di questo uomo e il fatto che sia un

magistrato non impedisce agli inquirenti di interrogarlo e di avere dei
sospetti» una sera Cosima la riprese.

«È incredibile» sbottò Alyssa. «Anche tu pensi che l'assassino sia lui?»
«Non lo posso escludere come fai tu.»
«Certe cose si sentono a pelle.»
«Fortunatamente la giustizia si basa sui fatti, e non sulle sensazioni.»
«A volte ti odio. Tu ragioni soltanto con la testa!»

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Da giorni Cosima tratteneva la madre dall'andare dal notaio Argenzi per

esprimergli la propria solidarietà e offrirgli aiuto.

Dopo quella discussione, Alyssa decise di fare a modo suo. «Domattina

vado da quel poveretto. Al diavolo la tua razionalità, non posso lasciarlo
solo come... come se fosse un appestato. Deve sapere che può contare su
qualcuno, che il mondo non è fatto solo di sciacalli.»

«Credo che in questo momento abbia bisogno soprattutto di essere

lasciato in pace. Gli ho trovato una brava donna che si occupa di lui e della
bambina e...»

«Sarà brava, ma fa tristezza a guardarla. L'ha detto anche Mario. Ogni

volta che esce con la bambina sembra che vada a un funerale, con quella
faccia scura e i vestiti neri.»

«Quando imparerete a farvi i fatti vostri?»
«Se gli italiani di Malumfashi l'avessero pensata come te, a quest'ora

dove sarei?» Alyssa ribatté.

Il mattino seguente aspettò l'ora in cui Argenzi apriva lo studio e si

presentò da lui.

«Se la disturbo, me ne vado subito. Ma prima voglio farle sapere che

nessuno meglio di me può capire il momento che sta passando e non deve
sentirsi solo» disse d'un fiato.

«Non mi disturba affatto, signora Calangida.»
«Alyssa. Sarei venuta prima, se mia figlia non mi avesse rintronato

con... Lasciamo perdere, quella ragazza è fatta a modo suo.»

«Si accomodi, Alyssa. Sua figlia è stata una benedizione del cielo: è

davvero una brava ragazza e ha conquistato anche la mia nipotina. Matilde
è impazzita anche per il suo acquario» aggiunse con un sorriso.

Alyssa spostò la poltroncina e si sedette. «Dottor Argenzi...»
«Attilio.»
«Con quell'acquario volevo farle un dispetto... Gliene ho fatti molti altri,

ma non deve pensare che ce l'avessi con lei. Lo facevo per provocarla. Io
non sono nata signora, e le persone controllate, calme, sicure fanno
emergere la mia natura dispettosa. È stato come un gioco, insomma. Ma
l'ho sempre stimata. Moltissimo.»

«Lo stesso vale per me. Devo confessarle che anche per me è stato una

specie di gioco rispondere ai suoi dispetti. Quando sono tornato da Milano
e ho visto il suo acquario, nonostante tutto mi è venuto da ridere. Sembra
un piccolo oceano!»

Alyssa raddrizzò le spalle. «In effetti è il modello Oceano super: il

massimo. E non può immaginare come sono contenta che sia piaciuto alla

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sua nipotina.»

«Passerebbe tutta la giornata davanti all'acquario. Ha dato un nome a

tutti i pesci e il "nonno" l'ha chiamato Attilio, come me. Lo sa che Cosima
le ha insegnato a parlare con loro? Senta, Alyssa, deve permettermi di
partecipare alle spese. Immagino che il suo Oceano sia costato una
fortuna.»

«Non se ne parla nemmeno!»
«Ovviamente contribuirei soltanto per il venti per cento, i miei

millesimi...» Il sorriso di Argenzi si spense. «Lei è la sola persona che in
un momento come questo riesce a farmi scherzare.»

Si fece seria anche Alyssa. «Smetta di leggere i giornali e di guardare i

telegiornali.»

«Questo non cambia nulla. Sono angosciato per mio figlio. E per il

futuro di Matilde. Ho quasi sessant'anni, e sono troppo vecchio per fare da
padre a una bambina di cinque anni e mezzo.»

«Ma un padre ce l'ha! Non crederà che suo figlio sia colpevole di...»
«Alyssa, io non conosco mio figlio e non posso escludere niente...»
La stessa affermazione di Cosima. «Lei deve avere fiducia! Nicola è suo

figlio!»

«Ma non l'ho cresciuto io. Aveva otto anni quando mia moglie se n'è

andata da casa e l'ha portato con sé a Milano. Per colpa mia. Avevo una
relazione con la giovane sorella del mio socio, e non me l'ha perdonato. Ho
visto Nicola per tre o quattro anni: incontri brevi e imbarazzanti... Quando
credevo che avesse l'età per cominciare a capire, mi ha detto apertamente
che non desiderava vedermi più. Mi considerava un estraneo, non aveva
niente da spartire con me. A diciotto anni mi ha fatto sapere che non
voleva più nemmeno l'assegno di mantenimento. Si è pagato l'università
lavorando nelle pizzerie, dando lezioni private, facendo il barman nei
villaggi turistici. I sensi di colpa mi hanno avvelenato la vita, Alyssa. E
Dio sa quanto mi è costato ripresentarmi a lui dopo tanti anni, per offrirgli
il mio aiuto. Lo sa qual è stata la cosa più terribile? Mi ha fatto entrare a
casa sua, ha lasciato che portassi con me la nipotina di cui ignoravo
persino l'esistenza. Questo significa che la sua disperazione è ancora più
grande dell'odio che ha per me. Ha fatto un solo accenno al passato,
quando ha chiesto se "mia moglie" era d'accordo nel tenere per qualche
tempo la bambina. Gli ho risposto soltanto che da molti anni vivo solo.
Non era certo il momento di buttargli addosso anche il mio fallimento, la
storia di una infelice convivenza portata avanti quasi per autopunirmi del
male che gli avevo fatto...»

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«Non è colpa tua se tuo figlio ti ha respinto» Alyssa disse dandogli

impetuosamente del tu. «Ma per qualunque ragione abbia accettato il tuo
aiuto, adesso smettila di angosciarti e stagli vicino. È impossibile che una
persona sana di mente, un magistrato, abbia commesso un delitto tanto...
tanto...» Non trovò le parole per proseguire.

«La scoperta che la moglie lo tradiva potrebbe avergli fatto perdere la

testa. La sorella di sua moglie ha parlato di un litigio furioso... »

«E il raptus omicida sarebbe esploso due giorni dopo? Un bravo marito

ammazza sul momento...» Si interruppe di nuovo. «Sto straparlando! Un
bravo marito non ammazza mai, ma di sicuro non in quel modo. È
impossibile che tuo figlio abbia ucciso sua moglie portandola sulla
piazzola di una strada periferica, le abbia tolto la biancheria intima e
sfregiato la faccia. Se sospetti questo non sei un buon padre e di questo sì
devi sentirti in colpa.» Si alzò. «Adesso devo andare all'emporio. Stasera
vuoi venire a cena da noi con la tua nipotina?»

«Sei sicura che non disturbiamo?»
«Non dire sciocchezze. Ti preparerò lo chagussoud, una specialità del

mio paese...»

«Grazie, Alyssa. Non sai quanto mi ha fatto bene parlare con te.»
«Stasera dillo a Cosima. Se fosse stato per lei, non avremmo mai

parlato.»

«E chissà quale altro dispetto avresti meditato!»

V

Nicola Argenzi, a trentasette anni, non aveva ancora dimenticato il

momento in cui suo padre se n'era andato da casa. Sulle prime aveva
pensato che avesse voluto punirlo per qualcosa che lo aveva fatto
arrabbiare e per molti giorni si era sentito in colpa per il mutismo e la
tristezza di sua madre: se fosse stato buono, papà non se ne sarebbe
andato.

Vanamente aveva aspettato che sua madre lo sgridasse o, addirittura, lo

picchiasse per quello che aveva fatto. Con il trascorrere dei giorni a questa
smania di espiazione erano subentrati sentimenti sconosciuti quali la
malinconia, l'insicurezza, la paura.

"Voglio il mio papà", aveva detto una sera, scoppiando in singhiozzi.
Il viso triste di sua madre si era trasformato di colpo in una maschera

d'ira: "Tuo padre ci ha lasciato per una puttana! Non nominarlo mai più!".

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Benché avesse soltanto otto anni, sapeva che puttana era una brutta

parola, un insulto, qualcosa che indicava una donna cattivissima.
Stranamente non dubitò un solo istante che il padre lo avesse abbandonato
per una puttana e nel suo animo spuntò il seme della disistima e del
rancore.

Qualche settimana dopo sua madre gli comunicò che sarebbero andati a

vivere a Milano. Nicola subì il distacco dagli amici, dalla casa, dalle
abitudini dapprima come un evento luttuoso e poi come una ingiustizia
subita per colpa del padre.

L'odio per lui ebbe un effetto anestetico: il dolore passò e rimase

soltanto la rabbia. La madre non perse occasione per alimentargliela.

Fu con il passare degli anni che Nicola capì di non essere il solo figlio di

genitori divorziati né suo padre era il solo marito che si fosse innamorato
di un'altra donna. E quando smise di vedere sua madre con incondizionata
adorazione filiale, si rese conto che mai avrebbe potuto vivere con una
donna possessiva, egoista e arida come lei.

E ridimensionò anche sua madre. Urlare a un bambino di otto anni che il

padre lo aveva abbandonato per una puttana era, affettivamente ed
educativamente, raccapricciante. Ma aveva fatto, se possibile, di peggio:
insieme con l'odio per il padre aveva alimentato in lui un senso del dovere
devastante, mirato esclusivamente a risarcirla di tutti i sacrifici che aveva
fatto per lui e a colpevolizzarlo ogni volta che un interesse, un'amicizia, un
innamoramento lo deconcentravano dalla figura materna.

A vent'anni Nicola si era ribellato e solamente una buona natura gli

aveva impedito di detestarla.

Da tempo erano caduti anche il rancore e la disistima per suo padre:

avrebbe desiderato cercarlo, ristabilire un rapporto con lui, ma la paura di
essere respinto lo aveva frenato. Sicuramente si era risposato, forse aveva
avuto degli altri figli...

La sola cosa che non capiva era perché si fosse rassegnato alla perdita

del primogenito: soprattutto dopo essere diventato a sua volta padre, gli
sembrava inconcepibile che non lo avesse più cercato, che non gli avesse
mai scritto.

Ma dopo la morte di sua madre anche questo interrogativo era caduto:

mettendo a posto la sua casa, aveva trovato in fondo a un cassetto della sua
stanza da letto due pacchetti di lettere, legate da un elastico: quelle che suo
padre gli aveva scritto per vent'anni, ripetendogli il suo amore e dicendogli
che in qualunque momento avesse avuto bisogno di aiuto, lui ci sarebbe
stato.

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Questa volta, a trattenerlo, era stata la vergogna. Avrebbe avuto troppe

cose da chiarire, da giustificare: il lungo distacco che impietosamente gli
aveva imposto era diventato un abisso incolmabile.

Ma sei mesi dopo, nel momento terribile dell'assassinio di Luisa, suo

padre era ricomparso nella sua vita. Non vi erano stati abbracci,
spiegazioni, parole di conforto. "Dimmi che cosa posso fare, Nicola":
questo soltanto gli aveva detto.

"Porta mia figlia con te, lontano da questo inferno", era stata la sua

risposta. Il giorno dopo si era trasferito in un residence.

Nicola telefonava a Roma due volte al giorno per avere notizie di

Matilde e il solo conforto di quei giorni terribili era sentire la sua vocina
squillante e piena di allegria parlargli delle sue giornate.

Una certa Alyssa aveva fatto trasportare nella sua stanza da letto

l'acquario del nonno Attilio, un pesce che si chiamava come il nonno ed
era molto gentile con i suoi nipotini. Lei era diventata amica di tutti i pesci,
però il suo amico più caro era Karim, un bambino che alla sera vendeva i
fiori ma al pomeriggio giocava sempre con lei.

Anche Cosima era sua amica, però lavorava sempre e si vedevano

soltanto alla sera quando andavano a mangiare a casa sua. Il nonno Attilio,
non il pesce ma il nonno vero, era molto amico di Alyssa che aveva una
sorella ugualissima a lei. Alyssa diceva che Gina era molto antipatica e
Cosima la sgridava...

Attraverso questi racconti concitati e affollati di nomi sconosciuti,

Nicola capiva soltanto che a Roma sua figlia stava bene e aveva trovato
l'affetto e le premure di cui aveva bisogno.

Qualunque cosa gli fosse accaduta, non doveva preoccuparsi per il

futuro di Matilde: e questa era la sola cosa che gli importasse davvero.

Due mesi dopo l'assassinio di Luisa, le indagini erano ancora al punto di

partenza. Sua moglie non aveva nemici e il suo amante, al di là di un alibi
di ferro, non avrebbe avuto alcun motivo per ucciderla. Il ragazzo stesso
aveva mostrato le lettere che Luisa gli aveva scritto: erano il romantico
sfogo di una donna che amava e si sapeva contraccambiata con pari
intensità.

Nicola era consapevole di configurarsi come la sola persona che avesse

avuto un movente. Tra lui e Fulvio Dona, il magistrato che coordinava le
indagini, esisteva un'antica ruggine: ma doveva obiettivamente ammettere
che, al posto suo, anche lui avrebbe focalizzato le indagini sul marito.

Durante i molti interrogatori, Dona batteva sempre sugli stessi

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interrogativi: perché non aveva denunciato la scomparsa della moglie?
Come era possibile che non avesse mai sospettato l'esistenza di una
relazione extraconiugale tanto appassionata? E poteva negare che la
scoperta lo avesse turbato, sconvolto?

Le sue risposte erano, come le domande, sempre le stesse. Dopo la

separazione, voluta da sua moglie, l'aveva convinta a restare sotto lo stesso
tetto impegnandosi a lasciarle tutta la libertà che voleva. Non aveva
denunciato la scomparsa perché Luisa era solita assentarsi spesso per
andare a trovare la sorella: così, almeno, credeva.

La scoperta della sua relazione lo aveva ferito soprattutto per la

mancanza di lealtà che sua moglie aveva dimostrato. Dopo una
discussione, comprensibilmente accesa, aveva capito che continuare a
vivere da separati in casa era impossibile. E glielo aveva detto.

Durante l'ultimo interrogatorio si era aggiunta una nuova domanda: per

quali motivi il loro matrimonio era fallito? Nicola aveva risposto,
genericamente, che con il passare degli anni erano insorte le solite
incompatibilità... che sua moglie si sentiva molto sola a causa del suo
lavoro... che la cura di una figlia down era stata un peso troppo grande per
lei...

Fu il colonnello dei carabinieri Ugo Zorzi, il suo migliore amico, a

suggerirgli di rivolgersi a un avvocato confermandogli ciò che ormai si
aspettava: era in arrivo un avviso di garanzia e lui risultava, purtroppo,
l'unico indagato.

Prima di rivolgersi a un avvocato Nicola decise di andare a Roma per

parlare con suo padre. Doveva prepararlo al peggio e avere la sicurezza di
potergli affidare Matilde per tempi più lunghi di quelli previsti. Con
l'arrivo del nuovo anno scolastico la bambina avrebbe cominciato la scuola
elementare e, se fosse dovuta rimanere a Roma, bisognava già pensare
all'iscrizione.

Nicola comunicò al giudice Dona che doveva assentarsi per qualche

giorno. Il numero del cellulare già lo aveva, gli diede anche l'indirizzo e il
telefono della casa di suo padre. Dona si mostrò, stranamente, molto
comprensivo, come se si sentisse in colpa.

Un improvviso sciopero dell'aeroporto di Linate lo costrinse a partire

con un'auto presa a noleggio nello stesso aeroporto.

Arrivò a Roma alle nove e mezzo di sera, e impiegò oltre un'ora per

giungere a Trastevere, trovare un parcheggio e percorrere a piedi il tratto
che lo separava dalla casa di suo padre.

Matilde era già a letto, addormentata, e le diede un bacio sulla fronte

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senza svegliarla.

«Non so come ringraziarti» disse al padre che lo aveva aspettato sulla

porta della stanza.

«Sono io che ringrazio te. Matilde ha riempito di gioia la mia vita.»
«Papà, dovrei parlarti.»
«Non vuoi mangiare un boccone? La governante ha preparato...»
«Grazie, ho preso un panino in un autogrill e non ho fame.»
Nonostante la stanchezza del viaggio e le tensioni di quegli ultimi giorni

non aveva neppure sonno. «Devo parlarti proprio di Matilde» disse poco
dopo, quando furono seduti in salotto.

«Puoi lasciarla qui per tutto il tempo che sarà necessario. Tu pensa

soltanto a risolvere i tuoi problemi.»

«È quello che volevo chiederti» Nicola disse. «Come avrai letto sui

giornali, le indagini non stanno portando a nulla. Io risulto la sola persona
che aveva un movente per uccidere Luisa.»

Attilio Argenzi annuì. «Si, l'ho letto.» Avrebbe voluto rivolgergli tante

domande: che donna era tua moglie? Perché la bambina non ha mai chiesto
di lei? Perché il vostro matrimonio è fallito? Ma era paralizzato dalla paura
di sbagliare e veder richiudere lo spiraglio che si era aperto nel loro
rapporto.

«Non l'ho uccisa io.»
«Lo so.» Mai gli avrebbe confessato di aver avuto, agli inizi, questo

sospetto.

«Non esiste una sola prova contro di me. E anche se mi tengono sotto

pressione sicuramente sarò prosciolto senza arrivare in giudizio. Ma se non
trovano il colpevole resterà sempre un'ombra. Molte persone penseranno
che l'ho fatta franca soltanto perché sono un magistrato. In questi giorni ho
pensato spesso di lasciare la magistratura. Sono molto stanco, papà. E la
morte di mia moglie, così orribile, mi ha segnato profondamente.»

«Quando ti sei sposato?»
«Dieci anni fa, ma io e Luisa ci eravamo conosciuti il primo anno di

università. Frequentava Giurisprudenza, come me. Al terzo anno ha
lasciato gli studi, ma abbiamo continuato a vederci.»

«Che donna era?» Argenzi osò.
«Riservata, tranquilla. Aveva perso i genitori a otto anni ed era stata

cresciuta dalla sorella, di undici anni più grande di lei. Ero molto
affezionato a Luisa, ma al di là dei sentimenti l'ho sposata con la certezza
che saremmo rimasti insieme per sempre. Tocco con mano ogni giorno i
disastri delle famiglie disgregate e anche se non sono un fervente cristiano

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penso che il matrimonio sia un legame indissolubile. Soprattutto se ci sono
dei figli.»

Nicola tacque e suo padre abbassò lo sguardo. Che cosa poteva dirgli?

Scusarsi? Dirgli che anche la sua vita era stata un disastro?

Nicola si accorse del suo disagio. «Non c'è niente di personale, papà. Si

può sbagliare anche se si resta in famiglia per sempre. Io non ho capito che
la nascita di una bambina down era un peso troppo grande per mia moglie.
Mi sono concentrato su Matilde senza accorgermi che era Luisa quella che
aveva più bisogno di attenzioni e di cure. È guarita dalla depressione
cancellando me e la figlia dalla sua vita.» La sua voce si fece amara. «Era
una donna fragile che aveva saputo sfoderare un egoismo gigantesco.
Nell'ultima lettera che ha scritto al... all'amante parlava del desiderio di
rifarsi una vita al suo fianco e di avere un figlio normale da lui.»

Attilio sbarrò gli occhi. «Mio Dio» mormorò.
«L'unica cosa positiva è che la bambina non sente la mancanza della

madre» Nicola disse con la stessa voce amara. D'un tratto parve
stanchissimo. «Domani parleremo di lei. Grazie ancora, papà.»

Matilde aveva i segni inconfondibili della sindrome di Down, ma la

vivacità del suo sguardo e l'espressione gioiosa del suo visetto erano le
prime cose che si notavano in lei. Occorreva qualche istante per accorgersi
del taglio allungato degli occhi, del naso leggermente schiacciato e della
lingua che di tanto in tanto spuntava tra le labbra. Una inserviente della
nursery, per consolare Luisa, aveva detto che la neonata era appena
appena
mongolina. Per quanto ingenua la frase fosse, rispondeva in
qualche modo alla realtà.

Sin dai primi mesi di vita Matilde era stata regolarmente seguita da una

fisioterapista, da una logopedista e da una giovane puericultrice a tempo
pieno. Era stato fatto tutto quello che era possibile per recuperare o
prevenire i danni dell'handicap: la piccola aveva imparato a respirare e a
parlare in modo corretto. Ginnastica e massaggi avevano dato agilità al suo
corpo e tono alla muscolatura. Ma anche la sua mente era stata
continuamente stimolata.

Il padre rappresentava il suo più importante punto di riferimento

affettivo: lo adorava. E Nicola adorava lei. Matilde era una bambina
socievole, estroversa, affettuosissima.

"È la caratteristica dei mongoloidi, come la manualità" aveva detto una

volta Luisa, ferocemente. Nicola non aveva replicato.

La socievolezza di Matilde non derivava da una alterazione

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cromosomica, ma da una natura dotata della capacità di amare. La sua
affettività non era istintiva come quella di una bestiola bisognosa di
carezze, ma mediata dall'intelligenza. Non tutti le piacevano. Non a tutti
gettava le braccia al collo.

Per questo era importante inserirla in una buona scuola. La psicologa e

le maestre dell'asilo erano concordi nel ritenere la piccola in grado di
frequentare una scuola normale: le lievi difficoltà di apprendimento erano
compensate dalla curiosità e dalla capacità di attenzione, ma soltanto delle
brave insegnanti potevano sollecitargliele.

Nicola si svegliò molto presto, e il suo primo pensiero fu per la figlia.

Non c'era soltanto il problema della scuola, ma anche quello di farle
riprendere la ginnastica, i massaggi, gli esercizi fonetici. E trovare una
psicologa che le desse il necessario supporto.

Matilde irruppe nella stanza da letto del padre poco dopo le otto e gli

saltò addosso con un grido di gioia. Nicola non la vedeva da due mesi e la
trovò cresciuta, tonica nel fisico, con un colorito sano.

«Non sei venuto a prendermi, vero, papà? Io voglio stare sempre qui. La

casa del nonno è grande e c'è il posto anche per te» disse la piccola. Senza
aspettare la risposta, lo tirò per un braccio. «Devo farti vedere la casa dei
pesci. E poi ti faccio conoscere la zia Fatma del piano di sopra, che non va
all'emporio perché sta facendo i tappeti per la mostra con tanti nodini. Ho
imparato anch'io, e Alyssa metterà nella mostra anche quello che ho fatto
io...»

Nicola interruppe quel fiume di parole stringendola a sé. Aveva avuto la

conferma della cosa più importante: Matilde non era mai stata tanto felice.

Con il trascorrere delle ore fece un'altra scoperta, se possibile ancora più

sorprendente: sua figlia non era mai stata tanto indipendente, autonoma.

Scese da sola in portineria, fece due telefonate, mise in ordine i suoi

giocattoli, diede da mangiare ai pesci dell'acquario. Si muoveva con
disinvoltura, sapeva dove trovare le cose, ripeteva alla governante "Faccio
io, sono capace".

Nicola si complimentò con suo padre. «Ti sei rivelato un nonno al di

sopra di ogni aspettativa. È incredibile che in poche settimane, e senza
nessun supporto, Matilde abbia fatto tutti questi progressi.»

«Guarda che i supporti li ha avuti» tenne a precisare Argenzi. «Devo

farti conoscere alcune persone che sono state di grande aiuto anche a me.»

Ma non ve ne fu il tempo, perché quella sera stessa Nicola fu richiamato

a Milano. L'assassino di sua moglie era stato smascherato grazie a una
telefonata anonima.

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VI

Luisa Argenzi era stata letteralmente giustiziata dal padre di una ragazza

con la quale otto mesi prima il giovane Alessi aveva avuto una breve
relazione. Quando la ragazza si era rifatta viva, per comunicare di essere
rimasta incinta, il "playboy d'oro" era ormai stabilmente legato a Luisa: e
le disse che, se proprio voleva tenere il bambino, poteva contare soltanto
su un assegno mensile per il suo mantenimento.

Non seppe più nulla di lei, e in cuor suo sperò che avesse abortito.

Invece la ragazza aveva portato a termine la gravidanza, illudendosi
romanticamente che con quel figlio sarebbe riuscita a riconquistarlo.

Il bambino era nato due settimane prima della morte di Luisa, prematuro

di ventun giorni, e quando era stato dimesso dall'ospedale la ragazza si era
presentata a casa di Alessi per dargli la notizia.

Vi aveva trovato Luisa. Pochi minuti le erano bastati per capire che si

trattava della stessa donna di cui Alfredo le aveva parlato quando si erano
lasciati e che il sogno di riconquistarlo era svanito. Tornò a casa affranta e
per due giorni rimase a letto rifiutandosi di mangiare, di parlare, di
allattare il bambino.

Fu a quel punto che suo padre decise di prendere in mano la situazione e

di mettere il giovane Alessi di fronte alle proprie responsabilità. Anche lui
venne ricevuto da Luisa e seppe da lei che il "fidanzato" si trovava a
Londra per lavoro.

A quel punto le raccontò tutto, certo di suscitare la sua indignazione per

il comportamento del compagno.

Ma Luisa non gli credette e lo accusò di voler incastrare un uomo

perbene soltanto perché era ricco. L'uomo la supplicò, la minacciò, cercò
di colpevolizzarla. Ma inutilmente: Luisa, lo invitò ad andarsene. Se non
l'avesse fatto, subito, avrebbe chiamato i carabinieri.

E l'uomo, fuori di sé, premeditò una feroce vendetta. La sera dopo, con

voce artefatta, le fece una telefonata spacciandosi per un agente della
polizia stradale: Alfredo Alessi era stato vittima di un incidente stradale,
sulla Rivoltana. Luisa cadde nella trappola e, disperata, andò incontro alla
sua orribile fine.

La figlia dell'omicida aveva capito subito la verità, ma soltanto dopo due

mesi, sopraffatta dall'angoscia e incapace di convivere con quel segreto,
aveva fatto una telefonata anonima alla polizia. Nell'appartamento era stata
ritrovata l'arma del delitto e l'uomo, messo alle strette, era crollato.

Durante il lungo interrogatorio aveva rivelato a Dona tutti i retroscena e

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i particolari. Luisa era stata descritta come una donna "indegna" ed erano
stati messi a verbale anche alcuni giudizi astiosi contro Nicola Argenzi, un
magistrato che tollerava la tresca della moglie, viveva con lei sotto lo
stesso tetto dove, alla notte, facevano probabilmente dei giochini erotici in
tre.

Prima di ricevere i giornalisti in conferenza stampa, per comunicare la

soluzione del "giallo della Rivoltana", tutti gli inquirenti concordarono di
tacere i retroscena più scabrosi e i velenosi sfoghi dell'omicida. Erano
particolari irrilevanti che sarebbero serviti soltanto per alimentare le
morbose fantasie dell'opinione pubblica.

E Argenzi, per settimane sospettato e tenuto sotto pressione, non

meritava di subire anche questo. Nicola chiese di partecipare alla
conferenza stampa. Per chiudere il capitolo più doloroso della sua vita e
tutelare la serenità di sua figlia doveva fugare ogni dubbio, parlare
onestamente del suo rapporto con la moglie separata, spiegare che Luisa
aveva sempre ignorato la gravidanza di quella ragazza.

Fu quanto fece, rispondendo anche alle domande più imbarazzanti dei

giornalisti.

La mattina seguente la conferenza stampa ripartì per Roma con il primo

volo dell'Alitalia. Sull'aereo lesse i quotidiani e tirò un sospiro di sollievo.
L'ultima tortura che si era volontariamente inflitto era valsa a riabilitarlo e
a impedire il massacro della memoria di Luisa: nonostante il "giallo della
Rivoltana" fosse descritto a tinte forti, e tutti gli ingredienti da
romanzaccio passionale risultassero evidenziati in modo intrigante, la
figura di Luisa veniva delineata come quella di una eroina romantica, una
donna colpevole soltanto di aver avuto una fiducia cieca nell'uomo che
amava difendendolo fino alla morte.

Lui, Nicola, emergeva come la seconda vittima: vittima di ingiusti

sospetti e di indagini frettolose, uomo di legge rigorosamente attaccato a
valori quali il matrimonio e la famiglia.

Quando arrivò a casa di suo padre, Mario gli andò incontro con un

sorriso raggiante. «La giustizia ha trionfato!» esclamò. A quanto pare
anche il portinaio ha letto i quotidiani, pensò mentre saliva verso il primo
piano.

Quando la porta si aprì, Nicola si ritrovò di fronte a una bella ragazza e

per qualche istante pensò di aver suonato il campanello sbagliato.

«Sono Cosima, un'amica di...»
«Io sono il padre di Matilde. So chi è lei, la bambina la nomina

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continuamente.»

La ragazza si fece da parte. «Matilde è uscita col nonno, ma tornerà tra

dieci minuti. La sto aspettando anch'io.»

Nicola posò la valigia in un angolo dell'anticamera e la seguì in

soggiorno. Sperò che davvero tornassero presto, perché non era nello stato
d'animo di fare conversazione o di ascoltare le solite frasi di circostanza
sulla fine dell'incubo.

Ma la ragazza, dopo essersi seduta, raccolse alcune matasse di lana

colorate che erano in un angolo del divano. «Le dispiace se continuo il mio
lavoro?» chiese. Abbozzò un sorriso. «Non ho fatto in tempo a preparare i
gomitoli, e Matilde non ammette scuse.»

«Faccia pure.» Si alzò. «Vado in cucina a bere un bicchiere d'acqua.»
Tornò pochi minuti dopo e fu lui, stavolta, ad abbozzare un sorriso.

«Matilde ha trovato molti amici» si sentì in dovere di dire.

«È una bambina che comunica con grande facilità» Cosima rispose

senza alzare lo sguardo dalle sue lane.

«Lei abita in questo palazzo, vero?»
«Sì, all'ultimo piano.»
Nicola le lanciò un'occhiata furtiva. Era una ragazza molto bella, ma

stranamente riservata. Parlava un italiano perfetto nonostante fosse
chiaramente di origine straniera: colombiana? Brasiliana? Probabilmente
era stata adottata da bambina.

Cosima sollevò gli occhi. «L'amicizia con suo padre è nata grazie a

Matilde» disse riprendendo il discorso interrotto poco prima. «Mi sono
molto affezionata a lui.»

«Si è rivelato un ottimo nonno.»
«È una brava persona.»
«Se non si fosse occupato della bambina, non so come avrei fatto. Ho

vissuto delle settimane d'inferno» Nicola si sorprese a dire.

Cosima annuì. «È scontato dire che mi dispiace per la tragedia di sua

moglie e tutto quello che lei è stato costretto a subire. Matilde, per fortuna,
è troppo piccola per capire.» Cambiò subito discorso. «Mia madre l'ha
coinvolta nella sua mostra, e adesso è tutta eccitata. Le dispiace se nel
pomeriggio la porto con me?»

«Assolutamente no. Sua madre è un'artista?»
«In un certo senso si potrebbe definire così» Cosima rispose con un

sorriso. «Anche Matilde è molto creativa.»

«È stata molto seguita fin dalle prime settimane. Purtroppo non potrà

avere una vita normale, ma vorrei almeno che diventasse un'adulta

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autosufficiente, in grado di svolgere un lavoro.»

Era la prima volta che Nicola parlava dell'handicap di sua figlia con una

persona estranea. Ma quella ragazza ispirava una istintiva fiducia. Superato
l'impatto con una bellezza che intimidiva, si era colpiti dalla sua
espressione intelligente e attenta e dai suoi modi gentili. Era come se
avesse una lunga abitudine ad ascoltare gli altri.

«Che lavoro fa, Cosima?» chiese incuriosito.
«Sono un'operatrice del Tribunale per i minorenni.»
«Una... psicologa?»
«Non proprio.» Lo sguardo perplesso della ragazza fece capire a Nicola

che le sue domande l'avevano colta di sorpresa.

«Scusi. Non sono una persona molto estroversa, e mentre le parlavo di

mia figlia me ne sono chiesto la ragione...» Nicola le spiegò sinceramente.
«Lei mi ha dato la conferma di quanto avevo intuito: sollecita la voglia di
parlare perché, a quanto pare, fa parte del suo lavoro.»

«Sono laureata in Scienze dell'educazione e seguo i bambini durante il

loro inserimento nelle famiglie affidatane. Molto spesso sono soprattutto le
famiglie ad avere bisogno di un aiuto. Mi occupo anche degli adolescenti
parcheggiati in questo o quell'istituto nell'attesa di un'adozione che
purtroppo non arriva quasi mai.»

Nicola sospirò. «Conosco bene questo problema. Molto spesso questi

ragazzi passano dall'istituto al carcere.»

«È difficile fargli accettare...» Si interruppe, come se si fosse resa conto

di essersi dilungata troppo a parlare di sé. «Proprio perché conosco il
mondo infantile» riprese «credo che lei non debba preoccuparsi per
Matilde. Nonostante l'handicap è una bambina dotata di molti talenti. La
conosco ormai abbastanza bene per assicurarle che il suo temperamento
affettuoso, le sue curiosità, il suo approccio fiducioso con le persone non
sono le tipiche caratteristiche dei bambini down, ma derivano da
peculiarità connaturate. Scusi, sto parlando come un libro di testo.»

«Al contrario! Sta esprimendo correttamente quello che io ho sempre

pensato.»

«Matilde ha avuto degli ottimi supporti, anche per quello che riguarda

gli handicap fisici. Non escludo che possa fra qualche anno suscitare
l'amore di un bravo ragazzo. Ma in ogni caso diventerà un'adulta serena,
perché ha in sé tutte le risorse...»

Cosima fu interrotta dall'arrivo di Matilde. Gettando un'occhiata al

padre, come per scusarsi, si gettò tra le braccia di lei. «Brava! Mi hai
portato i gomitoli!»

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Poi si staccò da Cosima e salutò Nicola con l'identico calore. «Papà, lo

sai che oggi vado con Cosima a sistemare le cose che ho fatto per la
mostra?»

«Sì, me lo ha appena detto.»
«La mostra apre tardi, e poi Alyssa offrirà una cena... Vado a vestirmi

all'emporio.»

Nicola non capì bene di che cosa stesse parlando, ma l'entusiasmo e

l'eccitazione della figlia gli allargarono il cuore. «Tutto quello che vuoi,
Matilde.»

«Ricordati di venirmi a prendere, eh, Cosima?»
«Certo. Alle quattro in punto.»
«Ho detto al nonno di venire più tardi, così mi vede quando sono vestita

e pettinata. Vuoi venire anche tu, papà?»

«Non rinuncerei per niente al mondo a vedere le opere della mia piccola

artista! Dov'è il nonno, Matilde?»

«Si è fermato a parlare con Mario ma sale subito.»
Cosima guardò l'orologio. «Lo saluterò in portineria. Adesso devo

andare.»

«Grazie dei gomitoli! E ricordati che alle quattro ti aspetto.»
Soltanto nel pomeriggio, quando restarono soli, Nicola poté raccontare

al padre tutti i particolari che avevano portato alla scoperta dell'assassino
di Luisa. Si soffermò su quelli che erano stati taciuti a stampa e
telegiornali: tra questi, le infami insinuazioni che l'assassino aveva fatto su
di lui.

«Fino a ieri ho continuato a sentirmi oscuramente responsabile della

tragedia di Luisa. Se un matrimonio fallisce, le colpe non stanno mai da
una parte sola» Nicola confessò al padre. «La soluzione del giallo mi ha
liberato da questo peso: non avrei potuto fare nulla per trattenere Luisa per
la semplice ragione che non mi aveva mai amato. Né riusciva ad amare la
figlia. Alfredo Alessi è stato l'incontro con la passione. Di certo, la sola
persona che sia riuscita a risvegliarla dalla freddezza affettiva.»

«Adesso devi dimenticare il passato, Nicola.» L'uomo evitò di

raccontargli che anche sua madre era stata una donna incapace d'amore. Si
erano sposati poco più che ventenni, e durante il viaggio di nozze lei gli
aveva confessato che il matrimonio era stato il solo mezzo per liberarsi da
due genitori oppressivi e detestabili...

«Continuo a pensare alla fine di Luisa. È assurdo che la passione le sia

costata un prezzo tanto alto» Nicola disse amaro.

«E io penso a quello che rischiavi di pagare anche tu se non fosse

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arrivata la telefonata anonima che ha fatto scoprire il colpevole.
Denunciare suo padre deve essere stato molto duro, per la povera ragazza.»

«Sì. E capisco che le siano occorsi due mesi per trovarne il coraggio. Il

giudice Dona, che l'ha identificata e interrogata, si è impegnato a non farla
testimoniare contro il padre. Ma hai ragione tu, papà, adesso devo
lasciarmi questa tragedia alle spalle. E pensare a Matilde.»

«Sai che puoi contare su di me. Ma suppongo che adesso tu voglia

riportarla a Milano. È giusto che stia con te. In questo caso verrò a trovarla
spesso, perché ormai mi sono molto affezionato alla piccola.»

«E lei a te. Non ho ancora deciso niente, papà. Tra poco dovrà

cominciare le elementari, e forse la cosa migliore è iscriverla sia qui sia a
Milano. Mi sta a cuore soprattutto il suo bene, e non è facile capire se è
davvero giusto che viva con me. Egoisticamente sarebbe la scelta più
facile, ma Matilde è una bambina particolare... Qui ha trovato un nonno
che adora e un ambiente ideale. È vivace, felice, piena di interessi e di
persone che si occupano di lei.»

Attilio annuì in silenzio. La gioia più grande sarebbe stata tenere la

nipote con sé, ma non voleva influenzare le decisioni di suo figlio. E non
era neppure certo che crescere separata dal padre fosse, alla lunga, la cosa
migliore per la bambina. Se Nicola si fosse risposato o avesse avuto degli
altri figli, Matilde si sarebbe sentita tagliata fuori dalla sua vita.

Sollevò lo sguardo su Nicola. «È una decisione che tocca soltanto a te.

Intanto possiamo iscriverla anche a Roma, come hai proposto tu. Cosima
saprà sicuramente indicarci una buona scuola.»

«In agosto ho tre settimane di ferie e vorrei portare Matilde in vacanza.

È una grande camminatrice e le piace molto la montagna.»

«Mi sembra un'ottima idea.»
«Grazie ancora, papà.»
«La vuoi smettere di ringraziarmi?» Guardò l'orologio. «È ora che

raggiungiamo Matilde per la sua mostra.»

L'emporio si trovava nel cuore di Trastevere, poco distante

dall'abitazione, nello stesso stabile in cui Alyssa aveva aperto il primo
negozio. Le era stato ceduto una ventina d'anni prima da un corniciaio che
aveva cessato l'attività per sopraggiunti limiti di età: trenta metri quadrati,
poco più di un buco, che Alyssa e Fatma avevano abbellito e reso
funzionale con scaffalature, giochi di specchi, vecchi arredi africani.

Poco tempo dopo anche il materassaio del negozio accanto si era ritirato

e Alyssa aveva rilevato il locale, con doppia vetrina, triplicando lo spazio

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dell'emporio. Mentre Cosima frequentava il liceo avvenne un ulteriore
ampliamento: sua madre rilevò anche la bottega del calzolaio.

Cosima, all'epoca, non riusciva ancora a capacitarsi che si potesse

guadagnare tanto danaro con un commercio di cose etniche. Ma in
dicembre, durante le vacanze di Natale, sua madre e sua zia la pregarono di
andare a dare una mano per le vendite speciali: quindici giorni le bastarono
per capire. Alyssa aveva la spregiudicatezza della donna d'affari e il talento
dell'artista. Rivendeva la merce a un prezzo incommensurabilmente
superiore a quello pagato, ma si trattava di oggetti ricercati e scelti con
amore. Piccole opere d'arte uniche. E le ricche clienti non badavano a
spese.

Quattro anni prima Alyssa aveva acquistato anche un appartamento al

piano superiore, e lo aveva unito all'emporio con una scala di legno
intagliata come una scultura da un artista nigeriano. Alyssa ne aveva
dovuto ordinare dieci di simili per alcune clienti che se ne erano
innamorate. E le avevano pagate a peso d'oro. L'appartamento era stato
adibito a ritrovo per la clientela: prima o dopo gli acquisti, le signore
potevano ascoltare musica, fare uno spuntino, assaggiare i dolcetti di
Fatma, prelevare un libro dalla biblioteca, consultare il catalogo degli
ultimi arrivi.

Le due gemelle non avevano mai voluto assumere delle commesse:

proprio perché il loro non era il solito negozio dove entrare soltanto per
fare acquisti, ritenevano che la clientela non avesse alcuna urgenza di
andarsene e preferisse essere seguita direttamente dalle proprietarie.
Durante l'attesa, tutti potevano salire una rampa di scale e passare il tempo
nello spazio appositamente attrezzato.

Alyssa, con il suo temperamento esuberante e cordiale, esercitava un

fascino da incantatrice di serpenti. Ma era a Fatma che la maggior parte
delle clienti preferivano rivolgersi. Fatma, con i suoi modi tranquilli, la sua
pazienza e il suo sorriso dolce era la vera seduttrice. Non aveva mai fretta,
si sedeva a conversare con loro, le consigliava in ogni acquisto. E da
quando aveva cominciato ad annodare i suoi tappeti, esercitava anche il
carisma dell'artista.

Quel giorno le sue ultime creazioni sarebbero state messe in mostra

insieme con un lotto di antichi tappeti nomadi, rigorosamente africani, che
Alyssa aveva acquistato in blocco da un commerciante di Kano.

"Ci guadagneremo una fortuna", aveva dichiarato Alyssa alla gemella.

"E, visto che i tuoi tappeti vanno a ruba, dopo questa mostra ritoccheremo
i prezzi."

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Nicola Argenzi e suo padre arrivarono all'emporio pochi minuti prima

delle sette. Una grande insegna a tutte maiuscole sovrastava l'ingresso
principale: CALANGIDA.

«Che nome strano, per un negozio» Nicola osservò. «Che cosa

significa?»

«È il cognome delle proprietarie.» Attilio si trattenne dal dare la vera

spiegazione: significa grandeur, orgoglio di un cognome che era stato
quello di una miserabile famiglia di pastori e adesso campeggiava come
emblema di successo.

Padre e figlio si fecero largo attraverso i locali affollati di gente.
Fu Cosima a scorgerli e a raggiungerli. «Matilde è con mia madre al

piano di sopra, dovrebbero scendere da un momento all'altro.»

Nicola vide arrivare Matilde pochi istanti dopo e trattenne il fiato per la

sorpresa: era tenuta per mano da una donna di colore che indossava uno
sgargiante camicione rosso con ricami dorati. I capelli crespi erano raccolti
in minuscole treccine sotto le quali dondolavano delle luccicanti palline di
vetro.

La cosa che lo colpì fu vedere Matilde vestita e pettinata allo stesso

modo: a parte il colore della pelle, sembravano madre e figlia. Non era
certamente razzista, ma sua figlia travestita da negretta proprio non gli
piaceva.

E lo disturbò vedere quella vistosa mamie prendere in braccio Matilde

ed esibirla come un trofeo alle persone che si accalcavano nel negozio:
mentre scrosciava un lungo applauso, a Nicola, per la prima volta, la figlia
apparve diversa.

Attilio si allontanò per raggiungere la nipote e Nicola, rosso in viso, si

rivolse a Cosima. «Chi ha conciato così mia figlia? E chi è quella donna
orribile?» chiese impetuosamente.

Cosima strinse le labbra. «Orribile perché è negra?»
«Certamente no. Anche se fosse norvegese, la definirei...»
«È mia madre Alyssa» Cosima lo interruppe. I suoi occhi erano due

schegge di ghiaccio.

Lo stupore di Nicola fu tale da superare, per qualche istante, l'infelicità

della gaffe. «Sua madre?»

«Già. Purtroppo ho la pelle chiara perché l'uomo che l'ha messa incinta e

abbandonata era un signore bianco come lei.»

Nicola naufragò nell'imbarazzo. Fece per dire qualcosa, ma Cosima non

gliene diede il tempo perché si allontanò piantandolo in asso.

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Matilde lo raggiunse subito dopo nell'angolo in cui era andato a sedersi.

«Ti piaccio, papà? Alyssa ci ha messo un'ora a farmi queste treccine. Sono
quarantaquattro.»

«Stai molto bene» Nicola si costrinse a rispondere.
«Il vestito me l'ha fatto zia Fatma.»
«E chi è zia Fatma?»
«La sorella di Alyssa. Cosima dice che sono uguali perché sono

gemelle.» Lo tirò per un braccio. «Adesso devi venire di sopra a vedere i
miei tappeti. È stata zia Fatma a insegnarmi come si fanno, e dice che sono
bravissima.»

È la manualità dei mongoloidi. Nicola ricordò con un brivido la frase di

Luisa. E fu in quel momento che tutte le sue indecisioni finirono: avrebbe
riportato con sé la figlia a Milano. Lontana dal portiere Mario,
dall'amichetto pakistano e da tutte quelle persone che stavano rischiando di
fagocitarla nella loro diversità. No, non era un razzista, ma voleva che sua
figlia crescesse nel suo ambiente e frequentasse gente normale.

Matilde lo tirò nuovamente per una manica: «Non vieni di sopra a

vedere la mostra?».

«Va' tu, io ti raggiungo.»
Nicola sgattaiolò invece fuori dall'emporio e camminò a lungo in balia

dell'imbarazzo e della rabbia. Era tutta colpa di suo padre, se si trovava in
quella situazione. Perché non gli aveva detto che Cosima era figlia di una
donna di colore? Perché non gli aveva spiegato che i "supporti" di quelle
settimane erano consistiti nel trasformare sua figlia in una annodatrice di
tappeti, in una scimmietta?

Si ritrovò davanti a un cinema. Entrò senza nemmeno vedere che film

era in programmazione.

VII

Nicola uscì dal cinema alle dieci e mezzo e andò a mangiare una pizza.

Non sapeva come giustificare a Matilde la sua sparizione dall'emporio e
non se la sentiva di parlare con il padre prima di aver ritrovato
l'autocontrollo.

Era quasi mezzanotte quando si decise a chiamare un taxi per farsi

riportare a casa: a quell'ora sicuramente dormivano entrambi. E invece suo
padre era ancora alzato.

Come lo sentì entrare, spense il televisore. «Puoi venire in salotto,

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Nicola?»

Si affacciò sulla porta. «Io vado a letto, continua pure a...»
«Ti stavo aspettando. Il tuo comportamento è stato inqualificabile.» La

voce di Attilio Argenzi fu una staffilata.

Nicola restò sulla porta imponendosi di non reagire. «Avrei anch'io

qualcosa da dire, ma non è questo il momento.»

«Mi limito a una domanda: ti rendi conto di avere rovinato la serata più

bella di tua figlia?»

«Spero di farle capire che annodare i tappeti e travestirsi da negretta non

è il massimo della vita» Nicola replicò con tono vibrante d'ira trattenuta.

Attilio Argenzi lo fissò scuotendo la testa. «Ignoravo di avere un figlio

razzista.»

Più che l'accusa, fu quello sguardo addolorato a fargli perdere le staffe.

«Tu ignori tutto di me! Ma devi sapere che sono un buon padre, e per
questo non posso permettere né a te né alle tue amiche di usare Matilde
come una bambolina, oggetto di trastullo.»

Attilio Argenzi si alzò di scatto e gli si avvicinò come se volesse

picchiarlo. Ma si fermò a pochi passi da lui. «Vergognati» sibilò.

Nicola si svegliò molto presto e andò in cucina a prepararsi un caffè. Poi

tornò nella sua stanza e aprì la finestra. Mario, il portinaio, stava
annaffiando le piante del cortile.

Dopo la scenata della sera prima non poteva restare un giorno di più in

quella casa. Come aveva potuto pensare di lasciarvi Matilde? Adesso era
un problema spiegarle che il suo soggiorno dal nonno era finito e sarebbe
dovuta tornare a Milano con lui. Sicuramente abbandonare quella vita
ludica, divertente come un teatrino, avrebbe comportato dei problemi
anche per lei. Chiederò una mano alla sua psicologa, pensò guardando
l'orologio. Le sette: troppo presto per chiamarla. Udì la porta d'ingresso
aprirsi: era Gina, la governante. Subito dopo udì giungere dalla cucina la
voce di suo padre.

L'idea di ritrovarsi davanti a lui gli suscitò una sensazione di disagio

simile a quella che provava, bambino, quando aveva commesso una
marachella e sapeva che lo aspettava il castigo, il rimprovero. Si diede
rabbiosamente del cretino. Quale castigo?

Aprì la porta della sua stanza e irruppe in cucina. «Papà, ho deciso di

riportare mia figlia a Milano» disse senza preamboli.

L'uomo si rivolse alla governante. «Può lasciarci soli, per piacere?»
Gina si allontanò subito e Attilio guardò il figlio. «Quando pensi di...»

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Il cellulare di Nicola squillò interrompendo la domanda. Era il

colonnello Zorzi.

Attilio vide il figlio irrigidirsi e, attraverso le sue frasi, capì che era

successo qualcosa di serio. Quando la telefonata finì, seguirono alcuni
istanti di silenzio che non osò spezzare.

Fu Nicola a farlo. «Sui quotidiani di stamattina sono riportati fedelmente

i verbali degli interrogatori dell'assassino di Luisa. Mia moglie risulta una
puttana e io il marito che si divertiva a vederla scopare con l'amante»
ringhiò.

«Ma i verbali non dovevano restare segreti? Chi li ha...»
«Il collega Dona non sopportava che io uscissi da questa storia come una

vittima e lui come un coglione incapace di condurre le indagini. Il mio
amico Zorzi sa per certo che è stato lui a parlare con un giornalista
dell'Ansa.»

«Se è un amico, deve denunciarlo.»
«È quanto intende fare. Ma prima deve convincere il giornalista a

dichiarare ufficialmente che la talpa è Dona. Non sarà facile.»

«Devi andare a Milano, subito, e dare una mano al tuo amico. E anche

affrontare i giornalisti che vorranno intervistarti per conoscere le tue
reazioni.»

«Sono avvilito» Nicola ammise con voce sconsolata.
«Vuoi arrenderti?»
«Certamente no. Ma questo è un incubo senza fine.»
Matilde si svegliò alle dieci e scoppiò in lacrime quando seppe che il

padre era dovuto ripartire per Milano. Il nonno tentò inutilmente di
consolarla. Le propose di andare a giocare a Villa Borghese, di fare una
sorpresa ad Alyssa e mangiare con lei e zia Fatma all'emporio, di
comperare un fratellino nuovo per i pesci dell'acquario...

«Voglio il mio papà», Matilde ripeteva sconsolata, scuotendo la testa.

Attilio, preoccupato, chiamò Cosima sul cellulare e le spiegò quello che
era accaduto. «Non so che cosa fare con Matilde» concluse.

«Dammi un'ora di tempo e arrivo.»

Nicola aveva ragione: quello era veramente un incubo senza fine. Nei

giorni che seguirono, stampa e televisione riaprirono il "caso": non era più
un giallo, ma dopo le ultime rivelazioni la vicenda si era fatta ancora più
intrigante.

Attilio Argenzi si sfogava con Alyssa, indignata quanto lui per

quell'impietoso frugare nella vita di Luisa e nei "segreti d'alcova" del

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marito magistrato.

Nicola faceva lunghe telefonate al padre per avere notizie di Matilde e

per tenerlo aggiornato su quanto stava accadendo. Il loro violento scontro
sembrava essere stato dimenticato.

Una sera fu Cosima a rispondere al telefono. «Suo padre sta facendo

addormentare Matilde» gli disse. «Vado a chiamarlo subito.»

«Lo lasci stare, richiamerò più tardi. Senta, Cosima, devo scusarmi con

lei e spiegarle perché...»

«In questo momento lei ha cose più importanti a cui pensare» lo

interruppe. La frase poteva apparire polemica, ma con grande sorpresa di
Nicola il tono era amichevole.

«Purtroppo la figlia dell'assassino si rifiuta categoricamente di parlare.»
«Probabilmente è il giudice Dona a impedirglielo.»
«Proprio così!» Nicola esclamò. «Se la ragazza uscisse allo scoperto, si

saprebbe che soltanto la sua telefonata gli ha permesso di arrivare al vero
colpevole.»

«A questo bisogna aggiungere il comprensibile dramma di una figlia che

ha accusato il padre... Non se la sente di infierire ancora su di lui,
sbugiardandolo.»

«Sì, ha ragione.»
«Senta...» Cosima esitò. «Io conosco una bravissima psicologa che in

questi giorni si trova a Milano per una consulenza. Vuole che le dica di
mettersi in contatto con la ragazza?»

Fu Nicola, adesso, a esitare. «Non lo so... Credo che tutti i tentativi siano

stati fatti.»

«Forse in modo sbagliato. O da persone con un ruolo istituzionale delle

quali diffida. Se esiste una possibilità di convincerla, sono certa che
soltanto questa psicologa può riuscire. Mi creda, è una donna straordinaria:
umanamente e professionalmente. Che cosa ha da perdere, Nicola?»

«Ha ragione: proprio niente.»
«Si chiama Elena Marini. Se mi autorizza a farlo, la chiamo subito

spiegandole tutto e preannunciando una sua telefonata.»

«Le faccio così pena, Cosima?»
«Sicuramente sì. Dopo mia madre e mia zia, non avevo mai conosciuto

un adulto tanto incasinato.»

Nicola non capì l'accenno, ma fu colpito da quel calore umano. Mai se lo

sarebbe aspettato da una persona che meno di una settimana prima aveva
crudelmente offeso.

«Comunque vadano le cose, la ringrazio con tutto il cuore» le disse.

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«Aspetti, è arrivato suo padre e glielo passo.»
Cosima si congedò dal notaio Argenzi con un cenno di saluto e tornò al

piano di sopra.

Argenzi aspettò di sentire chiudere l'uscio. «Non intendo rinunciare

all'amicizia con Cosima e la sua famiglia» disse al figlio con voce ferma.

«Le ho chiesto scusa. E chiedo scusa anche a te. Mi vergogno per

l'inciviltà con cui mi sono comportato.»

«Ne prendo atto. E non parliamone più.»
Nicola riferì al padre la proposta di Cosima. «Non conosco questa Elena

Marini, ma farò anche questo tentativo» concluse.

«Elena Marini è stata la salvezza di Alyssa... E di Cosima. Ma è una

storia molto lunga. Anch'io ho la certezza che la Marini riuscirà a
convincere la ragazza.»

E la ragazza parlò. In una intervista rilasciata all'Ansa ristabilì tutta la

verità riabilitando definitivamente la memoria di Luisa e confessando di
aver proseguito la gravidanza senza dire nulla ad Alfredo Alessi. Era
straziata per la feroce reazione di suo padre, ma la coscienza le impediva
di continuare a difenderlo: per giustificare il suo gesto folle aveva creato
un castello di infami menzogne. Suo padre stesso, quando lei era andata a
trovarlo in carcere, le aveva preannunciato che intendeva "sputtanare"
Nicola Argenzi e la moglie inventando la storia dei giochini erotici.

"Finalmente potrò guardare negli occhi mio figlio", la ragazza

concludeva. Chiedendo perdono a tutti per la tragedia che aveva
involontariamente provocato.

Cosima fu la prima persona a cui Nicola telefonò. «Questa volta è finita

davvero. Domattina inizierà la grancassa mediatica per riabilitarmi quale
"povero vedovo". Sono talmente stremato da non provare più niente...
Tranne la gratitudine per lei: senza il suo consiglio non sarei mai...»

«Adesso faccia una bella dormita e si prepari a questa grancassa»

Cosima tagliò corto.

«Le dà tanto fastidio sentirsi dire grazie, Cosima?»
«Sì.» Mi fa sentire immeritevole e a disagio perché non ho fatto niente

di eccezionale o di eroico, avrebbe voluto aggiungere: ma sospettava che a
Nicola Argenzi sarebbe apparso un contorsionismo mentale. «Faccia una
bella dormita» ripeté.

«Prima devo chiamare mio padre. Buonanotte, Cosima.»
Riattaccò con la consapevolezza di essere stato tagliato fuori. Strana

ragazza, Nicola pensò. Finite le situazioni dell'emergenza, la disponibilità

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e il calore umano sparivano dietro la barriera del riserbo.

Nicola non poté tornare a Roma per abbracciare la figlia perché in quei

giorni sarebbe iniziato il processo contro un sessantenne che, in un raptus
di gelosia, aveva ammazzato la giovane moglie albanese. Benché l'uomo si
ostinasse a proclamarsi innocente tutte le prove erano contro di lui.

Nicola, che fungeva da pubblico ministero, era certo di ottenere la giusta

condanna, ma voleva concentrarsi su tutti gli incartamenti per essere
pronto a rintuzzare la furba linea difensiva, mirata a sollevare il polverone
della xenofobia: lo sprovveduto sessantenne raggirato dalla solita ragazza
straniera avventurosa e senza scrupoli, la generosità e la fiducia ripagate
con provocazioni e indifferenze.

Lo "sprovveduto" assassino era stato in realtà un assiduo frequentatore

di prostitute, e nella sua abitazione esisteva una collezione feticistica di
indumenti intimi femminili. Aveva conosciuto l'albanese nel ristorante in
cui lavorava come cameriera: una onesta e bella ragazza che gli aveva fatto
perdere la testa. Convinta di essersi imbattuta in un uomo protettivo e
paterno, dopo il matrimonio si era ritrovata alla mercé di un sadico. Era
stata assassinata quando aveva trovato il coraggio di ribellarsi e di
andarsene.

Fu dopo quel processo, dal quale l'uomo uscì conuna condanna a

vent'anni, che Nicola toccò con mano una amara realtà: intorno a lui si era
creato un clima di disagio, di freddezza o di riprovazione che stavano
diventando invivibili. Non gli perdonavano di essere ancora sulla breccia
dopo lo scandalo che avrebbe dovuto farlo fuori. La stessa Procura gli
contestava quell'"eccesso di autodifesa" che aveva esposto il giudice Dona
a critiche durissime.

E poi esisteva il problema di Matilde. Era molto dispiaciuto di aver

ferito Cosima con quelle sgradevoli critiche a sua madre, ma restava
intimamente convinto che una donna come Alyssa non poteva
rappresentare un modello educativo ideale, né i folcloristici amici del
palazzo l'unico punto di riferimento affettivo.

Solamente l'amore per la bellezza, la classe, il rigore di giudizio

potevano colmare l'handicap di Matilde. Ma all'impetuosa decisione di
portarla con sé a Milano erano subentrati molti dubbi. Il lavoro lo teneva
fuori casa per tutta la giornata: una governante a tempo pieno, per quanto
amorosa e affidabile, sarebbe bastata ad appagare il suo bisogno di affetto?

Escludendo che potesse tornare a vivere nella casa che aveva condiviso

con Luisa, come avrebbe reagito la bambina al cambio di abitazione e

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probabilmente anche di quartiere?

Luisa non si era mai curata di invitare le sue amichette a giocare con lei,

non aveva mai avuto rapporti con le altre madri. E per questo Matilde era
vissuta molto sola. Soltanto a Roma aveva scoperto i veri stimoli: non
quelli indotti dalle persone che professionalmente la seguivano dalla
nascita, ma da piccoli e grandi amici che le avevano trasmesso curiosità,
allegria, interessi, affetto.

Questo, onestamente, doveva ammetterlo nonostante tutte le riserve. E

prendere una decisione era difficile. Per quanto lo riguardava, non aveva
esitazioni: chiedere di essere trasferito da Milano a Roma gli avrebbe
consentito di sottrarsi a un ambiente di lavoro pesantissimo e di fare
ritorno nella città che, costretto ad abbandonare da bambino, aveva sempre
rimpianto. Per sua figlia, invece, non esisteva una scelta ottimale, ma
soltanto quella del male minore.

Nicola, per natura e per condizionamento professionale, detestava

rimandare: i dubbi e le incertezze andavano affrontati subito, e sviscerati
fino a quando non si fosse arrivati a decidere. Ma dopo lunghi
ripensamenti arrivò a una sola certezza: stavolta aveva bisogno di tempo.

Come preannunciato a suo padre, in agosto avrebbe portato Matilde in

vacanza e nel frattempo si sarebbe interessato per farla iscrivere sia in una
scuola di Roma sia in una di Milano.

Nicola poté rivedere la figlia solamente alla fine di luglio. La trovò

abbronzata e felice. «Sono stata in piscina con Cosima e anche a Santa
Marinella con il nonno, Alyssa e Karim. Cosima mi ha insegnato a fare i
tuffi dal trampolino e sono diventata bravissima!» gli raccontò con il solito
slancio.

«Dovrò proprio ringraziarla» Nicola sorrise.
Ma non gli fu possibile: da una settimana Cosima si trovava a Milano.
Attilio spiegò al figlio che era stata chiamata dai genitori affidatari di un

ragazzo, Fabrizio, che aveva seguito a Roma per molti anni durante il
ricovero al Gallone. Questo ragazzo adesso stava dando molti problemi e
l'assistente sociale amica della coppia aveva suggerito di chiedere aiuto a
Cosima proprio perché lo conosceva bene.

VIII

Matilde non si lamentava, non faceva i capricci, diceva sì a tutte le sue

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proposte: ma erano proprio questi comportamenti a raggelare Nicola
perché vi scorgeva l'affettuosa mitezza e l'istintiva compiacenza dei
bambini down. Nemmeno le telefonate serali del nonno, di Alyssa, di
Cosima e di zia Fatma sembravano rianimarla.

Nicola passò i primi giorni di vacanza estenuandosi nello sforzo di

coinvolgere e intrattenere la piccola: ma questo non faceva che renderla
sempre più dipendente da lui. Soltanto per compiacenza accettava di
nuotare nella piscina dell'albergo, di unirsi ai giochi degli altri bambini.

Gli era sembrata un'idea felice rinunciare all'ospitalità dell'amico Zorzi

nella casa di Selvino e scegliere un hotel del Terminillo, molto più vicino a
Roma: suo padre li avrebbe raggiunti il 10 agosto, dopo la chiusura dello
studio. E gli aveva preannunciato che Alyssa e la sorella avrebbero
trascorso con loro l'ultimo week-end del mese.

Una sera, alle undici, ricevette una inaspettata telefonata di Cosima.

«Che cosa sta succedendo?» gli chiese senza giri di parole.

«Sono preoccupato per Matilde» rispose subito. E mentre gliene

spiegava i motivi, avvertì il sollievo di poter dare voce alle sue paure.

Cosima lo lasciò parlare senza interromperlo. «Sciocchezze» disse alla

fine. «Matilde mi chiama ogni sera e ha i normali comportamenti di una
bambina che si ritrova in vacanza in un posto senza giostre, senza
gelaterie, senza parco giochi, senza amici. Che cosa le è venuto in mente di
portarla in un romantico e isolato hotel?»

«Ci sono altri bambini della sua età» obiettò.
«Vuole scommettere che sono fratelli o amichetti che provengono dalla

stessa città?»

«È così» dovette ammettere. «Ma lei dov'era quando ho scelto questo

dannato posto?»

«A Milano. A occuparmi di un ragazzo che a differenza di Matilde dà

dei problemi veri.»

«Mi dispiace.»
«Io invece sono piena di rabbia. Ha ragione mia madre: dove guardava

Dio, mentre la famiglia distruggeva l'innocenza di un bambino?
Giustamente è stato affidato a un istituto. Ma come farlo capire a... Non
voglio parlarne. Sa qual è la verità più amara? Le vere ingiustizie,
irreparabili, sono quelle volute dalla sorte, dal caso. Siamo impotenti,
come di fronte a una catastrofe naturale.»

«Ho provato la stessa rabbia e impotenza quando mi è nata una figlia

con la sindrome di Down» Nicola confessò. «In quel momento detestai
mia moglie che si era rifiutata di fare l'amniocentesi. Ma oggi devo dirle

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grazie, perché Matilde non sarebbe mai nata.»

«Finalmente ragiona! Deve ringraziare anche l'ottimo carattere di sua

figlia che sta sopportando senza protestare il martirio di questa vacanza.»

«Cercherò subito un altro albergo e un altro posto.»
«Crede di trovare una stanza libera in agosto?»
«A questo punto la soluzione migliore mi sembra riportarla a Roma.»
«Con trentacinque gradi all'ombra e il palazzo deserto?»
Nicola, spiazzato, sbottò scherzosamente: «Da lei mi sarei aspettato

qualche suggerimento concreto, e non soltanto critiche distruttive!».

«Abbia fede» Cosima rispose sullo stesso tono.
Al termine della telefonata Nicola prese una birra dal frigobar e andò a

sedersi davanti al televisore. Parlare con Cosima gli aveva fatto bene. Era
incredibile che una ragazza equilibrata e rigorosa come lei fosse figlia di
una pittoresca commerciante di africanerie. E c'era da stupirsi che la madre
non l'avesse spinta a entrare nel mondo della moda o dello spettacolo. O
forse l'aveva fatto, ma lei si era opposta. Di certo, Alyssa non era riuscita a
condizionare la sua crescita: chiunque fosse suo padre, Cosima aveva
ripreso da lui non soltanto il colore della pelle, ma anche un sano bagaglio
genetico. Sì, era proprio una bella persona. Eccezionale, si corresse.

Ripensò allo sfogo di Cosima sulle ingiustizie del caso. Poteva valere il

discorso contrario: a volte il caso segnava capricciosamente le esistenze
anche con l'elargizione di straordinari privilegi: Cosima aveva avuto in
dono una intelligenza acuta, una bellezza perfetta e un cuore grande.

Se invece di conoscere Luisa avesse incontrato una ragazza come lei,

anche la sua vita sarebbe stata più fortunata. Spense il televisore e passò
nella stanza accanto. Matilde era profondamente addormentata e si
soffermò a guardarla col cuore stretto. Nell'immobilità del sonno i
lineamenti di sua figlia mostravano chiaramente i segni della sua diversità.

Vinse a stento l'impulso di scrollarla e di svegliarla per veder

ricomparire la sua espressione allegra, il suo sguardo vivo.

Non posso portarla via da Roma, pensò. Non posso imporle un

trasferimento infelice come questa vacanza.

Poco dopo, sdraiato sul letto di fianco a quello della piccola, riandò con

la mente a Luisa. Si era innamorato della sua affidabilità, della certezza di
aver trovato la donna rasserenante e tranquilla con cui costruire la famiglia
che a entrambi era mancata.

Diffidava della passione. Sua madre aveva ingenerato in lui, quando era

ancora bambino, la certezza che erano stati abbandonati perché una donna
cattiva aveva fatto perdere la testa a suo padre. E questo lo aveva

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condizionato anche nella vita sentimentale, spingendolo a tenere lontane
tutte le donne che gli suscitavano turbamento ed emozioni forti.

La tragedia di sua moglie lo aveva sconvolto non soltanto per la violenza

con cui era stata uccisa, ma anche per quella di una passione fatale. Luisa
non era stata una moglie rasserenante e col trascorrere degli anni erano
emersi fragilità e difetti insospettabili. La sua affidabilità derivava
dall'incapacità di sentimenti profondi ed emozioni destabilizzanti.

Ma l'incontro con Alessi l'aveva travolta. Ed era questo a spaventarlo: la

passione poteva colpire chiunque come un virus o un male incurabile. E
come Luisa aveva dimostrato, non esistevano antidoti né difese.

Quella notte fece dei sogni confusi e angoscianti. Non gli succedeva da

quando era bambino. Cosima era in cima a una rupe e Alyssa la tratteneva
serrandola nella morsa di una enorme e mostruosa dentiera d'oro. Ma non
era Alyssa, era una strega che aveva preso le sembianze di lei. E mentre
Cosima urlava chiedendogli aiuto, lui lottava con tutte le forze per
schiodarsi dal suolo e correre a salvarla. Ma era come paralizzato. Si
svegliò di soprassalto, sentendosi esausto per quello sforzo sovrumano.

Tutti i particolari di quel sogno gli tornarono alla mente due giorni dopo.

Era mezzogiorno e mezzo. Nicola e la figlia erano da poco seduti nel
ristorante all'aperto dell'hotel e stavano aspettando il cameriere per le
ordinazioni quando Matilde lanciò un grido festoso: «Guarda chi c'è,
papà!».

Seguì il suo sguardo e vide Cosima che, lasciata la macchina nel

parcheggio, si stava dirigendo con Karim verso l'albergo.

Sua figlia corse verso di loro mentre Nicola restò per qualche istante

immobile. Stava provando le stesse emozioni che lo avevano turbato nel
sogno: impotenza, paura, smania di correre da Cosima.

Quando l'ondata si ritrasse, avvertì solo la gioia di rivederla. E

scacciando un oscuro soprassalto di paura, le andò incontro.

«Cosima ha portato Karim!» sua figlia gli disse con lo sguardo

raggiante, la manina stretta in quella del suo amico quasi a volerlo
trattenere.

«Hai visto, uomo di poca fede? Sono capace anche di interventi

costruttivi e concreti!» Cosima lo prese in giro.

Quel "tu" spontaneo e inatteso rimescolò Nicola. «Faccio aggiungere

due posti a tavola» disse, dandosi del cretino per l'idiozia di quella frase.
Avrebbe voluto abbracciarla.

«Ottima idea. Io e Karim siamo affamati.»
Il ragazzino guardò Nicola. «Non disturbo, vero?»

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«Assolutamente no!» rispose di getto. «Sono felice che tu...»
Matilde non lo lasciò finire. «Mentre voi andate al ristorante, io faccio

vedere a Karim la piscina.»

Nicola tolse le due sacche dalle mani di Cosima. «Vieni, prima di

mangiare andiamo a sistemare i bagagli.»

L'hotel era al completo, ma il direttore assicurò che prima di sera

avrebbe cercato il modo per risolvere il problema.

Fu Cosima, dopo che si furono seduti a tavola, a suggerire la soluzione.

«Stando alle descrizioni che mi ha fatto Matilde, hai preso una grande
suite» disse a Nicola. «Tu puoi dormire con i bambini, facendo aggiungere
un letto nella stanza, e io mi sistemo nel divano del salotto.»

Matilde batté le mani. «È bellissimo!» Poi, rivolta a Cosima: «Quando

vai via?».

«Domani sera. Lunedì devo lavorare.»
«Così presto?» chiese, rabbuiandosi.
«Ma Karim resta con te per tutta la vacanza.»
«Se non disturbo...» il ragazzino disse per la seconda volta.
«Papà te l'ha già detto, assolutamente no! Dobbiamo fare i tuffi,

raccogliere le fragoline, salire in seggiovia.» D'un tratto sembrava aver
scoperto mille attrattive in quel luogo solitario.

Trascorsero il pomeriggio ai bordi della piscina. Cosima organizzò una

gara di tuffi e coinvolse anche gli altri bambini in una caccia al tesoro,
facendosi aiutare da Nicola a nascondere tra i cespugli, sotto le sdraio e tra
le siepi del vialetto i foglietti con le indicazioni.

«Ma quando hai avuto il tempo di scriverli, di organizzare tutto questo?»

Nicola le chiese stupito.

«I foglietti sono usciti dalla stampante. Vuoi che ti insegni un segreto?

Se non sai come unire dei bambini che non si conoscono o ravvivare una
festina di compleanno che sta naufragando nella noia, una caccia al tesoro
fa miracoli. Non c'è gioco di gruppo che funzioni meglio.»

Aveva ragione. Poco dopo Matilde correva ridendo e chiamando per

nome tutti i bambini, come se fossero suoi amici da sempre. Non solo i
loro genitori, ma anche i camerieri dell'albergo collaboravano divertiti alle
affannate richieste dei piccoli ricercatori: un ombrello, una cintura, un
tovagliolo a scacchi, un menu del giorno del ristorante...

Karim era in coppia con un ragazzino della sua età, ma non perdeva

d'occhio Matilde.

Nicola lo fece osservare a Cosima. «È un ragazzino molto protettivo. E

anche molto bene educato.»

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«Nonostante sia figlio di poveri immigrati pakistani?»
Nicola si irrigidì. «Non volevo assolutamente dire questo. Però, visto

che mi hai tirato nel discorso, devo confessare che ho parecchie perplessità
su questi "poveri" pakistani che vivono in un signorile palazzo di
Trastevere. Non credo che possano pagare l'affitto coi soldi che Karim
guadagna rivendendo i fiori fino a notte fonda. E mi stupisco che tu, con il
lavoro che fai, non abbia quanto meno le stesse perplessità. Che mestiere
fanno? Sfruttano anche altri bambini?»

«Una risposta alla volta. Possono vivere nel signorile palazzo perché

l'appartamento è di proprietà di mia madre che non gli fa pagare l'affitto. Il
padre di Karim lavora nel negozio di un corniciaio e la madre si occupa dei
figli più piccoli. Sono due genitori perbene e affettuosissimi. Karim ha
cominciato a vendere fiori sgattaiolando fuori casa di nascosto: oltre che
molto educato è anche molto sensibile e responsabile: voleva rendersi utile
portando qualche soldo a casa. Adesso il suo commercio è finito e si
guadagna una paghetta curando le piante di mia madre. Se hai ancora
qualche dubbio, fammi pure delle altre domande.» Sembrava d'un tratto
irritata.

«Hai chiarito tutto.»
«Puoi aggiungere, se credi, che anche se si fosse trattato di una famiglia

norvegese avresti avuto le stesse perplessità.» Il suo tono, adesso, era
scopertamente polemico.

Si risentì anche Nicola. «Non è leale, Cosima. Ti ho chiesto scusa per gli

infelici commenti che ho fatto su tua madre e credevo che non volessi
parlarne più.»

«È così. Ma tu continui a commentare e sentenziare come se il prossimo

fosse sotto processo e tu in tribunale a fare la tua arringa accusatoria. La
cosa più grave è che giudichi senza nemmeno conoscere le persone che
condanni.»

«Se può tranquillizzarti, quando entro in aula conosco a memoria i

verbali degli interrogatori, l'iter delle indagini, le testimonianze, l'elenco
degli indizi e delle prove. Non infierisco mai su un imputato se mi rimane
anche un solo ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza.»

«Evidentemente fuori dal tribunale ti rilassi e vai a braccio.»
«Sarcastico, ma vero: non dovendo processare nessuno, mi sento libero

di osservare, fare dei commenti, avere delle opinioni e delle sensazioni di
pelle. Se per qualche ragione i genitori di Karim fossero finiti in tribunale,
sicuramente avrei appurato i particolari che mi hai riferito tu.» Riprese
fiato. «Perché non butti fuori la verità, Cosima? Non mi perdoni per quello

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che ho detto di tua madre.»

Cosima si alzò. «Vado a premiare i bambini.» Raccolse la sacca ai piedi

della sdraio. «Ogni tanto me ne ricordo e ti strozzerei.»

Quella sera portarono Matilde e Karim al cinema a vedere un vecchio

film di cartoni animati e poi andarono a mangiare una pizza. Quando
tornarono in albergo, era stato aggiunto il terzo posto nella stanza, e due
poltrone del salotto erano state sostituite con un divano letto.

Cosima si fermò con i bambini fino a quando si furono addormentati.

Poi si chiuse la porta alle spalle e raggiunse Nicola.

«Sono crollati per la stanchezza. Non illuderti che sarà così tutte le

sere.» Era di nuovo amichevole. Adorabile. Cosima prevenne il suo
interrogativo mentre ancora lo stava formulando a se stesso: «Non sono
affatto una persona isterica o umorale. Mi arrabbio raramente e non ci
rimugino mai sopra».

«Vuoi bere qualcosa?»
«No, grazie.»
«Vuoi fermarti a fare due chiacchiere? Non ho sonno.»
Cosima si sedette accanto a lui, sul divano letto. «Molto intimo»

ridacchiò.

«Lo sai che non so niente di te?»
«Vuoi farmi un interrogatorio?»
«Vuoi litigare?»
«Per un paio di mesi sono a posto. Avanti, dimmi che cosa vuoi sapere.»
«La tua disponibilità è raggelante» Nicola tentò di scherzare. In realtà

non si era mai sentito tanto intimidito e a disagio. Si girò verso Cosima.
«Sono un orso. Non ho mai avuto amiche e non sono abituato a... a parlare
con le donne.» Stava per dire corteggiare, e arrossì.

Sperò che lei gli rispondesse qualcosa, e invece tacque. «Cosima, ho

trentasette anni e...»

«Io ventisette. Aperto questo piccolo spiraglio nella conoscenza, puoi

proseguire da solo.»

«Non sono spiritoso come te. E mi sono cacciato in un discorso che

potresti fraintendere. Volevo semplicemente conoscerti meglio, ecco
tutto.»

«Fraintendere perché? È chiaro che non mi stai chiedendo in moglie.»
«Sei fidanzata?» proruppe.
Cosima scoppiò a ridere. «Santo cielo, sei davvero imbranato. No, non

sono fidanzata. Ho avuto una lunga storia con un ragazzo che è sparito

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quando i suoi genitori hanno scoperto di chi ero figlia. Niente di personale
contro Alyssa: semplice razzismo.»

Nicola si stupì che ne parlasse senza sofferenza e senza rabbia. E glielo

disse.

Cosima scrollò le spalle. «Stefano non era all'altezza nemmeno come

oggetto di sofferenza. E il razzismo esiste persino in Israele, tra gli ebrei:
quelli di origine russa ritengono "inferiori" quelli che provengono dal
Marocco o dallo Yemen.»

«Come puoi parlare così? Senza indignarti? Il razzismo è all'origine di

tutte le atrocità che...»

«Nicola, è un discorso troppo serio per starci a cazzeggiare con belle

parole in attesa di rompere il ghiaccio. Senza rabbia e senza rancore ti
ricordo che ti è bastata un'occhiata di pochi secondi per definire Alyssa
una orrenda mamie e scappare a gambe levate dall'emporio. Io le devo
tutto, la adoro e sono orgogliosa di essere sua figlia. Immagino che questa
fosse una delle cose che desideravi sapere.»

Nicola abbassò la testa. «Sai ferire profondamente.»
«Volevo soltanto fermarti: stavi scappando dalla verità.»
«Io...» Io ti amo, aggiunse silenziosamente. Sollevò la testa e la guardò,

tremante e stranito.

Cosima gli mise una mano sulla bocca. «Non dirlo» lo pregò

gentilmente.

Si trattenne al Terminillo per tutta la giornata seguente. Giocarono coi

bambini, fecero il bagno in piscina, presero il sole, scherzarono.

Solamente al parcheggio, mentre Cosima stava salendo in macchina per

ripartire, Nicola osò guardarla di nuovo. «Ti amo» le disse piano
prendendola per un braccio. Cosima si divincolò con dolcezza e mise in
moto facendogli un gesto di saluto, come se non lo avesse sentito.

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SECONDA PARTE

IX

Due febbraio. È passato un mese, Cosima pensò accendendo il gas sotto

alla caffettiera di zia Fatma. Spostò la sedia e si sedette davanti al tavolo.
Tre settimane prima prendeva il caffè al bar sotto casa perché le era
impossibile entrare in cucina. E quando finalmente era arrivato il coraggio
di farlo, per molti giorni si era preparata il caffè con una polvere solubile
perché la sola idea di usare la macchinetta di zia Fatma le era
insopportabile.

Cosima sapeva che settimana dopo settimana la violenza della perdita si

sarebbe attutita, perché era nell'ordine della natura e ogni giorno si metteva
alla prova per capire quali altri ricordi, quali altri oggetti avessero smesso
di spezzarle il cuore.

Cautamente, trattenendo il fiato, era riuscita a entrare nella stanza di zia

Fatma, a chiudere in uno scatolone le sue matasse di lana colorata e a
piegare e riporre il telaio sull'ultimo ripiano dell'armadio guardaroba. Non
ce l'aveva ancora fatta a radunare i suoi vestiti e chiamare un'associazione
benefica per farli ritirare. Ma col tempo le sarebbe riuscito anche questo.

Cosima non aveva mai provato un dolore tanto straziante, ma sapeva che

il solo modo per sconfiggerlo era non contrastare il suo corso, non sottrarsi
ai suoi assalti, non forzargli i tempi.

L'acqua della caffettiera cominciò a borbottare. Mentre si alzava,

Cosima notò che il calendario appeso sulla parete di fronte era ancora
quello dell'anno appena finito, il 2002, fermo sul mese di dicembre.

Zia Fatma non aveva fatto in tempo a cambiarlo, perché era morta. Tolse

il calendario dal gancetto e ne fece un rotolo. Lo avrebbe conservato: il
2002 era stato l'ultimo anno di vita di zia Fatma, undici mesi e ventiquattro
giorni, per l'esattezza. Le era stato concesso anche di festeggiare l'ultimo
Natale.

L'enormità della perdita le tolse il fiato. Non è possibile, pensò. Col

tempo si sarebbe abituata a proseguire la vita senza di lei, ma mai quel
senso di incredulità l'avrebbe abbandonata.

Si versò il caffè e tornò a sedersi. Le sette. Le restava ancora mezz'ora

prima di prepararsi per andare al lavoro e poteva starsene lì ad affrontare
l'impatto con una nuova giornata, libera di pensare, ricordare, piangere
senza doversi preoccupare di sua madre.

Per Alyssa la perdita della gemella era stata una mutilazione fisica

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straziante: la morte l'aveva separata da Fatma come il bisturi del chirurgo
che divide due siamesi e Cosima era certa che, se non avesse avuto una
figlia, si sarebbe lasciata morire.

Tre settimane dopo i funerali, Attilio Argenzi aveva comperato due

biglietti aerei per Napoli e, strappandola a un dolore senza scampo, l'aveva
portata a Positano.

Cosima era certa di un'altra cosa: Alyssa era partita soltanto per

preservarla dal suo strazio, per poter finalmente essere libera di disperarsi
e sentirsi male. Era stato così anche per lei. Partita sua madre, si era sentita
sollevata dal sovrumano sforzo di controllarsi. E dalla pena di vedere
Alyssa fare altrettanto.

Adesso dovevano farlo soltanto alla sera, durante le telefonate che

Alyssa le faceva da Positano: sto bene, ho visto dei posti bellissimi, oggi
abbiamo preso la barca, ho imparato la ricetta della pasta con le sarde, le
raccontava.

E Cosima: sto bene anch'io, Matilde continua a stare a casa di Karim con

la Gina, Karim ha potato il tuo ficus, sono andata a una mostra con Elena,
qui fa molto freddo...

Lo sguardo di Cosima si posò sullo spazio lasciato vuoto dal calendario.

Non ci sarebbero più stati stagioni, mesi, anni per zia Fatma.

La notte di Natale era ancora viva. E adesso era sepolta a Malumfashi:

così Alyssa aveva deciso. Volevi davvero questo, zia Fa?, le chiese
silenziosamente, lo sguardo annebbiato dalle lacrime.

Vigilia di Natale. Alyssa non credeva né in Dio, né negli stregoni, né nei

santi, ma ogni anno preparava il presepe perché il bambinello nato sulla
paglia, in una grotta riscaldata dall'alito di due bestie, era il solo oggetto di
culto religioso che la coinvolgesse.

E in un empito di pena aveva fatto costruire al padre di Karim una grotta

piena di lucine e con una bella stufetta in miniatura. All'obiezione che era
un falso storico, Alyssa aveva replicato decisa che non gliene importava
niente: almeno a casa sua, quel povero neonato destinato a morire
crocifisso doveva trovare qualche conforto.

Quella vigilia (soltanto quaranta giorni prima), Alyssa aveva invitato a

cena la famiglia di Karim, Attilio e Nicola Argenzi e Matilde.

Fatma aveva preparato (per l'ultima volta) i suoi dolcetti e Alyssa, sorda

alle suppliche della figlia, si era intestardita a includere lo chagussoud nel
menu. Quando Nicola era entrato nella loro casa, accolto dall'odore del
cumino, soltanto Cosima aveva notato l'impercettibile dilatarsi delle sue

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narici. E poco dopo, di fronte alla grotta che sembrava uno chalet di
Cortina, non era riuscito a trattenere un impercettibile moto di stupore.
Cosima aveva notato anche quello.

Doveva dargli atto che per tutto il resto della serata era stato cordiale,

premuroso, allegro. Aveva scherzato con Alyssa, complimentato Fatma
per le sue leccornie, mangiato lo chagussoud, estratto i numeri della
tombola, chiacchierato con il padre di Karim, distribuito con toni da
imbonitore i regali che si erano reciprocamente scambiati.

A mezzanotte era toccato a lui mettere Gesù Bambino sulla paglia: e,

ormai rilassato e a suo agio, era scoppiato in una risata quando Alyssa gli
aveva messo in mano la statuetta avvolta da una tutina di pelliccia bianca.

A mezzanotte e mezzo gli amici pakistani erano tornati a casa con i figli

e con Matilde, che aveva strappato il permesso di andare a dormire da loro.

Nicola e suo padre si erano trattenuti a chiacchierare. Alyssa aveva

cominciato a parlare dell'Africa e a raccontare dei viaggi che faceva due
volte all'anno nel Paese natale.

Da quel punto, Cosima ricordava ogni particolare, ogni frase.
Alyssa, con espressione assorta: "Non è facile da spiegare, ma per

sentirmi italiana ho bisogno di non perdere le radici con la Nigeria".

Fatma, con una strana voce: "Non sono più tornata lì...".
Alyssa, affettuosa: "Quante volte te l'ho chiesto? Tu sei come Cosima,

hai le radici qui".

Fatma, seria: "Cosima è nata a Roma. Io invece ho le mie radici in

Africa, come te. E da vent'anni hai smesso di chiedermi se volevo venire
con te".

Alyssa, stupita: "Credevo che non ti interessasse! Non volevo crearti

l'imbarazzo di rispondermi di no!".

Fatma, scuotendo la testa: "Non ne parliamo più".
Alyssa, risentita: "Parliamone, invece! Vuoi dire che per vent'anni io

non ho capito niente?".

Cosima aveva fatto per intervenire, ma sua madre l'aveva zittita. "Lascia

che mia sorella mi risponda, è una questione tra noi."

Fatma, con voce esitante: "No... Tu sei stata la mia vita... È colpa mia

che non te l'ho detto".

Alyssa,impaziente: "Dirmi che cosa?".
Fatma, con espressione quasi estatica: "Che avrei voluto ritornare a

Malumfashi... La mia gioia più grande era quando l'autista degli italiani
arrivava a prendermi e potevo stare con te... Non sai quante volte, alla
notte, mi sogno del villaggio... E penso ai nostri genitori e ai nostri fratelli,

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finiti chissà dove o sepolti sotto le canne da zucchero... Anche le mie
radici sono lì, Ali. Ma è colpa mia se non te l'ho detto prima".

Alyssa, con veemenza: "Appena riaprono le agenzie viaggio, faccio due

biglietti e ce ne andiamo a Malumfashi".

Ma non ce n'era stato il tempo. Al mattino dopo, quando Alyssa era

andata a svegliare la gemella, stupita che non si fosse ancora alzata, l'aveva
trovata morta. Uccisa da un aneurisma cerebrale, come avrebbe stabilito
l'autopsia.

Cosima era entrata nella stanza della zia un'ora dopo, con due caffè sul

vassoio per "le due chiacchierone": sua madre era accucciata di fianco al
letto, con la testa sulla spalla della sorella, e gemeva silenziosamente come
una bestia ferita a morte.

Erano stati Nicola e Attilio a telefonare al medico e a farsi carico di tutte

le penose incombenze dei giorni che seguirono.

"Deve essere sepolta a Malumfashi": furono le prime parole che Alyssa

disse. Inutilmente avevano tentato di dissuaderla. "È stato il suo ultimo
desiderio", era stata la risposta. Ringhiosa, definitiva.

Gli uffici deserti di quei giorni di festa resero ancora più difficoltose e

lunghe le pratiche per trasportare Fatma nel villaggio dei suoi sogni.
Soltanto il 2 gennaio fu possibile l'imbarco su un aereo dell'Alitalia e
Alyssa accettò che don Eugenio desse una benedizione e l'estremo addio a
Fatma.

Per cinque giorni la bara era rimasta nella camera mortuaria dell'obitorio

e per altri due in un hangar di Fiumicino: sette giorni durante i quali
Alyssa si era rifiutata di abbandonare la gemella trascorrendo ore ed ore
seduta in una panca davanti all'obitorio e aggirandosi come un'anima
dannata all'interno dell'aeroporto.

Aveva impedito a Cosima, con violenza, di starle accanto. E alla sera

erano Nicola o suo padre a prenderla per riportarla a casa di forza. Ma al
momento della partenza era troppo stremata per ribellarsi: e Cosima e
Attilio Argenzi si imbarcarono con lei.

La mente di Cosima si era sottratta all'orrore di quel viaggio,

trattenendone soltanto ricordi frammentari e confusi: la discesa della bara,
il lungo viaggio dall'aeroporto di Lagos a Malumfashi, una strada sterrata
verso un campo pieno di pietre, un gruppo di neri dalle facce tristi che si
stringevano attorno ad Alyssa, una fossa già aperta, simile a una mostruosa
bocca spalancata.

E quello era rimasto il solo ricordo nitido, talmente violento da abbattere

ogni pietosa difesa e imprimersi nella mente.

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Quando la bara fu calata nella fossa, due uomini affondarono la vanga

nel cumulo di terra fresca e cominciarono a ricoprirla.

Cosima fece un passo indietro. Addio, zia Fa, pianse. La terra si è

ripresa la tua dolcezza, la tua generosità, le tue dita delicate, la tua anima
bella.

Un gemito soffocato la fece sobbalzare. Alyssa si era buttata in

ginocchio, con le mani spalancate sull'orlo della fossa. D'un tratto
cominciò ad alzare e abbassare la testa e i gemiti diventarono urla
disarticolate e selvagge. Era come se il suo corpo ferito cercasse di
scacciare il dolore.

Attilio e gli amici neri tentarono di sollevarla, ma lei continuava a

dimenarsi e urlare.

"Lasciatela!" Cosima gridò.
Attilio la fissò stupito.
"Lasciatela!" ripeté con voce di panico.
Quello fu il primo e solo momento della sua vita in cui, senza rendersene

conto, emersero in lei le radici della nonna e delle antenate fulbe. Aveva il
terrore che la fermassero. Se fossero riusciti a farlo, Alyssa non si sarebbe
mai più liberata dal demone del dolore.

E Alyssa gridò, gridò e gridò, mentre Attilio la fissava con le lacrime

che gli rigavano il viso e gli amici si erano fatti, desolati, da una parte.

Alla fine quel demone fu scacciato dal suo corpo. Alyssa si alzò da terra

e sollevò i suoi occhi scoloriti sulla figlia. "Scusami" le disse con il filo di
voce che le era rimasta.

Cosima si aggrappò a lei scoppiando in singhiozzi.
Erano tornate a Roma e per giorni e giorni l'una si era sforzata di

sostenere l'altra, sapendo che uno sguardo triste, una parola sbagliata, un
occhio arrossato le avrebbero fatte crollare. E si spiavano ansiosamente
con il terrore di non riuscire a ingannarsi. Era stato come portarsi addosso
un doppio lutto.

Adesso, lontana con Attilio, Alyssa doveva affrontare soltanto il proprio.

E Cosima, rimasta sola, aveva cominciato a imparare la convivenza col
dolore.

Nicola la chiamò nel primo pomeriggio, mentre si trovava all'istituto

Gallone con Elena Marini. Era appena arrivato da Milano: voleva cenare
con lui, quella sera? Aveva una buona notizia da darle: la sua richiesta di
trasferimento era stata accolta, e alla fine di maggio avrebbe potuto
stabilirsi definitivamente a Roma.

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Cosima accettò il suo invito: gli doveva molto, non osava nemmeno

pensare a cosa sarebbe successo se lei e sua madre non avessero avuto
vicini gli Argenzi.

Si stava preparando per la cena quando arrivò la telefonata di Fabiana

Truzzi, la ex attrice di teatro che dieci anni prima aveva lasciato le scene
per sposare un nobile romano, ed era una delle clienti più assidue
dell'emporio.

Fabiana era appena rientrata da un viaggio negli Stati Uniti e voleva

sapere se Alyssa aveva ricevuto la sua lettera di condoglianze, dirle quanto
era sconvolta per la morte di Fatma.

Cosima le spiegò che Alyssa era fuori Roma e le avrebbe riferito della

sua telefonata.

Ma Fabiana non riattaccò. Era vicina anche a lei, Cosima. Immaginava

quale dolore fosse stato perdere una zia meravigliosa come Fatma. Ma
doveva farsene una ragione, sapere che la vita continuava e l'anima di
Fatma non sarebbe mai morta...

Cosima si trattenne a stento dal riattaccare. Nulla accresceva la sua

afflizione come le parole di cordoglio e di conforto, perché servivano
soltanto a farle capire quanto difficile e lunga ancora fosse la strada verso
la rassegnazione.

Alyssa non aveva nemmeno aperto le decine e decine di lettere e di

telegrammi che erano arrivati.

«La ringrazio di tutto, signora Truzzi. Adesso devo...»
«Voglio molto bene a sua madre. E credo che faccia un grave errore

vendendo l'emporio» aggiunse.

Cosima sobbalzò. «Vendere l'emporio?» ripeté.
«Così mi ha detto mia cognata. Suo marito è titolare di una agenzia di

intermediazioni d'affari, e Alyssa gli ha telefonato proprio stamattina...
Come può pensare di cedere il suo emporio? Il lavoro è di grande aiuto,
soprattutto per una donna attiva ed esuberante come Alyssa.»

«Non c'è ancora niente di deciso...» Cosima rispose tenendosi sul vago.

«La ringrazio della sua telefonata.»

Sua madre la chiamò alle otto, come tutte le sere, e Cosima non osò

nemmeno accennare alla presunta vendita dell'emporio.

Ne parlò invece un'ora dopo con Nicola, al ristorante, riferendogli tutti i

particolari che aveva saputo poco prima.

Nicola non si mostrò affatto stupito. «Mio padre, in una telefonata di

qualche giorno fa, mi ha accennato a questa vendita. Quando gli ho chiesto
di Alyssa, mi ha detto che stava pensando di ritirarsi. Contrariamente a te,

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la ritiene una decisione giusta, perché l'emporio senza Fatma sarebbe una
fonte continua di sofferenza e di ricordi.»

«Tuo padre non la conosce. Non riesco nemmeno a immaginare Alyssa

che trascina oziosamente le giornate. Il lavoro è la sua vita! Non ha fatto
che lavorare, da quando era bambina!» Cosima protestò.

«Forse anche per questo è stanca e vuole...»
«Parlami del tuo trasferimento, Nicola.»
«Vuoi cambiare discorso, eh?»
«Vorrei smetterla di parlare di me. Siamo venuti qui per...»
«Perché avevo voglia di vederti.»
Cosima avvampò. «Anch'io. E qui è finita.» Per sei mesi, dopo quel "ti

amo" che aveva finto di non sentire, era riuscita a non farglielo ripetere
più.

«Non è mai cominciato niente» Nicola puntualizzò, grave.
«L'affetto e la solidarietà di una bella amicizia non sono "niente".»
«Non mi bastano.»
«Non può esserci altro. E con questo è finita davvero.»
«Perché, Cosima? Perché non...»
«Se continui, mi alzo e me ne torno a casa.»

X

Attilio scrutò Alyssa. «Sei stanca?»
«No. Pensavo.»
Erano seduti al ristorante panoramico dell'Hotel Vesuvio. Alle otto

dell'indomani mattina avrebbero preso l'aereo per ritornare a casa, e prima
della partenza lui aveva voluto farle vedere anche Napoli.

«Non preoccuparti, sto bene» Alyssa aggiunse. «Pensavo alle Cascate

del Niagara. A tutti i posti che non visiterò mai.»

Attilio rise. «Per le Cascate del Niagara ci possiamo organizzare.»
«Il mondo è grandissimo e nessuno fa in tempo a conoscerlo tutto. Ma

non credo che esistano posti più belli di quelli che ho visto in questo
viaggio. Mi dispiace soltanto che Fatma non abbia avuto il tempo per...»

Attilio allungò una mano per cercare la sua. Era la prima volta che

parlava della gemella e non esistevano parole per confortarla.

«Non preoccuparti» Alyssa ripeté. «Oggi, mentre guardavo l'affresco di

Giotto nella chiesa di Santa Chiara, ho capito perché in queste tre
settimane sono stata bene. Vorrei vedere tutte le cose belle del mondo

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perché mi fanno sentire Fatma vicina. Non annoderà più i suoi tappeti, non
preparerà più lo chagussoud, non uscirà mai più da quella fossa, ma la sua
anima è troppo bella per scomparire. La sento viva. Forse è proprio questo
il paradiso che promettono alle persone migliori: l'anima che sopravvive al
corpo, finalmente libera di vagare ovunque e diventare parte dell'eterna
armonia dell'universo.»

«Sì, lo credo anch'io, Alyssa.»
Il cameriere si avvicinò per chiedere le ordinazioni. Soltanto quando si

fu allontanato, Alyssa fece caso alle due donne di mezza età che, entrate
poco prima, si erano sedute a un tavolo poco distante. La stavano fissando
con una insistenza imbarazzante.

Durante quella vacanza era successo spesso e ogni volta Alyssa

impiegava alcuni secondi per ricordare che lei era nera e Attilio bianco.
Nessuno poteva sapere che erano soltanto amici, dormivano in due stanze
diverse e gli atteggiamenti teneri di lui erano quelli di un soccorrevole
consolatore.

Alyssa sottrasse la mano a quella di Attilio e vide una delle due donne

alzarsi e avvicinarsi esitante a lei.

«Mi scusi tanto... Lei è la signora Calangida, quella dell'emporio?»
Alyssa annuì, stupita.
«Lo dicevo a mia cugina! Sono abbonata a Oggi, e qualche tempo fa ho

letto l'articolo con la sua storia.»

Fece cenno alla cugina di raggiungerla, cosa che la donna prontamente

fece. «Avevo ragione io!» le disse. «È proprio la signora Calangida!»

Alyssa sorrise a entrambe e presentò Attilio. «È il notaio Argenzi, un

mio amico. Siamo qui di passaggio» disse.

«Noi siamo venute per un battesimo.» Sempre la prima donna, la più

loquace. «La sua gemella come sta?» chiese.

Attilio trattenne il fiato e gli istanti di silenzio che seguirono gli parvero

un'eternità.

«Molto bene, grazie» Alyssa sorrise di nuovo.
Prima di riportare Fatma a Malumfashi non aveva voluto annunci

mortuari né cerimonie. Aveva consentito soltanto al vecchio parroco, a cui
Fatma voleva molto bene, di benedire la salma. Almeno per qualche
giorno, quella perdita doveva essere pianta soltanto dalla famiglia.

La cugina più silenziosa si fece coraggio. «Tra una settimana devo

venire a Roma e verrò a trovarla nel suo emporio.»

«Mi dispiace, ma lo troverà chiuso.»
«E quando riaprirà?»

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«Abbiamo cessato l'attività.»
L'arrivo del cameriere con la zuppa di pesce mise fine al penoso dialogo.

Quando rimasero di nuovo soli, Attilio evitò ogni commento. «Sei davvero
decisa a vendere l'emporio?» chiese invece.

«L'emporio chiude per sempre. Vendo soltanto i muri» sottolineò

Alyssa.

«Certo. Lo so. Sei sicura che dopo non te ne...»
«Ne abbiamo già parlato. E mi sembravi d'accordo con la mia

decisione.»

Più tardi, mentre bevevano il caffè, Attilio riuscì a farle la domanda che

lo assillava da un mese e mezzo. «Vuoi tornare a vivere in Nigeria?»

Alyssa sbarrò gli occhi. «Come ti viene in mente?»
«Ho visto che lì hai molti amici... Amici che ti sono stati molto vicini.»
«Ho molti amici anche a Roma. E tu sei tra questi. Roma è la mia città e

non potrei mai vivere lontana da mia figlia.»

«Scusami.» La guardò negli occhi. «Sani Buhari, il pittore, mi è

sembrato particolarmente vicino a te.»

«Non lo vedevo da molto tempo. Abita a...» Si interruppe. «Ma sì,

perché nasconderlo? Ho avuto una lunga relazione con lui, e ci siamo
lasciati proprio perché pretendeva che tornassi a vivere in Nigeria.»

«Hai... sofferto molto?»
«No. Provavo molte cose buone per lui, ma non era amore. La

sofferenza è un'altra cosa.»

Attilio raccolse tutto il suo coraggio. «Non avrei sopportato di vederti

partire perché sei diventata troppo importante per me.»

«Anche tu.»
«Lo so. Ma io intendo un'altra cosa.»
«E come fai a saperlo?» Il tono di Alyssa era scherzoso, ma gli occhi di

velluto lo fissavano gravemente.

Attilio perse la testa. «Vuoi dire che mi ami anche tu?»
«Sì.»

Quella notte Alyssa si addormentò tra le sue braccia. Attilio lasciò la

luce accesa e si scostò leggermente da lei: voleva guardarla. Era la sua
prima donna, il suo primo amore. Quando era entrato dentro di lei aveva
scoperto l'emozione, la frenesia e l'impeto di una giovinezza che non aveva
mai vissuto. A ventitré anni era già padre, ostaggio di un matrimonio
infelice da cui si era rovinosamente affrancato unendosi a un'altra donna
sbagliata. Aveva subito la convivenza come una espiazione. E a

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cinquantadue anni si era ritrovato di nuovo solo: un uomo disincantato,
un'anima morta. Con Alyssa era resuscitato.

Si soffermò, estatico, a contemplare il suo viso. Vorrei avere vent'anni e

tutta la vita davanti a noi, pensò, provando una fitta di malinconia per
quella giovinezza scoperta fuori tempo. Aveva sessant'anni e non poteva
prendere Alyssa per mano e buttarsi con spericolatezza e con passione nel
futuro.

Conosceva la storia di Alyssa. Segnata dalla sorte infausta dei bambini

nati per morire di fame o per sopravvivere come bestie, si era impegnata in
una sfida eroica per costruirsi un'esistenza dignitosa. Attilio sapeva quante
umiliazioni, quante fatiche, quante lotte si era lasciata alle spalle. Adesso
lui non poteva irrompere nella sua vita, già devastata dalla morte di Fatma,
con l'impeto cieco della passione. Voleva sposarla, ma prima di
chiederglielo tutti gli ostacoli andavano rimossi, tutti i pregiudizi smontati,
tutti i problemi risolti. E toccava a lui farlo.

Aveva l'amarissimo sospetto che le prime resistenze sarebbero arrivate

da suo figlio. Nel loro rapporto c'era un buco nero di quasi trent'anni e
dovevano ancora imparare a conoscersi. Di Nicola adulto apprezzava
l'intelligenza, il rigoroso senso del dovere, l'abnegazione paterna. Ma
dubitava che una madre possessiva e incapace di perdono avesse saputo
dargli una buona educazione sentimentale. Lo provavano la scelta di una
moglie "affidabile", la dichiarata diffidenza per la passione, il
conformistico fermarsi alle apparenze.

Attilio era certo che suo figlio non vedeva più in Alyssa una "orribile

mamie", ma altrettanto certo che non l'avrebbe accettata facilmente come
moglie di suo padre. E si sarebbe sentito profondamente imbarazzato alla
sola idea di presentarla ai colleghi.

Anche Cosima poteva rappresentare un ostacolo. Le voleva un bene

dell'anima, ma questo non gli impediva di disapprovare le sue analisi
troppo razionali, le sue opinioni ciniche e disincantate. Come avrebbe
reagito apprendendo che lui, un bianco, voleva sposare sua madre, una
nera? Non poteva affatto escludere che in cuor suo lo giudicasse un
irresponsabile, un pazzo. E vedesse in quel matrimonio un attentato
all'equilibrio e alla vita stessa di Alyssa. Cosima era molto protettiva nei
confronti di sua madre e da quando la zia era morta lo era diventata, se
possibile, ancora di più.

Ho bisogno di tempo, Attilio pensò. Voglio fare felice Alyssa e non

coinvolgerla in una ennesima sfida. Cederò il mio studio e mi dedicherò a
lei. La porterò a visitare le Cascate del Niagara e tutti i posti che neppure

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io ho mai visto.

I suoi pensieri furono interrotti dal suono della sveglia. Le sei e mezzo:

era ora di prepararsi per raggiungere l'aeroporto e tornare a casa.

A mezzogiorno era atteso in studio dalla vedova di un suo vecchio

amico per un contenzioso successorio con i figli: era un caso che purtroppo
non poteva affidare ai collaboratori dello studio, come aveva fatto con
molti altri in quelle tre settimane.

Alla fine di febbraio, con l'avvicinarsi della data del suo trasferimento,

Nicola ritenne opportuno affrontare con suo padre i molti problemi
logistici e pratici. Aveva messo in vendita sia la piccola casa ereditata dalla
madre sia quella in cui aveva vissuto con Luisa e il ricavato sarebbe stato
sicuramente sufficiente per acquistare un appartamento a Roma.

«Il solo requisito irrinunciabile è l'ubicazione» Nicola spiegò al padre.

«Non voglio allontanare Matilde da te, dai suoi amici e dalla sua scuola.
Purtroppo l'agenzia a cui mi sono rivolto ha disponibile soltanto
l'appartamento al quinto piano di un palazzo che è in fase di totale
ristrutturazione. E i lavori non finiranno prima del prossimo anno.»

Fece una pausa, e il padre prevenne la scontata richiesta. «Tu e Matilde

potete restare con me tutto il tempo che volete. E prima che tu firmi un
preliminare, ho una proposta alternativa da farti: in tempi molto più brevi,
potremmo ristrutturare il mio studio. Sono più di 150 metri, ha due bagni
e...»

«Papà, ti ringrazio della tua disponibilità, ma non se ne parla nemmeno.

Trasferire il tuo studio e rinunciare alla comodità di lavorare senza
muoverti da casa mi sembra una alternativa illogica.»

Suo figlio gli stava offrendo un primo appiglio per poter affrontare, sia

pure alla lontana, il discorso del suo futuro con Alyssa. Si schiarì la voce.
«Ho deciso di smettere di lavorare. Cederò l'attività ai giovani notai che
collaborano con me e, ovviamente, dovranno cercarsi un'altra sede.»

«Hai soltanto sessant'anni. Non ti sembra troppo presto per metterti a

riposo?» Nicola chiese stupito.

«È quello che desidero: non riposare, ma dedicarmi finalmente a me

stesso e alle persone che amo. Anche Alyssa, che ha tredici anni meno di
me, ha preso questa decisione» buttò lì.

«E infatti Cosima è molto preoccupata. Teme che una volta chiuso

l'emporio e venduta la sede si penta amaramente e piombi in una crisi di
depressione.»

«Cosima sottovaluta sua madre: è una donna che non ha mai agito

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d'impulso e ha sempre saputo fare scelte giuste.»

«La perdita della gemella l'ha resa molto vulnerabile.» Nicola lanciò

un'occhiata al padre. «Forse non è più così sicura di sé, così indipendente
dagli altri... Tu hai dovuto lasciare lo studio tre settimane per starle
vicino.»

«Dovuto? L'ho fatto senza pensarci un istante... Se non l'avessi portata

via, sarebbe impazzita di dolore!» Attilio esplose.

«Stiamo dicendo la stessa cosa. Alyssa adesso ha bisogno degli altri, e

senza il suo lavoro finirà per diventare totalmente dipendente... Chi può
farsi carico di lei?»

«Io.» Voglio sposarla, stava per aggiungere, ma si impose di non essere

precipitoso. «Chiuso lo studio, avrò tutto il tempo per occuparmi di lei.»

Sul viso di Nicola apparve una espressione imbarazzata. «Immagino che

avrai anche il desiderio di leggere un libro, fare una vacanza, frequentare
degli amici, portare al cinema la tua nipotina...» Abbozzò un sorriso. «Non
puoi certo dedicare tutto il tempo ad Alyssa, come hai fatto in queste
ultime settimane.»

Attilio non si lasciò sfuggire questo secondo appiglio. «Ho trascorso gli

ultimi anni in grande solitudine, Nicola. A cinquanta già vivevo come un
vecchio. Adesso, nonostante ne abbia dieci di più, ho finalmente aperto gli
occhi: non ho ancora l'età per sopravvivere come i vecchi che non hanno
più futuro.»

«Hai ragione. Ci sono uomini che a sessant'anni si risposano e hanno

addirittura un figlio!» Il sorriso di Nicola si fece aperto e amichevole.
«Proprio per questo dovresti dedicare più tempo a te stesso, fare una
vacanza, conoscere delle persone al di fuori del palazzo. Non soltanto non
mi scandalizzerei, ma sarei felice se tu incontrassi una donna con cui
condividere gli interessi, fare dei progetti.»

Attilio si buttò. «C'è Alyssa. Con lei sto bene.»
«Non lo metto in dubbio, è una cara amica. Ma io parlavo di una

compagna, di una donna giusta con cui...»

«Che cosa intendi per giusta?» lo interruppe.
«Papà, che domanda... Una donna simile a te, con i tuoi gusti, i tuoi

interessi.»

«E lo stesso colore della pelle?»
Il brusco interrogativo spiazzò Nicola. «Non capisco che cosa vuoi

dire.»

Nel momento stesso in cui pronunciava quella frase Attilio vide il

sorriso sparire dal viso di suo figlio per lasciar posto a una espressione di

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incredulità. Aveva capito.

Torvamente Attilio aspettò che fosse lui a parlare. Al diavolo gli appigli

e il cauto temporeggiare. Nicola lo aveva respinto, condannato, tagliato
fuori dalla sua vita per trent'anni. Si era sposato e aveva avuto una
bambina della quale fino a pochi mesi prima lui ignorava persino
l'esistenza. A quale titolo, adesso, si permetteva di sentenziare e sindacare?
Non aveva certo bisogno della benedizione filiale per sposare Alyssa. E la
amava abbastanza per renderla felice a dispetto degli idioti e dei razzisti.

Nicola continuava a guardarlo in silenzio, il viso paralizzato nella stessa

espressione di incredulità. Evidentemente anche lui aspettava che fosse il
padre a dire qualcosa.

E Attilio lo fece. «La donna giusta per me è Alyssa. Sono innamorato di

lei e voglio sposarla.» Era più di una spiegazione: l'annuncio di una
decisione definitiva e irrevocabile. A renderlo più chiaro, semmai ve ne
fosse stato bisogno, aggiunse seccamente: «Qualunque cosa pensi, tienila
per te: non hai alcun diritto di intrometterti nella mia vita dopo avermi
tagliato fuori dalla tua per trent'anni».

Ecco, aveva vomitato anche questo grumo di veleno. Era stanco di

macerarsi nei rimorsi, stanco di espiare, da solo, la colpa di un distacco di
cui anche suo figlio era responsabile. Se sua moglie non fosse stata uccisa
e Attilio non fosse corso per offrirgli il suo aiuto sarebbe stato un distacco
senza fine.

Non esistono soltanto i cattivi genitori, ma anche i cattivi figli, pensò

con ira. Il veleno era uscito, ma ne sentiva ancora il fiele. In tutti quei mesi
suo figlio non aveva nemmeno sentito il bisogno di affrontare un discorso
chiarificatore, di cercare di capire e di spiegare l'abisso che li aveva divisi.

Si stupì di udire la voce di Nicola. Una voce triste, sommessa. «Se è

questo che vuoi, quello che penso io non ha importanza... Cosima lo sa?»

«Non ancora. Deve essere sua madre a dirglielo.»
Attilio ricordò solo in quel momento che non aveva ancora chiesto ad

Alyssa di sposarlo.

La sua reazione fu più incredula di quella di Nicola. «Vuoi davvero

sposarmi? Attilio, è una pazzia.»

«Ti amo e voglio vivere con te: dove sta la pazzia?»
«Alla nostra età che bisogno c'è di sposarsi?»
«Sono troppo anziano per apprezzare l'euforia di una passione

clandestina o per temporeggiare con la convivenza.»

Alyssa scosse furiosamente la testa. «Io non sono pronta! Non posso

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nemmeno pensare alle chiacchiere che la gente farebbe!»

«Alludi ai condomini della scala B?» Attilio scherzò.
«Se proprio vuoi saperlo, penso ai nostri figli. A Matilde. Il nostro

matrimonio potrebbe addirittura finire sui telegiornali: Alyssa Calangida,
la "selvaggia nigeriana", sposa il padre del magistrato Argenzi.»

«Non montarti la testa» Attilio scherzò ancora.
«Allora mettiamola in un altro modo: un trafiletto umoristico

sull'anziana coppia che travolta dalla passione sfida tutti i pregiudizi e i
tabù.»

«Hai affrontato sfide ben più coraggiose» Attilio osservò, serio.
«Certo! Ma mai sulla pelle degli altri. Riesci a immaginare l'imbarazzo

di tuo figlio, il disagio di Cosima, l'umiliazione di Matilde di fronte alle
frecciatine e alle battute dei loro...»

«Ammesso che tu abbia ragione, non posso compromettere il nostro

futuro per risparmiargli qualche giorno o qualche settimana di frecciatine.»

«Aspettiamo. Prendiamo tempo.»
«Per comparire sui trafiletti come i due arzilli nonnini travolti da senile

passione? Alyssa, aspettare serve soltanto a estenuarci e a rinviare i
problemi. Tanto vale affrontarli subito.»

Alyssa rifletté qualche istante. «Dovremo dirlo ai nostri figli» sospirò.
«Con Nicola ho già parlato.»
«E...»
«Ha detto che è una decisione mia e la rispetta.» Riassunta così, poteva

essere la verità.

Ma Alyssa si tranquillizzò soltanto dopo aver parlato con sua figlia.
Cosima, ovunque fosse e qualunque cosa facesse, si portava dietro il

pensiero di Alyssa. La sua decisione di cessare l'attività l'aveva sconvolta,
perché confermava l'insopportabile timore che una parte di sua madre
fosse morta con la gemella.

Per questo la sua prima reazione alla notizia del matrimonio fu di

smisurato sollievo. Persino fisico: fu come sentirsi togliere un
insopportabile peso dalle spalle. Subito dopo Cosima provò una dilagante
gratitudine per Attilio: era stato lui, con il suo amore, a salvare Alyssa. E
sposandola riportava la gioia nella sua vita.

Cosima abbracciò sua madre. «Non potevi darmi una notizia più bella.»
Soltanto più tardi Cosima si chiese se Nicola fosse già stato informato di

quel matrimonio. Dubitava che anche lui potesse considerarla una bella
notizia.

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Con grande sorpresa di tutti, Alyssa espresse il desiderio di sposarsi in

chiesa. «Non sono religiosa, ma don Eugenio mi è sempre stato vicino e
gli voglio bene.»

Il secondo desiderio fu quello di una cerimonia "semplice e intima",

senza fotografie, discorsi, musica, fiori. «La festa è sposarsi, il resto non
serve» spiegò ad Attilio.

Il matrimonio fu fissato per il 4 aprile. Mario sarebbe stato il testimone

dello sposo ed Elena Marini della sposa.

XI

Nicola trascorse a Milano i giorni che precedettero il matrimonio e

Cosima lo sentì un paio di volte per telefono: troppo poco per capire che
cosa pensasse dell'unione di suo padre con una donna di colore. I soli
accenni che fece al proposito ("senz'altro arriverò per la cerimonia",
"Matilde è felice di poter chiamare nonna tua madre") potevano sembrare
incoraggianti.

Ma Cosima vi avvertì soltanto lo sforzo diligente di mostrarsi

amichevole: non chiese notizie di Alyssa, non mostrò alcun interesse per i
preparativi, non cercò di sapere cosa lei pensasse di quel matrimonio.
Sicuramente dava per scontato che ne fosse felice e aveva paura di lasciar
trapelare una reazione del tutto diversa.

Vi erano momenti in cui Cosima, sadicamente, si rammaricava di aver

respinto i suoi approcci. Fin dove avrebbe osato spingersi? Che cosa
sarebbe successo se gli avesse permesso di frequentarla e di trasformare
l'impulsivo "ti amo" in un sentimento profondo?

Ma, passati questi momenti, la sua vera natura prendeva il sopravvento.

Aveva dovuto respingerlo perché era emotivamente troppo coinvolta da lui
e, assecondandolo, anche la sua attrazione si sarebbe trasformata in un
sentimento profondo. Soprattutto, il loro rapporto si sarebbe spinto troppo
oltre per poterlo spezzare impunemente. E Cosima non voleva infliggere
né a lui né a se stessa sofferenze inutili.

Vi erano altri momenti in cui la sua razionalità subiva l'attentato di quel

sentimento sconfessato e represso. Dove sta il problema? Perché mai il
vostro rapporto dovrebbe essere flagellato da tanta sofferenza?

Ma la ragione aveva ormai trovato tutte le risposte per rintuzzare quegli

attacchi. Tu hai paura della tua metà nera e Nicola ne è inconsapevolmente
attratto. Tu lotti ogni giorno contro la passionalità, gli umori, gli istinti e le

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collere da "selvaggia" mentre è stata proprio questa parte di te a stregare
Nicola. Eccolo, il vero problema: accettando quell'amore, Cosima avrebbe
dovuto arrendersi.

Lei aspirava a un rapporto sereno, lui era stato profondamente deluso da

un matrimonio basato sulla rasserenante affidabilità. Si erano incontrati in
un momento di fragilità e disincanto e l'uno aveva offerto all'altra la scossa
emotiva forte di cui, in quel momento, entrambi, avevano bisogno. Sì, era
questo il vero problema: una abissale diversità che andava oltre il colore
della pelle.

Per assecondare il reciproco coinvolgimento sino a trasformarlo in una

relazione stabile Cosima avrebbe dovuto far violenza al suo bisogno di
serenità e Nicola arrendersi alla passione. Ma quanto sarebbe durata?
Prima o poi, fatalmente, la vera natura di Nicola avrebbe preso il
sopravvento e gli avrebbe reso insopportabili le diversità che lo avevano
attratto. E la sola idea di essere oggetto di una passione "fatale" umiliava
Cosima. No, non poteva davvero rammaricarsi per aver salvato entrambi
da una esperienza tanto infelice.

L'antica rissosità tra Alyssa e Attilio ebbe un soprassalto, sia pure

semiserio, quando dovettero affrontare il problema della casa in cui vivere.

Alyssa sapeva che Nicola, prossimo al trasferimento, non aveva ancora

preso una decisione sull'acquisto dell'appartamento nel palazzo in via di
ristrutturazione. Sapeva anche che Attilio si era offerto di cedere al figlio i
locali dello studio. In ogni caso, la sola abitazione di cui per il momento
Nicola poteva disporre era quella paterna. E Alyssa non voleva certamente
imporgli la sua presenza.

D'altro canto temeva che Cosima si sentisse a disagio, se non addirittura

una "intrusa", ritrovandosi a vivere con il marito di sua madre. Con il
senso pratico che la contraddistingueva, Alyssa aveva trovato la soluzione
ottimale: lei e Attilio si sarebbero trasferiti nell'attico, lasciando a Cosima
l'appartamento sottostante. Ma Attilio avrebbe accettato di vivere in una
casa non sua? Non restava che affrontare il problema.

Lo fece, con piglio scherzoso, una delle rare sere in cui rimasero soli.

«Stiamo per sposarci e non sappiamo ancora quale sarà il nostro tetto
coniugale» buttò lì.

L'esitazione di Attilio le fece capire che anche lui si era posto il

problema. «In effetti è così. La soluzione migliore è che tu venga a casa
mia. Si intende che potrai arredarla e sistemarla come credi: bisogna
soltanto aspettare che Nicola decida se trasferirsi o no nei locali dello

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studio.»

«Lasciare la mia reggia per trasferirmi nel piano basso? Non se ne parla

nemmeno» Alyssa replicò con ostentato snobismo.

«Non pretenderai che io venga a vivere a casa tua! Riemergerebbero tutti

i miei complessi di inferiorità nei confronti della padrona della scala.»
Anche lui la stava buttando in scherzo.

Alyssa si fece seria. «Se io vengo da te, tuo figlio si sentirà moralmente

obbligato ad andarsene.»

«Capisco quello che vuoi dire. Ma anche tua figlia avrebbe dei problemi

se fossi io a venire da te.»

L'aveva portato dove voleva. «Una soluzione ci sarebbe» gli disse, con

espressione assorta, come se l'avesse trovata in quel momento. «Cosima
resta nel piano di sotto e io e te ci sistemiamo nell'attico.»

Attilio rifletté qualche istante. «Mi sembra una buona idea. Ma a una

condizione: devi vendermelo. È il solo modo per superare il mio
complesso di inferiorità.»

«Vuoi allargarti, eh?» ridacchiò Alyssa. «Guarda che la guerra dei

millesimi la vinco sempre io.»

«Allora, sì o no?»
«Sì. Ma l'attico ha un costo molto alto e approfitto del tuo interesse ad

acquistarlo per fartelo pagare ancora di più.»

«Ha ragione Mario: la tua avidità di danaro è insaziabile!»

La settimana che precedette la cerimonia fu frenetica. Alyssa fece dono

di tutti gli oggetti rimasti invenduti nel suo emporio a una associazione di
volontari che le era stata segnalata da don Eugenio. Fu lei stessa a
organizzare una vendita benefica e trascorse una intera giornata con
l'amico sacerdote per catalogare e fissare i prezzi di ciascun lotto.

Fu in quella occasione che Attilio scoprì casualmente, parlando con don

Eugenio, che da molti anni Alyssa aveva anonimamente stanziato una
borsa di studio per consentire a cinque ragazzi nigeriani di laurearsi in
medicina. Ma erano numerose le iniziative benefiche e di assistenza che,
sempre anonimamente, le sorelle Calangida avevano cominciato a
finanziare quando il benessere era entrato nelle loro vite.

La grande amarezza di don Eugenio era che ogni situazione di

sofferenza e di miseria rafforzasse in Alyssa la certezza che non poteva
esistere alcun Dio. «La sua bella anima dovrebbe esserne una prova» disse
ad Attilio. Attilio aveva una sola certezza: l'amore di quella bella anima
era il dono più grande che la vita gli avesse fatto.

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Nicola arrivò da Milano la vigilia del matrimonio e apprese attraverso

l'irruento ed eccitato racconto di Matilde che nonno Attilio aveva
trasportato le sue cose da nonna Alyssa, che Mario aveva aiutato "gli
uomini" a portare sulla scala un letto nuovo, che Gina adesso restava anche
a dormire con lei, che Cosima quella mattina l'aveva accompagnata a
scuola e si era "molto arrabbiata" con la sua "maestra speciale".

Fu quest'ultimo particolare a liberare l'irritazione di Nicola: che cosa era

successo? Se sua figlia aveva dei problemi con l'insegnante di supporto,
perché lui non ne era stato informato? Fu la prima domanda che più tardi
rivolse al padre, quasi aggressivamente.

Attilio gli rispose, asciutto, che per eccesso di presunzione e di zelo

l'insegnante di supporto tendeva a isolare la bambina dalle attività di
gruppo e Cosima era intervenuta per riprenderla. Tutto lì. Era uno dei
piccoli problemi che i bambini dell'età di Matilde comportavano, e il padre
non poteva certamente aspettarsi di venirne, ogni volta, informato e
coinvolto.

La secca imperturbabilità di Attilio accrebbe l'irritazione di Nicola.

«Non dovrebbe esserne coinvolta nemmeno Cosima. A meno che il tuo
matrimonio con sua madre non la autorizzi a comportarsi come una
parente stretta» insinuò polemico.

«È stata Cosima ad accorgersi che l'insegnante di supporto stava

sbagliando e ha voluto parlare con lei. Questi problemi fanno parte del suo
lavoro. E si è interessata di Matilde fin dall'inizio, quando io e sua madre
avevamo ancora un rapporto di vicini di casa.»

«D'accordo» Nicola disse a denti stretti.
Attilio guardò il figlio. «A sessant'anni non ho bisogno della tua

approvazione per sposare Alyssa e quello che ne pensi mi lascia
indifferente. La sola cosa che esigo da parte tua è la buona educazione: se
non sei in grado di controllare la tua aggressività, è meglio che domattina
tu non venga al mio matrimonio.»

«Non preoccuparti. Mia madre mi ha insegnato la buona educazione.»
Attilio si impose di non rispondere alla provocazione. Quante erano le

cose che invece non gli aveva saputo insegnare? Quante fantasie, quanti
slanci, quante gioie quella madre era riuscita a frenare?

Nicola lanciò l'ultimo affondo. «Matilde mi ha detto che ti trasferisci da

Alyssa. Se lo fai per lasciare la tua casa a me, non ce n'è bisogno.»

«Lo faccio perché è stata Alyssa a chiedermelo: preferisce così.»
«E tu? Preferisci sentirti ospite di tua moglie che restare a casa tua?»

incalzò.

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«Certamente no. Ho comperato la parte alta del suo appartamento

proprio per non sentirmi suo ospite. E se tu non hai bisogno di questa casa,
la darò in affitto. Decidi pure con comodo, non ho fretta.»

L'aveva spiazzato. Disarmato. La torva sensazione di gioia durò pochi

istanti. Aveva detestato suo figlio, rintuzzando i suoi attacchi come quelli
di un nemico. Ma la cosa più triste era la consapevolezza di volergli bene
con l'impotenza e la frustrazione dei genitori respinti. Si doveva difendere
anche dall'affetto che provava per lui, amaro come un veleno.

«Sono molto stanco» Nicola disse dopo un lungo silenzio.
Era un modo per chiedergli scusa? Per giustificare la sua aggressività?
«Andiamo a letto. Sono stanco anch'io» Attilio rispose, rifiutandosi di

cercare la risposta consolatoria. Era stanco di interpretare, sollecitare,
aspettare. Stanco di elemosinare un gesto affettuoso o un segno di vero
disgelo.

La cerimonia era stata fissata per le otto del mattino, dopo la prima

messa. Attilio si alzò alle sei e trovò Nicola già alzato, in cucina. «Vuoi
che ti accompagni in chiesa, papà?»

«Andiamo tutti insieme. L'appuntamento è tra un'ora sotto al portone.»
Non se la sentì di respingere anche quel chiaro segnale di pace.

«Comunque grazie» aggiunse.

Matilde si alzò poco dopo e disse al padre che "saliva di sopra" perché

Cosima le aveva regalato il vestito delle nozze e doveva "pettinarla e
prepararla". Gli abiti per Karim e i suoi genitori li aveva comperati invece
nonna Alyssa.

Attilio pregò tra sé che Cosima, memore dell'infelice serata all'emporio,

non "travestisse da negretta" la bambina: quella mattina non avrebbe
sopportato neppure il minimo segno di disappunto o di critica da parte di
suo figlio.

Un'ora dopo tirò un sospiro di sollievo: Matilde indossava una deliziosa

vestina in lino azzurro col corpetto ricamato a nido d'ape. Cosima le aveva
ondulato i capelli fermandoli con un pettinino a forma di farfalla. Anche
lei era vestita di azzurro: un tailleur pantalone che sottolineava il suo corpo
slanciato e perfetto.

Alyssa fu l'ultima a scendere, accompagnata dall'amica Elena, e per

qualche istante Attilio rimase a guardarla in balia della sorpresa: era la
prima volta che la vedeva senza treccine. Si era stirata i capelli
raccogliendoli in uno chignon e indossava un rigoroso chemisier in seta
blu. Niente orecchini, collanone, pendagli: l'unico ornamento era la piccola

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spilla in filigrana d'oro che, come Attilio avrebbe saputo in seguito, era
stato il primo gioiello posseduto da Fatma.

«Nonna Alyssa ha dormito con una pappa sui capelli e li ha stirati fino

adesso!» spiegò Matilde con entusiasmo.

Mario scosse la testa. «La preferivo come era prima.»
Anche Attilio. Si avvicinò per abbracciarla e le sussurrò all'orecchio:

«Rivoglio la mia Alyssa».

Don Eugenio aveva rispettato gli accordi: un matrimonio semplice,

senza musica e senza fiori. Fece ancora di più: attese gli sposi davanti al
piccolo altare di Maria Bambina e per dare inizio alla cerimonia aspettò
che il piccolo gruppo di invitati prendesse posto nelle due panche spostate
poco prima dal sacrestano.

Nicola si sedette accanto a Cosima, non osando esprimere il suo stupore

per il tono sommesso di quelle nozze.

Don Eugenio si rivolse direttamente ad Alyssa. «Ti ringrazio di aver

scelto questa chiesa per sposare Attilio. Anche se non credi in Dio, io vedo
il suo segno nel cammino di sofferenza e di lotte che hai dovuto percorrere
per poter arrivare alla gioia di questo giorno.»

«Don Eugenio, ci sposi e basta» lo apostrofò Alyssa.
«Ci ho provato.» Le rivolse un sorriso e sorrise anche agli invitati.

«Devo stare ai patti e limitarmi a officiare il rito. Però questo matrimonio,
apparentemente spoglio e senza Dio, è il più bello che ho celebrato.»

Don Eugenio passò a leggere gli articoli del codice civile e rivolse,

prima ad Attilio poi ad Alyssa, il rituale "vuoi tu...". Dopo il duplice "sì", li
dichiarò uniti in matrimonio, evitando di nominare il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo.

Gli sposi passarono infine in sacrestia con Mario ed Elena Marini, i loro

testimoni, per firmare il registro. Matilde prese Karim per un braccio.
«Andiamo anche noi.»

Nicola e Cosima rimasero soli con la coppia di amici pakistani.
«Alyssa è stata molto brava» osservò Leila, la madre di Karim.
Cosima capì subito che cosa intendeva: era riuscita a tenere sotto

controllo tutti i sentimenti: la felicità, la commozione, il senso di vuoto per
la mancanza di Fatma. Era stato bravo anche don Eugenio, assecondando il
bisogno di una cerimonia austera anche con l'assenza di ogni discorso.

«Non sapevo che tua madre fosse atea» osservò Nicola.
Cosima sorrise. «A modo suo, è molto religiosa, invece.»
«Dovrebbero farla santa» dichiarò Leila con forza.
Matilde sopraggiunse correndo. «Venite, don Eugenio ha preparato una

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festa!»

Fuori dalla sacrestia, sotto al porticato, era stato sistemato una tavolo

ricoperto da una tovaglia bianca. La perpetua aveva voluto offrire agli
sposi una colazione: caffè, cioccolato, spremuta d'arancia. E biscotti e
pasticcini preparati con le sue mani.

Fu quel segno di affetto a penetrare la corazza di autocontrollo che

Alyssa si era imposta: alla vista del tavolo scoppiò in lacrime.

Ma fu una crisi brevissima. «Questo è un giorno di festa» disse a don

Eugenio «e non vorrei che il suo Dio mi ritenesse un'ingrata.»

Il regalo di nozze di Attilio fu un viaggio negli Stati Uniti con visita

obbligata alle Cascate del Niagara. Partirono all'indomani della cerimonia,
e fu Cosima ad accompagnarli con la sua auto a Fiumicino. Dall'aeroporto
andò direttamente all'istituto Gallone, dove era attesa per una riunione con
il corpo insegnante.

Tornò a casa alle sette e mezzo di sera e, prima di salire, si fermò al

primo piano per fare un saluto a Matilde e chiedere a Gina se aveva
bisogno di qualcosa.

Con sua grande sorpresa, venne ad aprirle Nicola. «Entra pure. Ho

rimandato di un giorno il rientro a Milano perché Matilde mi sembrava un
po' frastornata» le spiegò.

La piccola stava cenando e nel vedere Cosima il suo viso si riempì di

gioia. «Non sei andata in America anche tu?»

«No, soltanto il nonno e...»
«E nonna Alyssa! Ma sei sicura che tornano?»
«Certamente. Ti ricordi? Sono tornati anche dall'altro viaggio.»
«Ma l'America dov'è? Se questa volta non tornano più, come zia

Fatma?» Aveva posato il cucchiaio e sul suo viso, adesso, c'era
un'espressione triste e impaurita.

Cosima la accarezzò. «Adesso mangi la tua buona minestra e poi ti

racconto della zia Fatma.»

Nicola intervenne. «Puoi cenare con noi. Ci eravamo appena seduti a

tavola.»

Gina si affrettò ad aggiungere un posto. «Ho preparato anche le cotolette

fredde con la mozzarella e il pomodoro» disse in tono invitante.

«Gliele ha imparate Mario» precisò Matilde.
«Allora devo proprio sedermi!»
La presenza di Cosima rallegrò la bambina. Finita la cena volle che

guardasse con lei una cassetta di cartoni animati, "solo un pezzettino, poi
vado a letto come dice il nonno Attilio".

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Cosima la aiutò a prepararsi per la notte e la accompagnò nella sua

stanza: Matilde, ormai rasserenata, le mostrò le scarpe da ginnastica nuove,
mise i libri nella cartella, scelse i jeans e la felpa da indossare all'indomani,
salutò tutti i pesci dell'acquario.

Si infilò nel letto con l'orso Tommy, il suo peluche preferito. «Ha molto

sonno» spiegò mentre lo sistemava sul cuscino, accanto a sé. Due minuti
dopo era già profondamente addormentata.

Cosima raggiunse Nicola in soggiorno. «È crollata» disse. «Adesso vado

anch'io.»

«Puoi fermarti dieci minuti? Vorrei parlarti di Matilde. Mi dispiace non

potermi trattenere ancora un paio di giorni con lei, ma devo proprio tornare
a Milano.»

«Non preoccuparti. Gina è una donna responsabile e si è molto

affezionata a Matilde. Ha il mio numero di cellulare e sa che per
qualunque problema può contare su di me. Ma in questo palazzo ci sono
anche Mario e la famiglia di Karim. Io stessa abito qui sopra, e alla sera
posso...»

«Da tempo volevo ringraziarti per quello che fai per la bambina. Ho

saputo da mio padre che sei anche andata nella sua scuola a parlare con
l'insegnante di supporto. Mi mortifica aver scaricato su di voi tutti i suoi
problemi, e non vedo l'ora che passino queste settimane. Finalmente potrò
riavvicinarmi a mia figlia e occuparmi di nuovo di lei.»

La guardò con una espressione incerta. «Non so come dirlo, ma mi

sembra che abbia davvero dei problemi. Ha spesso degli sbalzi di umore,
la trovo meno sicura, meno autosufficiente. È come se fosse regredita.
Sicuramente, il sorprendente recupero di quando è arrivata a Roma si è
bloccato.»

Cosima faticò a controllarsi. «È così che intendi occuparti di tua figlia?

Seguendo i suoi exploit come un allenatore sportivo? Vedendo in tutti i
suoi problemi un segno di regresso?»

Nicola si risentì. «Non capisco il tuo sarcasmo. Matilde è nata con un

handicap, e se te lo scordi, è soltanto perché per anni non ho fatto che
concentrarmi sul suo recupero. Scusami se non riesco a vedere altri
problemi.»

Cosima non si trattenne più. «Vuoi la verità? Dentro di te non accetti di

avere una figlia down! E siccome non potrai mai modificare i suoi
cromosomi, continui a vedere in lei una handicappata incapace di reazioni
e sentimenti normali!» La voce le si strozzò. «Ti riesce così difficile capire
quello che le è successo negli ultimi tre mesi? Tutte le sue sicurezze sono

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crollate: ha visto scomparire zia Fatma, si è ritrovata d'un tratto circondata
da facce luttuose, nessuno ha avuto più il tempo di stare con lei. E...»

«E suo nonno, a cui l'avevo affidata, è partito, ritornato, partito di

nuovo» la interruppe ringhioso.

«Proprio così. È normale che Matilde sia confusa e spaventata. O, per

dirla con le tue parole, che il suo sorprendente recupero si sia bloccato.»

Nicola strinse gli occhi a fessura. «Non credi che mio padre abbia scelto

il momento peggiore per sposarsi?»

«No.»
Fu lui, adesso, a infuriarsi. «Le persone non cambiano! Come trent'anni

fa, ha perso la testa per una donna e ha tagliato la corda. Almeno questo
ridicolo viaggio alle Cascate del Niagara poteva evitarselo!»

«Almeno?» Cosima non aspettò la risposta. «È la prima volta che

parliamo del matrimonio dei nostri genitori e finalmente ho capito quello
che ne pensi.» Si alzò.

«Fermati! Perché non dici quello che ne pensi tu?»
«Non potresti capire.»

XII

Cosima non avrebbe mai scordato quel giorno e quell'ora: le otto e

cinque del 10 aprile. Il telefono squillò mentre stava preparandosi per
andare al lavoro.

Era l'assistente sociale Rosaria Giannini. «Hai saputo la notizia?» le

chiese, con voce concitata e affranta.

«No, che cosa è...?»
«Apri il televisore, e guarda il telegiornale di Raiuno. Ci risentiamo

poi.»

La conduttrice stava parlando di una tragica aggressione avvenuta quella

notte a Milano. I coniugi Alfonsi, rientrati da una cena, avevano trovato la
porta di casa aperta. In soggiorno, li aspettava una visione agghiacciante:
la loro bambina, di appena quattro anni, era stata selvaggiamente uccisa e
il fratello maggiore era riverso sul divano, ferito e in stato confusionale.
Entrambi i figli, Emma e Fabrizio, erano adottivi.

Fabrizio Nardi. Cosima si sentì agghiacciare dall'orrore e da una fitta di

panico. Spense il televisore e chiamò l'amica Giannini, ma il numero era
occupato. Riprovò di nuovo: era ancora occupato.

Fu lei a richiamarla. «Ho parlato adesso con Marco Alfonsi: sua moglie

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è sotto choc, e Fabrizio continua a ripetere che è tutta colpa sua perché è
stato lui ad aprire la porta ai due assassini. Io parto subito per Milano e
dovresti raggiungermi appena puoi. Fabrizio ha bisogno di aiuto e tu sei la
sola...»

«Ho paura, Rosaria.» Non osò esprimere l'atroce sospetto che le gelava

il sangue.

Ma l'amica capì. «Fabrizio non c'entra. Grazie anche al tuo intervento, i

suoi problemi con i genitori si erano risolti. Marco mi ha detto che in
queste ultime settimane Fabrizio sembrava diventato un'altra persona. E si
era molto legato alla sorellina. Marco stesso desidera che tu gli stia
vicino.»

«Farò in modo di partire prima di sera.»
Un'ora dopo Cosima era all'istituto Gallone e solamente con l'amico

direttore riuscì a buttare fuori le sue paure. «Non credo ai cambiamenti
improvvisi. Soprattutto in un ragazzo che conosce un solo sentimento, la
rabbia, e un solo modo per ottenere quello che vuole, la prepotenza.
Dubito molto che il mio aiuto lo abbia trasformato, come sostiene Marco
Alfonsi. Fabrizio ha una sorprendente capacità di simulazione, pari a
quella di captare i messaggi che gli fanno comodo. La mia paura è proprio
questa, che da tutti i miei discorsi abbia recepito i comportamenti migliori
per accattivarsi i genitori affidatari. Visto che sfide e provocazioni stavano
rischiando di farlo riportare al Gallone, ha cominciato a recitare la parte
del figlio modello. Credimi, vorrei con tutto il cuore che i fatti mi dessero
torto.»

Il direttore ascoltò, senza mai interromperla, il lungo sfogo. «Condivido

i tuoi dubbi» disse alla fine. «In ogni caso, mai come in questo momento
Fabrizio ha avuto bisogno di aiuto. Lo interrogheranno, cercheranno di
coglierlo in contraddizione, sospetteranno di lui. Se è innocente, può
vivere tutto questo come una violenza che si aggiunge a quella, devastante,
della tragedia.»

Cosima apprese il pomeriggio dopo, poco prima di partire per Milano,

che il magistrato incaricato delle indagini era Nicola Argenzi. Il
telegiornale lo inquadrò mentre si sottraeva all'assalto dei cronisti con il
rituale "non ho nulla da dichiarare".

Fu inquadrato anche Fabrizio, mentre due carabinieri lo guidavano verso

una macchina sorreggendolo per le braccia e coprendogli il viso.

Appena sbarcata a Linate, Cosima prese un taxi e passò dall'albergo a

depositare la sua sacca. Con lo stesso taxi si fece condurre nel residence

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dove gli Alfonsi si erano trasferiti dopo che la loro casa era stata sottoposta
a sequestro.

Il portiere la bloccò fino a quando, con una telefonata, ebbe la conferma

che poteva farla salire.

Marco la stava aspettando davanti all'ascensore. «Fabrizio è ancora sotto

interrogatorio, distrutto come noi. Grazie di essere venuta, dottoressa
Calangida.»

Myriam era a letto. Nel vederla, si riscosse dal sopore dei sedativi e le

gettò le braccia al collo singhiozzando. «Penso alla mia povera Emma...
Non potrò mai dimenticare come l'abbiamo trovata... Quelle bestie l'hanno
uccisa a colpi di forbice! Dodici colpi... Quanto avrà sofferto?»

Non potevano esistere parole di conforto per un dolore tanto atroce.
«Ha già visto Fabrizio, dottoressa?» Myriam chiese sciogliendosi dal

suo abbraccio.

«Non ancora.» Di nuovo quella lama di gelo in mezzo al cuore. Myriam

si era aggrappata alla sola ragione per restare viva, l'altro figlio, e forse
proprio quel figlio poteva diventare una ragione in più per desiderare la
morte.

«Lo aiuti. Ha visto uccidere la sorellina, è stato terribile anche per lui.»

La voce le si spezzò.

Il marito la obbligò a prendere un'altra pillola e poco dopo la donna

ricadde nel suo sopore.

Cosima uscì dalla stanza in punta di piedi e andò a sedersi sul divano

letto del vano accanto.

«Vuole un caffè, qualcosa da bere?» Marco Alfonsi le chiese.
«Grazie, no.»
L'uomo scostò una sedia dal tavolo e si sedette di fronte a lei. «È la terza

volta che portano via Fabrizio per interrogarlo» disse desolato. «Che cosa
altro può dire, quel povero ragazzo?»

«È l'unico testimone oculare.» Cosima si raschiò la gola. «Sperano che

gli venga in mente qualche particolare... Qualcosa che sia utile per le
indagini.»

Gli occhi di Marco si riempirono di lacrime. «Eravamo così sereni.

Anche lui. E adesso...» La frase restò sospesa e Cosima non seppe cosa
dire.

Rimasero in silenzio aspettando che Fabrizio venisse riportato nel

residence. Di tanto in tanto Marco si alzava per andare a controllare che la
moglie stesse riposando e poi tornava a sedersi davanti a lei sprofondando
in un dolore muto. «Se domani lo interrogano di nuovo accetterò l'aiuto di

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un bravo avvocato» disse a un tratto. «È poco più di un bambino anche
lui.»

Fabrizio non è mai stato un bambino, Cosima pensò desolata.
Tornò poco dopo, accompagnato dai carabinieri che erano venuti a

prelevarlo, e il suo viso era una maschera di disperazione e di impotenza.
Nel vedere Cosima, ebbe una crisi di pianto. «Non sono stato io... Deve
credermi, dottoressa, non avrei mai potuto fare una cosa tanto infame!»

Marco corse ad abbracciarlo. «Lo sappiamo. La dottoressa è venuta qui

proprio per starti vicino. Come potremmo non crederti? Quelli che hanno
ammazzato Emma sono bestie, non esseri umani!»

Fabrizio guardò Cosima. «Continuano a chiedermi perché ho aperto la

porta a quei due alle undici di sera... Non lo so! Non ricordo che cosa mi
hanno detto per farsi aprire! Ricordo solamente quello che hanno fatto a
Emma... e a me.»

«Adesso calmati» disse Cosima. «Sicuramente hanno trovato un pretesto

convincente, perché altrimenti non gli avresti aperto. Vedrai che ti verrà in
mente. Quando sarai più calmo, potrai cercare di ricordare con me.»

«Non ora! Non ne posso più!»
Cosima lasciò il residence alle sette del pomeriggio sopraffatta da un

crescente disagio che le era penetrato come un tossico in ogni fibra del
corpo. Non sapeva che cosa pensare. La reazione disperata di Fabrizio era
normale come il fatto che avesse temporaneamente rimosso i particolari di
una tragedia troppo grande per lui. Eppure Cosima non riusciva a
convincersene. Ancora una volta l'istinto si opponeva alla ragione.

Un taxi la riportò in albergo. Si trovava in una traversa di via Torino,

poco distante dal residence, e glielo aveva indicato la Giannini. Era lo
stesso in cui era scesa l'estate prima, quando gli Alfonsi l'avevano
chiamata perché i problemi di Fabrizio sembravano ingestibili.

L'amica Giannini era dovuta ritornare subito a Roma e Cosima si

ripropose di chiamarla. Ma, prima, aveva bisogno di rilassarsi. Era anche
fisicamente estenuata. Un'altra persona che doveva chiamare era Nicola.
Innanzitutto per assicurargli che non aveva abbandonato Matilde
lasciandola sola con Gina. Prima di partire aveva parlato con Mario e con i
genitori di Karim, assicurandosi che all'uscita da scuola ci fosse sempre
qualcuno a farle compagnia.

Ma la seconda ragione di quella telefonata, la più importante, era di

natura professionale: da oltre tre anni lei seguiva Fabrizio Nardi con un
incarico di supporto ed era suo dovere mettersi in contatto con il giudice
che stava indagando sulla tragedia che lo aveva coinvolto. Tuttavia, dopo

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il penoso scontro della settimana prima, era molto riluttante. Volutamente,
non lo aveva più chiamato né lui aveva chiamato lei. Nicola era la sola
persona che riuscisse a travolgere la sua razionalità. Di qualunque cosa
parlassero, i toni diventavano aggressivi e rissosi. Paradossalmente, le doti
che più apprezzava nelle persone in lui diventavano detestabili.

La telefonata di Rosaria Giannini la distolse dall'ira. Cosima le riferì del

suo incontro con gli Alfonsi e di quello, brevissimo, con Fabrizio.
«Sembra davvero sconvolto.»

«Lo è, Cosima. E tutti gli interrogatori a cui lo stanno sottoponendo non

fanno che accrescere la sua confusione. Ho paura per lui.»

«Dovrei parlare con Nicola Argenzi.»
«Stavo per suggerirtelo io. Lo conosci bene, in qualche modo siete

diventati parenti: non devi certo influenzare le sue indagini, ma aiutarlo a
capire meglio la personalità di Fabrizio.»

Vincendo la propria riluttanza, Cosima lo chiamò subito: ma dopo

qualche squillo rispose la segreteria telefonica. Dopo tre tentativi inutili di
parlare direttamente con lui, si decise a lasciare un messaggio: era stata
mandata a Milano per occuparsi di Fabrizio Nardi, poteva richiamarla
appena possibile?

La richiamò alle nove e mezzo. «Dove sei, Cosima?» le chiese senza

preamboli.

«Nel mio albergo.»
«È troppo tardi se ti raggiungo?»
Quella richiesta colse Cosima di sorpresa. Ma rispose subito:

«Certamente no. Il mio albergo si trova...».

«Lo so, mi ha dato il tuo recapito il direttore dell'istituto Gallone. Ti

avrei telefonato io.»

Nicola arrivò venti minuti dopo. Il suo viso era segnato dalla stanchezza.

«Hai sentito gli ultimi telegiornali?» le chiese.

«No. Immagino quello che...»
«Sono di nuovo il personaggio del giorno. Il magistrato a suo tempo

sospettato di aver massacrato la moglie che adesso deve far luce su un altro
massacro. Questo incarico è il bel regalo che mi hanno voluto fare prima
del trasferimento.» La sua voce traboccava di amarezza.

«Perché non prendi in considerazione un'altra ipotesi? Questo caso è

molto complesso, e te lo hanno affidato perché sei un bravo e...»

«Questo è il caso più semplice che si potesse affrontare. Praticamente

già risolto.»

«Avete... identificato i due assassini?» Cosima chiese non osando

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abbandonarsi al sollievo di quella notizia.

Nicola la guardò con l'espressione esitante e rassegnata di chi è costretto

a dire ciò che mai avrebbe voluto. «È un caso semplice ma terribile. I due
assassini non esistono, Cosima.»

«Oh, no!»
«Non posso riferirti i particolari delle indagini, ma sei ore dopo il delitto

gli uomini di Zorzi erano già arrivati alla ricostruzione esatta dei fatti. E
alla prova certa della colpevolezza di Fabrizio Nardi.»

«Oh, no!» Cosima ripeté, con un gemito.
«Avremmo potuto incriminarlo subito. Se non l'abbiamo ancora fatto è

soltanto per spingerlo a confessare. Ha premeditato e commesso un delitto
feroce e lo aspetta una sicura condanna. La confessione è il solo modo per
renderla meno dura. Un bravo avvocato potrebbe spacciarla come segno di
profondo pentimento, invocare le attenuanti della sua disgraziata infanzia,
chiedere una perizia psichiatrica per dimostrare la sua capacità di intendere
e volere.»

«So che le cose funzionano così, ma è moralmente ripugnante. Se è

davvero colpevole...»

«Lo è. E credo che il suo unico rammarico sia non essere stato

abbastanza abile nella messa in scena. Ma io penso agli Alfonsi: se il
ragazzo si ostinerà a proclamarsi innocente, alla tragedia si aggiungeranno
i dubbi, i sensi di colpa, lo strazio di un lutto senza fine. Un bravo
avvocato servirà soltanto a spaccare in due l'opinione pubblica, e l'unica
difesa possibile sarà rafforzare il fronte degli innocentisti trasformando
Fabrizio in un martire: vittima della vita, di inquirenti che non sanno fare il
loro lavoro, di una giustizia ingiusta. Alla fine Fabrizio rimuoverà il
ricordo di quello che ha fatto e si crederà davvero una vittima, un
perseguitato.»

Cosima scosse la testa. «Lo è stato davvero. Ha avuto un'infanzia

devastante, ma al Gallone gli è stato dato ogni aiuto possibile per stimolare
la sua volontà di riscatto e per rafforzare le sue qualità naturali. Era un
ragazzo intelligente, creativo, ambizioso. Purtroppo ha usato queste risorse
contro se stesso. Voleva continuare a sentirsi vittima, la rabbia era l'unico
sentimento che lo stimolava. Temo che l'amore degli Alfonsi, il ritrovarsi a
vivere in una famiglia rasserenante e affettiva lo abbia fatto crollare. Senza
l'impalcatura dell'odio e della rabbia ha perso la testa. Si è sentito
sprofondare nel vuoto.»

Nicola assentì. «Condivido questa analisi. E temo anche che il ragazzo

sia irrecuperabile. Dobbiamo impedirgli di massacrare anche la vita degli

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Alfonsi. E fermare gli avvocati che per smania di visibilità o amore di
provocazione intendono montare un ennesimo scandalo giudiziario. Due
ore fa ce n'erano già cinque in lista di attesa. Ti ripeto, il solo modo per
evitare tutto questo è convincere Fabrizio a confessare prima della sua
incriminazione. Il ragazzo è con le spalle al muro. Ma nonostante sappia
che abbiamo tutte le prove contro di lui, si rifiuta di parlare. Tu sei la
nostra ultima speranza, Cosima. E su questo siamo tutti d'accordo: se
stasera non abbiamo trattenuto il Nardi, è stato soltanto per fartelo
incontrare mentre è ancora libero e non si sente spalleggiato dalla
grancassa innocentista.»

«Ci proverò.» Cosima emise un profondo sospiro. «Ma devo dirti fin

d'ora che anche il mio sarà un tentativo inutile. Questa è la prima volta che
Fabrizio può impersonare alla grande la parte del perseguitato: non ci
rinuncerebbe mai.»

Nicola la guardò. «Ero venuto qui pronto a subire l'accusa di essere

insensibile, visionario, prevenuto contro gli emarginati come il povero
Fabrizio. Davo per scontato che avresti preteso le prove della sua
colpevolezza.»

Cosima si irrigidì. «Non ho mai messo in dubbio la tua professionalità,

cosa che adesso tu stai facendo con me. Se affermi che hai delle prove, ti
credo sulla parola e non ti spingerei mai a violare il...»

«Come sempre, hai travisato le mie parole. Pensavo che tu difendessi a

spada tratta Fabrizio. Per affetto, per coinvolgimento umano. Ti sembra
un'offesa?» Nicola protestò.

«Sì, perché sottovaluti anche la mia capacità di capire la psicologia e i

comportamenti dei ragazzi che sono incaricata di seguire. Il
coinvolgimento umano non mi ottenebra la mente e l'essere emarginati o
sfortunati non rende necessariamente degni di compassione. O al di sopra
di ogni critica o sospetto. Questo atteggiamento non fa che sottolineare la
loro "diversità".»

«Grazie per la lezione. Forse ti stupirà, ma la penso esattamente come

te.»

«Una volta tanto, può capitare.»
«Nemmeno io ho mai messo in dubbio la tua professionalità. Se, per

assurdo, fosse stato così, sarei stato costretto a ricredermi. I tuoi superiori
ti definiscono la loro migliore operatrice e il giudice minorile...»

«Lascia stare. L'autostima non mi manca.»
«E allora perché sei così suscettibile? Perché interpreti negativamente

ogni cosa che ti si dice?»

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«Mi capita soltanto con te. Riesci sempre a farmi perdere le staffe»

dovette ammettere.

«È perché sei sempre sulle difensive.»
È vero, Cosima pensò. Temeva le sue opinioni, i suoi pregiudizi, le sue

durezze. Si difendeva dal sentimento che provava per lui, e allo stesso
tempo aveva paura di parole o comportamenti che la deludessero al punto
da spegnere questo sentimento.

Nicola, dopo aver aspettato invano che replicasse qualcosa, capì che

Cosima considerava chiuso il discorso.

Restava aperto quello su Fabrizio Nardi, e cercò con cura le parole per

non urtare nuovamente la suscettibilità di lei. «Quello che vorrei sapere è
perché hai accettato subito, e senza resistenze, la colpevolezza di Fabrizio.
Non ti sto chiedendo una riconferma di fiducia professionale ma una
risposta precisa che può essermi di grande aiuto per capire: in questo
ragazzo c'era qualcosa che non ti convinceva o ti allarmava, oltre alla sua
rabbia?»

«Sì» Cosima rispose dopo aver riflettuto qualche istante. «La sua rabbia

lo portava spesso ad assumere atteggiamenti di ribellione e di sfida: ma
mentre gli altri ragazzi facevano i duri per apparire i più forti e diventare i
leader del gruppo, Fabrizio non teneva minimamente alla considerazione
dei compagni. Voleva richiamare l'attenzione degli adulti su di sé, apparire
il più collaborativo, il più studioso, il più meritevole di tutti. Detestava i
"carcerieri", come considerava tutti gli operatori del Gallone e li
compiaceva per sentirsi più furbo di loro. Ogni volta che riceveva un
elogio o un bel voto a scuola, gioiva per averli ingannati. La sua capacità
di simulazione era inquietante. Patologica, oserei dire.»

«Quando parla di Emma, la "sorellina", scoppia in lacrime. Urla che la

amava. Eppure l'ha massacrata a colpi di forbice. E dopo ha freddamente
inscenato un'aggressione contro di sé.»

Cosima lo guardò desolata. «Non confesserà mai.»
«Ti mando a prendere domattina alle undici. Provaci, ti prego!»

Nicola le telefonò alle dieci e mezzo: l'incontro con Fabrizio era stato

vietato dal suo avvocato.

Cosima cadde dalle nuvole. «Quale avvocato?»
«Roberto Arrighi. Un abile e spregiudicato penalista che ieri sera si è

presentato da Marco Alfonsi e l'ha convinto ad accettare il suo aiuto. Ha
appena concluso una conferenza stampa denunciando l'inefficienza degli
inquirenti e il mio personale accanimento persecutorio contro un povero

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ragazzo già tanto provato dalla sfortuna. La sua mossa è lampante:
scoraggiare l'arresto del suo assistito. O offrirlo all'opinione pubblica come
un martire. Capisci adesso cosa intendevo parlando del "bel regalo" di
questo incarico? Mi hanno rifilato un caso già risolto e buttato nell'arena
come aguzzino, un emblema di malagiustizia. Tra un'ora Fabrizio sarà
ufficialmente incriminato per l'omicidio della bambina, e ti lascio
immaginare che cosa succede.»

«Non puoi... prendere tempo?»
«No, Cosima. Non si possono accettare certi ricatti.»
«Se provassi a parlare con gli Alfonsi?»
«Non servirebbe a niente. E ti prego di non farlo.»
Cosima tornò a Roma quel pomeriggio stesso: la sua presenza lì era

ormai inutile e il suo stesso viaggio non era servito a nulla.

Prima di salire in casa fece una sosta per salutare Matilde e accertarsi

che tutto andasse bene. I telegiornali della sera commentarono
l'incriminazione di Fabrizio Nardi in modo corretto, smentendo le
pessimistiche previsioni di Nicola. Le poche dichiarazioni a difesa del
ragazzo, estrapolate dalla conferenza stampa dell'avvocato Arrighi,
suonavano inopportune e persino controproducenti di fronte all'atrocità del
delitto.

Le prove contro Fabrizio risultavano davvero schiaccianti: era stato lui

ad acquistare la corda con cui gli Alfonsi lo avevano trovato legato. Sue
erano le impronte sul coltello da cucina insanguinato con il quale
sosteneva di essere stato aggredito: i carabinieri lo avevano trovato
nascosto dentro a uno scarpone da sci. Si cercavano ancora le forbici che
avevano massacrato la piccola Emma, ma sotto le sue unghie erano stati
ritrovati frammenti di pelle che erano risultati di Fabrizio.

Secondo la versione che aveva dato, i due assassini lo avevano legato e

ferito prima di accanirsi sulla sorellina: e così era stato ritrovato dai
genitori adottivi. Le macchie di sangue sotto le sue scarpe contraddicevano
però questa versione in quanto provavano che dopo la morte della bambina
era stato libero di spostarsi per la stanza. Fabrizio aveva maldestramente
ripulito le impronte sul pavimento, ma si era scordato di fare altrettanto
con la suola delle scarpe. Lo straccio usato era stato buttato dalla finestra e
ritrovato, sporco di sangue, nel cortile sottostante.

Cosima telefonò a Nicola: era agghiacciata per l'efferatezza del delitto,

ma allo stesso tempo sicura che, messo di fronte a quelle prove, Fabrizio
sarebbe crollato. «Nessuno potrà accusarti di voler infierire su un
innocente» gli disse.

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«Aspetta domani. È stato il suo avvocato a rivelare tutti i particolari

delle indagini e poco fa ha rilasciato all'Ansa un comunicato con cui
demolisce meticolosamente ogni prova.»

«Ma come è possibile?»
«Il negoziante che afferma di avergli venduto la corda si è sbagliato, i

comportamenti illogici degli assassini non possono essere imputati a
Fabrizio, le macchie di sangue sotto le sue scarpe provano soltanto che il
ragazzo ha sbagliato la ricostruzione dei fatti, cosa comprensibile in un
sedicenne che è stato torchiato e vessato mentre era in stato confusionale e
sotto choc.»

«E i frammenti di pelle sotto le unghie della povera bambina?»
«Prima dell'aggressione Fabrizio stava giocando a nascondino con

l'amatissima sorellina e lei lo ha graffiato per caso. Mezza Italia ci crederà,
perché la verità di Arrighi esorcizza la paura di Caino, del figlio
adolescente che si trasforma in "mostro". La pietà per l'infanzia di
Fabrizio, opportunamente strumentalizzata, farà il resto.»

«Dov'è, adesso?»
«Nell'infermeria del carcere minorile.»
La settimana che seguì vide montare, come una marea, il morboso

coinvolgimento dell'opinione pubblica nell'omicidio di Emma. Le
pessimistiche previsioni di Nicola andarono oltre l'immaginabile, perché
giornali e televisioni si buttarono sull'arresto di Fabrizio come se nel Paese
e nel mondo non accadesse altro.

E la marea sommerse ogni censura, ogni riserbo. L'avvocato Arrighi

riuscì a trasformare un terribile fatto di cronaca senza mistero in un giallo
appassionante con un solo colpevole: il giudice Argenzi, l'aguzzino di un
povero innocente.

Al sesto giorno il suo ricorso fu accolto e Fabrizio affidato agli Alfonsi

in attesa del processo.

Nicola decise di non opporsi. E lo disse a Cosima. In quella settimana si

erano sentiti ogni giorno, e lei lo aveva incoraggiato e ascoltato col cuore
stretto. Ma la voce spenta con cui Nicola si dichiarò sconfitto la spaventò:
era come se la marea avesse travolto anche la sua capacità di indignarsi e
di difendersi.

XIII

Il giallo criminosamente montato da Arrighi ebbe i primi segnali

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dell'epilogo cinque giorni dopo che Fabrizio era stato rimesso in libertà.
D'un tratto l'avvocato interruppe il quotidiano flusso di interviste e di
accuse per chiudersi in un impenetrabile mutismo.

Il suo socio di studio rilasciò una dichiarazione inquietante: stremato da

un'impari lotta contro gli inquirenti, Arrighi si era concesso una settimana
di riposo. No, purtroppo non sapeva dove.

Cosima decise di trascorrere quel fine settimana a Milano: nella corsa

allo scoop, anche la vita privata di Nicola era stata morbosamente frugata.
Un cronista, dopo aver descritto il dramma di una figlia handicappata, il
calvario di un matrimonio infelice orribilmente finito, il "colpo di testa"
dell'anziano padre che aveva sposato una donna di colore, si chiedeva – e
ipocritamente chiedeva ai lettori – come un uomo così colpito dalla vita
potesse essersi trasformato in un persecutore implacabile. Per colpa sua,
Fabrizio aveva perduto anche l'appassionato avvocato difensore.

Cosima cercò inutilmente di avvertire Nicola del suo arrivo: il cellulare

era staccato. Da Linate si fece portare direttamente nel residence in cui si
era trasferito dopo la morte della moglie.

Nicola rientrò alle nove di sera e, nel vederla, il suo viso tirato e grigio si

illuminò. La abbracciò con trasporto. «Vieni» disse poi, togliendole la
sacca dalla mano. La guidò verso l'ascensore. «Se non hai prenotato
l'albergo, puoi sistemarti da me.»

Le fece strada e accese la luce. Era il tipico appartamentino dei

residence, con l'arredamento che pretendeva di conciliare la funzionalità
con la parvenza di una vera casa. Nel soggiorno una parete era occupata
dal monoblocco della cucina e quella di fronte da un divano letto con due
poltroncine. Il tavolo era sommerso da cartellette e fascicoli ben impilati.
Nicola l'aveva fatto spostare contro una terza parete per poter allacciare il
suo computer alla presa dell'elettricità e del telefono.

La guidò verso la stanza da letto. «Tu puoi stare qui. Nel soggiorno c'è

un divano molto comodo, e...»

«Non voglio disturbarti, Nicola.»
«Ma che cosa dici? Mentre ti sistemi, io telefono in portineria e faccio

portare qualcosa da mangiare. Il bagno è dietro quella porta a soffietto.»

Cosima si rinfrescò il viso e diede una spazzolata ai capelli. Poi tolse

dalla sacca una camicetta pulita e si cambiò. Si soffermò qualche minuto
nella stanza. Come nel soggiorno e nel bagno, tutto era in ordine perfetto:
non un oggetto fuori posto, non un indumento posato su una sedia, non un
documento fuori dalle cartellette. L'ordine era l'elemento naturale di
Nicola, in sintonia con la sua natura rigorosa. Ritrovarsi catapultato nel

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caos di quei giorni doveva essere stata per lui una esperienza
particolarmente dura.

Cosima lo raggiunse in soggiorno e aspettò che fosse lui a parlarne.
Lo fece dopo la breve cena. «Hai saputo di Arrighi?»
«Sì. Se la notizia è vera, non capisco per quali motivi ha deciso di

abbandonare Fabrizio.»

«Perché è un farabutto. Ha sempre saputo che era colpevole, ma di

fronte alla prova inconfutabile ha tagliato la corda...»

Prova inconfutabile? Cosima riuscì a trattenere la sorpresa e tenne per sé

l'interrogativo.

«La solita lettera anonima, arrivata ieri sera, ci ha permesso di ritrovare

le forbici inutilmente cercate. Erano nascoste nella cucina degli Alfonsi:
sotto al lavello, tra la parete e il tubo di scarico della lavastoviglie, c'era
una intercapedine ricoperta con lo stucco. Le forbici erano lì dentro,
fortunatamente ripulite troppo in fretta per cancellare le tracce di sangue e
le impronte digitali di Fabrizio. Anche le impronte sullo stucco sono sue.
Te ne parlo perché domani la notizia di questo ritrovamento sarà ufficiale e
la libertà di Fabrizio revocata.»

«Una lettera anonima... Questo significa che qualcuno sapeva del

nascondiglio, che forse nel delitto c'è stato un complice. Hai parlato con
Fabrizio? L'hai informato del ritrovamento?»

«Lo ha fatto Arrighi prima di darsela a gambe. La scientifica ha escluso

la presenza di un estraneo la sera del delitto ed è accertato che Fabrizio si è
legato e ferito da solo. L'ipotesi che qualcuno lo abbia visto da una finestra
del palazzo di fronte mentre nascondeva le forbici è caduta, perché da due
giorni la tapparella della cucina di casa Alfonsi era rotta e non si poteva
alzare. Resta l'ipotesi che Fabrizio, per bisogno di uno sfogo o per
debolezza, si sia confidato con un amico. Ma quando? Stiamo cercando di
ricostruire tutte le sue telefonate e i suoi possibili incontri. Tutti i
compagni di scuola hanno partecipato ai funerali di Emma. E stiamo
esaminando anche le fotografie di quel giorno... Cosima, grazie di essere
venuta qui» disse inaspettatamente. «Le tue telefonate sono state i soli
momenti di tregua in questo inferno.»

«Ti sono molto vicina, lo sai.» Si affrettò a cambiare discorso. «Prima di

partire ho sentito mia madre. Lei e Attilio si trovano nel Colorado, e
fortunatamente non sanno nulla di quello che sta succedendo qui.» Troppo
tardi si accorse di aver toccato un tasto dolente.

Il viso di Nicola si oscurò. «Mi vergogno per il modo infame con cui

hanno strumentalizzato il matrimonio dei nostri genitori.»

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Cosima non si trattenne. «Un tocco di razzismo non guasta mai» disse

con amarezza.

«Quando tutto questo sarà finito dovremo chiarire molte cose. Posso

subire qualunque attacco, ma mi è insopportabile la sola idea di essere
frainteso o giudicato male da te. Non voglio ombre tra noi, Cosima.»

Lei fece un cenno d'assenso. Era corsa da lui per aiutarlo e dicendogli

quello che pensava gli avrebbe tolto anche le poche sicurezze che gli
restavano. Le ombre erano il sipario protettivo del loro rapporto. E soltanto
grazie alla circospezione e al silenzio potevano tenere in vita un
sentimento senza sbocchi, ma comunque consolatorio. Il giorno in cui
avessero sollevato quel sipario, sarebbe stata la fine di tutto. Questa era la
verità che non poteva dirgli: dovevano lasciare le cose come stavano. Fare
chiarezza nel loro caso sarebbe servito solo a essere sopraffatti dai
problemi, e non a risolverli.

«Che cosa c'è, Cosima?»
Si riscosse. «Niente... Sono stanca. E domani avrai una giornata molto

pesante.»

Tre ore dopo, nel residence degli Alfonsi, la storia di Fabrizio arrivava al

tragico epilogo. Come mosso da un oscuro presentimento, Marco si alzò
per controllare che il figlio dormisse. Non riusciva ancora a credere che
fosse un assassino. Neppure quelle maledette forbici, ritrovate sotto al
lavello della cucina, potevano fargli accettare una verità tanto atroce.

Ma nulla fu atroce come ciò che Marco vide nell'accendere la luce: il

suo sguardo inorridito percorse, come frenato da un rallentatore, la sagoma
d'un corpo immobile ricoperto dal lenzuolo bianco e risalì fino al cuscino,
dove quel candore finiva per lasciare emergere la macabra rotondità di un
sacchetto di plastica. Lì sotto c'era il viso di Fabrizio. Morto soffocato.

Solo in quel momento ebbe la certezza che era colpevole. Pensò alla

moglie che dormiva ignara nella stanza accanto, alla figlia Emma che
prima di morire aveva conosciuto tutta la paura e il dolore del mondo:
Fabrizio aveva devastato le loro vite.

Che cosa hai fatto? L'urlo gli esplose nelle viscere e fu sommerso

dall'incredulità e dall'odio.

Guardò quel sacchetto sul cuscino e d'un tratto, come folgorato, ricordò

il viso di Fabrizio quando l'avvocato se n'era andato dopo aver annunciato
che non intendeva più difenderlo. Dopo qualche minuto di silenzio e di
gelo, Fabrizio aveva sollevato il viso verso di lui. Nei suoi occhi scoloriti e
spenti c'era già una fissità di morte.

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Che cosa hai fatto? L'urlo, stavolta, salì alle labbra e il soprassalto

d'odio venne travolto dalla pietà. Nessuno avrebbe potuto aiutarlo. Gli
avevano rubato l'infanzia, l'innocenza, l'anima e con quel gesto estremo si
era consegnato al buio senza fine.

Si scostò da lui con le spalle curve, soffocando un singhiozzo, e andò a

telefonare al colonnello Zorzi.

Cosima arrivò dagli Alfonsi alle sette del mattino e vi trovò un medico.

Aveva già fatto due iniezioni a Myriam, ma non esisteva sedativo in grado
di placare la sua disperazione. Quando il corpo era stremato dai
contorcimenti e lo strazio diventava insopportabile, cadeva in un breve
sopore che le restituiva l'energia per riprendere a contorcersi e a disperarsi.

Il medico suggerì di ricoverarla in una clinica e fu lui stesso a telefonare

e organizzare il trasporto alla Madonnina.

Cosima salì sull'ambulanza con Myriam e si fermò con lei fino alle

cinque del pomeriggio, quando arrivò Rosaria Giannini e le diede il
cambio.

Solo allora poté telefonare a Nicola. Era in riunione con Zorzi e il

sostituto procuratore, e le rispose brevemente: avrebbe richiamato lui,
appena possibile.

Cosima tornò al residence e, vincendo una istintiva ripugnanza, aprì il

televisore. Si trovò sintonizzata con uno speciale sulla "vita desolata" di
Fabrizio Nardi. Con il suicidio aveva riscattato la sua colpa. Il solito
psicologo intervenne per spiegare le "dinamiche catartiche" del pentimento
e Cosima spense bruscamente il televisore.

Per la prima volta osò chiedersi perché non riusciva a provare pietà per

Fabrizio, neppure adesso che era morto. È perché ti senti in colpa per non
averlo saputo aiutare? È perché, rifiutando il tuo aiuto, ha attentato alla tua
autostima e ferito la tua sublime vanità professionale? È perché non riesci
a provare altra pietà se non per gli Alfonsi e la povera bambina
massacrata?

Cosima si soffermò, meticolosamente e lucidamente, su ogni

interrogativo e soltanto alla fine vide chiaro in se stessa. La pena per
Fabrizio era raggelata dall'incapacità di capire che cosa lo aveva spinto a
uccidere: la sua mente era stata ottenebrata da un raptus di follia oppure la
sua mano aveva colpito e colpito e colpito spinta dall'odio per una piccola
vita felice e innocente? E che cosa lo aveva spinto a uccidere se stesso? Un
barlume di luce, un soprassalto di pentimento, la rabbiosa volontà di ferire
a morte gli Alfonsi, una sfida estrema per richiamare su di sé l'attenzione?

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Non riusciva a darsi le risposte. E il suo cuore, la sua mente si

sottraevano alla pietà cieca. Doveva capire per poter piangere. Aveva
sofferto e patito con Fabrizio la sua infanzia desolata, ma non poteva
accettare che ogni bambino infelice si trasformasse in un efferato omicida.
Riandò alla prima, istintiva interpretazione del delitto: forse era stato
l'incontro con una coppia affettiva come gli Alfonsi a fargli perdere la
testa. In questo caso, il movente poteva ricercarsi nell'impatto con altri
sentimenti sconosciuti quali l'amore, la gelosia, la paura di non essere
abbastanza amato?

Ancora domande senza risposta. E l'ultima, rimasta acquattata dentro di

lei, travolse tutte le altre: a chi, e perché, aveva confessato il suo omicidio?

Spinta da una eccitazione improvvisa, Cosima si avvicinò al tavolo di

Nicola e cominciò a frugare tra le carte e i fascicoli. Le fotografie dei
funerali di Emma:
ecco che cosa cercava. Le trovò alla destra del
computer, chiuse in una busta. Si sedette, aprì la busta e cominciò a
guardare quelle immagini.

Fabrizio sconvolto, Fabrizio che entrava in chiesa sorretto da Marco e

Myriam, Fabrizio circondato dai compagni di scuola.

D'un tratto trattenne il fiato: Fabrizio con una ragazza dai lunghi capelli

rossi e i grandi occhiali da sole. Sabrina. Non aveva mai visto la sorella di
Fabrizio, ma ebbe la certezza che era lei.

Si alzò, tolse la sua agendina dalla borsetta e cercò il numero di cellulare

di Rosaria Giannini. Lei aveva conosciuto Sabrina e le aveva parlato.

Rosaria era ancora nella stanza di Myriam e le rispose sottovoce.
«Puoi descrivermi Sabrina Nardi, la sorella di Fabrizio?»
Quella domanda a bruciapelo la sorprese. «Descriverla in che senso?»
«Fisicamente. È alta, sui sessanta chili, con i capelli rossi, un po'

vistosa?»

«Sì. Ma perché...»
«Grazie, ti richiamo.»
Fabrizio le aveva parlato con grande ammirazione di quella sorella

"fortunata" che era riuscita persino a comperarsi la vasca con
l'idromassaggio. Scacciò quel ricordo con lo stesso disagio che aveva
provato all'epoca. Sabrina era l'unico legame di Fabrizio con la sua
famiglia. Le voleva bene. Aveva approfittato della prima uscita dal Gallone
per andarla a trovare. Aveva resistito a lungo prima di rivelare che era stata
lei a dargli la droga.

Anche Sabrina gli voleva bene. Come spiegare, altrimenti, che fosse

corsa a Milano per partecipare al funerale?

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Un'altra certezza si fece strada in lei: era con la sorella che Fabrizio si

era confidato. Ma quando? Non certo durante i funerali.

Vincendo l'istintiva riluttanza, telefonò a Marco Alfonsi. E dopo essersi

scusata con lui, dopo aver premesso che era molto importante saperlo, gli
chiese se dopo i funerali Fabrizio aveva visto la sorella Sabrina.

«No» Marco rispose. Stupito, ma senza esitazioni.
La delusione di Cosima durò pochi istanti, perché subito Marco

aggiunse: «Si erano incontrati prima. Sabrina aveva già fatto un viaggio a
Milano per vedere il fratello... Non gliel'ho detto perché non credevo
che...».

«Non si preoccupi, Marco. Domani andrò a trovare Myriam. La abbracci

per me.»

Nicola tornò a mezzanotte. Era stremato e teso. Cosima gli preparò un

bicchiere di latte caldo e quando si avvicinò al divano era già
profondamente addormentato. Gli sfilò le scarpe e lo allungò sul divano,
attenta a non svegliarlo.

È stata Sabrina a scrivere la lettera anonima. In quella denuncia,

apparentemente crudele, Cosima scorgeva l'unico sprazzo di luce nel buio
di quella tragedia. Fabrizio, incapace di sopportare da solo il peso di
quanto aveva fatto, aveva cercato di condividerlo con Sabrina. E Sabrina,
incapace di tenere per sé quel terribile segreto, aveva scritto ai carabinieri.

Era il segno confortante che qualcosa di buono, nei due fratelli, era

sopravvissuto alle violenze, al deserto di valori, al marciapiede. Fabrizio
non aveva retto al rimorso e Sabrina non era riuscita a soffocare la voce
della coscienza.

Il primo moto di pietà fu per lei, sicuramente dilaniata dalla sofferenza e

dai sensi di colpa per il suicidio del fratello. E infine arrivò anche la pietà
per Fabrizio. La diga dell'indifferenza crollò e Cosima affondò la testa nel
cuscino per non urlare. Restò in balia del dolore fino a quando non
piombò, stremata, nel sonno.

Non si accorse della porta che si apriva lentamente, non sentì sussurrare

il suo nome nel buio, non vide Nicola avvicinarsi al letto e adagiarsi al suo
fianco.

Solo più tardi, mentre si rigirava, avvertì confusamente qualcosa, come

un peso, sulla spalla. Si svegliò di soprassalto e accese la luce: Nicola
stava dormendo raggomitolato contro di lei. Allungò la mano per spegnere
la luce e restò immobile, con gli occhi aperti, ascoltando il suo respiro.
Lentamente, cautamente, gli accarezzò il viso.

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Nicola si svegliò di soprassalto. «Non mandarmi via» gemette.
«No.» Lo sentì trattenere il fiato. «Non ti mando via» ripeté, smaniosa di

rassicurarlo.

«Credevo che fossi partita e mi sono sentito perduto.»
«Sono qui» Cosima sussurrò.
Le braccia di Nicola la allacciarono e Cosima si irrigidì, pronta a

divincolarsi. Ma Nicola rimase abbracciato a lei senza muoversi e senza
dire nulla. Voleva soltanto conforto.

Anche io, Cosima pensò. Il calore di quel corpo sciolse il grumo di

tristezza mortale. E si addormentò di nuovo, stretta a lui.

Quando suonò la sveglia, dormivano ancora. Allacciati nello stesso

abbraccio.

Cosima si sciolse lentamente e Nicola le rivolse un sorriso incerto, come

timoroso. «Scusami» disse.

Cosima lo guardò. «E di che cosa?»
Ti amo, avrebbe voluto dirle. Ma si trattenne per tempo.
Quella notte senza sesso e senza parole gli aveva fatto capire che non

poteva più vivere senza Cosima. Era la sua donna, e non voleva
spaventarla. Aveva tutto il tempo per dirglielo.

XIV

Sabrina Nardi negò con forza di essere l'autrice della lettera anonima.
Anche Nicola era convinto, come Cosima, che mentisse, ma ulteriori

indagini erano comunque irrilevanti: morto l'assassino e accertato che non
aveva avuto complici il caso poteva essere archiviato.

«Non per l'opinione pubblica! Non per i giornalisti!» protestò Cosima.

Nonostante le prove schiaccianti, qualcuno avanzava ancora l'ipotesi che
Fabrizio si fosse ucciso per proclamare la propria innocenza e sottrarsi a
una giustizia persecutoria.

In un riquadro di infimo gusto un quotidiano indicava il giudice Argenzi

come l'uomo più detestato dagli italiani. E con questo marchio si sarebbe
presentato ai nuovi colleghi romani.

«Ho le spalle forti» ripeteva Nicola. Ma Cosima stava male per lui. E

ogni volta che andava dai ragazzi dell'istituto Gallone pensava alla sorella
di Fabrizio. La sorte aveva fatto peggio che segnarla: l'aveva buttata
direttamente in un budello, e lei si era adattata a vivere nel buio
dell'abiezione.

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Faceva la prostituta senza problemi, e i soldi dei clienti le permettevano

di comprare ciò che amava più del suo corpo: scarpe, vestiti, mobili. La
sola bellezza che conosceva era quella degli oggetti costosi. Ignorava che
cosa fosse il bene, ma l'esplosione di ferocia di suo fratello le aveva fatto
capire che esisteva il male. Ed era stato il male a restituirle l'anima.

A Cosima era insopportabile il solo pensiero della croce che quella

povera ragazza, neppure ventenne, si stava portando addosso da quando
Fabrizio si era ucciso. Se qualcuno non l'avesse aiutata, il rimorso le
avrebbe divorato l'anima. E Cosima non poteva permetterlo. La aiuterò io,
decise con ferocia.

Mia madre batte di notte, così non si vede che è vecchia. Cosima ricordò

quella cinica frase di Fabrizio e decise di andare da Sabrina alle dieci di
sera, sperando con tutta se stessa di trovarla sola.

Conosceva l'indirizzo: madre e figlia abitavano nei pressi di Cinecittà,

nel seminterrato di un vecchio caseggiato popolare. Non se ne sono mai
andate perché ci abitano poveracci, ladri e puttane che si fanno i fatti
loro.
Ancora una frase di Fabrizio.

Cosima vi arrivò in taxi e pregò l'autista di aspettarla qualche minuto: se

nessuno le avesse aperto, si sarebbe fatta riportare a casa.

Suonò due volte. Proprio mentre stava per andarsene, una luce si accese

alla destra del portone illuminando la grata in ferro di una finestra posta
appena sopra il livello della strada.

«Chi è?» chiese una voce diffidente e sgarbata.
Cosima si spostò verso la luce e si curvò. «Cerco Sabrina Nardi, devo...»
«Ha sbagliato campanello.»
Cosima si accovacciò e, con una mossa fulminea, mise una mano dentro

la grata arrestando lo scorrimento di un tendone. «Sabrina, devo parlarti.»

«Se ne vada.»
«Sono Cosima Calangida, un'amica di tuo fratello.»
Il tendone si spostò di nuovo e al di là della grata apparve il volto della

ragazza incorniciato dagli inconfondibili capelli rossi. «So chi è lei. Non
era amica di mio fratello. Mio fratello non aveva amici.»

«Per favore, fammi entrare.»
«È dura starsene in ginocchio a chiedere qualcosa, vero, dottoressa?»

Sabrina chiese sporgendosi. Il viso, vicinissimo al suo, era pieno di
sarcasmo e di rabbia.

Cosima le sorrise. «Sono soprattutto in una posizione scomoda.»
«Allora si alzi e se ne...»

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«Perché non mi fai entrare?»
«Mio fratello è morto. Perché non è stata così insistente e gentile con

lui? Era con Fabrizio che doveva parlare.»

«Me lo ha proibito il suo avvocato.»
«Questa è bella. Avvocati, assistenti sociali, giudici... Non siete tutti

della stessa combutta?»

«Non l'avvocato Arrighi. È stato la rovina di tuo fratello.»
«Mio fratello l'avete rovinato tutti, portandolo via da qui. Io mi sono

salvata dai vostri maledetti istituti, ma lui non ce l'ha fatta. Se restava qui,
a quest'ora aveva imparato a cavarsela come me. Sarebbe un ladro, un
ricettatore, un aspirante magnaccia. Ma vivo. E non mi dica stronzate
tipo...»

Cosima spostò il peso del corpo da una gamba all'altra. «Se le mie

stronzate non ti fanno paura, fammi entrare e mettiamoci comode.»

«Gajarda, la dottoressa! Alza le chiappe e vattene» sibilò. «Sono

maggiorenne e rispetto la legge. Non ho paura di niente e di nessuno, io.»

Il tassista richiamò l'attenzione di Cosima con due colpi di clacson. «Che

faccio? Vado o aspetto?» chiese sporgendosi dal finestrino.

«Ancora un minuto.» Si rivolse a Sabrina. «Vuoi la sfida? Se vado via

da qui, ti farò pedinare giorno e notte da due carabinieri in divisa.
Vediamo se riesci ad agganciare un cliente, per strada o in qualche
albergo.» Era chiaramente un bluff, ma nonostante i modi, Sabrina restava
una diciannovenne vulnerabile e impaurita.

Come Cosima prevedeva, la ragazza abboccò. «Sono proprio curiosa di

sentire quello che mi vuoi dire, dottoressa. Ti faccio entrare solo per
questo» aggiunse in un soprassalto di amor proprio.

«Bene. Mentre vieni ad aprirmi, io pago la corsa.»
Come fu all'interno della casa, il pensiero di Cosima riandò alle sedie

sgangherate e allo squallido dormitorio in cui aveva incontrato Fabrizio
dopo che era stato sorpreso con la droga. Invece di esortarlo a costruirsi un
avvenire migliore e altre stronzate, perché non si era sforzata di guardare
la realtà con gli occhi di un ragazzo quindicenne che il meglio l'aveva già
visto? Erano i tappeti, le lampade firmate, i grandi divani che arredavano
quel buio seminterrato. A Fabrizio era sicuramente parso di entrare in una
reggia. E forse anche sua sorella la pensava allo stesso modo.

Non posso infierire su di lei, pensò col cuore stretto. Se Sabrina era

riuscita ad adattarsi alla sua vita e ne scorgeva qualcosa di bello attraverso
gli oggetti di cui si circondava, sarebbe stato crudele e inutile aprirle gli
occhi. Il solo aiuto che poteva darle era liberarla dai sensi di colpa per il

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suicidio del fratello.

«Ti sei ammutolita, eh, dottoressa?» La voce irridente di Sabrina.
«Hai una bella casa. Piaceva molto anche a Fabrizio.»
Sabrina strinse gli occhi e la guardò. «Lo sai, vero, dottoressa? Ho

comperato tutto col mio lavoro di puttana.»

Cosima non raccolse. «Non mi fai accomodare?»
«Certo.» Le indicò una poltroncina foderata in pelle. «Siediti lì, è una

poltrona molto costosa che fa anche i massaggi.»

«Ho visto la pubblicità sui giornali. Deve essere molto comoda.»
«Mi stai prendendo per il culo, dottoressa?»
Cosima suo malgrado sorrise. «No. Me lo sto parando dalle tue

provocazioni.»

«Fabrizio aveva ragione: lei è in gamba.»
«Mi chiamo Cosima. Continua pure a darmi del tu.»
«Che cosa vuole... vuoi da me?»
La guardò negli occhi. «Il giorno dopo il delitto esistevano già tutte le

prove della colpevolezza di Fabrizio. Prove schiaccianti.»

Sul viso di Sabrina passò un'ombra. «Però l'avevano rimesso in libertà.»
«Solo provvisoriamente, e grazie alle manovre di Arrighi.»
«Perché mi sta dicendo queste cose?» La voce si fece dura e sospettosa.
«Non devi sentirti in colpa per la morte di tuo fratello. Fabrizio sapeva

di non avere scampo. Anche prima della lettera anonima. E non avrebbe
mai accettato di vivere rinchiuso per altri dieci o vent'anni.»

Sabrina avvampò: «Adesso ho capito! Anche lei vuole farmi confessare

che ho scritto quella lettera! Io non ne so niente, quante volte lo devo
ripetere? Se avete delle prove che sono stata io, mettetemi in galera.
Altrimenti lasciatemi in pace. E adesso glielo dico per l'ultima volta: se ne
vada! Fuori di qui!».

Cosima non si mosse. «Chi ha scritto quella lettera, è stato attento a non

lasciare impronte digitali. Ma non serviva, Sabrina, perché non hai
commesso alcun reato. E non hai nemmeno aggravato la situazione di
Fabrizio: la sua sorte era segnata prima dell'arrivo della lettera anonima.
Tuo fratello per non tornare in carcere si sarebbe comunque tolto la vita»
ripeté.

Sabrina strinse le labbra. «Non sono stata io a scriverla» ripeté dopo

qualche istante.

«Nessuno ti interrogherà più e non ti sto chiedendo di dirmi la verità. Se

vuoi, posso fingere di crederti. L'importante è che tu creda a me.» Si alzò.
«Non volevo che tu vivessi con il peso di un assurdo senso di colpa.»

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«Aspetti! Se è vero quello che dice, perché il colonnello Zorzi è venuto

apposta a Roma a interrogarmi su quella lettera?»

«Perché è amico del giudice Argenzi e voleva fare un tentativo per

troncare la campagna denigratoria contro di lui. Qualcuno insinua ancora
che Fabrizio si sia ucciso per dimostrare che era innocente.»

«Non lo era» Sabrina disse con voce triste.
Cosima annuì. «Zorzi voleva che tu chiarissi ogni dubbio, spiegando...»

Si interruppe. «Lo volevo anch'io» ammise onestamente.

«Ora non più?»
«Il giudice Argenzi ha le spalle forti e fra qualche settimana nessuno più

parlerà di lui. Sei tu che devi essere difesa.»

«Argenzi è suo parente, vero?»
«Suo padre ha sposato mia madre.»
«L'ho letto. Da qualche parte ho letto anche la storia di sua madre. Deve

essere una gran donna.»

«Sì, lo è.»
«Ma davvero... viveva come una selvaggia con la sorella gemella?»

Sabrina chiese con curiosità da bambina. «Non capisco come ha potuto
diventare tanto ricca.»

Era ricca dentro, Cosima avrebbe voluto rispondere. Ma le sembrò una

frase sciocca che avrebbe potuto suonare offensiva. Fece un gesto evasivo.
«Adesso non lavora più.»

«Nemmeno io. Voglio dire, non faccio più la vita di prima. Mi bastano

due clienti al giorno, e me li trova il portiere di un albergo.» Indicò
intorno. «Ormai ho tutto. E dopo la morte di Fabrizio...» Lasciò la frase in
sospeso.

«Capisco.»
«Non reciti! Ho passato molti anni in un istituto, e so leggere nelle

vostre facce.»

«Volevo solo dire che capisco cosa ha significato per te la morte di

Fabrizio.»

«E il resto no?» La stava provocando di nuovo.
«Non ho mai condannato nessuno.»
«Però vorrebbe redimermi. Perché non lo ammette?»
Cosima sentì le lacrime pungerle gli occhi. «Dopo la tragedia di Fabrizio

sono cambiata anch'io. Ricordo una discussione che ebbi con lui... Gli
buttai in faccia una statistica di cui gli operatori del Gallone sono fieri:
sette ragazzi su dieci escono dall'istituto attrezzati per affrontare
onestamente il futuro. Ne ero fiera anch'io. Adesso penso a quei tre che

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non riusciamo a recuperare, e mi sento desolata, impotente.»

«Fabrizio non voleva uccidere la bambina. Era... Ma non voglio

parlarne.»

«Non te l'ho chiesto.»
«Però non è giusto che lei si creda fallita. Qualcosa di buono si semina

sempre.»

«È quello che mi ha insegnato Alyssa.»
«Sua madre non ha mai... mai fatto la prostituta?»
«No.»
Sabrina la guardò. «Però è andata con un bianco.»
«Già. Aveva diciassette anni e faceva la cameriera in un cantiere del suo

Paese. Un uomo bianco la mise incinta e poi ripartì.»

«Cosima, io ci ho pensato a fare un altro lavoro, ma è troppo tardi. Non

reggerei mai a pulire le scale o a... Lo sa quanto guadagno? Duecento euro
al giorno, senza rischi e senza tasse, per due clienti...» Tacque fissandola
interrogativamente. «Non mi dice niente?» la apostrofò dopo qualche
istante.

«Sarebbero stronzate.»
«Lo sa che è proprio in gamba?»
«Vogliamo giocare a carte scoperte? In questo momento sto facendo di

tutto per mostrarmi compiacente e conquistarmi la tua fiducia.»

«Intende imbrogliarmi?» Di nuovo la voce dura e sospettosa.
«Non potrei mai farlo. Voglio andarmene da qui con la certezza che in

qualunque momento avrai bisogno di un aiuto mi chiamerai per
chiedermelo.»

«Tutto qui?»
«È tantissimo.»
«Mi faccia capire: che cosa gliene frega di me?»
«Da giorni e giorni sto male per te. E...»
«E? Vada avanti.»
«Penso che meriti molto più di questo, Sabrina.»
«Non ha risposto alla mia domanda.»
«Mi piaci. Mi sento affettivamente coinvolta. Vorrei insegnarti a volerti

bene. Andrò via da qui aspettando soltanto una tua telefonata.»

«Va bene.»
«Il mio nome è sull'elenco del telefono. C'è sempre la segreteria

attaccata, con il numero del cellulare.»

«Va bene» Sabrina ripeté.
Cosima si alzò. «Adesso devo andare.» Allungò una mano e le

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scompigliò i capelli. «Fai la brava.»

Si alzò anche Sabrina. «Grazie di essere venuta, dottoressa.»
«Chiamami Cosima. Non farmi stare in pena, ti prego.»
«No.»
Restarono l'una davanti all'altra in silenzio. Cosima era paralizzata dalla

paura di dire o fare qualcosa di sbagliato.

«Devo chiamarti un taxi?» Sabrina chiese.
«Sì, grazie.»
Sabrina la accompagnò al portone. «Davvero ti piaccio?» le gridò

mentre stava salendo sul taxi.

Cosima tornò indietro. «Sì.» Fece per allargare le braccia, ma Sabrina si

girò di scatto e corse verso il portone.

Tre sere dopo, mentre aspettava l'ascensore per salire a casa, Cosima fu

raggiunta da Mario e seppe da lui che sua madre e Attilio avevano deciso
di interrompere il loro viaggio e all'indomani sarebbero tornati a Roma.

Alyssa aveva letto su un quotidiano italiano, dimenticato in un

ristorante, che Nicola era al centro di uno scandalo per il suicidio di
Fabrizio e tre ore prima aveva chiamato dall'America.

«Ho dovuto raccontarle tutto, ma non mi ha creduto quando le ho detto

di stare tranquilla perché ormai il peggio è passato» Mario le spiegò. «Tua
madre è furiosa con te perché le hai tenuto nascosto quello che stava
succedendo. Ma anch'io ho avuto la mia parte di urli.»

«Magnifico.» Aveva cercato in ogni modo di tenere sua madre lontana

dalle tragiche vicende che avevano coinvolto anche lei e Nicola, e adesso
non poteva fare più niente per salvaguardarne la serenità.

Appena entrò in casa, chiamò Nicola per dargli la notizia. La sapeva già.

Suo padre gli aveva appena telefonato e, preoccupato come Alyssa, aveva
altrettanto fretta di tornare a Roma. «Sono riuscito a convincerlo ad evitare
tre scali e imbarcarsi direttamente a New York: questo significa che
rientreranno fra due giorni e non domani.»

Ma Nicola aveva un'altra notizia da darle: il suo trasferimento a Roma

era stato anticipato di un mese. «Passerò questo fine settimana a sistemare
le mie cose. Spero di farcela ad arrivare per domenica sera.»

Solo in quel momento Cosima avvertì la tensione e la stanchezza di

Nicola. «È successo qualcosa?»

«Il colpo di coda dell'avvocato Arrighi» rispose quasi controvoglia. «È

ricomparso in scena preannunciando un esposto ufficiale contro di me. Tra
i capi d'accusa figura anche l'uso strumentale che avrei fatto dei mass

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media per divulgare notizie mirate a spiazzare la difesa e a far crollare
Fabrizio Nardi.» L'indignazione aveva ridato vigore alla sua voce.

Cosima riuscì a controllare la propria. «Tutti sanno chi è Arrighi. E non

sarà certamente difficile difenderti da accuse tanto insensate.»

«Questo non lo saprò mai. Ieri c'è stato un vertice in Procura e si è

deciso che un ennesimo polverone su questo caso nuocerebbe a tutti. E a
me per primo.»

«E allora?» Cosima lo sollecitò.
«Allora Arrighi rinuncerà al suo esposto pago della "soddisfazione

morale": il mio trasferimento a Roma gli è stato presentato come un
allontanamento obbligato. E il mese di ferie diplomaticamente concordato
dovrà apparirgli una specie di sospensione disciplinare.»

«Come hai potuto accettare un compromesso simile?»
«Nessuno mi ha costretto, Cosima. L'alternativa era affrontare una

campagna diffamatoria abilmente alimentata da Arrighi con una nuova
ondata di "rivelazioni", maldicenze e Dio sa che cos'altro. Il suo ricorso
sarebbe stato respinto, ma io ne sarei uscito sputtanato e con le ossa rotte.»

«Ma l'hai data vinta ad Arrighi. Ancora una volta i ricatti e la disonestà

pagano.»

«Arrighi non ha nemmeno la statura del disonesto: è bastato far leva

sulla sua vanità ipertrofica per disarmarlo. Alla fine, le persone come lui si
scavano la fossa da sole.»

«Riterrei più morale che fosse la giustizia a farlo» Cosima affermò con

voce traboccante di amarezza.

«Anch'io. Ma devo fare delle scelte adeguate ai miei limiti. Non sono un

eroe, Cosima, e non sono neppure così idealista da buttarmi a capofitto
nelle battaglie "per principio". In questo momento mi ripugna qualunque
battaglia. Vorrei soltanto poter lavorare e vivere serenamente accanto a
mia figlia.»

XV

Nicola rinviò di una settimana l'arrivo a Roma per firmare gli atti di

vendita con gli acquirenti delle sue case e svuotarle prima della consegna.
Conservò soltanto i pochi oggetti che gli erano cari e un grosso rigattiere
segnalato dall'amico Zorzi rilevò tutto il resto, occupandosi anche del
trasporto.

Nel frattempo Alyssa e Attilio tornarono a casa. Alyssa, con l'aiuto di

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un'amica edicolante e di Mario, si procurò un enorme pacco di quotidiani e
di rotocalchi arretrati e per due giorni si immerse nella meticolosa lettura
di quanto era accaduto ed era stato scritto sul delitto di Fabrizio e la
tragedia degli Alfonsi.

E Cosima per due sere, quando tornò a casa e salì da sua madre per

salutarla, venne travolta dall'irrefrenabile piena delle sue reazioni. Alyssa
era sbalordita, indignata, furiosa, angosciata. «Come hai potuto
nascondermi tutto questo?» strillava alla figlia. «Mi hai mancato di
rispetto, trattandomi come una cretina da tenere buona e lontana mentre
qui c'era l'inferno!»

«Volevo proteggerti.»
«La madre sono io! Fino a quando non sarò vecchia e rimbambita, non

ho bisogno di essere protetta da mia figlia. Hai offeso a morte anche
Attilio!»

Nell'enfasi delle accuse, gli attribuiva un risentimento che Attilio era ben

lungi dal provare: era al contrario grato a Cosima e a Nicola per avergli
consentito di proseguire serenamente il viaggio con la moglie. E quanto
quel viaggio le avesse fatto bene lo provavano proprio quelle reazioni: il
dolore totale e devastante per la perdita della sorella si era affievolito e nel
suo cuore c'era di nuovo posto per gli altri.

Quando ebbe terminato la lettura di tutti gli articoli, Alyssa apostrofò

brusca la figlia. «Come puoi dire che tutto è finito? Nel futuro di Nicola
rimane una mina vagante. Ogni volta che qualcuno vorrà attaccarlo o
contestarlo, ricorderà che è stato l'aguzzino di Fabrizio Nardi!»

«Purtroppo è così: esistono situazioni senza via di uscita, realtà contro

cui è inutile battersi. Si chiama inevitabilità, mamma» Cosima replicò
spazientita.

«Non fare la maestrina con me, ragazza. Fabrizio Nardi aveva una

sorella, vero?»

«Sì.» Cosima rifiutò di ascoltare il campanello d'allarme.
«Si chiama Sabrina ed è stata interrogata sulla lettera anonima.»
Cosima si irrigidì. «Se non vuoi che io faccia la maestrina, tu smettila di

fare l'alunna diligente.»

Alyssa tacque con espressione assorta. «Sono sicura che quella ragazza

sa molte cose» disse alla fine.

Come ha fatto a capirlo? «Mamma, il caso è stato risolto e archiviato.

Sabrina Nardi ha sofferto abbastanza e adesso ha il diritto di essere lasciata
in pace. E con questo anche il discorso su di lei è chiuso.»

Alyssa la guardò con tristezza. «Mi stai trattando come se non ti fidassi

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di me. Peggio ancora: come se dovessi difenderti da me.»

«Come puoi pensare una cosa simile?» Cosima protestò. Non esisteva

persona che amasse più di lei. Era fiera di essere sua figlia. Corse ad
abbracciarla. «Mamma, non volevo ferirti.»

Alyssa ricambiò l'abbraccio, toccata ma anche sorpresa per quello

slancio affettuoso. Non era da Cosima lasciarsi andare. «Avanti, dimmi
tutto» la esortò divincolandosi con dolcezza.

«Non è facile. C'è una persona che devo proteggere...»
«Sabrina Nardi.» Alyssa posò le mani su quelle della figlia. «Appena ho

fatto il suo nome, ti sei allarmata e irrigidita. Sei molto brava nel tuo
lavoro e quello che apprezzo di più è la capacità di affrontare i problemi
dei tuoi ragazzi senza mai perdere il controllo... Io non riuscirei mai a
restare così lucida. A non disperarmi con loro. Ma con questa Sabrina è
successo anche a te. Per la prima volta ti sei lasciata coinvolgere e adesso
vorrei capire perché.»

Cosima annuì. «Non riesco a darmi pace» confessò, disarmata. «C'è una

ragazza di diciannove anni che la madre cominciò a vendere quando ne
aveva appena otto. È Sabrina Nardi. Il solo aiuto che posso darle è lasciare
che continui a prostituirsi senza avvertirne l'abiezione. Non mi ero mai
sentita così impotente.»

Alyssa sbarrò gli occhi. «Ho capito bene? Con tutto il vostro apparato di

assistenti sociali, psicologi, giudici minorili e operatori non riuscite a fare
niente per quella povera ragazza?»

«È maggiorenne e sua madre le ha insegnato a non infrangere la legge.»
«Cosima, io non sono una psicologa, ma saprei bene che cosa fare:

andrei da lei e a costo di legarla e picchiarla la costringerei ad ascoltarmi, a
guardare in faccia la sua abiezione!»

«E dopo, mamma? Sarebbe come spiegare a un cieco che cos'è il colore

o a un barbone la bellezza di una vera casa.»

Alyssa la freddò con un'occhiata. «Invece di fare la poetessa, usa il

cervello. Deve esistere un modo per darle una mano.»

«Io non l'ho trovato. Nemmeno immagini i problemi di Sabrina Nardi.»
«Perché non me ne parli?»
Quella domanda fece crollare tutte le resistenze di Cosima. Anche lei

aveva bisogno di aiuto perché per la prima volta si trovava coinvolta in un
problema più grande di lei. Sua madre l'aveva capito ed era sicura che
avrebbe capito anche i suoi dubbi, le sue paure, la sua impotenza.

«Comincia dall'inizio» Alyssa la incoraggiò.
Fu quanto sua figlia fece. E via via che ricostruiva la storia di Sabrina, il

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suo legame col fratello, il drammatico e insopportabile coinvolgimento nel
delitto della piccola Emma, Cosima si sentiva sempre più sollevata. E alla
fine, dopo aver parlato dell'incontro che aveva avuto con la ragazza,
Cosima si rivolse, supplice, alla madre. «Dimmelo tu: che cosa posso
fare?»

Alyssa la guardò affranta. «È una storia terribile» mormorò.
E Cosima capì di aver buttato addosso a sua madre tutti i suoi dubbi e le

sue paure. Ma la vide, d'un tratto, raddrizzare le spalle.

«Di sicuro non possiamo arrenderci, Cosima. Lasciami parlare con don

Eugenio.»

«Pensi che Sabrina accetterebbe di essere "redenta" da un prete o

rinchiusa di nuovo in qualche...»

«Pensi che io sia una cretina?» Alyssa la interruppe.
Il mattino dopo, senza alcun preavviso, Cosima fu incaricata di

accompagnare a Milano una ragazzina di quattordici anni. I genitori,
benché divorziati e risposati, non avevano smesso di odiarsi. La lunga
battaglia giudiziaria per ottenere l'affidamento della figlia era stata perduta
da entrambi: il giudice aveva deciso di affidarla ai nonni materni, che
abitavano a Milano ed erano stati ritenuti i parenti più idonei.

La ragazzina prese posto in aereo con una espressione accigliata e

impenetrabile e Cosima si guardò bene dal forzare il suo evidente bisogno
di silenzio. Che cosa avrebbe potuto dirle? Per sei anni era passata dalla
casa del padre a quella della madre sentendo l'uno demolire e accusare
l'altra. Il risultato? Come il giudice minorile aveva tristemente spiegato a
Cosima, li disprezzava entrambi e per "punirli" era arrivata persino a
drogarsi, facendosi sospendere dalla scuola.

«Odio Milano. Odio i miei nonni» la ragazzina disse a un tratto.
Cosima si girò verso di lei. «Avresti preferito essere affidata a un

istituto?»

«Preferirei morire» disse torva.
«Ti capisco. Deve essere tremendo sentirsi una specie di pacco...

Nessuno ti ascolta, non puoi decidere niente, è come se la tua vita
appartenesse agli altri.»

«Come fa a saperlo?» La fissò stupefatta.
«Sai quanti ragazzi come te ho conosciuto? Tantissimi. Ma fra quattro

anni sarai finalmente libera. Se stringi i denti e riesci a vincere la
tentazione di farti del male, potrai andare dove vuoi, decidere quello che
vuoi. Ti assicuro che la vita non è da buttare via. I tuoi nonni ti servono per
arrivare alla maggiore età: non ti conviene odiarli. Pensa a dove l'odio ha

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portato i tuoi genitori: hanno perso te, il tuo rispetto, il tuo amore.»

«Non meritano niente.»
«Se davvero lo credi, perché vuoi somigliare a loro? I tuoi nonni

vivevano tranquilli e senza problemi: devi ammettere che la decisione di
farsi carico di te merita rispetto.»

«Ho paura.»
«Loro ti aiuteranno.»
«Non mi lasci. Resti con me quando li incontro.» In quel momento era

soltanto una bambina spaventata.

Cosima le prese una mano. «Puoi contarci.»
Restò con lei fino alle dieci di sera. Quando uscì dalla casa dei suoi

nonni e salì in taxi, Cosima si rese conto che era troppo tardi per
raggiungere l'aeroporto e mettersi eventualmente in lista d'attesa per
l'ultimo volo.

Diede l'indirizzo del suo solito albergo e durante il tragitto telefonò al

ricevimento per sapere se c'era una stanza libera. La risposta affermativa le
diede uno smisurato sollievo. Subito dopo chiamò sua madre per avvertirla
che sarebbe rientrata a Roma all'indomani.

«Com'è andata con la ragazzina?» Alyssa le chiese.
«Sono stata con lei fino a dieci minuti fa. I nonni mi sembrano due brave

persone, e spero che non si metta a fare la guerra anche a loro.»

«Perché non vai a cena con Nicola? Hai bisogno di rilassarti e fare due

chiacchiere.»

«È tardi, mamma. Preferisco andare subito a letto.»
La verità era che aveva paura di incontrarlo: in quel periodo erano

entrambi molto vulnerabili e sarebbe bastato un gesto o uno sguardo per
perdere il controllo.

Ma quando fu nella sua stanza decise di fargli comunque un saluto: non

poteva negarsi anche quel piccolo conforto dopo una giornata tanto dura.
Era desolante ripetere le stesse cose a ragazzini che riproponevano con
varianti infinite sempre lo stesso dramma: una famiglia rovinosa o assente.

Il telefonino di Nicola fece quattro squilli a vuoto. Cosima stava per

interrompere la comunicazione quando udì una voce femminile. Sullo
sfondo, altre voci e rumori, come di una festa. Al secondo "pronto"?
Cosima rispose: «Scusi, ho sbagliato numero».

«Aspetti, questo è il cellulare del giudice Argenzi. Si è assentato un

momento, ma posso...»

«Non importa, grazie.»
Nicola la richiamò due minuti dopo. «Ho visto il tuo numero. È successo

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qualcosa?» chiese con ansia.

«Ero a Milano e volevo salutarti. Va tutto bene, non preoccuparti.»
«Perché non mi hai chiamato prima?»
«Sono appena arrivata in albergo. Volevo solo salutarti» ripeté.
«Mi dispiace. Sono a una cena e...»
«Ci risentiamo. Ciao.»
Andò in bagno e, mentre si spogliava, fece scorrere l'acqua nella vasca.

Si sedette sul bordo e aspettò che si riempisse. Perché mai doveva sentirsi
irritata, delusa e, sì, anche umiliata? Nicola era a Milano, la città in cui
aveva vissuto, lavorato, incontrato sua moglie. Era naturale che avesse
degli amici, accettasse i loro inviti, partecipasse a una festa.

Cosima si immerse nell'acqua tiepida e chiuse gli occhi. Basta. Rilassati.

Non pensare.

Pensa, invece. Sei cascata nella trappola dell'eroe malinconico e

romantico, l'uomo da confortare, il perseguitato da soccorrere.
Sicuramente lo è: ma ti ha tagliato fuori dall'altra parte di sé. Quando mai
avete fatto due risate? O siete andati a una cena, uno spettacolo, un
cinema? È questo a umiliarti: il tuo ruolo è quello della consolatrice.
Piange sulla tua spalla e, confortato, corre a fare festa. Quando i brutti
ricordi si saranno allontanati per sempre, troverà anche la donna con cui
ricostruirsi una vita serena. Nel frattempo gli basta qualche avventura
senza impegno. Cosa credevi, che alla sua età vivesse come un monaco e
avesse raggiunto la pace dei sensi?

Cosima si sollevò brusca dall'acqua e si avvolse in una spugna. Sì, lo

credevo. Gli eroi romantici non hanno bisogno delle botte di sesso.
Istintivamente fece per cercare la sacca: non c'era. Certa di tornare a Roma
quello stesso giorno, non aveva portato niente con sé.

Si struccò il viso e lavò i denti con il dentifricio e lo spazzolino che

erano nel piccolo cesto dei gadget dell'albergo. Si liberò della spugna e
infilò l'accappatoio: avrebbe dormito con quello.

Accese il televisore e subito lo spense. Prese dal tavolino una rivista di

informazioni alberghiere e si infilò a letto. Si accorse di avere fame. Era
naturale: non aveva cenato. Si alzò: nel frigorifero sicuramente avrebbe
trovato qualcosa.

Arachidi sotto vuoto? Patatine fritte? Meriti qualcosa di meglio,

ragazza. Chiamò il ristorante: era troppo tardi per avere qualcosa in
camera?

No, lo chef era ancora in servizio. Che cosa desiderava?
Va' alla grande. Ordinò risotto alle erbe, scaloppine ai funghi, fragoline

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con gelato. E una bottiglia di vino rosso: no, non aveva preferenze.
Pregustando quella cenetta si immerse nella lettura della rivista.

Il telefono sul comodino squillò dopo dieci minuti. Era il portiere. «C'è il

signor Argenzi. Posso farlo salire?»

«Sì, certo.» La sorpresa la spinse a rispondere senza riflettere, e mentre

riattaccava il telefono se ne rammaricò. Non aveva alcun desiderio di
vedere Nicola e non capiva perché avesse lasciato la sua cena per correre
da lei.

Senso del dovere. Cortesia. Botta di tristezza. Per qualche tempo gli

servi ancora. Qualcuno bussò alla porta. Strinse la cintura sull'accappatoio
e andò ad aprire con una espressione truce.

Il viso mesto e ansioso di Nicola si inquadrò dietro al cameriere e al

carrello della cena. Quel contemporaneo arrivo le consentì di ritrovare il
controllo. Gli fece un cenno di saluto e, mentre il cameriere toglieva i
coperchi dai portavivande e stappava il vino, cercò la borsetta per dargli la
mancia.

Solo quando chiuse la porta alle sue spalle si rivolse a Nicola. «Non

dovevi disturbarti.» Gli indicò allegramente il carrello. «Come vedi, sto
facendo festa anch'io.»

«Perché non mi hai avvertito che venivi a Milano?»
«L'ho saputo all'ultimo momento. Nicola, senza complimenti, puoi

tornare alla tua cena.»

«Dopodomani parto per Roma e un collega ha voluto riunire alcuni

amici per un brindisi.» Indicò il carrello con un sorriso. «Detesto le
pizzette e i tramezzini: la festa è qui.»

«Vuoi mangiare qualcosa?» Nel momento stesso in cui le sfuggiva

quella domanda Cosima si infuriò con se stessa. Ci sei ricascata. Piantala
di fare la crocerossina.

«Molto volentieri.» Prese la poltroncina ai piedi del letto e la mise

davanti al carrello. «Non avrei mai pensato di finire questa giornata con
te» disse sedendosi.

Cosima divise il risotto senza rispondere, mettendo la sua metà nel piatto

piano. Nicola le versò il vino.

«Non mi hai ancora detto perché sei venuta a Milano.»
«Ho accompagnato una ragazzina dai nonni. Il giudice l'ha affidata a

loro.» All'improvviso scoppiò a piangere. «Sono stanca di problemi!,
stanca di fallimenti!»

Nicola spostò il carrello e si alzò di scatto. Prima di rendersene conto,

Cosima si ritrovò stretta in un abbraccio convulso. «Non sopporto di

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vederti così. Ti prego, non piangere.»

Quando le braccia di Nicola scivolarono via dal suo corpo Cosima

avvertì un senso di solitudine fisica che la raggelò. Sollevò lo sguardo su
di lui: il suo viso traboccava d'amore.

«Non mandarmi via» le disse con voce roca. «Cosima, ti desidero da

morire. Se mi mandi via, muoio.»

XVI

Nicola fu il primo a svegliarsi. Emerse dal sonno all'improvviso, come

spinto da un'ondata di sensazioni troppo forti per essere contenute. La vista
di Cosima, raggomitolata di fianco a lui, gli tolse il fiato.

Come ho fatto a vivere senza di lei?, si chiese. Quella notte aveva

conosciuto passione, tenerezza, orgoglio, estasi. Non desiderava più
niente. Questo deve essere il Paradiso, pensò: sentirsi finalmente al sicuro,
ritrovarsi immersi in una beatitudine senza fine. Con Cosima al suo fianco,
niente più avrebbe potuto farlo soffrire.

Nicola ripensò ai mariti e agli amanti che aveva fatto condannare e per la

prima volta capì come il tradimento e l'abbandono potessero fare esplodere
la follia. Era la violenza della paura e della rabbia a scatenare la furia
incontrollabile. Lui non sarebbe mai stato capace di uccidere, ma la perdita
di Cosima lo avrebbe fatto morire.

E per la prima volta capì perché, dopo l'assassinio di sua moglie, molti

avessero sospettato di lui e i giornalisti fossero andati a frugare
morbosamente nella sua vita: a lui stesso sembrava inconcepibile, adesso,
l'aver potuto convivere con Luisa lasciandola libera di avere, addirittura,
una relazione extraconiugale. Non l'aveva mai amata: e anche
l'indifferenza poteva spingere a comportamenti folli e amorali. Ma con
Cosima si era lasciato il passato alle spalle.

Si svegliò in quel momento, e nel suo viso Nicola lesse via via

incredulità, gioia, esitazione. «Ciao» gli sussurrò. Lo guardò per qualche
istante, in silenzio, e le sue labbra si dischiusero in un sorriso. «Sei bello.»

Si finse offeso. «Mi sai dire solo questo?»
«Non ti avevo mai guardato.» Era vero. Di lui le erano piaciuti il viso

intelligente, l'espressione decisa e il portamento elegante. Ma quella notte
il sesso aveva fatto crollare ogni resistenza e Nicola si era servito anche del
corpo per trasmetterle sicurezza, calore, gioia. L'aveva guardata, baciata,
toccata, accarezzata e lei, presa da quella fisicità, si era innamorata anche

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della sua bellezza.

Si accorse dello sguardo perplesso di Nicola e gli sorrise di nuovo. «Che

cosa c'è di strano? Fino a ieri sera non avevo mai avuto l'opportunità di
osservarti così a lungo... e da vicino.»

Nicola si accorse che non scherzava. «Sono contento che mi trovi

bello.»

Cosima percorse il suo viso in una carezza. «Hai una fronte spaziosa, gli

occhi con le pagliuzze d'oro, un bel naso deciso, le labbra con un taglio
lungo ma carnose...»

«Mi farai diventare vanitoso.» Le baciò le dita. «No. Non c'è il pericolo

che mi innamori di me stesso perché sono troppo preso da te...»

La desiderava di nuovo. Ma Cosima si sottrasse al suo abbraccio. «Devo

tornare a Roma» sospirò.

«Non puoi fermarti fino a domani e partire con me?»
«No. Nel pomeriggio ho una riunione al Gallone e adesso devo correre a

Linate.»

«Cosima, dobbiamo parlare. Abbiamo tante cose da...»
«Ne parleremo a Roma.»
«Sono soltanto problemi pratici» si affrettò a precisare. «Il primo è

quello della casa. Voglio che...»

Lo interruppe di nuovo. «Il primo problema è trovare un posto in aereo.»

A tutti gli altri non osava pensare. E non era quello il momento di
spiegargli che non erano soltanto problemi pratici.

Pur essendo molto riservata, Cosima non aveva mai avuto segreti per sua

madre. Né le sarebbe stato possibile: ad Alyssa bastava un'occhiata per
capire se qualcosa non andava o la preoccupava. E a volte Cosima si
chiedeva seriamente se, oltre a un profondo istinto materno, non
possedesse anche delle doti medianiche. Captava tutto. Aveva la capacità
di scorgere, in ogni persona, la vera natura e i pensieri più segreti.

Cosima non si sentiva in colpa per non averle mai parlato di ciò che

provava per Nicola: fino a quella notte era stato un sentimento
inconfessabile anche a se stessa. Ma crollato quel tabù le sembrava
incredibile che sua madre non si fosse mai accorta di nulla. Un legame tra
lei e Nicola era così sbagliato o assurdo da apparirle addirittura
impensabile?

"Dovremo parlare del matrimonio dei nostri genitori", le aveva detto

qualche tempo prima Nicola. Non sopportava di essere giudicato un uomo
razzista o condizionato dai pregiudizi. Ma inconsapevolmente, con quella

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frase, si era tradito: che cosa si doveva dire o chiarire di due persone adulte
e innamorate che, come Alyssa e Attilio, avevano deciso di sposarsi?
L'unica riserva era la moglie negra.

Sicuramente Alyssa aveva avvertito questa riserva. E forse per questo

nemmeno l'aveva sfiorata l'idea che sua figlia potesse avere un rapporto
amoroso con lui.

Ma a quel punto doveva dirle la verità. Spiegarle ciò che durante il volo

da Milano a Roma aveva spiegato a se stessa: i pregiudizi e la rigidità
mentale di Nicola, indotti da una madre incapace di trasmettergli altro,
erano come l'intonaco della sua persona. Scrostandolo, emergeva la vera
natura appassionata e generosa. Era certa che, conoscendo meglio Alyssa,
Nicola avrebbe finito per capire quale donna eccezionale il padre avesse
sposato.

Non potrei mai vivere con un uomo che non la adorasse, Cosima pensò

mentre rientrava a casa. Era andata direttamente dall'aeroporto all'istituto
Gallone e Alyssa l'aspettava a cena a casa sua.

Quando vi arrivò, Attilio stava uscendo con Matilde. «Il nonno mi porta

a mangiare la pizza con Karim!» annunciò la bambina. «E poi andiamo
allo spettacolo dei burattini da don Eugenio!»

Cosima capì subito che sua madre aveva voluto restare sola con lei. Era

andata lì con l'intenzione di parlarle di Nicola, ma pronta a rimandare il
discorso se si fosse accorta di non trovare le parole o il coraggio per farlo.

Ora, quell'intimità da confessionale la raggelava. Qualunque cosa Alyssa

volesse dirle o chiederle, non avrebbe potuto sfuggirle. «Che cosa fai lì
impalata? Sediamoci a tavola, ti ho preparato i supplì di riso e lo sformato
di verdure.» Erano i suoi piatti preferiti: Alyssa voleva farla abboccare
come un pesciolino all'esca?

Non aveva finito neppure il primo supplì che arrivò lo strattone. «Oggi

Nicola ha fatto una lunga telefonata a suo padre per chiedergli se è sempre
disposto a cedergli il primo piano» sua madre disse con noncuranza.

«E Attilio che cosa gli ha detto?»
«Che domanda è? È ovvio che può disporne come crede.»
Cosima masticò lentamente un boccone di supplì. «Credo che per lui e

Matilde sia la sistemazione ideale.»

E l'amo affondò. «Lo pensiamo tutti. Ma Nicola, dopo aver ringraziato

suo padre, gli ha detto che prima di prendere una decisione deve parlarne
con te.»

Cosima allungò la mano verso lo sformato di verdure e ne tagliò una

fetta. «Si fida del mio parere.»

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Alyssa le bloccò la mano prima che portasse la fetta nel suo piatto.

«Deve parlarne con te perché desidera che sia tu a scegliere la casa in cui
andrete a vivere. Così ha spiegato ad Attilio.»

«Ah.»
«Nicola è stato più loquace. Ha parlato di matrimonio.»
Cosima non sostenne il suo sguardo. «Mamma, stasera ti avrei detto

tutto. Non l'ho fatto prima soltanto perché fino a ieri non...» Si interruppe
avvampando.

«Non era successo niente» Alyssa disse, proseguendo la frase sospesa.

Le lasciò la mano. «Mangia lo sformato, sennò diventa freddo.»

«Mi credi se ti dico che io e Nicola non abbiamo ancora parlato né di

casa né di matrimonio?»

«Avrete avuto altro da fare» Alyssa replicò asciutta. Ma il suo viso si

stava rischiarando. «Attilio sostiene di non essere sorpreso perché
sospettava da mesi che tra te e Nicola ci fosse qualcosa. Io invece sono
cascata dalle nuvole.»

«In un certo senso è stato così anche per me. Nicola mi ha attratta

appena l'ho conosciuto, ma non mi sono mai spinta oltre perché non
volevo innamorarmi di lui. Ero sicura che non avremmo mai potuto
costruire un rapporto sereno.»

«E adesso che cosa ti dà questa certezza?»
Fu Cosima, stavolta, a captare la frase inespressa. Sollevò la testa. «Non

mi sono lasciata abbagliare dal sesso, mamma. Ma qualche volta è proprio
il sesso a dare le sicurezze e le risposte che si cercano. A me è successo
questo. Amavo le qualità di Nicola e ho capito che posso accettare le cose
che di lui non mi piacciono.»

Cosima non si meravigliò che la madre non le chiedesse quali fossero: le

conosceva bene.

«Adesso ceniamo. Il ragù dei supplì l'ho fatto io, non è quello dei

vasetti.»

«Si sente.» A dispetto di tutto, l'appetito non le era passato e riprese a

mangiare con gusto.

Mangiò anche Alyssa, ma con una espressione assorta e sogguardando

di tanto in tanto la figlia. Cosima capì che il discorso non era chiuso.

«Nicola lo sa quanto è stato fortunato a incontrare una persona come

te?» le chiese a un tratto.

«Lo sono stata anch'io, mamma» rispose stupita. Dove voleva arrivare?
«Meno di lui. Nicola è vedovo, ha una figlia, undici anni più di te e un

passato alle spalle. Volendo fare una...»

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«Queste meschine considerazioni non sono da te!» protestò Cosima.
«Sono considerazioni reali. È una brava persona, lo ami e va benissimo.

Ma sposandolo ti farai carico di un bel peso. Insomma, devi ammettere che
come partito non è il massimo.»

«Forse nemmeno io per lui!» Cosima si accalorò.
«Questa non la capisco. Sei giovane, sei intelligente, sei laureata, sei

molto ricca e non bastasse sei pure bella. Anzi, bellissima. Vuoi
obiettivamente negare che saresti il massimo per qualunque uomo?»
Alyssa le chiese sorridendo.

«C'è un piccolo neo. Ti sei scordata che non tutti gli uomini

sposerebbero una...» Cosima si interruppe quasi spaventata da quello che
stava per dire.

«Perché non finisci la frase?» Alyssa le chiese con dolcezza.
E Cosima capì in quel momento di essere cascata nella sua trappola. «È

qui che mi volevi portare, vero, mamma?» La sua voce era amara.

«Sì, bambina. Voglio essere certa che non ti consideri fortunata soltanto

perché hai incontrato un uomo che è riuscito a passare sopra al tuo "neo".»

«Amo le molte doti di Nicola, ma lo apprezzo anche per questo.

Mamma, non mi sono mai sentita inferiore per la mia metà nera, ma non
ho mai sottovalutato i problemi che comporta. Anche un uomo senza
pregiudizi può avere delle esitazioni all'idea di sposare una donna diversa
da lui e avere un figlio con la pelle scura. Io non sono un'attrice o una
fotomodella. Le persone che incontro non fanno parte del mondo senza
tabù della mondanità e dello spettacolo. Nicola è un magistrato. Forse per
il suo carattere chiuso o forse per invidia non è mai stato amato dai
colleghi milanesi. E ora arriva a Roma preceduto dalla sinistra fama che gli
hanno dato il "giallo della Rivoltana" e il suicidio di Fabrizio Nardi...
Sicuramente gli creerà qualche disagio annunciare le nozze con la figlia
mulatta della donna nera che ha sposato suo padre.»

Alyssa annuì. «Sicuramente» ripeté.
«La vera fortuna è che ci amiamo. Molto.»
«Ieri ho parlato a don Eugenio di Sabrina Nardi» Alyssa disse.
Cosima strinse gli occhi. «Che c'entra Sabrina? Per carità, mamma, non

rendiamo tutto più difficile!»

«Hai già dimenticato i suoi problemi?»
«No di certo. Ma non possiamo risolverli se lei ce lo impedisce.»
«Fidati di me. Ho mai fatto una cosa sbagliata in vita mia?»
«No» Cosima fu costretta ad ammettere.

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Nicola arrivò a Roma nel tardo pomeriggio del giorno dopo con la sua

macchina. Aveva caricato nel bagagliaio quattro valigie con i suoi vestiti: i
pochi oggetti prelevati dalle vecchie case sarebbero stati consegnati in
settimana da un corriere.

Cosima si era presa mezza giornata di permesso per andare a scuola da

Matilde e occuparsi poi di lei mentre Gina riordinava la casa e preparava la
cena. Alyssa aveva ovviamente capito da sola che quella sera Nicola
preferiva restare a casa sua.

Cosima stessa, dopo lunghe esitazioni, decise di lasciarlo solo con la

figlia e glielo disse in una delle molte telefonate che lui le fece durante il
viaggio, prendendo la scusa di una cena di lavoro con Elena Marini.

Matilde era eccitata e raggiante per il ritorno del padre. «Davvero non va

più via?» continuava a chiedere.

Cosima la aiutò ad apparecchiare la tavola e a mettere in un cesto i fiori

che avevano raccolto dai vasi del cortile. Matilde volle sistemare al centro
della composizione una candela, "come si fa a Natale".

«Accendila quando arriva il papà» le raccomandò Cosima congedandosi

da lei con un abbraccio. Salì a casa sua, si preparò in fretta e uscì prima
che Nicola arrivasse.

Elena la aspettava nel suo studio. Era ancora presto per andare al

ristorante e lei era arrivata in anticipo. Attese nel salottino, ormai vuoto,
che terminasse la seduta con l'ultimo paziente e cercò di rilassarsi.

Ma non era facile. La aspettavano giorni di decisioni importanti e scelte

definitive che Nicola chiamava – e riteneva – "problemi pratici".

Ne parlò più tardi, al ristorante, con l'amica Elena. «In pratica, sto per

rivoluzionare una vita che mi piace e mi gratifica e sono molto spaventata.
I miei sentimenti per Nicola sono fuori discussione: lo amo. E amo la sua
bambina...»

«Ma...?»
«Ma questo matrimonio mi sembra un salto nel buio. Nicola ne ha

parlato con suo padre, e non con me...» Cercò le parole per proseguire.
«Mi telefona dieci volte al giorno, come un adolescente alla prima cotta.
Ne sono felice, certo, però mi dà anche una vaga inquietudine. E mi fa
sentire in colpa perché non riesco a condividere le sue appassionate
certezze. Avrei bisogno di tempo, e temo che lui non voglia darmelo: vede
nel matrimonio il lieto fine a portata di mano, ed è impaziente di arrivarci.
Sono angosciata all'idea di deluderlo, di non essere adeguata alle sue
aspettative. E, sinceramente, anche all'idea che sia lui a deludere me. Devo
conciliare il lavoro con la famiglia e fare da mamma a una bambina che ha

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un particolare bisogno di attenzione e di affetto, sapendo in partenza che
Nicola sarà troppo impegnato per condividere tutti i problemi della
quotidianità. Non mi pesa: ma devo organizzarmi, cercare un altro aiuto
oltre a quello di Gina. È difficile spiegarmi, lo so.» Al termine del lungo
monologo riprese fiato.

Elena sorrise. «Ho capito il nocciolo del problema: sei pronta al salto nel

buio, ma prima di buttarti vuoi la rete.»

Sorrise anche Cosima. «È così. E tra le mie paure c'è quella che Nicola

veda questa rete come un segnale di sfiducia o di scarso amore...»

«Digli quello che hai detto a me. Con le stesse parole.»
«E se non capisse? Ci sono ancora molte cose di lui che non so.»
«Una ragione in più per fare chiarezza. Non devi sentirti in colpa perché

hai bisogno di tempo, la tua natura è questa e nessuno può chiederti di
violentarla.»

«Vorrei essere come mia madre. Lei sa sempre quello che vuole e non

ha paura di niente.»

Elena rise. «Alyssa è unica: ha un congegno di sicurezza incorporato! A

proposito di Alyssa: mi ha detto Rosaria Giannini che ieri le ha telefonato
per parlare di Sabrina Nardi e sapere il suo indirizzo.»

«Oh, Dio! Spero che non glielo abbia dato.»
«C'è qualcuno che riesce a dire di no a tua madre?»
«Purtroppo neppure lei riesce a fare i miracoli.»
«Però Rosaria è stata molto colpita dalla sua capacità di sintesi. Il

problema di quella ragazza secondo tua madre ha una sola soluzione
possibile: farle guadagnare onestamente duecento euro al giorno.»

«Ha scordato che Sabrina non è né una dirigente né una rock star.»

Cosima tornò a casa alle undici e trovò due messaggi di Nicola sulla

segreteria telefonica: non aveva voluto disturbarla durante la cena di
lavoro, ma la pregava di richiamarlo appena possibile: doveva chiederle
una cosa importantissima.

Lo fece subito, sentendosi allo stesso tempo emozionata e sulle

difensive. In quel momento non era pronta nemmeno per affrontare un
discorso sul loro futuro.

Ma la cosa che Nicola doveva chiederle era un'altra.
«Matilde si è appena addormentata e io ho una voglia pazza di vederti:

stanotte posso dormire a casa tua?»

Cosima si accorse di avere la stessa voglia di vederlo. «Che cosa

aspetti?» gli disse.

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XVII

Nicola trascorse anche le tre notti successive in casa di Cosima: fatta

addormentare la bambina, prendeva l'ascensore e saliva da lei. E in quelle
notti programmarono il loro futuro. Durante la prima concordarono che
restare a vivere in quel palazzo era, non soltanto per Matilde, la soluzione
ottimale.

Nicola avrebbe proposto a suo padre di vendergli la metà del primo

piano, già adibita ad appartamento, lasciandolo libero di disporre dell'altra
metà: duecento metri quadrati erano più che sufficienti. E Cosima sarebbe
stata libera di ristrutturare e arredare la loro casa come voleva. Nell'attesa
che fosse pronto, Nicola, Matilde e la governante si sarebbero trasferiti da
lei.

Durante la seconda notte decisero di richiedere subito i documenti

necessari per il matrimonio. Anche loro si sarebbero sposati, appena
possibile, nella chiesa di don Eugenio. E presupponendo che la data
coincidesse con la ripresa del lavoro di Nicola nella nuova sede, ritennero
opportuno rinunciare al viaggio di nozze.

Durante la terza notte Cosima affrontò il problema del suo lavoro: non

intendeva rinunciarvi, ma il suo interesse prioritario sarebbe diventata la
famiglia. E per questo si proponeva di studiare con il suo Presidente una
forma di collaborazione part-time o comunque meno impegnativa.

Cosima era consapevole di compiere un salto nel buio, ma stretta tra le

braccia di Nicola non avvertiva più alcun bisogno della rete. Si era
addentrata audacemente oltre la soglia della passione, ma quel temuto
terreno si era rivelato un luogo di delizie. E per la prima volta in lei la
ragione non contrastava il sentimento, ma addirittura la sollecitava a
lasciarsi andare: qualunque sofferenza la passione le avesse inflitto, non
sarebbe mai stata grande come la felicità che in quel momento le dava.

La quarta notte parlarono e basta. Tutto era stato programmato e deciso,

e l'intimità fisica aveva dato al loro amore il suggello dell'indissolubilità:
era arrivato il momento di sollevare il velo dalle reticenze, i pudori, gli
interrogativi inespressi. Adesso potevano osare.

Nicola fu il primo. «Non mi hai mai parlato di tuo padre» disse

sfiorandole con le dita la linea del naso.

«Cosa potrei dire? So soltanto che sua madre si chiamava Cosima.»
«È strano che tu non abbia mai sentito il desiderio di conoscerlo, di

sapere qualcosa di lui.»

«Me lo sento ripetere da quando ero ragazzina. La verità è che non ho

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mai associato la parola "padre" a una persona fisica. L'uomo che mi ha
procreato è come un'entità invisibile: astratta, lontanissima.»

Nicola rise. «Non sei figlia dello Spirito Santo!»
«Sono figlia di Alyssa. Geneticamente e affettivamente è stata il mio

unico riferimento.»

Era così difficile farlo capire? Le psicologhe e le assistenti sociali che

avevano seguito la sua crescita avevano interpretato il suo disinteresse per
il padre come meccanismo di difesa, scarsa fantasia, eccessiva dipendenza
da una figura materna troppo invasiva. Ogni volta che ci ripensava, le
veniva la nausea.

«Una madre come la mia è la più grande fortuna che si possa avere»

affermò con forza.

«Sì, certo. Ma tu sei diversa da lei.»
Cosima strinse gli occhi a fessura. «Che cosa vuoi dire?»
«Soltanto che hai anche un padre. "L'uomo inesistente" ti ha

geneticamente trasmesso qualcosa. Perché hai paura di ammetterlo? Ti dà
tanto fastidio parlare di lui?»

Cosima respirò a fondo. «Ti tranquillizza tanto parlare di lui, il padre

bianco?»

Si irrigidì. «Non capisco.»
«Hai paura di ammettere che la mia diversità da Alyssa Calangida ti ha

reso tutto più facile?» gli rifece ringhiosamente il verso. In quel momento
lo detestava.

Nicola la guardò desolato. «Non capisco come fai ad amarmi, se mi

credi tanto meschino.»

«Io voglio avere dei figli. Hai preso in considerazione la possibilità che

nascano con la pelle nera? È il momento di parlarne.»

«Non avevo ancora pensato ai figli. Ho amato Matilde e amerò quelli

che verranno perché non ho...»

«Essere negri non è un handicap, Nicola.»
«Certo che no! Non puoi farmi dire quello che vuoi, distorcere il senso

di ogni parola!»

«Mia madre non ti piace» infierì, implacabile.
Nicola la guardò con occhi di fuoco. «Vuoi la verità? Non devo

considerarla perfetta solo perché è nera. Non mi piacciono il suo modo di
vestire, la sua casa piena di africanerie e incensi, il suo vomitevole
chagussoud, il suo essere sempre imprevedibile e sopra le righe. Adoro il
suo calore umano, la sua intelligenza, il suo non arrendersi mai.»

«Vomitevole chagussoud, hai detto?»

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«Sì. E lo...»
«Finalmente siamo d'accordo su qualcosa.» Nei suoi occhi si accese un

lampo di allegria.

«Non voglio mai più litigare con te» Nicola proruppe. «Mi fa stare

male.»

«Non voglio ombre fra noi.» Nel momento in cui lo disse capì che ne

esistevano molte altre da dissipare. Avevano corso troppo. In quelle notti
tutti i suoi dubbi le erano sembrati ridicoli, tutti i problemi facili da
risolvere. L'intima atmosfera della stanza, gli abbracci di Nicola, le sue
parole ardenti avevano avuto su di lei l'effetto di una droga.

Lo stato di grazia non era finito, non aveva più paura di lasciarsi andare:

semplicemente, non voleva che la passione la ottenebrasse. Era un
sentimento forte e bellissimo, non una droga.

I lavori di ristrutturazione del primo piano iniziarono alla metà di

maggio: le sole modifiche strutturali suggerite da Cosima furono
l'abbattimento di un muro divisorio per poter unire il tinello e la cucina e la
trasformazione di un piccolo ripostiglio in un bagno di servizio. Per il
resto, l'appartamento era funzionale e ben disposto: bastava solamente
cambiare le piastrelle e i sanitari dei due bagni già esistenti e tinteggiare le
pareti.

Alyssa si incaricò di svuotare la casa. Suo marito non era interessato a

nessuno dei mobili che aveva acquistato, in blocco e in gran fretta, quando
si era trasferito in quel palazzo: li poteva dare, gratis, a un robivecchi o a
una associazione benefica: purché li portassero via in fretta.

Ma ad Alyssa venne un'idea migliore: con l'aiuto di Mario e di due

ragazzi li trasportò in cortile e diede libero sfogo al suo estro. Servendosi
di pietre dure, tempere, vernici ad olio e vecchi scampoli di stoffa,
trasformò ciascuno di quei mobili anonimi in pezzi di arredo unici a cui
infine appose, in un angolo, la propria firma. Li avrebbe venduti a qualche
mercatino e destinato il ricavato in beneficenza.

Matilde fu la collaboratrice più entusiasta: dopo aver osservato

attentamente nonna Alyssa, cominciò a pitturare, incollare e disegnare
anche lei. Usciva da scuola con la fretta di correre in cortile e alla sera si
staccava dalle sue "opere" senza protestare soltanto perché l'aspettava
un'altra festa: cenare, tutti insieme, a casa di nonna Alyssa e nonno Attilio.

I dolorosi eventi di quei mesi avevano distolto l'attenzione da lei che si

era sentita spesso sola. Ma adesso le giornate erano un susseguirsi di cose
belle e divertenti. Dormire nel lettone con Cosima era il massimo.

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Nicola, guardando il visetto raggiante della figlia, si sentiva sciogliere il

cuore. Ma una mattina arrivò, inaspettata, la doccia fredda. Mentre si
congedava dalla bambina davanti alla scuola, sopraggiunse la maestra di
sostegno.

Senza giri di parole, e con tono brusco, gli riferì che Matilde stava

diventando "una piccola selvaggia". Non studiava, non si applicava,
sembrava interessata solamente ad "attività ludiche".

«So che lei è molto occupato» gli disse «ma so anche che teneva molto

al recupero di sua figlia. Se ci tiene ancora, deve ostacolare certe influenze
molto diseducative. Non sono d'accordo con l'altra maestra di Matilde e
ancor meno con la dottoressa Calangida.»

«Posso saperne il motivo?» Nicola chiese, subito sulle difensive.
La donna incurvò le labbra. «Assecondano il disimpegno della bambina

e si preoccupano soprattutto che si senta a suo agio, giochi, sia libera di
esprimersi. In altre parole, dottor Argenzi, la trattano come una
handicappata e mi impediscono di lavorare su di lei con un supporto vero,
inculcandole disciplina e senso del dovere.»

Nicola si vietò di parlare con Cosima prima di essere in grado di farlo

con calma. "Disciplina e senso del dovere" erano stati i canoni educativi di
sua madre, e gli suonavano perciò amaramente noti. Tuttavia l'insegnante
di supporto aveva mirato al centro del problema: era vero, Matilde veniva
viziata, assecondata e protetta da tutti.

Avrebbero fatto lo stesso se fosse stata una bambina normale? Quel

permissivismo era comunque accettabile? E perché Cosima non gli aveva
mai parlato del conflitto che si era creato tra lei e la maestra? Condizionata
da una figura paterna inesistente, credeva forse che il suo ruolo di padre
non avesse alcuna importanza? Questo andava chiarito: lui non intendeva
delegare a nessuno, neppure a una matrigna amorosissima, quel suo ruolo.

Calmati. Attento a come parli. Se lo ripeté per tutto il giorno: anche

quando entrò in casa di Alyssa e suo padre per la cena. Matilde lo prese
per mano e lo condusse nella stanza da letto: il comodino di Alyssa era
stato sostituito da un tavolinetto col ripiano che raffigurava un cielo
azzurro attraversato dai raggi del sole e le gambe ricoperte di pietruzze
colorate.

«Questo la nonna non lo vende! L'ho fatto io, ti piace?»
«Molto.» Si sforzò di dare un tono caldo alla sua voce.
Quando furono a tavola, Matilde riprese il discorso del tavolino. «Mi

sono dimenticata di farti vedere la firma. Ho firmato anche gli altri mobili
che ho fatto io, però quelli li dobbiamo portare al mercatino per venderli

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alle signore.»

Alyssa si rivolse a Nicola. «Tua figlia ha una fantasia e una manualità

straordinarie. Credo che questo talento vada coltivato.»

Calmati. Attento a come parli. «Forse sarebbe bene coltivare anche lo

studio e l'impegno, come si fa con i bambini normali.» Era stato più forte
di lui.

Alyssa lo guardò. «Che discorso è? Mi pare evidente.»
«Evidente? Stamattina ho parlato con una maestra di Matilde e...»
Cosima lo interruppe alzandosi di scatto. «Puoi venire di là con me?

Scusateci un momento.»

Gli fece strada verso la cucina. Chiuse la porta e gli disse secca: «A casa

nostra vige la buona regola che le rimostranze e i discorsi seri non si
affrontano per caso e con le battute sarcastiche».

«A casa vostra non c'è mai stato un padre. Matilde ne ha uno.»
«Mia madre ripeterebbe che anche questo pare evidente. Fuori il rospo:

che cosa ti ha detto la maestra di tua figlia?»

Nicola cercò di fare marcia indietro. «Scusami, ne parliamo in un altro

momento.»

«Il momento è questo.»
«Vorrei essere informato, se Matilde ha dei problemi. A suo tempo ti

avevo già pregato di farlo, ma...»

«Il solo problema di Matilde è una insegnante di supporto che si crede

Anna dei miracoli e le sta addosso come se fosse una handicappata cieca,
muta e sorda.»

«Devo ricordarti che è una bambina down?»
«Al contrario, fai bene. Ogni tanto me lo dimentico, al punto che le

attribuisco paure, bisogni e intelligenza da bambina normale. E le altre
maestre la pensano come me. Immagino che Anna dei miracoli ti abbia
parlato della loro compiacenza per i "comportamenti ludici" di Matilde, e
prevengo la tua domanda successiva: farebbero la stessa cosa con tutte le
sue compagne di classe se avessero attraversato il periodo difficile di
Matilde. Forse non ti sei reso conto di quanto l'abbiamo trascurata e
lasciata sola.»

«Questo lo so benissimo.»
«E allora non dire stronzate.»
«Cosima, se c'è una cosa che non sopporto è la volgarità.»
«Dovrai abituarti. Mi succede spesso di dire cazzo, merda e vaffanculo.»
«È così che affronti i problemi? Col turpiloquio?» si arrabbiò.
«Mi fanno incazzare le persone che vedono i problemi dove non ci sono

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e rompono i coglioni con le loro paranoie.»

«Mi rifiuto di scendere a questi livelli.»
Cosima gli rivolse un sorriso sinistro. «Devi avere una strana

prospettiva: non ti accorgi che sono molto più in alto di te?» Visto che
taceva, soggiunse: «Ti suggerisco la battuta giusta per uscire di scena:
forse sei troppo in alto per me».

Nicola scosse la testa: «Forse siamo su due piani diversi».
«Bravo, è un'ottima variante. E con questo possiamo tornare a tavola.»
Due giorni dopo Alyssa e Attilio andarono a trascorrere il fine settimana

a Santa Marinella con Matilde e Karim. Durante quei due giorni Cosima e
Nicola si erano comportati come una coppia di coniugi separati in casa,
attenti a non lasciar trapelare disagio e malanimo davanti ai figli. Si
rivolgevano la parola educatamente e Cosima andava a lavorare con
enorme sollievo mentre Nicola restava in balia dei più neri pensieri. Non
vedeva l'ora che quel mese di riposo forzato finisse.

Gina approfittò dell'assenza di Matilde per prendersi due giorni di riposo

e il ritrovarsi soli in casa costrinse Nicola e Cosima a gettare la maschera
dell'imperturbabilità.

Nicola fu il primo a cedere. «Non ce la faccio più. Dimmi che cosa devo

fare.»

«Niente. Non puoi cambiare.»
La guardò con una espressione di panico. «Non vuoi più sposarmi?»
«Non sono così masochista. Spero che col tempo mi adatterò ai tuoi

limiti.»

Il sollievo dilagò in ogni fibra del suo corpo. Le rivolse un sorriso

esitante. «Come posso scusarmi? Sono stato un... un coglione.»

«Signor giudice, non sia volgare!» Rise.
«Cosima, voglio cambiare. Conosco i miei limiti, e ti giuro che...»
«Li stai affrontando molto bene.»
Quella notte dormirono nello stesso letto. Non facevano l'amore da molti

giorni, e il ritrovarsi fugò ogni ombra.

«Sono stata male anch'io» ammise Cosima. Stretta a lui, si sentiva come

scampata al peggiore dei pericoli.

La domenica mattina andarono a fare una gita sul lago di Bracciano.

Passeggiarono, presero il sole, mangiarono in una trattoria all'aperto,
passeggiarono di nuovo. Ripresero la strada verso Roma alle prime luci del
tramonto.

Un'ora dopo il cielo rosso si era oscurato per prendere il colore argenteo

della luna piena. Nicola fermò la macchina in una piazzola.

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Cosima guardò in alto. «Quante stelle...» mormorò. «Lo sai? Non mi ero

mai soffermata a guardare la luna.»

Nicola annuì, non osando chiederle perché. In quel momento più che

mai ogni parola, ogni domanda gli sembrava un'insidia.

Cosima abbassò lo sguardo. «È bello essere innamorati» affermò con

voce quasi solenne.

«Mi ami davvero?»
«Sì. Tantissimo.»
«Perché non avevi mai guardato la luna?»
«Non lo so. Forse perché è troppo lontana. Forse perché bisogna

guardarla in due...» Rise. «O forse perché sono terra terra. Anch'io ho i
miei limiti.»

«Sei perfetta.»
«No. Mi manca la fantasia e tendo a ridurre tutto all'essenziale. Elena

dice che ho un'ottima capacità di analisi ma sono troppo frettolosa nelle
sintesi» enunciò seria.

«Ti adoro, Cosima. Sono limiti irrilevanti.»
«Non è vero. Ci sono cose che non si possono spiegare, ma io mi rifiuto

di accettare questa verità. A volte è estenuante, come combattere contro i
mulini a vento.»

«Non combattere contro di me, Cosima.»
«No. Mi sono già arresa.»

XVIII

Interrogata a bruciapelo, Cosima non avrebbe saputo rievocare cosa le

fosse accaduto dieci, sei o quattro anni prima: nella prospettiva della
distanza, tutto si ridimensionava e parecchi anni le sembravano trascorsi
senza lasciare traccia né ricordi.

Ma quel giugno del 2003 si sarebbe impresso indelebilmente nella sua

memoria perché fu un mese fitto di eventi importanti. Nicola riprese
servizio nella nuova sede. I lavori di ristrutturazione del primo piano
ebbero termine e arrivarono i mobili che Cosima aveva scelto. Gina si
trasferì a Frosinone dalla figlia, rimasta vedova con due bambini, e fu
necessario trovare una nuova governante. Attilio, coinvolto da un amico
commercialista, accettò un rapporto di collaborazione con una agenzia
specializzata nella costituzione di società e cooperazioni all'estero.

E Alyssa annunciò, a cose fatte, che con l'aiuto di don Eugenio aveva

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deciso di utilizzare la propria licenza per avviare una attività di vendita a
fini benefici.

Erano a tavola: l'ultima cena tutti insieme prima che Nicola e la figlia

riprendessero possesso della casa ristrutturata al primo piano.

Cosima accolse la notizia con sollievo: non era mai riuscita a vedere sua

madre nel ruolo di ricca signora borghese. «Mi sembra un'ottima idea!»
esclamò. «In che cosa consiste, esattamente, questa attività?»

Alyssa non si fece pregare per dar sfogo al proprio entusiasmo. Avrebbe

dato vita a un nuovo emporio, di dimensioni assai più piccole, ma
ugualmente raffinato, nel quale esporre tutto quanto arrivava dalla
missione di suore cattoliche e di volontarie che da anni operavano nel
Vietnam per togliere dal marciapiede adolescenti e bambine costrette a
prostituirsi. E vi erano riuscite trasformando la missione in un produttivo
centro di lavoro.

«Le ragazze si guadagnano onestamente da vivere grazie a quanto hanno

imparato a fare: ricami bellissimi e borsette che sono vere opere d'arte» si
infervorò Alyssa. «Grazie a me finirà anche lo sfruttamento dei
commercianti che esportavano queste cose pagandole a un prezzo irrisorio.
Io apporrò il mio marchio e destinerò alla missione tutto quello che
ricaverò dalla vendita, detratte le spese. Conto di fare pagare cari questi
capolavori.»

«Mamma, come sempre hai avuto un'idea geniale!» la complimentò

Cosima.

Nicola rifletté qualche istante. «Immagino che dovrai andare spesso in

Vietnam per seguire il lavoro delle ragazze.»

«Non ci penso nemmeno a lasciare Attilio! Manderò qualcuno al posto

mio, con delle direttive precise: voglio che oltre a lenzuola e tovaglie le
ragazze ricamino anche camicette e vestiti da sera. Manderò i modelli e
anche i tessuti.»

«Hai trovato anche le sede del nuovo emporio?» si informò Nicola.
«Attilio mi ha proposto di usare i locali del suo vecchio studio. Vanno

bene così come sono, basterà soltanto un'imbiancata ai muri.»

Cosima vide Nicola oscurarsi. «Papà, forse avresti dovuto parlarne con

me. Avere l'andirivieni di un emporio sullo stesso piano, nell'appartamento
confinante, mi crea qualche problema. Non sei d'accordo, Cosima?»

Alyssa precedette la figlia. «L'emporio non è un supermercato, e

apriremo soltanto dalle dieci del mattino alle sei del pomeriggio. Avresti
avuto più andirivieni con lo studio notarile! Ma, se per voi è un problema,
posso cercare un'altra sede.»

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«Per me va benissimo, mamma. Ma non abito al primo piano e non sono

la padrona dell'appartamento confinante con il vecchio studio.»

«Va bene anche per me» Nicola disse in fretta. Le parole di Cosima

l'avevano allarmato quanto il tono. Si rivolse a lei. «La padrona di casa
sarai tu, e io chiedevo soltanto un chiarimento a tua madre.»

E giugno fu anche il mese in cui, per la prima volta nella sua vita,

Cosima avvertì un sentimento di ostilità nei confronti di Alyssa e mise in
discussione l'incondizionata ammirazione che aveva sempre nutrito per lei.
Si infuriò con se stessa per i sensi di colpa che tutto questo le provocò: e la
conseguenza fu che detestò sua madre che ne era la causa.

L'aggressività esplose il mattino dopo, quando Alyssa scese una rampa

di scale e si presentò, ancora in vestaglia, a casa sua. «Mi offri un caffè?»

«Ti offro tutto quello che vuoi, se la smetti di comportarti come se gli

altri non esistessero» Cosima replicò con voce tremante di collera.

«Sono venuta per questo: ieri sera te ne sei andata senza nemmeno

salutarmi. Se avere il mio emporio nell'appartamento accanto è un
problema anche per te, perché non l'hai detto con chiarezza, come ha fatto
Nicola?»

«Perché ci hai messo di fronte al fatto compiuto e non volevo polemiche

inutili. Non potevi parlarci subito del tuo progetto? Non potevi consultarci
sull'uso dell'appartamento? Ovviamente nemmeno ci hai pensato. Nel
fervore dei tuoi entusiasmi e dei tuoi slanci travolgi tutti come un panzer.»

«Mi dispiace e ti chiedo scusa: ho sbagliato.»
«Sono stanca di difenderti, mamma!»
Lo sguardo di Alyssa si oscurò. «Se ho compiuto delle altre azioni

criminali, dimmelo.»

«Non metterti a fare la vittima, per piacere. Non è da te.»
«Sicuramente no. Ma in questo momento mi sento vittima di accuse che

non riesco a capire. Vuoi essere più precisa? Da chi, e per quale colpa, hai
dovuto difendermi?»

L'ira di Cosima si afflosciò. «Non sei una madre comoda.»
«Questo lo capisco da me. E so bene che non ti riferisci alla mia pelle

nera o al mio essere rimasta "una africana a Roma", come mi prendevi in
giro quando eri ragazzina. Non sono comoda perché ho una personalità
troppo forte, affronto tutto di petto, mi butto a testa bassa contro ogni
ostacolo e non riesco a frenare i miei slanci. Ma devo accettare le mie
radici... di selvaggia: mi sono sempre lasciata dominare dall'istinto e,
diversamente da te, non riesco a riflettere, a essere razionale.»

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«Non ho mai preteso che tu fossi uguale a me, mamma.»
«Lasciami dire. La mia fortuna è avere un istinto sano, ma questo non

rende altrettanto fortunato chi mi vive accanto e si sente travolto dalla mia
irruenza da panzer. Se cercassi di frenare questa irruenza, non sarei più io.
Detto questo, debbo aggiungere che mi rispetto per tutte le cose buone che
sono riuscita a fare. Non pretendo riconoscimenti, ma esigo lo stesso
rispetto anche dagli altri. E soprattutto da te: è un'altra ragione per cui sono
una madre scomoda. Capisco che non ti sia sempre facile accettarmi! Non
è facile nemmeno per me avere una figlia che non ha mai messo un vestito
rosso, mai perso la testa, mai... Però sono fiera di te. Sei il mio capolavoro.
Avanti, non fare quella faccia. Ogni tanto fa bene sfogarsi.»

«Non so che cosa mi ha preso... Io sono diversa da te soltanto perché

non ho la tua forza e ho paura di...» La voce si strozzò in un groppo di
pianto. «Sono stanca di avere paura, mamma.»

Alyssa allargò le braccia. «Vieni qui.»
Due giorni dopo, con grande diligenza, Alyssa chiese a Cosima se

poteva mettersi in contatto con Sabrina Nardi: voleva offrirle un lavoro nel
suo nuovo emporio: gratificante e retribuito quanto bastava per strapparla
alla sua vita di prostituta. Cosima fece ciò che non aveva mai fatto:
istintivamente, e senza riflettere, approvò questa decisione.

Giugno fu il mese in cui arrivò, mandata da un'agenzia, la sostituta di

Gina. Era una giovane donna sui trent'anni. Si chiamava Lidia, si era
sempre occupata di bambini e aveva ottime referenze.

A Nicola piacquero la sua efficienza, i suoi modi garbati, il suo sguardo

attento, ma volle che fosse Cosima a decidere la sua assunzione.

Cosima dovette concordare con questo giudizio positivo. Tuttavia c'era

qualcosa, nella donna, che non la convinceva: lo sguardo troppo attento?
Un che di studiato nel modo pacato di parlare e di porgersi? Portava i
capelli, chiari e folti, arrotolati dietro la nuca come Grace Kelly ai tempi in
cui era la regina di Hollywood. Nel suo stesso modo di vestire si notava
una accurata ricerca della sobrietà.

Fu Mario a dar corpo alle sensazioni di Cosima. «Quella Lidia sembra

un'attrice che deve fare la parte della governante perfetta. Ieri era in cortile
con Matilde e mi sono nascosto dietro a una pianta per sentire quello che le
diceva: le ha fatto un sacco di domande, sembrava un questurino.»

Una settimana dopo fu la madre di Karim a esprimere le sue perplessità:

«La nuova governante mi sembra un po' strana. Lo sai che ha mandato via
mio figlio quando è andato a giocare con Matilde?».

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Alyssa fu molto più esplicita. «Quella donna ha trovato la mecca in casa

di Nicola e si serve della bambina per rendersi indispensabile. La tratta
come una poppante, tutta abbracci e carezzine, e Matilde le sta sempre
attaccata.»

Cosima ne ebbe la prova un sabato pomeriggio, quando Matilde rifiutò

di uscire con lei e Nicola aggrappandosi a un braccio di Lidia. «Tu non mi
vuoi bene» le disse.

Quando salirono in macchina fu Nicola, imbarazzato, a rompere il

silenzio. «Spero che non farai caso a un capriccio da bambina.»

A quel punto Cosima vinse ogni esitazione. «Come tutti, nel palazzo,

credo che Lidia abbia una cattiva influenza su Matilde.»

«Non sapevo che il palazzo fosse abitato da psicologi.»
«Nicola, lascia stare il sarcasmo. Lo sai che tua figlia ha smesso di

giocare con Karim, non si ferma più a parlare con Mario e quando vede...»

«Queste sono chiacchiere da cortile.»
«Ti sembra normale che passi tutto il tempo libero appiccicata a quella

donna?»

«Forse perché è la sola che si occupa a tempo pieno di lei.»

Accorgendosi che la frase poteva essere male interpretata, aggiunse subito:
«Mi sembra positivo che si sia affezionata alla sua governante. E anche
comprensibile: Lidia è molto affettuosa e protettiva con lei».

Giugno fu il mese in cui Sabrina Nardi lasciò la casa di sua madre e

iniziò una nuova vita iscrivendosi a un corso di formazione professionale:
non sapeva nulla di vendite e di contabilità, spiegò a Cosima, e voleva
arrivare preparata all'apertura dell'emporio. Sabrina si era innamorata di
Alyssa con l'estatico fervore dell'ateo che è stato illuminato dalla Fede.
Alyssa era la sua salvezza, una persona miracolosa nella quale vedeva
quasi la materializzazione di Dio.

Sempre in quel mese, il Messaggero dedicò una pagina alla nuova

attività di Alyssa Calangida: chiuso il famoso emporio, ne apriva un altro a
scopi benefici. In via eccezionale Alyssa aveva accettato di incontrare una
giornalista del quotidiano per parlare delle suore e delle volontarie che, nel
lontano Vietnam, avevano trovato un modo tanto ingegnoso quanto
semplice per battersi contro lo sfruttamento sessuale: e l'articolo si
soffermava a descrivere "il laboratorio del ricamo" sorto nella missione, i
piccoli capolavori che uscivano dalle dita delle ragazzine.

Alyssa li avrebbe esposti e venduti, restituendo alla missione tutto il

danaro ricavato. L'attività del nuovo emporio sarebbe stata inaugurata con

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un ricevimento per pochi, ma "selezionatissimi" invitati.

L'articolo ricostruiva anche il passato e la storia di Alyssa fino al suo

matrimonio con il notaio Attilio Argenzi, padre di un noto magistrato che
proprio in quelle settimane era stato trasferito nella capitale.

Nicola toccò con mano la popolarità di Alyssa quando i colleghi gli

chiesero, a nome delle mogli, se era possibile avere un invito per
l'inaugurazione.

E giugno fu, infine, il mese in cui Cosima e Nicola decisero di rinviare il

matrimonio.

Nicola, sia per natura sia per il lavoro che svolgeva, non si lasciava mai

influenzare da critiche o opinioni che non fossero basate sui fatti.

Il suo giudizio su Lidia era positivo perché era riuscita a conquistare

l'affetto di Matilde, si prendeva cura di lei, si preoccupava che studiasse e
sapeva conciliare molto bene la tenerezza con il senso della disciplina.
Non bastasse, da quando c'era lei anche l'organizzazione domestica
funzionava in modo egregio. Cosima, giustamente, non intendeva
abbandonare il proprio lavoro: ed era certo che dopo il matrimonio si
sarebbe ricreduta su Lidia, apprezzando quanto lui l'enorme aiuto che dava
facendosi carico della bambina e della casa.

Si rammaricava soltanto che, nel frattempo, continuasse a comportarsi

come se quella ragazza fosse una nemica da cui guardarsi. Non conosceva
nessuno così libero da pregiudizi e malanimo come Cosima, e lo stupiva
vederla irrigidirsi al solo sentire nominare Lidia. Si rifiutava persino di
entrare in casa – quella che sarebbe stata anche la sua casa – pur di non
incontrarla.

«Ti rendi conto che la vera vittima dei tuoi pregiudizi è Matilde?» sbottò

una sera. «Praticamente, non la vedi più!»

«Preferisco non parlarne» Cosima rispose. La sua voce era triste quanto

l'espressione del suo viso.

Nicola decise di intervenire prima che si creasse una preoccupante

frattura tra lei e sua figlia. Al mattino dopo andò a svegliare la bambina.
«Oggi facciamo una bella sorpresa a Cosima: andiamo al mare. Forza,
alzati.»

«Viene anche Lidia?»
«No. Soltanto io, te e...»
Matilde non gli diede il tempo di finire la frase. «Con Cosima io non ci

voglio venire» disse.

Nicola la fissò stupito: «Ma che cosa dici? Cosima è la tua amica. Ti

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vuole bene».

La bambina scosse furiosamente la testa. «È cattiva e vuole mandare via

Lidia.»

Ecco i bei risultati di quella assurda guerra, Nicola pensò amaro. «Lidia

resterà sempre con te, te lo assicuro.»

«Non è vero! Quando ti sposerai con Cosima, lei la caccerà via e io

andrò in collegio!»

Nicola sobbalzò. «Chi ti ha detto queste sciocchezze?»
La figlia lo guardò con una espressione disincantata e adulta che lo

stravolse. «Lo so io. Cosima è cattiva» ripeté cocciutamente.

Un campanello d'allarme squillò. «Mi vuoi spiegare perché?»
«Vuole diventare la padrona e mi manderà via per restare sola con i suoi

bambini brutti e neri come Alyssa. Alyssa non è la mia nonna, lo sai?»

Nicola la guardò, terreo. Si alzò di scatto.
«Dove vai?»
«Devo parlare con Lidia.»
«No! Lei si arrabbia, questo era il nostro segreto!»
Lidia stava spiando dietro la porta e Nicola la afferrò per un braccio

prima che si potesse allontanare. «Le do dieci minuti di tempo per
raccogliere le sue cose e andarsene.» Fece ricadere il braccio. «Quello che
ha detto a mia figlia è infame.»

Sul viso della donna comparve una maschera di odio. «Mi dispiace per

lei. Un giorno aprirà gli occhi e capirà di essere stato circuito da una mezza
negra indegna di lei.»

Nicola dovette farsi violenza per non schiaffeggiarla. «Se ne vada»

sibilò.

«Voglio salutare Matilde.»
«Stia lontana da mia figlia. Troverà in agenzia il suo assegno con quanto

le è dovuto.»

Tornò nella stanza della figlia. La bambina era seduta sul letto con la

testa tra le ginocchia.

Si sedette accanto a lei e se la strinse contro. «Lidia ti ha raccontato un

sacco di bugie, amore. Tu sei la cosa più importante per il tuo papà. Credi
che potrei vivere senza di te? Mandarti via da qui?»

Matilde sollevò la testa. «È lei che vuole così.»
«Lei è Cosima. Hai dimenticato che è tua amica?»
«Non è vero. Gliel'ho detto tante volte che non voglio vederla più perché

è un'imbrogliona. E anche Alyssa.»

«Oh, no...» Nicola gemette.

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«Io non voglio i fratelli neri. Sono cattivi e mi picchiano. Quando

nascono mi rubano anche l'acquario.»

«Queste sono le bugie che Lidia ti ha detto! Lei sì che è cattiva, perché è

razzista. I razzisti sono le persone che odiano la gente con il colore della
pelle diverso, o quelli che vengono da un Paese lontano perché nel loro
non hanno neppure un pezzo di pane da mangiare. Se tu andassi in un
posto dove ci sono soltanto dei neri o dei gialli o dei rossi, ti piacerebbe
sentirti cacciare o maltrattare o accusare di essere cattiva perché sei
bianca? Gli uomini sono come i fiori di Mario, hanno tanti colori diversi e
dovrebbero stare bene insieme, proprio come i fiori in un bel mazzo
colorato. I razzisti sono poco intelligenti perché non lo capiscono. E sono
anche molto cattivi perché raccontano tante bugie come Lidia.»

Nicola cercava tra sé le parole più semplici per far capire a sua figlia

queste verità, ma la piccola era stata infestata dal veleno di Lidia e implorò
tra sé che non fosse troppo tardi per rimediare.

Il timore di farsi condizionare dal giudizio degli altri lo aveva reso cieco

e sordo. In qualche modo, Lidia era riuscita a manipolare anche lui
instillandogli il dubbio che Cosima fosse animata da assurdi pregiudizi.

Si schiarì la voce e proseguì: «Qualche volta si può essere arrabbiati o

anche odiare una persona, ma soltanto se ti ha fatto del male. Pensa a
Cosima, a nonna Alyssa: sono state cattive con te? Ti hanno picchiato? Ti
hanno cacciato dalla loro casa?».

«No...»
«E allora perché tu vuoi essere cattiva con loro? Ti sembra giusto?»
«Non lo so...» Era, chiaramente, molto confusa.
«Adesso alzati e va' a vestirti. Io ti preparo la colazione.»
«Lidia non torna più?»
«No. Io non posso vivere con una donna razzista, amore.»
«E Cosima viene ad abitare qui?»
«Soltanto se lo vuoi tu.»
Mentre Matilde andava in bagno, Nicola telefonò a Cosima e le

raccontò, brevemente, quanto era accaduto. «Sono stato un idiota e ancora
una volta devo scusarmi con te.»

«Temo che non sarà l'ultima» fu il commento di Cosima. «Ma avrò tutto

il tempo per verificarlo, perché di sicuro non posso sposarti o entrare a
casa tua fino a quando Matilde mi considererà una nemica.»

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XIX

Luglio iniziò con una piacevole sorpresa: al licenziamento in tronco di

Lidia seguì una telefonata di Gina. La convivenza con la figlia si era
rivelata estenuante e rissosa: se avessero avuto ancora bisogno di lei,
sarebbe ritornata subito.

Tornò il giorno seguente, e la sua reazione nel rivedere Matilde turbò

Nicola perché sottolineava i guasti che Lidia era riuscita a compiere nelle
quattro settimane della sua presenza.

«Dottore» Gina gli chiese dopo il primo giorno «che cosa è successo alla

bambina? Sembra spaventata, non ride più, non ha voglia di fare niente.»

Nicola le raccontò quanto infelice fosse stata l'esperienza con Lidia.
«La signorina Cosima che cosa dice?»
«È preoccupata quanto me.»
«È strano che non si sia accorta subito di quello che succedeva: è molto

brava a capire le persone, è il suo lavoro.»

Col suo buonsenso, Gina aveva fatto centro. «Cosima se ne era accorta:

purtroppo io non le ho dato ascolto» Nicola ammise lealmente.

«Be', la capisco. Mario mi ha confessato che agli inizi anche io ero

giudicata male.»

«Non da Cosima.»
Cosima non sbaglia mai, si disse più tardi mentre prendeva l'ascensore

per raggiungerla. Non si vedevano da due giorni, e parlarono soltanto di
Matilde. Presto sarebbe arrivato il grande caldo, e non avevano ancora
affrontato il problema delle sue vacanze: Nicola non aveva più ferie e
Cosima non riteneva opportuno imporre alla bambina la sua presenza.

Decisero così di mandarla con Gina a Santa Marinella, dove una vecchia

e affezionata cliente di Alyssa gestiva un albergo. La donna aveva due
figlie di otto e dieci anni che Matilde già conosceva e con le quali andava
molto d'accordo: anche il problema della compagnia era risolto.

Nei giorni che precedettero la partenza, Cosima compì con molto tatto

qualche tentativo per avvicinare la bambina: Matilde non la respinse, ma
restò sulle difensive limitandosi a rispondere a monosillabi alle sue
domande. Il viaggio per Santa Marinella fu penoso, perché tacque per tutto
il tempo. Quando Gina le aveva chiesto se non era contenta di andare al
mare e di rivedere le sue amichette, Matilde aveva detto: «Sì. Sono
contenta anche di non vedere lei» indicando Cosima col dito.

Nicola era avvilito quanto Cosima. Alla sera si ritrovavano a casa di lei:

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finalmente potevano stare di nuovo soli, chiacchierare, addormentarsi nello
stesso letto. Ma, anziché gioirne, sentivano il disagio di una intimità che
non corrispondeva al loro stato d'animo. Erano state le circostanze a
renderla quasi obbligatoria, e non potevano sottrarsi neppure all'obbligo di
viverla.

Cosima si dilungava in cucina per preparare la cena e si sedeva a tavola

preoccupata soltanto di tenere viva la conversazione. Era terrorizzata dalle
pause perché nel silenzio, non più coperto dalle loro voci, vibravano tutte
le tensioni e i problemi inespressi.

Dopo cena andavano a sedersi davanti al televisore: una volta scelto un

programma lo seguivano con ostentato interesse. Cambiare canale
significava ammettere che si stavano annoiando e correre il rischio di
dover spegnere la tv se non fossero riusciti a trovare un programma
migliore: di che cosa avrebbero parlato?

Quando arrivava l'ora di andare a letto Cosima si dilungava in bagno

sperando di trovare Nicola addormentato. Invece la aspettava smanioso di
prenderla tra le braccia per spezzare quel muro di tristezza. E lei si lasciava
stringere, baciare e accarezzare fino a quando non si inarcava contro
Nicola con la frenesia di essere presa. E mentre i loro corpi si
riconoscevano e si scioglievano nell'estasi del piacere, in un soprassalto di
lucidità la mente di Cosima si estraniava da quell'estasi. Si udiva gemere, e
si osservava contorcersi e godere come se fosse un voyeur di se stessa.

Nicola raggiungeva l'acme con un urlo soffocato simile a un singhiozzo

e dopo una lunga, silenziosa immobilità, si staccava lentamente da lei. In
quel momento le due parti di Cosima si ricongiungevano e anche il suo
corpo sprofondava nella tristezza.

Cosima non sopportava la tristezza. Era estranea alla sua natura e la

considerava, al pari della malinconia, uno stato d'animo coltivato con
compiacimento nell'assenza di problemi reali: non aveva mai visto una
persona disperata, affamata o impaurita essere triste. E detestava sentirsi
così. Tra lei e Nicola esisteva un problema reale causato dal suo
intestardirsi a non buttare Lidia fuori di casa quando tutti cercavano di
aprirgli gli occhi.

E una sera, quando il corpo di Nicola si staccò dal suo, Cosima si vietò

di voltarsi da una parte, fingere di dormire e sprofondare nella tristezza.
Accese la lampada sul comodino e prese un libro.

«Non hai sonno?» Nicola le chiese.
Nella sua voce Cosima avvertì una sottile vibrazione di paura, e gioì per

l'ira che sentì dilagare dentro di lei. Finalmente uno stato d'animo che le

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era familiare. La lasciò montare senza contrastarla. Per quanto tempo
ancora Nicola intendeva vigliaccamente eludere la realtà?

«No. Non ho sonno» abbaiò.
Nicola restò per qualche istante in silenzio. «Vedrai che tutto si

risolverà» disse in un sospiro.

«Con un viaggio a Lourdes?»
«Cosima, non è da te drammatizzare.»
«Sai almeno di che cosa parli?»
La guardò quasi offeso. «Certo! Sei molto amareggiata per Matilde.

Credi che non ti capisca? Lo sono anch'io. Il suo atteggiamento ostile è un
ostacolo che non avevamo previsto e ci ha costretto a rimandare il
matrimonio. Ma è soltanto una bambina.»

«Una bambina manipolata e plagiata.»
«Non ti sembra di esagerare? Quella Lidia, dopotutto, è stata con lei

meno di un mese: non sottovaluto la pessima influenza che ha avuto, ma
escludo che abbia fatto dei danni irreversibili.»

«Hai guardato tua figlia negli occhi? Quella luce disincantata e

impaurita, da adulta, non sparirà più! Lidia si è insinuata nel suo mondo di
affetti togliendole la sicurezza e la fiducia. Le ha insegnato a difendersi: è
una lezione che non si dimentica, soprattutto se si hanno sette anni e una
mente che assorbe tutto, trattiene tutto.»

«Mi dispiace.»
«Non sai dire altro? L'aggressività di Matilde verso di me non è un

ostacolo imprevisto, ma un problema che hai creato tu. Colpevolmente.
Per la tua testardaggine, la tua noncuranza dell'opinione degli altri, la tua
presunzione di essere un giudice infallibile!»

«Questo è ingiusto.»
«È la verità. E potrei dirtene altre ugualmente sgradevoli.» Fece una

pausa. «Nicola, io voglio sposarmi per avere una famiglia serena e non per
aprire un nuovo fronte di combattimento nella mia vita.»

«Stai dicendo che tra noi è finita?»
«No. Ma per il momento lasciamo le cose come stanno senza pensare al

matrimonio. Questo mi renderà più facile anche seguire Matilde e cercare
di...»

«Non ho bisogno di una governante. Se non vuoi sposarmi, preferisco il

taglio netto a un compromesso che potrebbe durare chissà quanto» disse
con voce dura.

«Se è questa la tua decisione, non mi resta che accettarla. Spero che non

voglia impormi il taglio netto anche con Matilde.»

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«Sei tu che hai deciso tutto! Ho creato un problema enorme, adesso l'ho

capito: ma invece di aiutarmi, prendi le distanze e scappi.»

«Prendo le distanze da un matrimonio che in questo momento ci darebbe

soltanto altri problemi.»

«Sai qual è il tuo vero problema? Hai paura di tutto. Persino di guardare

la luna!»

Chi è mio padre? Che cosa fa? Dove si trova adesso? Cosima se lo era

chiesto per la prima volta attorno ai dodici o tredici anni, e forse per questo
si era arresa subito all'impossibilità di darsi le risposte: aveva ormai
superato l'età delle favole e delle curiosità infantili ed era grata a sua
madre per non aver mai inventato una figura paterna dai contorni
rassicuranti o eroici. Suo padre non aveva volto, non aveva storia: era
inesistente. E perciò non si era mai più interrogata su di lui.

Ma non sottovalutava il danno in sé, ossia le ripercussioni negative del

sapersi, lei stessa, inesistente per l'uomo che l'aveva generata. Ne portava i
segni, e sicuramente non soltanto nel colore della pelle: ma ignorava quali
altri geni le fossero stati trasmessi dal ramo paterno. Era la parte bianca di
sé: ignorata dal padre, estranea a quella della madre, senza riferimenti né
storia.

Tutte le sue paure derivavano da qui. Quali malattie, quali fragilità, quali

inclinazioni erano "stampate" nel suo identikit genetico? Non lo sapeva. E
fin da ragazzina aveva imparato a difendersi dalla mina vagante di impulsi,
reazioni e vulnerabilità che non poteva razionalizzare.

L'ultima, penosa lite con Nicola le aveva aperto gli occhi: stare con lui la

confondeva, la impauriva, la faceva sentire senza difese. Rientrata in se
stessa, rifiutava nuovamente il salto nel buio. Non voleva la luna, ma un
uomo affidabile e rasserenante che la riconciliasse con il genere maschile.
Si era innamorata di Nicola perché aveva queste doti: ma la passione per
lei aveva travolto e impaurito anche lui.

Fu quanto gli spiegò due sere dopo, quando Nicola venne a cercarla

dicendo che non poteva stare lontano da lei e che le avrebbe dato tutto il
tempo che voleva. La lasciò parlare senza interromperla, sempre più scuro
in volto. Alla fine esplose: «Queste sono masturbazioni cerebrali! Tu sei
pazza e masochista!».

Una settimana dopo, mentre stava aprendo la porta di casa, Nicola vide

uscire da quella dell'appartamento accanto una ragazza in jeans e camicetta
bianca, coi capelli color fiamma stretti in una coda di cavallo. La

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riconobbe subito: era Sabrina Nardi, la sorella di Fabrizio. Si fissarono per
qualche istante in silenzio, lei visibilmente a disagio e lui sbalordito.

«Che cosa fa qui?» Nicola chiese brusco.
«Ho messo in ordine gli scaffali di Alyssa... Stiamo preparando

l'emporio.» Balbettava, quasi.

«Stiamo?»
«Lavorerò con lei.»
«Cosima lo sa?» chiese di getto.
Sabrina lo guardò impaurita. «Sì, certo. È stata lei a darmi una mano...

Ho deciso di cambiare vita, signor giudice» aggiunse coraggiosamente.

«Auguri.» Le voltò le spalle ed entrò in casa. Dopo l'ultimo scontro,

Nicola si era difeso dalla sofferenza della rottura cercando ogni appiglio
per convincersi che Cosima non era la donna adatta a lui. Troppo
complicata, troppo rissosa, troppo imprevedibile. In un attacco di furia, era
consapevolmente ricorso a una meschinità liberatoria: peggio per lei, si
accorgerà dello sbaglio fatto, nella sua strada non incontrerà facilmente un
uomo disposto a sposarla e ad avere dei figli neri.

L'incontro con Sabrina Nardi gli offrì un concreto motivo per detestare

Cosima senza vergognarsene: era uguale a sua madre, spericolata e senza
alcun senso delle convenienze. Fare lavorare quella ragazza nell'emporio
era una provocazione. E una mancanza di rispetto nei suoi confronti:
perché nessuno gliene aveva parlato? Cosima non si era resa conto del
disagio e dei problemi che gli creava il ritrovarsi con la sorella di Fabrizio
Nardi nella porta accanto? Esistevano altri modi per aiutarla, se proprio
volevano farle cambiare vita. Ma Alyssa e sua madre erano sconsiderate
anche nella generosità.

L'ultimo sabato di luglio andò a Santa Marinella a trovare sua figlia e

con grande sorpresa vi trovò Cosima. La sera prima lui aveva telefonato a
Gina avvertendola che sarebbe rimasto a Roma per sbrigare delle pratiche:
evidentemente Cosima ne era stata informata, e poteva incolpare soltanto
se stesso per avere cambiato programma all'ultimo minuto.

Matilde era abbronzata e aveva un'espressione distesa. Suo malgrado fu

felice di vederla meno rigida anche con Cosima: le rivolgeva la parola, la
ascoltava. E le permise di dirigere una gara di tuffi in piscina con le figlie
della proprietaria dell'albergo.

«Ho visto Sabrina Nardi nel vecchio studio di mio padre» Nicola disse a

Cosima quando la gara finì e lei tornò a sedersi nella sdraio accanto.

«Spero che mia madre riesca a coinvolgerla nell'attività del nuovo

emporio.»

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«Avresti potuto parlarmene.» Suo malgrado, Nicola non riuscì a celare

la nota polemica.

Cosima fece un gesto vago, come a dire che non aveva importanza. «Mi

proponevo di farlo, ma poi...»

«Ti proponevi? Non ti è nemmeno venuto in mente che la presenza di

quella ragazza poteva crearmi qualche fastidio?»

Cosima lo guardò dritto negli occhi. «Il tuo fastidio mi è evidentemente

parso irrilevante rispetto alla possibile salvezza di Sabrina. Credo che tu
conosca la sua storia.»

«Recrimino soltanto che non mi abbia informato. Ma perché mi

stupisco? Tu e tua madre siete abituate a decidere e a vivere come se gli
altri non esistessero. Siete identiche» aggiunse con l'intenzionale scopo di
ferirla e di ferire se stesso. Stava usando le parole come un boomerang.
Aveva perduto Cosima ed era in balia di una dissennata furia distruttrice.
Aspettò che reagisse. Invece Cosima si alzò di scatto e tornò in piscina con
le bambine.

Una delle peculiarità di Cosima era il sapersi mettere in discussione

senza accanimento autopunitivo e senza compiacimenti assolutori: nei
momenti di confusione usava l'autocritica come una bussola per orientarsi
verso la chiarezza. Dando per scontato di non essere infallibile, metteva in
discussione i suoi comportamenti, i suoi giudizi, le sue scelte per capire se
una situazione negativa o un problema fossero da imputare a un suo
sbaglio.

Fu quanto Cosima fece al ritorno da Santa Marinella. Perché si era

infuriata per il risentimento di Nicola? Le sue accuse erano identiche a
quelle che lei stessa aveva rivolto a sua madre: la mancanza di rispetto per
le esigenze degli altri, le decisioni prese impulsivamente e senza valutarne
le conseguenze. La salvezza di Sabrina veniva al di sopra di tutto, ma era
innegabile che la sua vicinanza creasse dei problemi a Nicola.

La tragedia di Fabrizio Nardi aveva fatto di lui "l'uomo più detestato

d'Italia". E il rispetto per il silenzio di Sabrina, la sola che avrebbe potuto
difenderlo, gli era costato amarezze e accuse devastanti. Cosima era certa
che nonostante tutto questo non si sarebbe opposto al tentativo di
recuperarla: ma aveva il diritto di esserne informato. Ed era stato scorretto
e imperdonabile non farlo.

Arrivata a quella conclusione, Cosima decise di scusarsi con lui. Gli

telefonò la sera dopo, nell'ora in cui presumibilmente era tornato a casa.
Nicola la lasciò parlare e alla fine le disse asciutto che apprezzava il suo

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gesto, ma non si illudeva che cambiasse qualcosa: da quando si
conoscevano, non facevano che fraintendersi, accusarsi, chiedersi scusa.

Nicola era passato dallo stato di grazia della passione all'euforia di

scoprirsi, d'un tratto, più forte di Cosima. I ruoli all'interno della coppia si
erano capovolti: adesso toccava a lui decidere, negare, concedere: e aveva
la certezza che Cosima avrebbe accettato tutto perché, finalmente, si era
arresa.

Colpevolizzata e avvilita per essersi spinta troppo oltre, non aspettava

che riprendere la loro storia: molti segnali inequivocabili gli davano questa
certezza. Ma non poteva correre il rischio di essere attaccato di nuovo. Gli
costava molto restare lontano da Cosima, ma era una scelta che aveva fatto
lui e, per questo, la soglia della sofferenza si era abbassata: non c'erano più
rabbia, impotenza, frustrazione. Nel momento in cui la sofferenza si fosse
fatta insostenibile, si sarebbe riavvicinato a lei. Nel frattempo non
intendeva più simulare niente né sopportare niente: i ruoli si erano invertiti
per sempre.

XX

Durante il mese di agosto tutta la scala B partecipò ai lavori di

allestimento del nuovo emporio: il padre di Karim costruì le scaffalature e
gli espositori; il fotografo del terzo piano ricavò dalle immagini inviate
dalla missione alcune suggestive gigantografie da usare come pannelli:
mostravano emblematicamente la violenza, il degrado e la rinascita delle
ragazzine vietnamite; l'inquilino del quarto piano, proprietario di una
tipografia, stampò gli inviti per l'inaugurazione e un dépliant che illustrava
le finalità e le peculiarità dell'emporio; l'inquilina del quinto e le sue due
figlie, che gestivano una tintoria, provvidero a lavare e a stirare
accuratamente le tovaglie, le lenzuola, i tendaggi e tutti i "capolavori"
ricamati giunti dal Vietnam per essere messi in vendita.

Mario e i due ragazzi che abitavano al sesto piano tinteggiarono le

pareti. Della pulizia generale si sarebbero fatte carico le tre donne che
lavoravano come domestiche presso le famiglie della scala B. Tutti
sacrificarono le loro ferie per collaborare con Alyssa.

Sabrina Nardi, che aveva vissuto in uno stabile fatiscente dove l'omertà

era regola e farsi i fatti propri il massimo valore morale, dapprima si chiese
perplessa che cosa ci guadagnassero a lavorare tanto: diversamente da lei,

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erano persone perbene che non avevano bisogno di nulla. La sola
spiegazione che poteva darsi era l'amore per Alyssa: anche lei si sarebbe
buttata nel fuoco per quella donna eccezionale.

Ma col trascorrere dei giorni Sabrina capì che l'aiuto andava oltre la

prova d'affetto: era una mobilitazione dettata dalla generosità,
dall'impegno, dall'amore per il prossimo. Il "guadagno" era la gioia di
lavorare insieme e condividere l'entusiasmo di Alyssa.

Tutti sapevano che, fino a un mese prima, si era prostituita, eppure la

trattavano amichevolmente, come se fosse una di loro. Aveva scoperto un
mondo nuovo, e le era stato consentito di entrarvi: il massimo della
felicità.

«Non devi darmi tutti quei soldi per farmi lavorare con te» una mattina

disse ad Alyssa. «Non li voglio più: basta che mi fai guadagnare i soldi per
mangiare e pagare l'affitto.»

Alyssa rifletté qualche istante. «D'accordo» le disse con un sorriso.
Sabrina la guardò con estatica gratitudine: non l'aveva trattata come una

prostituta, non la considerava più una povera ragazza da salvare offrendole
in cambio dei soldi. Da quel momento apparteneva davvero al suo stesso
mondo.

Due giorni dopo Mario le propose di trasferirsi nel palazzo: dopo la

morte della moglie l'appartamento annesso alla portineria era troppo
grande per lui e poteva cederle una stanza e l'uso della cucina.

Sabrina accettò, ponendo però come condizione di poter pagare un equo

affitto: e Mario, dopo essersi consultato con Alyssa, accettò.

Dopo ferragosto Matilde tornò da Santa Marinella: e l'appartamento

accanto al suo, con le porte spalancate e un andirivieni di persone che vi
lavoravano e vi trasportavano oggetti, la affascinò subito come un teatro.

Mentre Gina svuotava le valigie e metteva in lavatrice la roba sporca,

Matilde si sedette sul gradino del pianerottolo per godersi lo spettacolo di
quell'andirivieni.

Fu Sabrina ad accorgersi della bambina e del suo sguardo incuriosito

fisso su di lei. «Se vuoi entrare, c'è lavoro anche per te» le disse
tendendole la mano. «Che cosa sai fare?»

«Le pitture e i disegni sui mobili. Anche con le pietrine colorate.»
«Benissimo!» Sabrina le mostrò due pannelli di compensato appoggiati

contro la parete: «Dipingili come vuoi».

Matilde ritrovò l'entusiasmo di quando scendeva in cortile per aiutare

Alyssa a "personalizzare" i vecchi mobili di Attilio. Ma, a differenza di
allora, non aveva la scuola e perciò poteva trascorrere tutta la giornata nel

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vecchio studio del nonno.

Nicola non osò protestare, sia perché gli allargava il cuore vedere di

nuovo la figlia interessata a qualcosa, sia perché non voleva suscitare una
inutile polemica con Cosima. La certezza di poter riprendere la loro storia
nel momento in cui lo avesse voluto cominciava a incrinarsi: Cosima si
comportava con la gentilezza di una vecchia amica troppo occupata per
coltivare il rapporto: quando lo incontrava lo salutava e si fermava a
scambiare due parole, e questa disinvoltura lo turbava come un segnale
d'allarme.

Sua figlia, senza rendersene conto, stava vivendo l'identica crisi.

Cosima, volutamente, non aveva più fatto alcun tentativo per abbattere il
muro di ostilità e diffidenza e aveva pregato Alyssa di fare altrettanto.

Si avvicinava a lei dandole un buffetto sulla guancia e

complimentandosi per i bei disegni che faceva, ma non si fermava mai a
parlare, non la invitava mai a casa sua come faceva con Sabrina. E Matilde
cominciò a essere gelosa di quella "intrusa" che era venuta ad abitare nel
palazzo e le aveva portato via l'affetto di tutti. Alyssa si occupava soltanto
di lei; Cosima la abbracciava sempre e non faceva che chiederle "come
stai? Va tutto bene?"; Mario le rivolgeva un sacco di complimenti e
persino Karim la trascurava per stare con lei.

Alla sera, quando i lavori finivano, Matilde tornava da Gina

struggendosi di gelosia per Sabrina che invece andava a mangiare, con tutti
gli altri, a casa di Alyssa.

Nicola si accorse dell'improvviso cambiamento della figlia e gliene

chiese la ragione.

«Cosima e nonna Alyssa non mi vogliono più bene» fu la spiegazione.
Quel nonna Alyssa gli fece dimenticare per qualche istante ogni

preoccupazione. Da quanto tempo sua figlia non chiamava più così la
moglie di suo padre?

«Credo proprio che ti sbagli.» Le sorrise.
Matilde fece di no con la testa. «Cosima non è più la mia amica.»
«Vuoi dire che non è buona con te?»
«È più buona con Sabrina. Adesso è la sua amica.»
Nicola prese la bambina in braccio. «Forse Cosima è dispiaciuta con te:

ti ricordi quante volte le hai detto "sei cattiva", "vattene", "non ti voglio
nella mia casa"?»

«Mi ero sbagliata.»
«E allora devi dirglielo e chiederle scusa.»
Matilde si schermì. «Mi vergogno. Diglielo tu...»

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L'occasione per farlo si presentò la mattina dopo. Uscendo di casa,

Nicola si trovò di fronte a Cosima che stava arrivando in ascensore con un
grande tappeto arrotolato.

«Posso aiutarti?» si offrì. Senza aspettare la risposta prese il tappeto e

attese che Cosima aprisse la porta.

«Posalo pure qui» lei gli disse.
«Dovrei parlarti.» Prima che potesse fraintendere, Nicola aggiunse:

«Matilde è in crisi: non sa come dirti che vorrebbe essere di nuovo tua
amica».

«Oh, oh.» Gli rivolse un sorriso divertito. «A quanto pare, la strategia

dell'indifferenza ha funzionato.»

«Si sente trascurata ed è molto gelosa di Sabrina. Mi fai entrare?»
«Sì, certo.» Lo guidò attraverso scatoloni, cavalletti e tavoli di lavoro

fino a due poltroncine contro la parete di fronte. «Oggi arriveranno i
ragazzi di don Eugenio per aiutare a fare un po' di ordine. Sono contenta di
quello che mi dici di Matilde.»

«Anch'io.» La guardò. «Forse avevi sopravvalutato l'influenza negativa

di Lidia.»

«Purtroppo no. Matilde ha conosciuto troppo presto la diffidenza e la

paura, ma adesso che non mi rifiuta più posso cercare di allentare i suoi
meccanismi di difesa.»

«Le vuoi ancora bene, vero?» Nicola chiese.
Dietro l'infantile interrogativo Cosima percepì la nota d'ansia. «L'affetto

non è un interruttore o un rubinetto che si può chiudere a comando. Che
domanda è? Mi sono imposta di trascurare Matilde soltanto per farle capire
che non doveva avere paura di me, che non era obbligata a subire la mia
presenza.»

Nicola annuì. «Anch'io ho usato una strategia con te: ma senza grande

successo.» Abbozzò un sorriso.

«Non me n'ero accorta! Quale sarebbe?»
«Volevo rendermi prezioso. Farti capire che cosa stavi perdendo e

costringerti a...»

«Qualcosa tipo "in amor vince chi fugge"?»
«Sono stato patetico.»
«È una strategia abbastanza praticata. Ma ogni tanto chi fugge dovrebbe

voltarsi indietro per controllare di essere sempre inseguito.»

Non ebbe il coraggio di chiederle se l'aveva perduta nella sua stupida

corsa.

Cosima gli sorrise di nuovo. «In ogni caso il fuggitivo ha una possibilità:

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tornare sui suoi passi e mettersi alla ricerca della persona che si è stancata
di inseguire. Niente di personale: è solo un discorso sulle strategie!»

«Ma servono davvero? Non sarebbe tanto più semplice lasciarsi andare

ai sentimenti?» Era quasi un grido di dolore.

«Bisognerebbe fidarsi. Non avere paura.»
«E tu non ti fidi ancora di me: è così?»
«Ho pensato tanto, e adesso non riesco nemmeno più a farmi delle

domande.»

«Cosima, io...»
«Per piacere, non parliamo di noi. Non adesso.»

Sapeva di amarlo. Era certa che, se si fossero lasciati, lo avrebbe

rimpianto per sempre: ma erano certezze che le provenivano dalla testa
senza riuscire a toccarle il cuore. Si sentiva emotivamente svuotata.
Anestetizzata.

L'arrivo di Sabrina la strappò ai cupi pensieri. Diversamente da lei,

sembrava profondamente emozionata. «Ho appena incontrato il padre di
Matilde: è stato molto gentile e si è fermato a parlare con me.»

«Mi fa piacere.»
«Ha detto che è contento di vedermi lavorare con Alyssa. Certo che sono

cambiata davvero: non avrei mai creduto di considerare un giudice una
brava persona!»

«Nicola lo è.»
«Mi vergogno per tutto quello che gli ho fatto passare. Adesso direi tutta

la verità su mio fratello, Cosima.»

«Allora non potevi. Non devi pensarci più, e tanto meno sentirti in

colpa.»

Ma Sabrina non riusciva a pensare ad altro. L'inaspettata gentilezza del

giudice Argenzi giungeva nel momento in cui lei aveva preso coscienza
del degrado da cui era uscita. La prima volta che era stata toccata da un
uomo aveva cinque anni: per farla stare buona sua madre l'aveva intontita
con mezza bottiglietta di sciroppo a base di codeina. Non voleva pensarci
più.

Adesso apparteneva a un altro mondo e si sentiva pulita, rinata.

Guardava i pannelli delle ragazzine vietnamite ed era felice di collaborare
al loro riscatto. Adesso, grazie ad Alyssa, sapeva che cosa significavano la
solidarietà e l'amore. E proprio per questo si sentiva in colpa nei confronti
del giudice Argenzi. Aveva lasciato che lo accusassero nel modo più
infame per la paura che il suo nome finisse sui giornali e il padrone

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dell'albergo dove andava a prostituirsi la cacciasse via. Che razza di
persona era stata?

L'emporio sarebbe stato inaugurato alla metà di settembre con un

ricevimento a inviti. Una settimana prima don Eugenio, durante la predica
domenicale, parlò della iniziativa di Alyssa Calangida additandola come
esempio di una solidarietà umana che andava oltre ogni confine e ogni
razza.

Alyssa protestò vivamente: non era una diva e detestava che le opere di

bene diventassero uno strumento di pubblicità. Quando i giornalisti
chiesero di intervistarla, si limitò a parlare dell'attività commerciale: era
certa che avrebbe avuto successo perché si basava su piccoli gioielli della
manualità. A prezzi accessibili, e con il suo marchio, si rilanciava la
cultura del ricamo e quella dei corredi da sogno.

Alyssa sottolineò l'aiuto che gli abitanti del palazzo e i volontari del

quartiere le avevano dato e permise ai fotografi di scattare le immagini che
testimoniavano il lavoro di gruppo: gli espositori, gli scaffali, i pannelli, i
murales.

Fu uno dei fotografi a riconoscere la sorella di Fabrizio Nardi: Sabrina

se n'era stata in disparte fremendo di disapprovazione per la modestia di
Alyssa. Perché non raccontava che aveva generosamente ricompensato i
volontari più bisognosi? Perché non rivelava che ancor prima dell'apertura
dell'emporio aveva inviato alle missionarie del Vietnam una cifra da
capogiro come anticipo?

Quando un giornalista si avvicinò a lei si trovò davanti a una ragazza

che la gratitudine, i sensi di colpa, l'amore per Alyssa avevano reso
smaniosa di dire tutto.

Confermò che sì, era la sorella di Fabrizio Nardi. No, non abitava più

con la madre: grazie ad Alyssa Calangida aveva cambiato vita e casa. Se
c'erano stati dei problemi con il giudice Argenzi? Assolutamente no: anche
lui si era dimostrato una persona gentile e umana. Serbargli rancore per
l'accanimento dimostrato contro il suo povero fratello? Certo che no.

E finalmente poté ristabilire la verità, togliendosi un peso dalla

coscienza...

E Nicola tornò alla ribalta della cronaca, appassionatamente difeso dalla

sorella di Fabrizio Nardi in una intervista clamorosa ed esclusiva. Al
disagio per quella ormai tardiva riabilitazione, che lo costringeva a subire
un nuovo assalto di stampa e televisione, si unì la preoccupazione per

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Matilde: la bambina stava per riprendere la scuola, e non era positivo
neppure per lei ritrovarsi al centro di curiosità e chiacchiere. Come si era
permessa la Nardi di sollevare quel polverone? E a che scopo l'aveva fatto?

L'iniziativa si profilò in tutta la sua gravità quando Nicola venne

convocato dal procuratore e dovette subire una mortificante lavata di capo:
non soltanto per l'inopportuna intervista della ragazza, ma anche per una
esecrabile "promiscuità" di interessi e di rapporti: era inaccettabile che la
matrigna di un magistrato avesse accolto nel proprio clan familiare una
prostituta, offrendole ospitalità e lavoro.

Le fredde precisazioni di Nicola (non sapeva nulla dell'intervista, non

era responsabile delle decisioni della moglie di suo padre, la esecrabile
"promiscuità" altro non era se non un gesto di solidarietà nei confronti di
una ragazza decisa a cambiare vita) causarono una altrettanto fredda
replica: dopo l'omicidio della moglie e il clamore suscitato dal suicidio di
Fabrizio Nardi, quello che ci si aspettava da lui erano soltanto riserbo e
rigore.

Nicola mantenne l'autocontrollo fino a quando non uscì dalla Procura.

Poi cadde in balia di una rabbia tanto più incontrollabile in quanto cieca,
senza bersaglio. Alla fine la convogliò su Alyssa. Doveva onestamente
ammettere che il procuratore aveva ragione nel condannare quel colpo di
coda di inopportuna grancassa: era stata la sua stessa reazione nel leggere
l'intervista della Nardi. E non poteva dargli torto neppure per quanto
riguardava la presenza di quella ragazza nel suo ambito familiare. Si
sarebbero potuti trovare mille modi per darle una mano, ma Alyssa aveva
scelto il più imbarazzante dimostrando una totale mancanza di rispetto per
lui.

Si era trasferito a Roma per poter lavorare serenamente e per colpa di

Alyssa adesso si ritrovava in un clima avvelenato dagli stessi sospetti e
dallo stesso malanimo. L'animosità per la moglie di suo padre montò per
tutto il giorno.

Fatalità volle che alla sera, rientrando a casa, trovasse Cosima in attesa

dell'ascensore per salire all'ultimo piano.

«Avrei voluto telefonarti» gli disse. «Forse l'intervista di Sabrina non è

stata molto opportuna, e se me ne avesse...»

«Forse?» tuonò. «Ma non ti rendi conto dei guai che ha provocato?»
«Ne avevo il sospetto. Mi dispiace.»
«Smettetela di dispiacervi. Riflettete prima di agire!»
«Chi altro è imputato, oltre a me?»
«Tua madre! E una volta tanto tu dovresti giudicarla obiettivamente

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invece di difenderla a spada tratta.»

Cosima gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Giudicare è un verbo che mi è

estraneo.»

«Bella frase. Resta il fatto che Alyssa è incapace di controllare i suoi

istinti e di gestire le persone di cui si circonda. Anche la solidarietà verso il
prossimo dovrebbe essere mediata dalla ragione, altrimenti diventa un
boomerang.»

«Purtroppo Alyssa Calangida è una selvaggia.»
«Purtroppo mio padre ha sposato una donna che si crede la sostituta di

Dio!»

Nicola si accorse troppo tardi dell'irreparabilità di quanto aveva appena

detto. E in una furiosa smania di autopunizione, si spinse ancora oltre. «Ha
trasformato questo palazzo in un paradiso per i diseredati! In una specie di
corte dei miracoli!»

«Finalmente hai gettato la maschera. Mi vergogno per te, giudice

Argenzi.»

Il sabato seguente Nicola udì attraverso le pareti del soggiorno i rumori e

le voci della festa d'inaugurazione dell'emporio. Suo padre, che
evidentemente ignorava lo scontro con Cosima, a un certo punto venne a
cercarlo: la festa stava per finire e molti colleghi, che avevano
accompagnato le mogli, chiedevano di lui. Anche Alyssa lo stava
aspettando.

Nicola fu costretto a seguirlo nell'appartamento accanto. Si complimentò

con Alyssa, salutò i colleghi, si fece guidare da Matilde verso i colorati
pannelli che aveva disegnato e dipinto "tutta da sola".

Con la coda dell'occhio scorse Cosima che chiacchierava con Sabrina e

uno sconosciuto signore. Era vestita di rosso e aveva i capelli raccolti in
tante treccine. Come si accorse del suo sguardo, fisso su di lei, voltò la
testa.

EPILOGO

XXI

Cinque giorni dopo l'inaugurazione tale Alessio Valci si presentò ai

carabinieri per denunciare Alyssa Calangida di sfruttamento del lavoro
minorile. Non pago, chiese di essere ricevuto dal Questore per spiegare la
propria indignazione di "rispettabile cittadino": un cinico affare milionario

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era stato spacciato dai mass media come opera umanitaria.

I "piccoli capolavori" venduti a cifre astronomiche nell'emporio,

nascevano dalla manualità di decine di bambine che, tenute in ostaggio da
sedicenti missionarie, erano costrette a lavorare senza sosta. Alyssa
Calangida, la osannata benefattrice, era in realtà colpevole della peggiore
delle violenze: aveva rubato alle piccole operaie la stagione dei giochi,
della spensieratezza, della libertà.

La denuncia del Valci era, chiaramente, il gesto plateale del solito

moralista esaltato: tutti sapevano a quale sorte erano state strappate le
ragazzine e l'attività della Calangida era sostenuta da un sacerdote
combattivo come don Eugenio e da un gruppo di suore e di volontarie che
da anni si alternavano nel Vietnam prodigandosi proprio nella lotta contro
la miseria e il degrado morale.

Ma nel corso di un vertice voluto dallo stesso Questore si decise

concordemente che, nonostante questo, non era possibile ignorare la
denuncia: il Valci, proprio perché infervorato dal moralismo, avrebbe
chiesto ospitalità a un talk show televisivo e scritto a tutti i giornali per
puntare il dito contro la latitanza della legalità e della giustizia. Fatalmente
qualcuno gli avrebbe dato credito per montare uno scandalo, associando
l'"impunità" della Calangida alla sua sciagurata parentela con un giudice.

Non restava che ordinare la chiusura cautelativa dell'emporio e avviare

le indagini per appurare se effettivamente il commercio dei manufatti
eseguiti all'interno della missione poteva configurarsi come sfruttamento
del lavoro minorile.

Nicola venne informato di questa unanime decisione prima che

diventasse operativa. La sua reazione fu immediata. «Non posso credere
che si perseguiti una brava persona soltanto per paura che un esaltato
monti uno scandalo!»

Il collega che gli aveva dato la notizia lo fissò con gli occhi socchiusi.

«Le cose non stanno proprio così, caro Argenzi. Da un punto di vista
strettamente legale, il nobile fine che anima la moglie di tuo padre non
giustifica il mezzo: detto in altre parole, si sono strappate delle minori al
marciapiede per avviarle precocemente al lavoro.»

«È questo l'alibi morale per avviare una indagine assurda e rovinare la

reputazione di Alyssa Calangida?»

«Le indagini saranno svolte con la massima discrezione. La reputazione

della signora sarebbe stata molto più a rischio se, con l'archiviazione della
denuncia, avessimo consentito a quel Valci di sostituirsi a noi.»

Alla fine dell'incontro Nicola decise di andare subito da Alyssa per

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prepararla a quello che la aspettava. Di fronte all'enormità dell'accusa tutte
le riserve su di lei passavano in secondo piano. A costo di abbandonare la
magistratura, intendeva schierarsi al suo fianco per difenderla
incondizionatamente.

Alyssa si trovava nel suo emporio e stava mostrando a una cliente una

tovaglia, magnificandone la ricchezza dei ricami. Nel vederlo, si avvicinò
sorpresa e vagamente allarmata. «È successo qualcosa?»

«Vorrei parlarti. Appena sei libera, puoi fare un salto a casa mia?»
Lo raggiunse dopo cinque minuti. Nicola la fece accomodare in salotto e

con molta cautela, ma senza nasconderle nulla, le parlò della denuncia di
un fanatico e della decisione di aprire un'indagine. Avrebbe ricevuto
l'avviso entro poche ore, e in attesa di ristabilire la verità sarebbe stata
invitata a sospendere l'attività dell'emporio.

Alyssa lo ascoltò senza interromperlo. Con grande stupore di Nicola,

non mostrò né indignazione né sbalordimento. «Mi difenderò anche da
questa accusa» fu il pacato commento. «A differenza di un tempo, posso
permettermi l'aiuto di un bravo avvocato.»

«Puoi contare anche sul mio: non consentirò a nessuno di perseguitarti.»
«Tu devi starne fuori, Nicola. Sei un magistrato, e non puoi permetterti

di...»

«Questo lascialo decidere a me. Per prima cosa, ti troverò io un bravo

avvocato.»

«Non ce n'è bisogno: don Eugenio ha un amico che da anni aiuta i suoi

ragazzi e mi sembra una persona sensibile e umana.» Si alzò. «Adesso
torno al mio emporio per avvertire Sabrina e per telefonare a tuo padre.
Grazie per quello che mi hai detto, Nicola. Non immagini quanto mi ha
fatto piacere sentirti tanto vicino.»

Quella stessa sera, Alyssa risultava ufficialmente indagata. Dopo aver

cenato con la figlia, Nicola salì da lei per ribadirle la propria solidarietà e
parlarle dell'avvocato con cui aveva preso contatto.

Venne ad aprirgli Cosima. A differenza della madre, era stravolta.

«Avevi ragione tu» disse con voce tremante. «Se mia madre non si fosse
sostituita a Dio per salvare l'umanità, adesso non dovrebbe subire tutto
questo. Accusarla di sfruttamento... È assurdo, infame...» Scoppiò in
lacrime.

Nicola dovette farsi violenza per non stringerla tra le braccia. «Cosima,

l'accusa è talmente assurda che cadrà subito. E io farò tutto il possibile per
aiutare Alyssa.»

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Cosima fece di no con la testa. «È meglio che non ti esponga, finiresti

per essere coinvolto anche tu.»

«Lo sono già. Alyssa fa parte della mia famiglia e ho trovato un bravo

avvocato che...»

«Non serve. Mia madre vuole essere difesa dall'amico di don Eugenio.

Di là c'è tutta la corte... dei miracoli che si è allertata per lei.»

Cosima ripeté quella velenosa definizione con tristezza e senza

intenzioni polemiche, ma Nicola si amareggiò proprio per questo. Preferì
tacere: in quel momento non avrebbe sopportato una ripresa delle ostilità.
«Vorrei conoscere il difensore di tua madre» disse invece.

«Vieni.»
Nel grande soggiorno c'erano Sabrina, don Eugenio, il portiere Mario, i

genitori di Karim, il fotografo che aveva eseguito le gigantografie dei
pannelli, il missionario che aveva messo in contatto Alyssa con le suore
del Vietnam.

E Vito Durano, l'avvocato incaricato di difenderla. Era un uomo vicino

alla sessantina che dietro l'aspetto dimesso e i modi garbati celava un
temperamento irriducibile. «Non ho mai accettato la difesa di chi sfrutta o
distrugge l'infanzia. È la mia etica» precisò a Nicola. «E sono altrettanto
feroce con chi tenta di colpire le persone che, come Alyssa, votano la loro
esistenza al bene.»

La prima mossa dell'avvocato Durano fu molto abile: si rivolse al

giudice chiedendo perché don Eugenio e l'amico missionario non
figuravano tra gli indagati: semmai si fosse configurato il reato di
sfruttamento, erano stati proprio loro a "istigare" la sua cliente: l'uno
aiutandola nell'allestimento dell'emporio, l'altro riportando dal Vietnam i
manufatti incriminati. Esigeva pertanto che fossero interrogati e indagati
anche i due religiosi.

Questa mossa fu un ottimo deterrente perché costrinse il giudice a

procedere con i piedi di piombo e a intimare al "rispettabile cittadino"
Valci il silenzio assoluto: se avesse osato comparire in un talk show
televisivo o scrivere ai giornali per dare eco alla sua denuncia, si sarebbe
messo contro tutta la Chiesa.

Tuttavia con il trascorrere dei giorni Nicola cominciò a scoprire il limite

dell'avvocato Durano: per quanto combattivo e bravo, puntava tutta la
linea difensiva sulla "incredibilità" della denuncia e dava per scontato che
Alyssa sarebbe stata prosciolta da ogni accusa essendo eclatante, come
ripeteva, che l'emporio aveva finalità benefiche e le ragazzine vietnamite

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dovevano alle suore missionarie la loro salvezza.

Nicola, come magistrato, sapeva che le sole verità eclatanti erano quelle

supportate da prove concrete e che le indagini preliminari erano mirate non
a dimostrare l'innocenza, bensì a cercare le prove della presunta
colpevolezza dell'indagato.

Inoltre temeva che le accuse contro Alyssa diventassero da un momento

all'altro di pubblico dominio: troppe persone ne erano a conoscenza e, nel
momento in cui fosse trapelato qualcosa, i mass media si sarebbero buttati
a capofitto sulla vicenda: c'erano tutti gli ingredienti per trasformarla in
uno scandalo "appassionante".

A quel punto Nicola decise di intervenire personalmente. Per prima

cosa, doveva conoscere la storia e il passato di Alyssa. Trascorse una
intera giornata al computer cercando tutto quanto era stato scritto di lei e
per la prima volta capì perché tutti adoravano Alyssa e perché suo padre
l'aveva sposata: era un essere umano straordinario, la donna più
coraggiosa, combattiva e buona che avesse mai conosciuto.

Alla commozione subentrò la vergogna: come aveva potuto essere tanto

meschino e prevenuto? La volontà di difenderla diventò spasmodica.
Glielo doveva. Era il solo modo per perdonare se stesso e per poter
guardare Cosima negli occhi senza arrossire.

Espresse le proprie perplessità a don Eugenio, come in confessione. E,

con grande circospezione, criticò la linea di difesa "emotiva" di Vito
Durano. L'accusa di sfruttamento di lavoro minorile andava smontata
consegnando agli inquirenti una documentazione inoppugnabile della
realtà del degrado e della miseria da cui le ragazzine provenivano.

Don Eugenio capì al volo la sua richiesta e una settimana dopo l'amico

missionario partiva per il Vietnam accompagnato dal fotografo amico di
Alyssa. L'intervento di Nicola aveva ridotto al minimo il tempo necessario
per tutti i visti.

Purtroppo, come Nicola aveva temuto, trapelò la notizia che Alyssa

Calangida era indagata per sfruttamento del lavoro minorile e che il suo
emporio era stato chiuso d'autorità. Ma la decisione di inviare nel Vietnam
il fotografo e il missionario si rivelò provvida perché consentì a Nicola di
preannunciare al collega incaricato delle indagini l'arrivo di una
documentazione inoppugnabile a discarico di Alyssa e a don Eugenio di
ottenere una immediata mobilitazione di religiosi e Opere missionarie.

Il timore di querele e di richieste di danni milionari spinse i mass media

a riferire la notizia senza enfasi e con grande cautela, in attesa
dell'evolversi degli eventi.

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E la documentazione arrivò appena in tempo per rintuzzare il soprassalto

di frustrato esibizionismo dell'accusatore. Il Gip, allarmato, avvertì Nicola
che il Valci era riuscito a farsi ospitare in un talk show televisivo per dire
tutta la sua verità.

Nicola gli porse due buste: «Queste sono le prove a discarico che ti

avevo promesso: video, fotografie e testimonianze firmate. Ne ho una
doppia copia: chiederò di essere ospitato nel talk show con il Valci per
rispondere alle sue accuse con queste verità».

«Capisco le tue intenzioni: ma esponendoti in prima persona rischi delle

conseguenze spiacevoli» fu l'obiezione.

«Alyssa Calangida è la moglie di mio padre e la madre della donna che

voglio sposare: sono coinvolto in prima persona, e niente mi può fermare.»

Alyssa aveva chiesto agli amici di lasciarla sola davanti al televisore:

non era un bello spettacolo, e non c'era nulla da festeggiare.

Quando il talk show ebbe inizio, Attilio e Cosima si sedettero accanto a

lei. Il primo a prendere la parola fu il Valci: iniziò con toni sommessi,
spiegando l'input morale che lo aveva spinto a denunciare la Calangida.
«Come esortava Martin Luther King, dobbiamo pregare per avere la forza
di indignarci ogni giorno» citò con enfasi. E i toni si fecero via via più
accesi mentre raccontava la violenza perpetrata su povere ragazze
strappate dal marciapiede per essere rinchiuse in un laboratorio da
sedicenti missionarie.

«Giorno e notte curve sulle tele da ricamare, accecate dalle lampade e

dalla mancanza d'aria... Prigioniere del lavoro e di una nuova schiavitù
senza scampo...» L'indignazione gli strozzò la voce.

La telecamera inquadrò il viso severo di Nicola. Cosima trattenne il fiato

e Attilio strinse la mano di Alyssa.

«Potrei chiedere di cambiare l'ordine dei documentari?» Nicola disse.

«Visto che il signor Valci ha parlato delle condizioni di lavoro a suo
avviso disumane, vorrei partire da qui.»

Dopo qualche istante, sul grande schermo apparvero le immagini del

luogo di lavoro. Il laboratorio era una lunga costruzione in legno immersa
nel verde, con un grande portico e una vetrata illuminata dal sole. Le
ragazzine lavoravano chiacchierando e ridendo. Di tanto in tanto si
spostavano. I loro visi erano sereni. Lo scenario cambiava mostrandole
mentre giocavano nel giardino della missione, mentre recitavano in un
improvvisato teatrino, mentre erano in classe con un'insegnante, mentre
mangiavano nel refettorio, mentre andavano a dormire. Una suora

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mostrava il televisore che avevano potuto acquistare grazie all'invio del
primo assegno.

Il viso di Nicola comparve di nuovo in primo piano. «Adesso vorrei

mostrare come vivono le centinaia di ragazze che per mancanza di posto e
di mezzi le nostre missionarie non riescono a strappare a questa vita.»

Fu come se si spalancassero le porte dell'inferno. Bambine nascoste agli

angoli delle strade in attesa dei clienti, i visi innocenti trasformati dal
trucco e dalla rassegnazione in maschere tragiche; ragazzine che si
ubriacavano in locali notturni mentre avide mani maschili frugavano tra le
loro gambe e i loro piccoli seni acerbi.

Il missionario mandato da Nicola era entrato nei tuguri da cui le piccole

prostitute uscivano a ogni ora del giorno e della notte ed aveva raccolto le
dichiarazioni delle loro madri e dei loro padri. Il tono impersonale della
traduzione simultanea rendeva ancor più agghiaccianti le loro parole:
dobbiamo pensare ai figli più piccoli, andare con gli uomini è brutto ma
poi ci si abitua, la cosa peggiore è morire di fame.

Il documento si concludeva mostrando una corsia d'ospedale affollata di

bambine contagiate dall'Aids.

Alyssa chiuse gli occhi. E udì la voce accorata di Nicola. «Signor Valci,

crede ancora che essere accolte nella missione sia una disumana prigionia?
Nessun bambino dovrebbe lavorare, ma esistono realtà e Paesi in cui un
lavoro onesto è il solo mezzo per uscire dall'inferno della miseria e del
degrado. Le suore missionarie e le volontarie fanno miracoli per restituire
l'allegria e gli svaghi dell'infanzia alle ragazzine che tolgono dal
marciapiede. Invece di indignarsi, perché non le aiuta concretamente come
sta facendo Alyssa Calangida?»

Nicola arrivò a casa di Alyssa un'ora dopo la fine della trasmissione.

Cosima lo stava aspettando, con gli occhi lucidi. «Grazie» gli sussurrò.

Dal soggiorno provenivano rumori e voci. Tirò su col naso. «È arrivato

tutto il palazzo: ci sono anche quelli dell'altra scala. La corte dei miracoli
si è allargata...»

«C'è un posto anche per me?» Nicola chiese serio.
«Lo vuoi davvero?
«Ti amo tanto... E mi sono innamorato anche di tua madre.»


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