MARIANNE CURLEY
VENTO DI MAGIA
(Old Magic, 2000)
A tutti quelli che mi hanno sostenuta, specialmente
Amanda, Danielle, Chris e John, l'eterno ottimista.
Vorrei anche ringraziare il mio agente,
Anthony A. Williams.
E, per la loro preziosa assistenza,
Anthony Tonna e Pam Adams.
'Non sapere che cosa è accaduto prima della propria nascita signifi-
ca restare bambini. Infatti che cos'è la vita dell'uomo, se non è legata
alla vita delle generazioni future dai ricordi del passato?'
Cicerone
Parte Prima
Il vento
Kate
Si chiama Jarrod Thornton. Ha i capelli di un biondo ramato, lunghi fino
alle spalle, una bella pelle e occhi verdi come smeraldi; ma non è questo il
motivo per cui non riesco a staccargli gli occhi di dosso. C'è qualcos'altro.
Qualcosa di... inquietante. È un non so che di soprannaturale che mi attira.
È lì in piedi, imbarazzato, di fronte a ventisette alunni della decima clas-
se, e sembra che non sappia cosa fare con le mani... e con i suoi strani oc-
chi. Mentre vagano nervosamente sulla parete di fondo del laboratorio,
intravedo incredibili cerchi blu inchiostro attorno alle profonde iridi verdi.
Vagano ovunque, senza mai agganciare lo sguardo di nessuno. Lui conti-
nua a spostare il peso da un piede all'altro, e porta uno zaino nero che sem-
bra aver fatto due volte il giro del mondo, appeso a quella spalla legger-
mente curva. Indossa l'uniforme scolastica: i soliti pantaloni grigi, camicia
bianca, cravatta rossa a righe. Il tutto ha un aspetto piuttosto logoro.
Il professor Garret, l'insegnante di scienze, ci dice qualcosa di lui. Si è
trasferito da Riverina con la famiglia un paio di giorni fa e ha un fratello
più piccolo, Casey, in terza.
Pare che io non sia l'unica a essere interessata. Anche Tasha Daniels ha
messo gli occhi su Jarrod. Ma lei lo fa nel suo solito modo lascivo, con le
labbra truccate appena dischiuse a mo' di invito. Dio, quant'è prevedibile.
Lancio una rapida occhiata a Bicipite, bullo della classe e ragazzo di Ta-
sha, anche se pare che ultimamente ci siano guai in famiglia.
Non si chiama davvero Bicipite, è ovvio. Il soprannome se l'è guadagna-
to al quarto anno grazie all'allenatore di calcio, impressionato dal fisico da
rugbista e dalle braccia muscolose. Poi il nome risultò molto adatto anche
alla sua personalità, che non era granché nemmeno allora. Io lo so, c'ero.
Eppure ora non riesco a immaginare di chiamarlo Angus John, nome ispi-
rato a qualche lontano avo scozzese. Nemmeno gli insegnanti osano. Bici-
pite è uno di quei tipi rozzi e violenti che ti possono rendere la vita un in-
ferno per il puro gusto di farlo.
Nota subito l'interesse di Tasha per il ragazzo nuovo e registra immedia-
tamente la minaccia; in fondo è un concetto abbastanza semplice perché
anche lui lo capisca.
Decido di sondare la mente di Bicipite. È una delle cose che mi ha inse-
gnato Jillian. Lei dice che ho il dono di percepire le emozioni degli altri.
Negli anni ho affinato la tecnica al punto che ormai devo solo concentrar-
mi qualche secondo e sono dentro. Dentro la sua testa.
Oh, porca miseria! Batto rapidamente in ritirata, mi gira il capo. È tutto
combustibile che brucia, come se fossi entrata per sbaglio in un motore a
reazione.
«Kate? Kate!»
Hannah, la mia migliore (e unica) amica, mi guarda con gli occhi castani
spalancati. «Sì?»
«Ti senti bene? Sei più cadaverica del solito».
Sorrido, ignorando l'allusione al cadavere. Ammetto di avere l'aria un
po' anemica, ma non lo sono. Cerco di evitare il sole, perché mi scotto fa-
cilmente; perciò vivere qui ad Ashpeak Mountain mi va benissimo, in in-
verno c'è perfino la neve. Ho i capelli lunghi, lisci e neri, dono di un padre
mai conosciuto. A parte la pelle chiara, non somiglio affatto a mia madre.
A quanto pare, lei è bionda come l'oro. O almeno lo era quindici anni fa,
l'ultima volta che l'ho vista. Ovviamente non ricordo nulla. È stata mia
nonna Jillian a tirarmi su. La gente dice che sembro un'hawaiana. Dev'es-
sere per via degli occhi, che sono di una specie di grigio azzurro, un po' a
mandorla. Tutto considerato, mi sembra strano che molti mi considerino
una strega. Certo, hanno ragione, ma non nel senso classico del termine.
Hannah è l'unica a sapere la verità. Gli altri si limitano a spettegolare; la
comunità qui è piccola e ficcanaso in modo quasi patetico. Ma Hannah ha
visto cosa sono in grado di fare, che comunque non è molto. Non ancora,
almeno.
E anche se Jillian è mia nonna, non la chiamo nonna. Lei mi ha cresciuta
dal giorno in cui mia madre se l'è data a gambe, quando avevo solo otto
mesi. Pare che non riuscisse a sopportare di sentirmi piangere... abitudine
che poi ho perso, sia chiaro.
Non appena sono stata in grado di capire, Jillian mi ha spiegato la scarsa
propensione di mia madre per i bambini, e mi ha detto di non preoccupar-
mi, comunque, perché per fortuna lei, Jillian, i bambini li adorava. All'ini-
zio non sapeva nemmeno lei come dovevo chiamarla. 'Mamma' non anda-
va bene. Oltretutto l'intero paese sapeva la verità: che Karen Warren aveva
dato alla luce una bella bimba alla matura età di quindici anni e tre mesi.
E visto che Jillian non amava i nomignoli - poco adatti, secondo lei, a
una donna di trentun anni - sono cresciuta chiamandola per nome.
Una cosa che Jillian mi ha sempre raccomandato è di tenere segrete certe
cose. Le mie capacità, per esempio: far muovere gli oggetti, praticare in-
cantesimi, percepire gli stati d'animo, e insomma... cambiare le cose. Sono
solo piccoli trucchi al confronto di quello che sa fare lei. Nessuno glielo
dice in faccia, ma quasi tutti qui sanno che Jillian è una strega. Sul mio
conto fanno solo congetture, ma non ci hanno mai sorprese a fare nulla,
Jillian ci sta molto attenta. Sono giunti a quella conclusione mettendo in-
sieme l'aspetto della nostra casa (al limite della foresta pluviale) con il fat-
to che Jillian abbia un negozio New Age e che scriva degli articoli per rivi-
ste dì magia (che servono a mantenerci). Per questo, nessuno glielo dice
apertamente: hanno paura che lei gli appioppi qualche magia 'nera'. Non la
conoscono, è chiaro. Se solo avessero il buon senso di leggere uno dei suoi
articoli capirebbero subito cos'è Jillian: una guaritrice. Una strega, certo,
ma che non c'entra niente con quelle stupide idee preconcette che quasi
tutti hanno sulle streghe. E Jillian poi non è 'tipica' in nulla. Quanto a me,
io sono ancora in formazione.
Sento un rumore e vedo Jarrod cadere dallo sgabello. Ma come ha fatto?
Ha solo allungato la mano per prendere un recipiente e sbarri, eccolo per
terra, un groviglio di braccia e gambe. Tutta la classe scoppia a ridere. Che
imbecilli. Guardo Jarrod mentre tenta di ricomporsi, rosso in viso, e risale
all'indietro sullo sgabello, la testa china per evitare di incrociare lo sguardo
di chicchessia. È una cosa che gli riesce bene. Una folta ciocca di capelli
dorati gli ricade sulla fronte, coprendogli il viso.
Percepisco il suo nervosismo, e mi domando da cosa dipenda. D'accor-
do, è il suo primo giorno in una scuola nuova, e l'ostilità di Bicipite è tan-
gibile; ma c'è dell'altro. Perciò decido di sondarlo, prima dolcemente, tanto
per saggiare i limiti dei suoi sensi. Raddrizza di colpo la testa e rimane
immobile, come se... no, non può sentirmi. Nessuno può. Con maggiore
baldanza vado più a fondo, percepisco la sua esitazione, l'imbarazzo, i ner-
vi. Sento il suo desiderio bruciante di adattarsi, come se fosse un bambino
che si è perso nella foresta.
Qualcosa di duro mi colpisce. Mi ci vuole qualche secondo per capire di
che cosa si tratta, visto che non mi è mai successo prima. Tra noi c'è un
muro. Mi sta chiudendo fuori. Sto ancora guardando la sua nuca e noto che
le spalle gli si irrigidiscono. Volta piano la testa, come se cercasse qualco-
sa. Mi vede e si blocca. I nostri sguardi s'incrociano; ci fissiamo a vicenda.
Il suo disappunto si trasforma subito in meraviglia. È come se volesse
chiedere qualcosa d'importante ma non sapesse bene cosa.
Allora ne sono certa. Anche lui è diverso. Ha percepito la mia presenza,
anche se probabilmente non riesce a inquadrare la situazione. Ecco che
Jarrod Thornton diventa molto più interessante.
Il professor Garret cerca di riprendere il controllo della classe, battendo
ripetutamente il pennarello sulla lavagna bianca. Jarrod smette di fissarmi,
liberandomi. E io respiro di nuovo.
Non oso rifarlo. Il cuore mi batte ancora forte per quei tre secondi di
contatto con la mente di Jarrod. Tento di concentrarmi su quello che Garret
cerca di insegnarci, ma niente da fare. Non riesco a distogliere il pensiero
dal nuovo arrivato. Sono fortemente tentata di tornare dentro.
Siamo arrivati alla parte pratica della lezione, e per fortuna l'esperimento
è proprio elementare: mischiare un alcale con un acido in presenza di una
cartina al tornasole. Niente di esplosivo, quindi. Tuttavia richiede una certa
attenzione: bisogna versare goccia a goccia acido cloridrico diluito, mesco-
lando sempre, poi aggiungere allo stesso modo idrossido di sodio e osser-
vare i diversi cambiamenti di colore. Jarrod ha appena inforcato un paio di
occhiali cerchiati d'oro e Bicipite è scoppiato a ridere istericamente. Do-
vrebbe tornare all'asilo, forse lì apprezzerebbero il suo umorismo.
Il mio esperimento diventa violetto. Lancio un'occhiata a Jarrod e vedo
le sue spalle contrarsi nello sforzo di dominare le emozioni. Una parte di
me vorrebbe vederlo reagire come Bicipite si meriterebbe; ma mi sembra
di capire che non è questo il suo stile. O gli manca la sicurezza necessaria
per affrontare un simile troglodita, oppure ha la pazienza di un monaco
tibetano. Opto per la mancanza di sicurezza. I suoi modi hanno qualcosa di
rigido, impacciato. Mi accorgo che vorrei sapere un sacco di cose su di lui,
sulla sua vita. Le sue spalle restano contratte.
Cerco di capire cosa intenda fare il professor Garret, anche se so perfet-
tamente che è tempo perso. Davanti a Bicipite e ai suoi compari quell'uo-
mo è un agnellino. Specie da quando il suo divorzio è diventato definitivo,
l'anno scorso. Tutti lo sanno, ad Ashpeak è stato l'unico argomento di con-
versazione per mesi. Senza nessun preavviso Rachel Garret, sposata da
nove anni, ha lasciato i loro due bambini, rispettivamente all'asilo e al ni-
do, è passata a prendere il farmacista del paese ed è sparita. Nessuno ne ha
saputo nulla per dodici mesi. Alla fine è tornata, ma solo per reclamare la
custodia dei figli, cosa che ha ottenuto dopo una dura battaglia legale. Il
professor Garret ha perso non solo la causa, ma anche qualsiasi entusiasmo
per la vita, insieme al controllo degli allievi.
Pare proprio che Bicipite sia in cerca di guai. Sta covando qualcosa. In
teoria dovremmo lavorare a coppie: uno mischia le sostanze e l'altro pren-
de appunti. Il professor Garret, a testa china, spalle alla classe, sta aiutando
Adam Rendal e Kyle Flint. Bicipite lascia il suo posto, si china a sussurra-
re all'orecchio di Tasha qualcosa che la fa ridere, da quell'oca giuliva che
è, e con aria bellicosa passa davanti a Jarrod, facendogli volare via gli oc-
chiali con una mossa talmente deliberata che nessuno potrebbe pensare a
un incidente. Gli occhiali cadono con un suono metallico.
«Ah, cavolo, mi dispiace. Non sarò stato io?» Facendo finta di racco-
glierli Bicipite li calcia ancora più lontano.
Metà della classe ride, il professor Garret è talmente insignificante che la
sua presenza è solo simbolica. Ordina a Bicipite di raccoglierli, cosa che
lui fa, non senza insozzarli per bene con le dita sporche di saliva. Ha la
bocca aperta, e si passa la grossa lingua sul labbro inferiore. La sua faccia
trasuda soddisfazione, si sta divertendo un mondo. Bleah. Non si è mai
guardato allo specchio?
Passo mentalmente in rassegna i diversi incantesimi che di recente ho
studiato con profitto. Vediamo... un qualche prurito sempiterno potrebbe
andare. Non sarebbe una dolce giustizia? Procurare a Bicipite un'irritazio-
ne perpetua su ogni parte del corpo. Naturalmente Jillian mi convincerebbe
a non farlo, mi tiene continue lezioni sui pericoli dello scherzare con la
natura. Peccato che ora non me ne ricordi neanche una.
«Che deficiente, eh?»
Sorrido al commento di Hannah. Ma il sorriso non dura a lungo. Qualco-
sa punge i miei sensi, qualcosa che non riesco a localizzare. Qualcosa di
inquietante. Guardo fuori dalla finestra, ma non vedo altro che il cielo az-
zurro in una fresca mattina d'autunno. Mi concentro su Jarrod, attenta a
non superare gli strati superficiali della sua mente. Sento la sua rabbia e la
lotta per controllarla. Ho un vago desiderio di vederlo lasciarsi andare, e
mi sa che se lo facesse questi balbettanti idioti non avrebbero neanche il
tempo di capire cosa li ha colpiti. Ma il mio lato ragionevole gli suggerisce
di trattenersi, di non attirare ulteriormente l'attenzione. In questo modo mi
sento allineata a lui, su qualche imperscrutabile scala. È così che vivo...
sempre al limite.
Accade tutto molto in fretta. Jessica Palmer, la migliore amica di Tasha
e una delle bionde, tutta colpi di sole e ciglia finte, comincia a urlare isteri-
camente quando il suo becher esplode. Il contenuto si sparge sfrigolando
sul bancone e comincia a gocciolare a terra. Fortunatamente per Jessica le
sue dita sottili, che adesso si agitano frenetiche ai lati della testa, non toc-
cano quella roba.
Il professor Garret alza la voce per la prima volta in un anno, e urla a
Jessica di calmarsi e pulire. Ovviamente non ha capito. Jessica non ha nul-
la a che vedere con l'esplosione del contenitore. Non l'ha lasciato cadere o
qualcosa del genere. Ma probabilmente è meglio che il professor Garret
pensi che sia stata lei. Non ce l'ho con Jessica Palmer, che mi avrà detto tre
parole in due anni. Tuttavia i miei sensi sono all'erta, in allarme. Sta suc-
cedendo qualcosa di strano, ai limiti dell'inspiegabile.
Bicipite dà la colpa a Jarrod. Il professore gli intima di non essere ridico-
lo. «Torna al tuo posto, prima che ti metta in punizione per l'ora di pranzo,
e già che ci sei aiuta Jessica a pulire».
Personalmente credo che Bicipite abbia ragione, ma non mi sogno nean-
che di dirlo. Che se le combatta da solo, le sue battaglie. E, detto fra noi,
speriamo che le perda tutte.
Ma come al solito il cretino non può fare a meno di creare problemi. «Sì,
professore, è stato lui, l'ho visto» mente. «Ha tirato qualcosa. Sì... il suo...»
gli ci vuole un po' a pensarci. «Il suo accendino!»
Jarrod si volta e guarda Bicipite. Apparentemente dal nulla, questi estrae
un piccolo accendino di plastica giallo fluorescente. Una prova. Dal sorri-
setto che si scambia con il suo compare Ryan Bartland, capisco come è
saltato fuori.
Sfortunatamente il professor Garret non nota quel piccolo segnale com-
piaciuto, e comincia a esaminare l'accendino come se fosse la prova fon-
damentale in un processo per omicidio.
«Perché dovrei avere un accendino, professore? Io non fumo».
Sono le prime parole che sento dire da Jarrod, e malgrado siano pronun-
ciate a bassa voce e con dolcezza, capisco che questa apparente serenità è
solo un paravento. Lancia a Bicipite un'occhiata ostile, e osservandolo ve-
do i suoi occhi scurirsi stranamente, i contorni blu delle iridi confondersi
con il verde.
L'intensità di quello sguardo mi intriga, perciò decido di riprovarci. Solo
un'altra volta, mi dico. Respiro a fondo e comincio a sondarlo, con tutta la
delicatezza possibile, ma ci riesco solo per pochi secondi. Qualcosa mi fa
saltare i nervi. L'aria attorno a me si riempie all'improvviso di una strana
energia, come una tempesta sul punto di scatenarsi su una pianura deserti-
ca.
Ma la cosa più allarmante è che il mio istinto mi dice che questa forza
proviene da Jarrod.
L'espressione del professor Garret passa dall'incredulità all'accusa, e il
suo tono si fa impaziente. È così che tratta i teppisti che disturbano la sua
lezione. «Non è un buon modo di iniziare il tuo primo giorno, Thornton.
Spero che questo comportamento non sia rivelatore di sviluppi futuri». Sta
cercando di affermare la sua autorità, ma chi vuol prendere in giro?
Ho smesso di essere solidale con il professor Garret quando lui ha co-
minciato a sprofondare nell'autocommiserazione. Va bene che ultimamente
ha perso anche quel po' di fegato che aveva, ma accusare e condannare
qualcuno sulla base di un accendino è davvero patetico. Pare che Jarrod la
pensi come me. Le sue labbra si stringono mentre inspira a fondo, strin-
gendo i pugni.
Sta perdendo il controllo, e anche in fretta.
Le luci al neon sono le prime a partire. Tremolano incontrollabilmente,
poi si fulminano con un lampo simultaneo e un sibilo, come se fossero
state colpite da un'improvvisa scarica di energia. È sicuramente così, ma
non si tratta di un guasto alla centralina. La stanza si oscura anche se è
pieno giorno. Qualcuno grida e tutti iniziano a commentare.
Il professor Garret, dimenticando l'incidente del becher, alza le mani.
«State calmi. Restate seduti mentre io vado a vedere cosa è successo alla
corrente».
Ovviamente nessuno gli presta attenzione e appena lui esce il mormorio
diventa frenetico. È molto strano che il cielo, fino a un minuto fa azzurro e
limpido, si sia trasformato ora in uno strano crepuscolo. Nuvole scure e
minacciose corrono velocissime verso di noi, come una grande bocca nera
che divora il tenero azzurro del cielo e qualsiasi cosa trovi sul suo cammi-
no.
«Guardate il cielo!» grida Dia Petoria dal suo posto accanto alla finestra.
Alcuni corrono a vedere, ma poi l'attenzione di tutti torna su Bicipite. In
assenza del professore ha deciso di tornare all'attacco di Jarrod. «Che bei
capelli» dice, sollevandone una ciocca e facendola scorrere tra le dita da
rugbista. «Sei sicuro di non essere una ragazza, bel faccino?»
Jarrod allontana la testa. Mi meraviglia come riesca a non reagire. Io a-
vrei perso la calma da secoli, e forse avrei scagliato il primo incantesimo
che mi fosse venuto in mente. Non sono mai stata molto brava a cambiare
la forma delle cose, ma adesso un bradipo - peloso, lento, sui duecento
chili - sarebbe perfetto. Bicipite sarebbe un magnifico bradipo. Lo imma-
gino appeso a testa in giù a uno degli eucalipti giganti che dominano la
foresta qui vicino e non posso fare a meno di sorridere. Pensare a Bicipite
in forma di bradipo mi distrae dalla tempesta che si addensa. Ma il pensie-
ro svanisce quando improvvisamente le finestre si aprono da sole. Carta,
penne, provette, becchi Bunsen, qualsiasi piccolo oggetto viene strappato
via dai banchi e va a sbattere contro il muro o per terra.
«Ma che diavolo!» Bicipite, momentaneamente distratto, va a chiudere
le finestre. Però, malgrado la sua stazza e la sua forza, quelle non si chiu-
dono.
Garret ricompare e si ferma sbalordito sulla soglia. «Cosa succede?» Si
riprende subito, ricordandosi probabilmente di essere lui l'insegnante, e
comincia a urlare ordini: «Presto! Chiudete quelle finestre! Pare che questa
sia l'unica aula ad avere problemi alle luci. Ma da dove viene questo ven-
to?»
Balbetta, stupefatto; non riesce a spiegarsi il fenomeno. Nemmeno io lo
capisco, mi sembra innaturale.
«Sono bloccate, professore!» urla Bicipite cercando di sovrastare il fi-
schio del vento. Allora mi torna in mente quella strana sensazione di pri-
ma. Ecco cos'è quest'energia: rabbia, intensa e oscura.
Un paio di ragazze si abbracciano in un angolo, strillando. Altre corrono
stupidamente in giro, cercando di raccogliere le loro cose che svolazzano.
Una, seduta sul pavimento, si stringe le ginocchia al petto e piange come
una bambina. Solo Jarrod appare calmo. È ancora seduto al banco, e i suoi
occhi sono proprio strani, come se stesse guardando un fantasma. Il vento
gli gonfia la camicia e gli fa sbattere i lunghi capelli sul viso. Lui si limita
a ricacciarli indietro. Per il resto, rimane immobile.
Adesso iniziano a scoccare persino fulmini e tutti, tranne Jarrod natu-
ralmente, gridano e abbassano la testa. È come se il lampo fosse qui, nel-
l'aula. Prima che possiamo riprendere fiato eccone un altro, che riempie la
stanza di luce e di un crepitio sinistro. Tutti urlano all'unisono, stringendo-
si l'uno all'altro e gettandosi a terra. Hannah mi afferra il braccio proprio
mentre esplode un tuono, così forte che quasi ci assorda, e mi stringe così
forte da graffiarmi. «Ma che...?»
Libero il braccio. «Non lo so».
«Non sei tu?»
La guardo negli occhi, scuotendo la testa. «Io non so fare queste cose».
Devo quasi urlare per farmi sentire. «Non sono mai stata capace di mani-
polare le forze atmosferiche, Han». Non aggiungo, perché lei lo sa già, che
ci provo con tutte le mie forze, ma senza successo. Io quel potere proprio
non ce l'ho. Jarrod Thornton invece sì, anche se forse ancora non lo sa.
Già: non credo proprio che se ne renda conto, e ancor meno che riesca a
controllarlo. E questa è una cosa abbastanza spaventosa.
Ormai tuoni e lampi si susseguono rapidamente. Il professor Garret cer-
ca di tranquillizzare la classe. Ci dice di uscire, ma le sue parole si perdono
nella battaglia che la natura ha scatenato nell'aula. Non sapendo come an-
drà a finire, concludo che l'idea del professore è la migliore.
«Dobbiamo uscire di qui!»
«Cosa?» Le labbra di Hannah si muovono, ma la sua voce scompare,
spazzata via dal vento che ormai sembra un tornado.
Vedo apparire sulla soglia studenti di altre classi: subito vengono spinti
dal vento contro la parete opposta. Sbalorditi, corrono a cercare aiuto.
Gli sgabelli vuoti diventano all'improvviso pericolosi proiettili. Ne evito
uno e guardo Jarrod. Lui è ancora seduto, gli occhi spalancati contro il
vento. Dev'essere in stato catatonico per guardare senza sbattere le ciglia.
Una finestra comincia a tremare, e vedo tutti gettarsi a terra, come in una
scena al rallentatore, per proteggersi. Tutti tranne Jarrod. Lui resta al suo
posto, rigido, completamente ipnotizzato, con gli occhi sbarrati.
Inevitabilmente una scheggia lo colpisce. Il pezzo di vetro gli taglia la
pelle all'interno dell'avambraccio, e poi riprende la sua corsa portato dal
vento. Stranamente, è come se questo fosse il catalizzatore che rompe l'in-
cantesimo, o quel che è. Il vento si placa all'improvviso, come se non fosse
mai esistito, scomparendo in silenzio una volta assolto il suo compito.
Quello che resta della finestra cade a terra e le nubi si dileguano.
Per almeno trenta secondi non si muove nulla. Tutta la classe è sotto
choc. Lentamente il professor Garret si riprende e ci divide in gruppi per
rimettere in ordine. Jarrod ancora non si muove, e la cosa mi preoccupa. È
incredibilmente pallido, come solo un morto può esserlo. Certo, una buona
metà della classe è altrettanto cadaverica, ma nel caso di Jarrod è diverso, è
come se il sangue avesse abbandonato del tutto la sua pelle. Per sgorgare
copioso dal taglio sul braccio.
Garret non pare essersene accorto. Mi faccio strada in mezzo a quella
confusione per raggiungerlo. «Jarrod si è fatto male». Mi guardo intorno in
cerca di qualcosa per fasciare il braccio. C'è una scatola di stracci, vecchi
pezzi di stoffa che servono per le pulizie del laboratorio. Il vento l'ha getta-
ta a terra, ma riesco lo stesso a trovare una pezza relativamente pulita.
Il professor Garret sgrana gli occhi alla vista del sangue. «Oh cielo». Da
come lo dice sembra un povero idiota, non certo un uomo di trentanove
anni.
Mi pare di capire che prima Jarrod se ne andrà dall'aula, e meglio si sen-
tirà Garret. Che cretino. Certo, ora ha un gran da fare a rimettere a posto
l'aula, ma la salute degli allievi dovrebbe essere la sua prima preoccupa-
zione. È così insicuro che si rianima solo quando cominciano ad arrivare
altri insegnanti e personale della scuola, che restano sconvolti. Mentre il
professor Garret cerca di spiegare cos'è successo, avvolgo strettamente la
pezza di cotone attorno all'avambraccio di Jarrod. Gli prendo l'altra mano e
gliela poso su quella fasciatura provvisoria, per evitare che si sleghi. «Tie-
nila così finché non smette di sanguinare» dico.
Lui mi guarda con un'aria strana, come se fosse nel mondo delle fate.
Cerco di non sondare la sua mente, come mi verrebbe spontaneo. Jillian mi
dice sempre di andarci piano. Con Jarrod devo stare doppiamente attenta.
Il professor Garret riporta l'attenzione sull'unico problema di cui si può
liberare facilmente, cioè Jarrod. «Vai in infermeria, ragazzo. Lì ti cureran-
no».
Jarrod scivola giù dallo sgabello. «Non so dov'è» mormora, tenendosi la
fasciatura.
«Ehm, già, giusto» balbetta Garret, vagando attorno con lo sguardo in
cerca di qualcuno che accompagni Jarrod. Io sono proprio davanti a lui.
«Sì, ora cerchiamo qualcuno...»
«Lo porto io».
Garret mi guarda come se non mi avesse mai visto prima. Non mi sor-
prende, di solito gli insegnanti si comportano come se fossi trasparente, il
che mi va benissimo perché non ci tengo proprio a farmi notare. Però Gar-
ret era il supervisore della mia classe l'anno scorso, e venne di persona al
negozio di Jillian per verificare la natura dei pettegolezzi. Ovviamente non
trovò nulla di sospetto, né tantomeno di vagamente sinistro. Jillian non gli
mostrò nulla di suo, né lo fece entrare dove solo io posso. Nemmeno Han-
nah sa cosa c'è nelle stanze private di Jillian. «Ma certo, Kate. Buona ide-
a». Garret nota la fasciatura e appare sollevato. «L'hai fatta tu?»
Annuisco.
«Brava ragazza. Ora andate, e attenti a dove mettete i piedi».
Jarrod mi segue alla porta, e mentre usciamo sento alle mie spalle la vo-
ce sarcastica di Bicipite. «Attento, bel bambino. Attento alla strega. Non
seguirla nello stanzino! Ooh, dio, che paura!»
Ah ah. Muoio dal ridere.
Tutta la classe, ovviamente, sghignazza a più non posso. Non pensano
con la loro testa, lui li comanda come un gregge di pecore senza cervello.
Un imbarazzante coro di fischi ci segue nel corridoio.
Jarrod
Mi sembra di essere stato investito da un camion. La testa mi pulsa e il
braccio mi fa male. Dovrei seguire questa ragazza in infermeria, ma non è
lì che mi sta portando.
E che cosa diceva Bicipite dello stanzino? Boh, tanto quello è un defi-
ciente.
Vorrei chiederle dove stiamo andando, ma non ricordo il suo nome. Il
professor Garret l'ha pure chiamata in qualche modo, ma in quel momento
mi pareva di sognare. Cioè, non proprio, ma era come se guardassi tutto
dall'esterno. Strano, ma non è certo la prima volta che mi succede. Ormai
ci sono abbastanza abituato. Cose strane accadono a me, e ora che ci pen-
so, anche alla mia famiglia. Ecco perché siamo finiti qui, in questo paese
dimenticato da dio, in cima a una montagna, nel mezzo del nulla. La chia-
mano Ashpeak, vetta di cenere. Chissà perché. Forse una volta la foresta
pluviale è stata devastata da un incendio. Per quanto mi riguarda, la mia
parte di fuoco l'ho avuta, e anche di acqua, direi.
Un nuovo inizio, aveva detto papà. Lo dice tutte le volte che ci trasfe-
riamo. Ormai la odio, la mia vita. Mi piacerebbe fermarmi, ogni tanto.
Farmi degli amici nuovi non è mai stato facile. A che scopo, pensavo? Ma
alla fine è brutto stare sempre da solo, sempre con l'etichetta dello sfigato
addosso. Non faccio in tempo ad ambientarmi in una nuova scuola e a co-
minciare a conoscere gente, che ci spostiamo di nuovo. Papà non ha un
lavoro fisso da sedici anni, e due anni è il periodo più lungo in cui siamo
rimasti fermi in un posto. Quella volta ero perfino riuscito a trovare un
paio di buoni amici. Ma alla fine un'assurda alluvione ha spazzato via la
casa dove abitavamo e anche il negozio, che aveva prosciugato tutti i nostri
risparmi. L'anno dopo abbiamo fatto bancarotta. Ogni tanto sospetto che i
nostri problemi non finiranno mai. E ora, dopo l'incidente che gli ha lesio-
nato la gamba, mio padre resterà invalido per tutta la vita. A volte rimane
tutto il giorno sotto morfina, per il dolore, può camminare solo con le
stampelle e i medici dicono che finirà per perdere la gamba.
Ora è tutto sulle spalle di mia madre, ma lei non può fare molto. È stata
malata durante i primi dieci anni di matrimonio e non ha mai imparato
nessun mestiere. Non ne parlano spesso, ma so che ci hanno provato per
dieci anni prima di avere me. Però lei è brava con le mani, ha un certo ta-
lento artistico. Confeziona vestiti da donna, con ricami di perline e pietre
colorate, anche preziose. Per me è roba da cowboy che non venderà mai.
Non appena usciamo dalla scuola, la testa comincia a schiarirsi. Seguo
ancora la ragazza e non posso fare a meno di notare certe cose. Come il
suo modo di camminare, sciolto ma determinato. La gonna grigia dell'uni-
forme scolastica le arriva a metà coscia. Non è una mini, ma è abbastanza
corta da permettermi di notare che ha delle belle gambe. Ha la pelle bian-
chissima, come se fosse anemica, ed è strano perché invece i capelli sono
completamente neri. Lunghi, fino alla vita. È bella, direi, in modo piuttosto
particolare. In classe ho notato i suoi occhi: azzurri, ma talmente chiari da
sembrare trasparenti come cristalli. Ora che ci penso, mentre li guardavo
ho sentito drizzarsi i capelli sulla nuca, e intanto una strana sensazione di
intrusione mi pulsava in testa.
Kate. Ecco come si chiama. «Ma certo, Kate. Buona idea» ha detto il
professore. Cominciamo a inoltrarci nella boscaglia. Se andiamo avanti
così, non arriveremo neanche a sentire l'odore del disinfettante. «Ehi» le
dico.
Lei si ferma a qualche passo da me e si volta. «Sì?»
Tutta la scena si fa sempre più strana. Mi stringo appena nelle spalle, col
braccio piegato, la fasciatura di fortuna sporca di sangue. «Dovresti por-
tarmi in infermeria».
Lei scuote la testa. «Perché? Lì non sanno curare niente».
E, come se fosse una spiegazione sufficiente, mi volta di nuovo le spalle.
Mi sporgo in avanti e con la mano buona le afferro il braccio, ma così
facendo perdo la fasciatura. Gli occhi di lei per un attimo si fanno davvero
assurdi: l'azzurro viene quasi inghiottito dal nero, e lo strano taglio a man-
dorla diventa quasi tondo. «Cos'è, un rapimento?»
Lei mi guarda male per un secondo, come se mi prendesse sul serio. Poi
il suo sguardo si sposta alla fascia che è caduta ai miei piedi. La raccoglie,
le dà una scrollata e me la rimette. Mentre lo fa comincia a ridere, e la sua
faccia si trasforma. Resto sbalordito davanti a quella bellezza improvvisa.
Giuro, questa ragazza è unica. E la sua risata è come una musica, una me-
lodia accattivante. Lei smette di ridere e io scuoto la testa, incredulo. De-
v'essere lo stress. Oppure sto diventando matto. Nessuna ragazza mi ha
mai fatto questo effetto.
«Ti sto portando da mia nonna» dice.
«È un'infermiera?»
Storce appena la bocca, come a reprimere una risata sarcastica. Poi, len-
tamente, riecco quel sorriso incredibile. «Non esattamente, ma è molto
meglio del personale medico della scuola».
Per qualche strano motivo le credo. Va bene, forse lo so, il motivo... è
per via di quel sorriso. Io resto come un idiota davanti ai sorrisi. In mezzo
a tante facce sempre nuove e sconosciute, un sorriso spesso è stata la mia
ancora di salvezza. Ma questo è davvero speciale. La trasforma, la fa sem-
brare... eterea. E ora come mi è venuta questa parola?
Raggiungiamo la strada principale e la seguiamo per un po', fino a un
bivio. Per un attimo penso che mi stia accompagnando, visto che la strada
a sinistra porta direttamente alla casa che i miei hanno preso in affitto; ma
poi gira a destra, imboccando la stradina sterrata che si inoltra nella foresta
pluviale. Da qui sembra piuttosto ripida, tutta a tornanti. La strada princi-
pale sparisce alla vista dopo la prima curva. Ora capisco come mai Kate ha
quelle gambe fantastiche: fare questo percorso tutti i giorni modellerebbe
anche le zampe di un rinoceronte.
Man mano che saliamo, i miei dubbi aumentano. Qui è solitario e isola-
to. «Dove abita tua nonna? Di questo passo muoio dissanguato prima di
arrivare a suonare il campanello».
Lei si gira e mi rivolge uno sguardo incredulo che mi fa sentire un auten-
tico cretino. Ebbene sì, il professor Garret non è l'unico a non sopportare la
vista del sangue. Mi sento avvampare.
«Se sanguina ancora, premi forte sulla fasciatura». Guarda la ferita, ag-
grotta la fronte rendendosi conto che è più profonda di quanto credesse,
poi riavvolge la benda, più stretta.
Le sue dita sono energiche e calde. Quando finisce, la guardo. «Grazie,
Kate».
Per qualche motivo, le mie parole la colpiscono. Alza la testa e i nostri
sguardi si incrociano. Potremmo essere amanti a un incontro segreto. O
perlomeno, questo è frutto della mia vivida immaginazione. Amanti. Cer-
to, come no.
Poi la sensazione si fa più intensa, come se i suoi occhi e la sua mente
avessero trovato un passaggio segreto nella mia testa. La riconosco, questa
sensazione. L'ho già provata in classe. Impreco ad alta voce, scuotendomi.
«Ehi, che cavolo era?»
Lei si volta e torna ad arrampicarsi per il sentiero, ignorandomi.
«Ehi!» la raggiungo, voglio una risposta. «Lo sai che cos'è appena suc-
cesso?»
Lei non si ferma, guarda dritto davanti a sé. «Certo».
Così, come se niente fosse. A me gira ancora la testa. «Allora, cos'era?»
«Non lo sai?»
«Se lo sapessi» urlo quasi, «te lo chiederei?»
Sorride, come se fosse un gioco. «Tu cosa pensi che fosse?»
Mi sta mettendo alla prova. C'è un tono di sfida nella sua voce. A me
non piacciono le sfide. Ho una serie di regole d'oro alle quali cerco di atte-
nermi, e le sfide mi costringono a superare alcuni limiti che mi sono impo-
sto. «Non ne ho idea. È fuori da ogni regola».
Lei rallenta un po', ma continua a camminare. Le sono grato, però non
glielo dico. Comincio ad avvertire una certa stanchezza.
«Quali regole?» chiede.
«Non lo so... le regole della vita normale».
«C'è qualcosa nella tua vita che segua le regole, Jarrod?»
Non ho bisogno di pensarci a lungo. Certo che no. Dev'essere per questo
che sogno lo stile di vita regolare che non ho mai avuto.
Visto che non rispondo, lei continua: «È buffo».
Per quanti sforzi faccia, non vedo il lato comico. Quella sensazione di
intrusione nella testa era irreale. In effetti comincio a pensare che questa
Kate non sia un toccasana per me, e magari è anche un po' fuori di testa.
«Cosa c'è di buffo?»
«Sei completamente ignaro di te stesso».
«Osservazione interessante. Vai avanti».
Invece si ferma. Mi guarda dritto in faccia, senza sbattere le ciglia. Vor-
rei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco. Alza le mani, con le palme in
su. «Il tuo potere. Ne hai così tanto».
La guardo con un'espressione vacua. Non capisco una parola.
«È dentro di te». Mi punta l'indice contro il petto. «Lo so. Anzi, lo sento.
E io sono brava in queste cose».
«Sei un po' strana, vero?» Mi batto l'indice sulla tempia.
Lei sbuffa e grugnisce, e ci manca poco che pesti i piedi. Riparte e io la
raggiungo di nuovo, cercando di ignorare la pulsazione della ferita. «Scu-
sa» mormoro.
Lei scrolla le spalle. «Non fa niente. Non sei il primo che me lo dice».
«Davvero?»
Si volta appena, con un sorriso. «Sei uno scemo».
«Sai, non sei la prima che me lo dice».
Il suo sorriso si allarga, prende anche gli occhi, e mi sento subito meglio.
Voglio che continui a parlare. Mi piace il suono della sua voce, il modo in
cui muove le labbra. Cerco di trovare un argomento qualsiasi. «Che lavoro
fa tua nonna?»
Decisamente, la sua risposta mi trova impreparato. «È una strega».
Il primo pensiero è che stia scherzando. Voglio dire, sono convinto che
scherzi, ma c'è qualcosa che non va. Per esempio, non ride. Non sorride
nemmeno, neanche una rughetta attorno a quegli occhi esotici. «Capisco»
dico, tentando di capire.
«Per favore, non dire a nessuno che te l'ho detto. Non avrei dovuto, ma...
insomma, so che anche tu sei diverso».
Decido che sta sicuramente scherzando. Mi prende in giro. Ha un senso
dell'umorismo davvero contorto, ma cerco di reggere il gioco. «Ah, sì,
certo, magia nera e roba simile».
Sento che inspira con forza, attraverso i denti. Fantastico. Ora è arrab-
biata con me. «Nera mai, Jarrod» dice, serissima. «Almeno non nel senso
tradizionale che si dà a quella parola quando si parla di arti magiche».
La guardo in silenzio e lei continua: «Jillian non farebbe mai del male a
nessuno. Su questo è irreprensibile. Tutta la sua magia è pura. Lei è una
guaritrice».
Capisco che è mortalmente seria. Nota la mia faccia attonita e cerca di
svicolare. «Ascolta» comincia a spiegare, rendendosi rapidamente conto
che non la seguo, «credimi, non ti direi nulla di tutto questo, io di solito
non incoraggio i pettegolezzi, però credo che tu abbia il dono. Probabil-
mente tu non lo sai nemmeno, figurati» continua, tutto d'un fiato. «Questo
lo vedo, e mi dispiace se ti ho scioccato, ma tu devi capire che un dono
potente come il tuo può essere pericoloso. Manipolare le condizioni atmo-
sferiche è...» esita, in cerca della parola giusta. Ho l'impressione che non
stia tanto cercando una spiegazione, quanto dei termini che non compro-
mettano ulteriormente la sua reputazione.
«Senti» riprova, e sorprendentemente arrossisce, le sue guance diventa-
no color pomodoro, «di solito solo gli stregoni possono fare certe cose,
maghi potenti, non gente comune. Mi spiego?»
La fisso con gli occhi ancora più spalancati. Sta davvero dicendo queste
cose? Decido di vedere quanto è disposta ad ammettere. «Quindi, sia tu
che tua nonna siete streghe?»
Ci mette un po' a rispondere, come se dovesse scegliere le parole con
molta cura. «Immagino che si possa dire così».
«Jillian e Kate. Non sembrano nomi da streghe».
«Perché, che cosa ti aspettavi?»
«Mah, non so... Laeticia, magari».
Lei aggrotta la fronte, ma sorride. «Laeticia? Dove l'hai scovato, in una
tomba?»
«Era il nome di mia nonna».
«Ah».
«Sì, e assomigliava anche, a una strega».
«Forse lo era».
«Ma figurati. E poi la magia non esiste».
«Esiste» replica lei, dolcemente.
«No. Non mi convincerai mai. È...»
«Fuori dalle regole?»
«Dalle mie, di sicuro».
«Senti, Jarrod. Io ho visto il tuo dono in azione. E se non impari a gestir-
lo può succedere di tutto. Qualcuno potrebbe farsi davvero male. Guarda il
tuo braccio. E se la scheggia ti avesse ferito alla gola?»
Mi guardo il braccio. La fasciatura è scivolata di nuovo, ma ora la ferita
non sanguina più. Questo mi assicura che non sto per cadere stecchito ai
piedi di questa strana ragazza, né ho disperato bisogno di una trasfusione.
Tuttavia, lo scherzo è durato abbastanza. «Ma che stai dicendo? Che io ho
provocato quella tempesta?»
Lei annuisce e sorride, genuinamente sollevata.
Ora lo so per certo. La verità mi colpisce allo stomaco come un pugno.
Ed è un peccato, perché mi sento attratto da lei come mai da nessun'altra
ragazza. Ma questa è matta da legare. Non c'è altra spiegazione. Mi volto e
comincio a tornare indietro, giù per la solitaria strada di montagna, aumen-
tando la velocità a ogni passo. Le dico soltanto: «Credo che rischierò con
l'infermeria».
«Ge-esù» sibila lei tra i denti. «Ti ho spaventato».
Io continuo a camminare e lei mormora qualcos'altro. Non potrei giurar-
ci, ma credo che stia dicendo: «E non ci è voluto nemmeno tanto».
Poi però mi raggiunge, mi prende per il gomito, mi dà dei colpetti sul
braccio. All'improvviso mi sento come un cucciolo abbandonato appena
trovato sul ciglio della strada. «Dai, non ti preoccupare» sussurra. «Non
avrei dovuto perdere la calma. Jillian se la cava sempre meglio di me con
le parole. Dai, Jarrod, vieni. Siamo quasi arrivati».
Alla fine la seguo. È più facile cedere. La mia politica prevede di evitare
scenate il più possibile. E poi di sicuro non può essere pericolosa. Avrà
sedici anni, come me. È nella mia classe. E immagino che non tengano
ragazzi svitati nelle classi normali, al giorno d'oggi. Ci sono posti speciali,
per loro.
O no?
Kate
Di cose su Jarrod Thornton ne ho sapute molte, e in fretta. Quella più
spaventosa è che lui non ha la minima idea del proprio talento. Del suo
dono, intendo. E soffre di una grave mancanza di fiducia in se stesso. Mi
domando come mai. Che razza di vita può aver ridotto la sua autostima a
uno zerbino? Specialmente visto il potere che ha. Mi domando cosa ne
penserà Jillian.
Siamo sempre state insieme, noi due. Non vediamo molta gente, a parte
Hannah. Il fatto che Hannah non abbia un talento naturale non toglie nulla
alla sua passione per le arti magiche. Di mia madre ho avuto notizie una
volta sola, due righe per dire che alla fine aveva trovato la felicità a Bri-
sbane, dove viveva con un uomo e i suoi tre figli grandi. È stato qualche
anno fa e il biglietto era indirizzato a Jillian, come se lei ancora non si fa-
cesse una ragione della mia nascita. Immagino che l'uomo con cui sta non
sappia nemmeno che esisto. Dovrei sentirmi sollevata, perché non ho nes-
suna intenzione di lasciare Jillian né Ashpeak, ma a volte non posso fare a
meno di chiedermi che diavolo ci sia di sbagliato in me, al punto che la
mia stessa madre non vuole conoscermi.
Anche Jillian è una ragazza madre, ma non ne parla quasi mai. Tutto
quello che so è che i suoi la buttarono fuori di casa non appena scoprirono
che era incinta. Lei si mise con un artista per un po', ma lui era talmente
lunatico che alla fine dovette lasciarlo. Andò ad abitare con un paio di a-
spiranti streghe, tutte prese dalla cartomanzia e dagli incantesimi per dena-
ro e cose così. Non erano nemmeno molto brave, e facevano soldi a spese
dei creduloni. Una volta dissero a un'anziana vedova, che voleva contattare
lo spirito del defunto marito, che lui era infelice senza di lei e che non tro-
vava pace. Un paio di giorni dopo Jillian venne a sapere che la signora
aveva inghiottito un'intera scatola di sonniferi ed era entrata in un coma da
cui i medici non riuscirono più a svegliarla. La tragedia spinse Jillian ad
andarsene per conto suo, e in effetti fu la cosa migliore che potesse fare.
Cominciò a vendere i suoi cristalli, erbe e incensi al mercato. Lavorò sodo,
mise da parte i soldi e ora ha il suo negozio, Foresta di Cristallo.
Non le chiedo mai di raccontarmi più di quanto lei voglia. Rispetto la
privacy, e lei pure.
Guido Jarrod sull'ultimo tornante, che termina in una via privata, senza
uscita. Casa nostra è l'unico edificio visibile. Ci sono altre case più in bas-
so, ma Jillian e io le frequentiamo poco. A lei piace così, e anche a me va
benissimo.
La casa è piccola, quasi tutta in legno a parte il basamento in mattoni. Al
pianoterra c'è il negozio. Da fuori si vede l'interno attraverso la grande
vetrina, e i ninnoli di Jillian che scintillano nella luce del mattino. Sul retro
ci sono le stanze di Jillian, una cucina-tinello e un bagno. La mia stanza
occupa tutta la mansarda. È piccola ma io l'adoro, anche se riesco a stare in
piedi solo al centro, dove il tetto è più alto. È tutta per me, e da lì ascoltare
i suoni della foresta di notte è molto confortevole.
All'improvviso mi chiedo cosa pensi Jarrod di casa mia. Scommetto che
la trova strana. Non oso sondare di nuovo la sua mente, lo metterei troppo
in agitazione. Non è molto ricettivo verso le nuove idee. Tutto quello che
non capisce al volo, quello che esula dalle sue 'regole di vita' lo spaventa a
morte. Dovrò dire a Jillian di andarci piano.
Le campanelle alla porta tintinnano quando apro. Jillian è sul retro, ma
appare subito sulla soglia non appena ci sente arrivare. Le sorrido. Anche
se non è normale vedermi qui in orario di scuola, so che non si arrabbierà.
Lei è fatta così, non giudica mai.
Il sorriso mi muore sulle labbra. Nell'attimo in cui vede Jarrod, Jillian
spalanca la bocca e sbatte le palpebre, come se cercasse di mettere a fuoco
qualcosa. Ci avviciniamo e lei sbarra gli occhi, scioccata. Ha un'aria comi-
ca, però non mi viene da ridere. Qualcosa non va. Si fruga in tasca, in cer-
ca degli occhiali. Li inforca e grida.
Un urlo acuto, terrorizzato. Sento gli animali, fuori, che scappano spa-
ventati. Non capisco. Lei mormora qualcosa sul male, ma è difficile distin-
guere le parole.
Finalmente smette, ma respira ancora a fatica, con una mano sul petto.
Oggi è decisamente la giornata degli imprevisti. Prima quella strana tem-
pesta in laboratorio, ora Jillian che perde il controllo. Ed è una cosa così
estranea al suo carattere che resto sbalordita. Piano, mi volto verso Jarrod.
Ci mancava solo questa. Ora penserà che siamo matte tutt'e due. Ce l'ha
scritto in faccia: incredulità, choc, e paura di essere in pericolo. Che pusil-
lanime, mi fa saltare i nervi. Ma non ha la spina dorsale? Non vede che
Jillian sta male?
«Che cos'è successo, Jillian?»
Lei indica Jarrod con mano tremante. «Serpenti. Ho visto dei serpenti».
Lui inarca le sopracciglia.
«Su di lui?»
Lei annuisce, deglutendo a fatica. «Una visione. Dev'essere stata una vi-
sione. Ora se n'è andata». Distoglie malvolentieri lo sguardo da Jarrod, e
fissa i suoi occhi azzurri nei miei. «Ce n'erano almeno venti, Kate. Tutti
attorno al corpo, verdi cose viscide che gli si attorcigliavano attorno alle
spalle, alla testa, fra i capelli».
Non stento a crederle neanche per un attimo. «Mio dio, ma che cosa si-
gnifica?»
Lei rabbrividisce e si rimette gli occhiali in tasca. «Non lo so, cara. I ser-
penti sono creature vili, indicano la presenza del male».
«Ci siamo appena conosciuti, ma non sento il male su di lui». Ci penso
un secondo e scuoto la testa. «No, Jillian. Non è il male. Lui è più...»
Scrollo le spalle, mentre le immagini si rincorrono nel mio subconscio. «...
Una specie di cucciolo».
«Domando scusa» ci interrompe la placida voce di Jarrod. «Tutto questo
è molto divertente. Se mai ritrovo il mio senso dell'umorismo, giuro che
rido. Magari tra una ventina d'anni. Ma ora purtroppo devo andare, sape-
te... a cercare un cerotto».
Fantastico. So che cosa sta facendo. Ignoro il suo evidente desiderio di
fuga e provo ad aggirare il suo scetticismo e la sua paura. «Aspetta, Jarrod,
lasciami spiegare».
Lui si sistema gli occhiali, poi mi punta contro l'indice e scuote la testa.
«No, non ti voglio ascoltare. Senza offesa, ma... questo non fa per me. Se
vuoi saperlo, ho già avuto un piccolo incidente con dei serpenti una volta,
nel mio letto». Rabbrividisce. «E non ne voglio più sapere».
Si gira, ma io raggiungo la porta per prima. «Lascia almeno che ti cu-
riamo il braccio. È il minimo che possiamo fare, davvero».
«Io credo che il minimo che tu potessi fare l'hai già fatto, alla mia salute
mentale. Non mi sbarrare la porta, Kate, o la apro lo stesso, anche con te
davanti».
Una strana brezza comincia a soffiare, e tutti i gingilli e le campanelle
cominciano ad agitarsi. Mi soffia in faccia e fra i capelli, ed è bellissimo.
Non è furioso, come prima nel laboratorio. Questo vento è soprannaturale
ma docile, e canta. Vorrei condividerlo con Jarrod, perché è lui che l'ha
creato. Ne sono sicura. Ed è un vento talmente bello, mi passa tra i piedi e
sale dolcemente verso il soffitto. Mi prende talmente che comincio a muo-
vermi con lui.
Quasi mi dimentico di Jarrod e della sua voglia di fuggire. Ma anche lui
ha notato il vento. Mi guarda in modo strano, con la testa piegata da un
lato e un'espressione curiosa, come se fosse attirato suo malgrado.
«Ooh, che delizia». Jillian rientra con le mani cariche di bende e disin-
fettanti vegetali. «Vuoi sederti qui un minuto... Jarrod, giusto?»
Lui annuisce, momentaneamente distratto dall'idea della fuga, e si siede
sullo sgabello che Jillian gli indica. Vedo che guarda fuori, gli alberi im-
mobili nella foresta. Si chiede come sia possibile questa brezza qui, quan-
do fuori l'aria è quasi immobile. È un bene che se lo chieda. Lo lascio fare
senza piombare nei suoi pensieri. Ho appena imparato che non bisogna
precipitare le cose, con lui.
La brezza scompare nel momento in cui la prima goccia di disinfettante
tocca la sua ferita aperta. «Ehi! Che diavolo è?»
«Tintura di erba di San Giovanni. È un ottimo antisettico, antinfiamma-
torio e sedativo» spiega Jillian. Sembra che si sia ripresa, e che quella vi-
sione spaventosa sia svanita.
«Non può usare un disinfettante normale?» chiede lui, sarcastico. «Nien-
te riuscirebbe a bruciare nemmeno la metà di questo».
Jillian continua a lavorare con delicatezza. Noto che le sue mani tremano
ancora un po'. Sono ancora le conseguenze della visione. «Ecco qua, non
sembra troppo profonda». Riaccosta i lembi di pelle e applica tre cerotti.
«Almeno, non credo che ci vorranno dei punti» dice dolcemente, di nuovo
del tutto padrona di sé. «Hai fatto un'antitetanica di recente?»
Lui annuisce. «Oh, sì. Sono sempre...» le getta una rapida occhiata, ar-
rossendo. «No, niente» mormora.
«Bene» risponde distrattamente Jillian applicando una benda sterile sulla
ferita. «Dovrebbe andar bene, ma vai da un medico se si arrabbia».
«Si arrabbia?» chiede Jarrod, perplesso.
«Diventa rossa, gonfia o calda» spiego io, che ho visto centinaia di volte
Jillian al lavoro. I vicini conoscono la sua abilità con ferite e cose del gene-
re. E, visto che ci vogliono almeno venti minuti di macchina fino al più
vicino ospedale e a volte tre giorni per avere un appuntamento all'ambula-
torio di Ashpeak, spesso i vicini passano da noi in caso di piccoli incidenti.
E non solo se si tratta di persone. Jillian cura anche animali, e li nutre fin-
ché non sono in grado di tornare liberi. Non è insolito che qualcuno capiti
anche in piena notte, con un opossum o un koala trovato per la strada.
Apparentemente soddisfatto della mia spiegazione e della medicazione
al braccio, Jarrod lascia che la curiosità prenda il sopravvento sulla paura e
si mette a guardare le varie stravaganze che Jillian tiene in negozio, soprat-
tutto per i turisti: cristalli, oli, amuleti, libri New Age. Jillian mi tira da
parte. Le faccio un breve resoconto dei fatti del laboratorio. Lei ascolta con
molta attenzione, e ogni tanto annuisce.
«Sembra così dolce, eppure...» sussurra. «Sento che c'è dell'altro. La sua
aura è piuttosto spettacolare, direi».
«Ha un potere incredibile, Jillian. L'ho visto. L'ho sentito».
«È strano che ne sia così inconsapevole, Kate. Le persone che nascono
con talenti soprannaturali o se ne rendono conto presto, oppure mai. E fio-
riscono, come nel tuo caso, o restano latenti. Gli sfortunati che sono all'o-
scuro di solito lo restano per tutta la vita. L'ho visto succedere tante di
quelle volte... Pensa che anni fa la figlia piccola di Denise Hiller sollevava
la cornetta ogni volta che qualcuno stava per fare il loro numero. Sennon-
ché a Denise dava fastidio che la gente trovasse sempre il suo telefono
occupato. Ha rimproverato la figlia al punto che la bimba ha imparato che
quelle cose non andavano fatte. Ora è cresciuta, e non c'è verso di recupe-
rare il suo potere. Ci abbiamo provato, ma è andato quasi tutto perduto.
Riesce a fare piccole cose con il suo sesto senso, ma niente di più».
«Il potere di Jarrod è immenso, eppure lui non ne ha la minima idea».
«È davvero strano. È come se qualcosa l'avesse riattivato».
Cerco di seguire il suo ragionamento. «Pensi che ci sia un motivo per cui
sta emergendo ora?»
Lei scrolla le spalle. «Non lo so, Kate. Tiro a indovinare».
Ci penso un minuto, ma c'è dell'altro. «Se il potere di Jarrod è tanto forte
da manipolare gli elementi, e lui non impara a controllarlo, può succedere
qualsiasi cosa. Il laboratorio di scienze è stato quasi distrutto, oggi. Per
fortuna nessuno si è fatto male».
«Devi indagare un po' nel suo passato, e vedere cosa viene fuori. Un po-
tere come quello, se scatenato, può provocare veri e propri disastri, Kate.
Però vacci piano, sembra piuttosto fragile».
È un eufemismo. Io direi piuttosto che sembra uno smidollato.
Quando Jarrod si avvicina smettiamo di confabulare. Lui ringrazia Jil-
lian e usciamo. Neanche lo splendore del cielo azzurro riesce a scacciare
dalla mia testa l'avvertimento di Jillian.
Jarrod
«Non ha molto senso tornare a scuola adesso».
La guardo. Sta scherzando. Siamo fermi sulla stradina senza uscita fuori
dallo strano negozio di sua nonna. Guardo l'orologio, sono le undici. «Ma-
gari per te, ma io non ho voglia di beccarmi una sospensione il primo gior-
no».
«Voglio farti vedere una cosa».
«Scusa, ma non posso proprio». Mi avvio giù per la strada, non abba-
stanza in fretta. Kate è decisamente strana, ma vedendo sua nonna capisco
perché. Povera ragazza, ce l'ha nei geni. «Un'altra volta, magari». Per e-
sempio, mai.
«Non è lontano». La sua insistenza è cortese ma decisa. «Dai, Jarrod...
Voglio solo rimediare a quello che è successo oggi, con Jillian e... sì, in-
somma» scrolla le spalle, «i serpenti».
L'incidente con sua nonna mi ha scioccato più di quella strana tempesta
nel laboratorio. Quello almeno è un ricordo confuso. Cerco di restare im-
passibile. «Lascia stare».
«Ti piacerà quel posto. E... incantato».
Incantato! Ci mancava solo questa. «Ah».
Lei capisce al volo di aver commesso un errore e arriccia il naso. «No,
non volevo dire...» si corregge in fretta. «In realtà volevo dire incantevo-
le».
«Hmm». Lo so che sono scortese, ma ne ho abbastanza di queste fesserie
magiche.
«Guarda» insiste lei, «quel posto è proprio speciale. E scommetto che
non hai ancora visto molto della montagna».
Su questo ha ragione: siamo arrivati solo da pochi giorni e li abbiamo
trascorsi sistemando quella vecchia casa in modo che papà ci si possa
muovere bene con le stampelle. «E allora?»
Mi prende per il gomito. Le sue dita sono forti e calde. La guardo: è più
bassa di me, di almeno una spanna. I suoi occhi grigioazzurri riflettono la
luce del sole mentre le labbra si schiudono di nuovo in quel sorriso. Mi
prende il braccio e senza pensarci due volte la seguo nella foresta. «Tu sei
pericolosa».
Lei ride ma non risponde. E per i successivi venti minuti non parliamo,
mentre ci facciamo strada in un labirinto di liane e alberi caduti che ora
ospitano dio sa quali animali. Mentalmente faccio un elenco di tutte le di-
verse creature che proprio in questo momento mi si sono attaccate alle
suole e cominciano a farsi strada verso il primo centimetro di pelle espo-
sta... zecche, sanguisughe, serpenti!
Finalmente arriviamo, e devo ammettere che la serenità del posto è dav-
vero straordinaria. C'è un piccolo torrente che scorre sopra una varietà di
massi dalle forme diverse, e l'acqua è così limpida che si distingue fino
all'ultimo sassolino. Sull'altra sponda si estende un campo di felci verde
scuro, alte fino al ginocchio, che danzano alla musica di una leggera brez-
za.
«Be', che te ne pare?» Lei è accanto a me e osserva orgogliosamente il
panorama, come se quella scena pittoresca fosse opera sua.
Raccolgo un sasso e cerco di farlo rimbalzare sull'acqua. Va giù al primo
colpo. «Bello».
Lei aggrotta la fronte, contrariata, ma ne ho abbastanza di essere conci-
liante. Domanda: «È tutto quello che riesci a dire? 'Bello'?»
Mi siedo su un tronco caduto, controllo se ci sono sanguisughe sotto le
mie suole. «Va bene, è molto bello».
Lei si siede accanto a me e sbuffa, apparentemente rassegnata al fatto
che più di questo non otterrà. «Mi dispiace che Jillian abbia perso il con-
trollo in quel modo. Probabilmente non ci crederai, ma lei è conosciuta per
essere tollerante e calma anche quando è sotto pressione. A volte può sem-
brare un po' svagata, ma è fatta così. È intelligente, ama la natura ed è una
grande gua...»
Saggiamente, non finisce la frase. «Mi ha cresciuta lei, da quando mia
madre è scappata».
Scrolla le spalle come se il rifiuto di sua madre non la riguardasse più.
Non c'è bisogno di essere un sensitivo per capire che non è così. La rea-
zione isterica di Jillian comincia a passare in secondo piano. «Ehi, non c'è
bisogno che ti scusi. Non è mica successo niente».
Restiamo in silenzio per un minuto, a goderci il posto: l'acqua che scorre
sui sassi, la brezza leggera che gioca con le felci e con i milioni di foglie
d'eucalipto, e il profumo della terra umida e del muschio. Kate è seduta
accanto a me con la testa all'indietro, gli occhi socchiusi, totalmente con-
centrata e nello stesso tempo rilassata. All'improvviso la invidio. Questa
montagna è la sua casa, probabilmente tutta la sua vita. In questa foresta ci
sono le sue radici; è evidente che lei l'adora. È qualcosa che non ho mai
avuto il piacere di assaporare: un posto mio, degli amici. «Siete solo tu e
tua nonna?» Chissà se sono troppo invadente.
Lei scrolla di nuovo le spalle. «Sì, non so chi è mio padre. Non so nean-
che come si chiama».
«Cavolo. Potrebbe essere chiunque. Non hai nessun indizio?»
Si mette sulla difensiva. «E chi dice che io lo voglia sapere?»
Poi distoglie lo sguardo, ma i suoi occhi si sono rannuvolati. Quando
parla di nuovo il suo tono è dolce. «So che si era accampato qui nella fore-
sta. È così che ha incontrato mia madre. Lei veniva sempre qui, si sedeva
in riva al fiume e sognava di vivere in una grande città. La montagna non
le piaceva».
«E poi cos'è successo?»
«Lui aveva appena finito la scuola ed era venuto in montagna a rilassar-
si. Ebbe guai con delle ortiche velenose e mia madre se ne prese cura. A
quanto pare, non solo di quello».
«Pensi che si amassero?»
I suoi occhi cambiano, come se fosse scivolata all'indietro nel tempo,
immaginando i suoi genitori come dovevano essere allora, giovani amanti
che si incontravano nella foresta. «Come faccio a saperlo? È possibile in-
namorarsi così in fretta? Hanno avuto solo qualche giorno».
L'idea mi colpisce come una bomba. Ecco perché questo posto è tanto
speciale per lei. «È stato qui, vero?»
Solleva appena le spalle.
«È qui che tuo padre era accampato, dove i tuoi...»
Lei ritorna subito sulla difensiva. «Sì, e allora?»
«Niente. Scusa, non dicevo...» I suoi occhi mandano lampi. Non finisco
la frase.
«E voi, perché vi siete trasferiti qui?» chiede, cambiando discorso. «An-
che se io lo adoro, non è sempre un posto piacevole. Specialmente d'inver-
no. Nevica, e ci sono giorni in cui il vento è così ghiacciato che trapassa i
vestiti ed entra nelle ossa. Anche adesso, le mattine sono già fresche.
Quest'anno l'inverno arriverà presto».
Decido che ha tutti i diritti di tenersi per sé gli affari suoi. È evidente che
il passato brucia. Be', anche il mio. Almeno questo in comune ce l'abbia-
mo. «Mio padre ha avuto un incidente che gli ha rovinato una gamba. Si è
talmente depresso che mia madre ha pensato che la serenità di un posto del
genere poteva fargli bene».
Lei annuisce. «Com'è accaduto l'incidente?»
«Si stava lavando le mani in un garage, dopo aver lavorato su un vecchio
trattore, e ha fatto cadere il sapone. Pochi minuti dopo ci è scivolato sopra
ed è andato a sbattere contro uno scaffale d'acciaio che poi gli è caduto
addosso».
«Ahi».
«Gamba fracassata, lesioni permanenti dei muscoli e dei tendini».
I suoi occhi a mandorla si fanno tondi. «Che strano».
«L'hanno detto tutti. Proprio un incidente strano».
Probabilmente sta ripensando a come sono caduto dallo sgabello stamat-
tina, in laboratorio. «Non c'è bisogno che lo dici. La goffaggine è una ca-
ratteristica di famiglia».
«Non stavo per dire quello».
«Sì, invece» mormoro io.
«Allora capitano spesso».
«Cosa?»
«Gli incidenti, nella vostra famiglia».
La sfortuna ci sta attaccata addosso come la peste, ma non lo ammetto.
Mi limito a stringermi nelle spalle. «Abbiamo avuto un po' di ossa rotte».
Lei pare sorpresa. «Davvero? Quante?»
«Mah, non so. Sette, otto, dieci».
«Cosa?»
«Allora: c'è stato l'incidente d'auto. Mia madre si è rotta tre costole, un
braccio e si è scheggiata la clavicola. Casey, mio fratello più piccolo, si è
rotto il gomito cadendo dall'altalena un paio d'anni fa. Quando avevo quat-
tro anni sono caduto dal letto a castello e mi sono rotto la gamba in due
punti. A sette anni mi sono rotto l'anca saltando su una panchina in un par-
co. Poi c'è stata la gamba di papà, anche se quella non è tecnicamente rot-
ta».
Mi guarda, incredula. «Io non mi sono mai rotta niente».
«Fortuna».
«Altri incidenti degni di nota?»
Mi passo le mani tra i capelli. Lo faccio sempre quando mi sento sotto
pressione. Non mi va di dire a Kate del fallimento degli affari di famiglia,
o dell'incendio che nell'ultima scuola che ho frequentato ha distrutto l'inte-
ra sezione di arte. Io non c'entravo. Ero solo l'unico alunno rimasto lì fino
a tardi, quando c'è stata una fuga di gas e un'esplosione che si è portata via
tre aule. La mia fortuna è che mi sono allontanato per andare in bagno solo
qualche secondo prima.
Kate è parecchio intuitiva, però. Credo di essere abbastanza trasparente
per lei. «Dai, sputa» mi dice, dandomi una spintarella sulla spalla con la
mano aperta.
«Va bene, va bene». Le afferro il polso per farla smettere, e poi le trat-
tengo la mano. Mi piace la sensazione che dà al tatto. «C'è stata un'inonda-
zione, che ha spazzato via la casa dove stavamo in affitto».
«Davvero? Miseria... si è fatto male qualcuno?»
«No, ma c'è mancato poco. La Protezione Civile ci ha fatto evacuare.
Mia madre ha insistito per salvare una scatola di fotografie e per poco non
veniva travolta».
«Tanti dicono che lo farebbero... salvare le foto, dico. Io no. Andrei drit-
ta a...» I suoi occhi incrociano brevemente i miei, poi tornano a guardare il
ruscello. «No, niente. Ma la casa era vicina a un fiume?»
«Ma no, era solo un torrente. Non era mai straripato prima. Ha colto di
sorpresa tutta la città».
Lei scuote la testa, partecipe. Mi sorprende la facilità con cui sto vuo-
tando il sacco. Non mi sono mai aperto così con nessuno, sulle sventure
della mia famiglia. Ma con Kate le parole scappano fuori facilmente.
«Perciò avete perso tutto?» chiede. «Tranne le foto?»
«E il prezioso albero genealogico di mio padre» spiego. «Difende quel
libro a costo della vita. È stata la prima cosa che ha salvato. Ci lavora da
più di vent'anni. Ha ricostruito la linea dei Thornton fino al medioevo, il
milleduecento o giù di lì. Vivevano in quelle terre di confine che si dispu-
tavano l'Inghilterra e la Scozia. I Thornton avevano uno dei primi castelli
costruiti in pietra. Pare che sia ancora in piedi, anche se non è più dei
Thornton. Ma ora dicono che è cambiato parecchio, è stato ricostruito con
mattoni, stanze eccetera».
È davvero colpita, e mi guarda con gli occhi spalancati. «Scherzi? Ma
l'hai visto sul serio?»
«Sì, insomma, in fotografia».
«Gesù, Jarrod, è incredibile. Vorrei tanto vedere il libro di tuo padre. La
mia famiglia è così piccola. Tutto quello che so è che mia madre è scappa-
ta a Brisbane e che Jillian era una ragazza madre. Fine della storia».
Questo mi stende davvero. Sento che ritira la mano dalla mia, e la lascio
andare a malincuore. Eccomi qua, a pensare a quant'è fortunata lei ad avere
una casa e a vivere tutta la vita nello stesso posto, anche se alla fine non è
molto diversa da me. Io magari non ho legami con questa montagna, ma
lei non sa nulla dei suoi antenati. Non conosce nemmeno i suoi genitori.
All'improvviso sento il bisogno di raccontarle la storia della mia famiglia.
«Se ti va, un giorno te lo porto, il libro».
«Mi piacerebbe».
Non riesco a credere a quant'è diversa, normale, quando non parla di
magia e cose del genere. In qualche modo sento che è troppo bello per du-
rare. Decido di tornare a scuola per le lezioni del pomeriggio e mi alzo, ed
ecco che lei ricomincia. «Io credo che la tua famiglia possa avere addosso
una maledizione, sai?»
A questa nuova assurdità alzo gli occhi al cielo. «Io non lo credo pro-
prio».
Ma ormai la sua immaginazione è partita in quarta. Sale in piedi sul
tronco, come se l'altezza rendesse la sua folle teoria più credibile. Le sue
mani tracciano una trama invisibile nell'aria mentre spiega il suo punto di
vista. «Pensaci. Tutti quegli incidenti. E poi i tuoi... i tuoi poteri... la male-
dizione deve entrarci in qualche modo». Schiocca le dita, come colpita da
un'idea improvvisa. «La maledizione li ha scatenati dal tuo subcosciente».
Mi arrendo e mi avvio nella direzione da cui siamo arrivati. «Non rico-
minciare, Kate. Non rovinare tutto».
Lei salta giù dal tronco e mi raggiunge, completamente immersa nelle
sue pazze teorie. «Io credo che i tuoi poteri stiano crescendo per qualche
motivo. Forse la maledizione si sta facendo più forte».
«Non ricordo di aver ammesso che c'è una maledizione».
«Senti» prosegue lei, «la malattia di tuo padre è seria, non si tratta solo
di un osso rotto». Mi afferra per il braccio buono e mi costringe a voltarmi.
Ha una forza sorprendente. «Non capisci?»
Forte o no, ne ho più che abbastanza di queste cretinate. Mi divincolo
dalla sua stretta. «La vuoi piantare? La sfiga è solo sfiga. Non vuol dire
niente. Non ho nessun potere. È assurdo. Lasciami in pace, voglio essere
normale come tutti gli altri».
Lei resta immobile. «E non credi che io voglia essere normale come tutti
gli altri? Credi che mi piaccia vivere così?»
Ma che dice? «Tu?»
«Anch'io ho dei poteri» risponde, a voce così bassa che la sento a mala-
pena. «Non molto forti, in realtà. Non quanto vorrei. Ma sono in grado di
fare un paio di incantesimi. Tipo accendere la radio da un'altra stanza,
cambiare l'ora agli orologi digitali, trucchi del genere. Ma il mio talento è
soprattutto entrare nella testa della gente».
No, questo è troppo. «Stai dicendo che leggi nel pensiero?»
«No, niente di così grandioso. Anche se ci ho provato, con Jillian e Han-
nah. Ma riesco a percepire le emozioni. So se una persona è arrabbiata, o
triste, o spaventata, anche se non lo dimostra».
«Molto interessante» ribatto sarcastico, mentre il bisogno di fuggire si fa
sempre più urgente. Devo scappare, via dalla foresta, da Kate e da quello
che sta dicendo. Comincio a correre e saltare, facendomi largo tra il fo-
gliame, sperando di ritrovare la strada.
«Ero nella tua testa stamattina, Jarrod Thornton!»
Non rallento finché non arrivo alla strada. Non è lo stesso punto da cui
siamo partiti, ma non importa, intanto sono fuori. Sfortunatamente Kate è
dietro di me. Mi volto, deciso a togliermela di torno. «Tu sei pazza, Kate...
come ti chiami».
«Mi chiamo Warren. E maledizione, tu mi hai sentito!»
Cerco di riprendere fiato. Non sa proprio che cosa sta dicendo. Mi sta
facendo saltare i nervi sul serio. E so che la offenderò, ma devo farlo.
«Senti, Kate Warren, tu sei malata. Sei pazza. Dovrebbero rinchiuderti
prima che tu faccia del male a qualcuno».
Ricomincio a correre giù per i tornanti, la strada è molto più agevole ora.
Eppure le mie gambe non riescono a correre via abbastanza velocemente
da Kate e dalle sue accuse da psicopatica.
La sento sussurrare nella mia testa, come se fosse dietro di me. «È il tuo
potere senza controllo che può far male a qualcuno».
Scuoto la testa e mi volto. Nessuno. Eppure avrei giurato di sentire la
voce di Kate. Mi viene la pelle d'oca. Sto diventando matto anch'io. Non
poteva essere lei. Doveva essere il mio subconscio.
«Potrebbe succedere qualsiasi cosa!»
La sua pazzia mi sta contagiando. Prometto che farò di tutto, tutto! per
starle lontano. Scoprirò chi sono i suoi amici a scuola e starò con qualsiasi
altro gruppo, persino con quello di Bicipite. Sarò molto più al sicuro che
non con Kate.
Kate
Venerdì mattina siamo tutti raggruppati nel cortile della mensa, prima di
entrare a scuola. Hannah e io di solito non bazzichiamo da queste parti.
Non che ci sia un'insegna che dice Solo per fighetti, ma è come se ci fosse:
tutti sanno che i tavoli a cui siamo sedute sono riservati ai più fighi della
scuola. Ma oggi piove, e un vento freddo trapassa le nostre uniformi. Vor-
rei aver messo la giacca e il maglione pesante. Questa corte quadrata do-
vrebbe essere grande abbastanza da ospitare sotto la tettoia tutta la popola-
zione della scuola: potrebbe, se fossimo pecore.
Ho avuto quasi una settimana per pensare a Jarrod. Non necessariamente
per scelta: è solo che la mia mente rifiuta di fare altro. Non ho più avuto
contatti con lui da quel primo giorno, o forse dovrei dire che lui non ha
avuto contatti con me. Si tiene a distanza, e io non posso fare altro che
accettare la sua volontà. E so esattamente cosa vuol dire, il fatto che ora
stia con quel gruppo lì. Non solo pensa che sono matta, ma è spaventato a
morte dalle mie teorie sulla sua 'sfiga'.
«Sembra che si sia adattato bene» commenta Hannah tra un sorso e l'al-
tro della sua cioccolata calda. «E perché no?» prosegue. «L'aspetto conta
parecchio in quel gruppo. E lui è piuttosto sexy. Tu che cosa ne pensi?»
Nel mio campo visivo in questo momento c'è proprio Jarrod, che con fa-
re noncurante circonda col braccio le spalle di Jessica Palmer. Cerco di
distogliere lo sguardo dalle sue dita che le accarezzano ritmicamente il
braccio sinistro. Sfortunatamente non posso interrompere il cinguettio del-
la voce di lei che ciarla di quanto ha freddo anche se indossa pantaloni,
maglione e giacca. Cerco di concentrarmi su quello che dice Hannah. Jar-
rod sexy? Cioè, sono assolutamente d'accordo, ma posso dirlo? Se Hannah
si accorge dei miei sentimenti per lui, mi darà il tormento per il prossimo
millennio.
Lui guarda dalla mia parte e i nostri occhi s'incontrano per un infinitesi-
male frammento di tempo. Deglutisco a fatica, la campanella suona e ci
avviamo verso la classe.
Non ho risposto a Hannah, ma a quanto pare lei ha preso il mio silenzio
come un assenso. «Insomma» continua, «è goffo, maldestro e tutto quanto,
fa continuamente cadere tutto, come quelle uova ieri, durante l'ora di agra-
ria, oppure quando non ha chiuso le gabbie e i polli sono scappati, ma in
un certo senso questo lo rende ancora più tenero, se possibile. Perfino gli
occhiali gli stanno da dio».
La sua analisi comincia a darmi sui nervi. «Oh, falla finita, Han».
Lei getta la tazza di plastica nel cestino. «Che hai?»
Le lancio un'occhiata che, se accompagnata dall'incantesimo appropria-
to, l'avrebbe condannata all'acne perpetua. È un errore, perché ora capisce
al volo.
«Oh, no» si lagna con una mezza risata. «L'hai presa brutta, eh?»
«Non so di cosa parli» mento. L'ho presa bruttissima, ai limiti dell'osses-
sione. E non mi piace sentirmi così vulnerabile. Dio, so tutto quello che fa:
dove si trova in ogni momento del giorno, con chi parla, a cosa sta pensan-
do. Mi sta facendo diventare pazza.
In gruppo camminiamo nei corridoi. Hannah ride al pensiero di me fissa-
ta con Jarrod. A essere onesta, la capisco. Ormai lui è fuori dalla mia por-
tata. Se, a quanto pare, è stato accettato dall'elite, perché dovrebbe volere
qualcosa da me? Sarebbe rovinato se lo beccassero a fraternizzare con
quelle strane. A meno che non sia proprio necessario, nessuno parla con
Hannah e con me. Noi siamo diverse, non ci conformiamo alle regole della
buona società. Hannah è semplicemente troppo povera: i buchi nelle scar-
pe, lo zaino rovinato, la divisa di seconda mano e i vestiti usati parlano
chiaro. Lei non potrebbe mai stare al passo con le ultime tendenze; e poi,
naturalmente, va in giro con me, con la fattucchiera, come mi chiama Bi-
cipite. Hannah e io siamo amiche fin dai tempi dell'asilo, quando io ero
l'unica che non rideva dei suoi vestiti prestati e fuori moda, o faceva osser-
vazioni crudeli sulla povertà dei suoi. I Brelsford vivevano del sussidio,
questo lo sapevano tutti. Cinque figli e un padre scappato quando il più
piccolo aveva solo tre settimane. Dev'essere dura.
Ma Hannah sta ancora ridendo. Nel mio attuale stato d'animo, la cosa
non mi fa bene per niente.
«Bisogna fare qualcosa per tirarti su» dice voltandosi e creando subito
un ingorgo. «Andiamo al cinema stasera! È venerdì».
Il nostro cinema, una vecchia chiesa anglicana rimodernata, funziona so-
lo tre giorni a settimana: venerdì, sabato e domenica pomeriggio.
Scopriamo che il film in programmazione parla di una strega sotto pro-
cesso nel sedicesimo secolo. Scoppiamo a ridere tutt'e due.
«Lasciamo stare» diciamo all'unisono, e ricominciamo a ridacchiare.
Decidiamo invece di andare all'Icehouse, l'unico caffè del paese. Il mio
umore inizia a migliorare, l'idea mi aiuterà a superare la giornata. Ashpeak
High è una scuola talmente piccola che tutto il decimo anno, ventisette
alunni, entra in una sola classe. Ci dividiamo solo per le materie facoltati-
ve. Lo stesso si può dire della vita sociale. L'unico posto in città degno di
nota è l'Icehouse Café. È gestito da una famiglia italiana che vive qui da
più tempo di chiunque altro, e ha un'aria decisamente italiana. I cappuccini
sono buonissimi. Insomma, è l'unica botta di vita ad Ashpeak.
Ci mettiamo d'accordo per le otto. Passo il resto della giornata a chie-
dermi se anche Jarrod sarà lì, magari con Jessica Parker. Quanto mi urta.
Jarrod e Jessica. Non riesco a concentrarmi, e mi riprende il malumore. Ma
certo che ci sarà, e certo che porterà Jessica. Tutto il gruppo frequenta l'I-
cehouse. E dove altro potrebbero andare?
Alla fine della giornata sono riuscita a convincermi che l'unico motivo
per cui Jarrod mi interessa è che sono preoccupata per lui. A parte la sua
solita goffaggine, finora non è successo nient'altro di strano o eccezionale.
O sta mettendo un energico freno alle sue emozioni, oppure io ho fatto un
errore clamoroso lunedì scorso, e la tempesta non era opera sua. A ripen-
sarci sembra tutto un sogno, anche se hanno dovuto allestire un laboratorio
temporaneo nei locali della segreteria, mentre vengono eseguite le ripara-
zioni. Ma allora quel vento magico nel negozio di Jillian è stato anche
quello frutto della mia immaginazione?
Se Jarrod non ha alcun dono, allora mi sono resa completamente ridicola
e ho regalato a un perfetto estraneo abbastanza materiale perché l'intera
città mi rida in faccia e parli alle mie spalle ancora più di prima. Al solo
pensiero divento rossa come un peperone.
La fine delle lezioni è un sollievo. Il vento freddo è piuttosto tonificante
e mi rinfresca. Comincio a rivivere la scena con Jarrod, ogni singola stupi-
da parola che gli ho detto.
Mentre vado a casa mi rendo conto che in un modo o nell'altro ho rovi-
nato tutto.
Kate
L'Icehouse è affollato. Sono tutti qui, tutti tranne Jarrod, a quanto pare.
Però c'è anche Jessica Palmer, in compagnia di un gruppo quasi tutto di
ragazzi: Bicipite, Ryan, Pete O'Donnell... la solita corte. Mi domando che
ne sia di Tasha. Bicipite tiene il braccio sulla spalliera della sedia di Jessi-
ca e ogni tanto la sua mano scivola sulla spalla di lei e le dà una viscida
strizzatina.
Hannah nota la commediola. «Guarda un po' là» dice in tono disgustato,
indicando Bicipite e i suoi accoliti. Hanno unito i due tavoli centrali, per-
ciò è difficile non notarli. Proprio quello che vogliono. «Hai sentito? Tasha
ha scaricato Bicipite».
Mi volto verso di lei. Questa sì che è una notizia.
Hannah continua, certa della mia totale attenzione. «A quanto pare lei gli
ha dato un ultimatum: accetta Jarrod nel gruppo o sparisci. Ci crederesti?
Sotto quella scorza ruvida Bicipite non è altro che un micino ai piedi di
Sua Altezza. E» continua senza neanche riprendere fiato, «secondo le voci,
ora lei ha Jarrod che pende dal suo regale cappio».
Tento di ricordarmi che devo respirare.
«Naturalmente Jessica Palmer non ha aperto bocca. Sa qual è il suo po-
sto, lei».
Cerco di figurarmi la scena. L'immagine di Bicipite in forma di batuffolo
peloso a quattro zampe, ai piedi di Tasha, mi fa quasi ridere. Tanto per
chiarire chi comanda sul serio da queste parti. Le femministe sarebbero
contente. Immagino che lo sia anche Jarrod. La parte su lui e Tasha, anche
se non mi sorprende, mi dà il colpo di grazia. È quello che lui desiderava
più di tutto, essere accettato. L'ho sentito fin dal primo giorno, il suo bru-
ciante desiderio di far parte di un gruppo. Con questa gente ha fatto un bel
colpo, loro sono davvero i più fighi della scuola. Può essere soddisfatto.
Ci sediamo in un angolo remoto, il séparé più distante dalla porta. Non
veniamo spesso qui, ma quando lo facciamo, questo è il mio posto preferi-
to, seminascosto dall'angolo del bancone, accanto alla porta della cucina.
Fuori dalla visuale, a meno che non ci si guardi apposta.
Credo di sapere dov'è Jarrod ora: fuori con Tasha Daniels. Probabilmen-
te sono andati al cinema. Il pensiero di loro due che guardano quella stron-
zata sulle streghe bruciate è rivoltante.
Arrivano una mezz'ora dopo, Tasha ancheggiando tra i tavoli. Tutta
gambe e look alla moda, con i lunghi capelli biondi che ondeggiano sulle
spalle sottili ogni volta che, con una rapida occhiata all'indietro, si accerta
che Jarrod la stia seguendo. Tanto valeva mettergli collare e guinzaglio.
Cerco di non guardare la sua minigonna rossa e aderente. Sotto porta
calze nere che fanno sembrare le sue gambe infinitamente lunghe. Il ridot-
tissimo top azzurro mette in mostra un ombelico perfetto con tanto di pier-
cing d'oro. Ma com'è che non muore di freddo? Grugnisco sonoramente,
ribollendo di gelosia. Mentre mi frugo in tasca in cerca di un fazzolettino,
mi colpisce un pensiero atroce: lei ha Jarrod che la tiene al caldo. Non è
giusto, però...
«Una svolta sconcertante» sottolinea Hannah, scuotendo la testa. «Non
mi hai detto cosa ne pensi».
Intende dire del fatto che Bicipite è stato mollato per Jarrod. Non posso
fare a meno di pensare che stamattina sembrava che fosse Jessica, a stare
con Jarrod. Scommetto che a lei lo scambio non ha fatto piacere. Ma, natu-
ralmente, quello che Tasha vuole, Tasha lo ottiene sempre. È questione di
educazione, per lei. Ultraricca. Incredibilmente viziata. I suoi possiedono
un allevamento di cavalli, ma non lo gestiscono di persona. Lui è il Dottor
Daniels e sua moglie è avvocato, presidente dell'associazione femminile
locale. Sono i professionisti più in vista di Ashpeak.
Mi soffio il naso. Che noia, questi raffreddori pre-invernali. Certo, non
era difficile da immaginare. Tasha ha cominciato a sbavare dietro a Jarrod
fin da quel memorabile primo giorno al laboratorio. Perfino Bicipite se
n'era accorto. Tasha è una manipolatrice pazzesca. Ha più successo in que-
sta scuola di quanto Bicipite ne avrà mai in tutta la vita. Lui è solo un bru-
to, mentre lei è quella con cui tutti vorrebbero essere visti in giro. Bicipite
l'adora, la vagheggia. Tasha è la regina di Ashpeak High. Non c'è nessun
altro, su questa montagna, che la possa eguagliare in tutti e tre i campi:
arroganza, bellezza e posizione sociale.
Mi viene in mente che, ora che Jarrod è palesemente un membro del
gruppo, Bicipite deve avere qualcun altro su cui sfogarsi. Lui è così, non
riesce a vivere senza tormentare qualcuno.
Hannah mi guarda in modo strano, come se aspettasse una risposta da
qualcuno che è appena partito per un'altra galassia. Cerco di ricordare
quello che stava dicendo, qualcosa su Tasha che ora stava con Jarrod e non
più con Bicipite. «E chi se ne frega?»
«Ah, certo, a te non importa» replica con sarcastica dolcezza.
Alzo gli occhi al cielo e decido che ho voglia di un altro cappuccino. Vi-
sto che con questa folla non ho nessuna possibilità di attirare l'attenzione
della cameriera, vado al banco. Errore. Due persone mi vedono. Una è
Jarrod, con una strana espressione sul viso, come se l'avessi colto alla
sprovvista. Pago, tenendo gli occhi bassi, ma so che mi sta ancora guar-
dando. Non posso fare a meno di lanciare una rapida occhiata. E quando i
miei occhi incrociano i suoi, lui non smette di fissarmi. Mi si secca la boc-
ca all'istante.
Bicipite alza gli occhi per vedere cosa sta guardando Jarrod, e quando mi
nota scoppia a ridere. «Non ti posso dar torto, amico». Gli batte sulla spal-
la, con fare da maschio solidale. «Non ti preoccupare, ci farai l'abitudine.
Noi la chiamiamo la Fattucchiera». Si porta le mani ai lati della grossa
faccia, facendo tremare le dita aperte.
Mentre mi affretto a tornare al mio posto rovescio qualche goccia di
cappuccino. Non è l'osservazione cretina di Bicipite che mi preoccupa. Di
quelle ne sento tutti i giorni. È l'espressione di Jarrod, che si è fatta im-
provvisamente dura. L'ho già vista, proprio nell'aula di scienze prima di
quella strana tempesta. I suoi occhi verdi mandano lampi verso Bicipite,
che non se ne accorge e continua a sghignazzare.
«Non pensare a lei» interviene Tasha, reclamando l'attenzione di Jarrod.
Gli sta talmente vicina che se si sposta di un centimetro gli monta sulle
ginocchia. «Sì, magari può essere divertente, ma è sua nonna il pezzo for-
te. E anche se il suo negozio è abbastanza carino - a volte ci vado anch'io -
la roba importante è nascosta nel retrobottega. Sai, Jillian fa cose tipo sa-
crifici umani. Bevono sangue e fanno messe nere». Lui la guarda incredu-
lo, a sopracciglia inarcate. Lei fa immediatamente il broncio. «È la verità,
Jarrod. Te lo giuro». Sbarra gli occhioni, facendo tremare apposta le labbra
rosa. «Ho visto io stessa le macchie di sangue sul tappeto». Si volta un
secondo verso gli altri. «Era una cosa rossa, comunque. E poi» aggiunge
con un sussurro, quasi nell'orecchio di lui, «sono state viste ballare nude
nella foresta. Una cosa disgustosa. Satanismo puro». Si volta di nuovo, in
modo che gli altri (quelli al suo tavolo e gli altri intorno) la sentano bene.
«Chi le vuole, quelle due?»
Il bicchiere va in pezzi nel momento in cui la cameriera lo posa davanti
a Pete O'Donnell. «Che cavolo...!»
«Oh, dio, scusa. Scusa, Pete, mi dispiace». La cameriera è Dia Petoria, la
ragazza del mio corso di scienze. È carina, studia molto, anche se dai voti
non si direbbe. Mi dispiace per lei. L'incidente non è colpa sua, e non ha
nessun bisogno della rabbia di Pete O'Donnell, che aumenta la sua confu-
sione. «Non so cos'è successo, è esploso!»
Bella Spagnolo, una dei proprietari, arriva di corsa, passando davanti a
noi che stiamo per andarcene. Pare così arrabbiata che penso se la voglia
prendere con Dia. Dev'essere una brutta serata, perché di solito lei non è
così. Talvolta viene al negozio di Jillian, a comprare qualcosa per decorare
il locale e renderlo più attraente per i ragazzi. L'ho incontrata un paio di
volte, e mi ha perfino chiesto la mia opinione su quello che piace ai giova-
ni. In genere è simpatica.
Guardo con la coda dell'occhio, mentre Hannah si prepara per andar via.
La sua giacca è caduta a terra, perciò si deve chinare tra il tavolo e la panca
per recuperarla. Bella ascolta attentamente la spiegazione di Dia. Per for-
tuna le crede subito: nessuno direbbe una bugia così bene. Bella l'aiuta a
pulire e promette a tutto il tavolo un giro di bibite gratis.
A questo punto la cosa migliore è andarsene. Non è che io sia una vi-
gliacca. Potrei fare molto male a tutti, se volessi. Ma a che scopo? Se fa-
cessi qualcosa sarebbe peggio per me, e soprattutto per Jillian. Lei vive per
quel negozio, e anche se non guadagna molto le piace, ama collezionare
oggetti, vedere cosa vende bene e cosa no, e soprattutto parlare con i molti
turisti che passano dalle nostre parti.
A essere del tutto onesta, confesso che avrei paura anche per me. Già
pensano che sono strana, e non sanno nemmeno la metà della verità. Se
scoprissero il resto, la mia vita diventerebbe un inferno in questa comunità
così piccola. E questo posto mi piace troppo per rischiare. È tranquillo e la
maggior parte delle persone mi lascia in pace.
Un'altra occhiata a Jarrod mi convince che andar via è diventato una
priorità. È livido, e se davvero possiede il dono e perde la calma, le cose si
metteranno veramente male.
Sono quasi alla porta. Peccato che Bicipite abbia deciso che per me è ar-
rivato il momento di tornare sulla scena come suo punching-ball. Le parole
di innumerevoli malefici mi attraversano la mente come una scarica elet-
trica. Devo combattere con me stessa per trattenermi dal formularne qual-
cuno sul serio.
«Ehi, brutto muso» dice lui, stringendomi il gomito fino a farmi male.
«Te ne vai così presto? Il divertimento non è neanche cominciato».
«Fuori dalle scatole, Bicipite. Hai il fiato che puzza come sterco di ro-
spo».
Questo lo spiazza, ma solo per un secondo. Non è abbastanza per libe-
rarsene. Invio a Jarrod una silenziosa preghiera perché resti calmo, ma lui
non raccoglie. Stavolta i vetri esplodono ovunque. Nessun tavolo o scaffa-
le viene risparmiato. Le bibite si versano sui tavoli, sul pavimento, sui
clienti. La gente grida, e Bella perde il controllo, cominciando a urlare in
italiano. Gli addetti della cucina escono di corsa, strappandosi i grembiuli
bianchi e i buffi berretti.
Per un secondo penso che Bicipite stia per mollare il mio braccio, di-
stratto dal caos circostante. Cerco di divincolarmi, ma le sue dita affonda-
no ancora di più. Domani ci saranno i lividi. «Non così in fretta, strega».
Fa un cenno con la testa. «Tutto questo è opera tua, vero?»
Intende dire i vetri infranti. Rido. «Non solo fai schifo, sei anche un i-
diota».
Questa non la prende bene. Grugnisce come un maiale. «Lo so io quello
che ti serve per imparare a socializzare».
Prima che io riesca a sottrarmi, si china sulla mia gola. Sento la sua lin-
gua calda giù per la spalla. Mi viene da vomitare, invece opto per una rea-
zione più diretta. Quando si alza per riprendere fiato faccio partire un pu-
gno proprio in direzione della sua brutta faccia, ma lui si ritrae. Devo rico-
noscere che per essere un troglodita ha buoni riflessi. Mi afferra il pugno
con la mano e lo circonda facilmente con le dita grasse. «Aggressiva» dice,
leccandosi le labbra con la grossa lingua. «E strana. Mi piace. Portami a
casa sulla tua scopa».
Hannah interviene. Cerca di staccare la mano di Bicipite dal mio brac-
cio, accompagnando il tentativo con un paio di insulti ben mirati; ma lui si
limita a spingerla via, e lei si ritrova sul pavimento.
Allora succedono due cose. Jarrod salta su, rovesciando la sedia dalla
rabbia; e sotto i nostri piedi si diffonde una vibrazione cupa.
Il primo effetto, incredibile, è il ritorno di una quiete improvvisa. Tutti
ammutoliscono e restano in ascolto, guardandosi l'un l'altro con aria inter-
rogativa. La vibrazione si estende alle pareti, ai tavoli, alle tende, alle lam-
pade. In un attimo tutto si muove.
Bicipite molla il mio braccio; il rombo si fa più forte e si scatena il pani-
co. Tutti gridano, pensando a un terremoto. C'è una corsa folle verso la
porta, e subito si forma la calca. Hannah mi prende per un braccio e mi
tira. Ma io non posso andare, devo trovare Jarrod. «Vai tu, ti raggiungo.
Devo vedere se Jarrod sta bene».
«Sa badare a se stesso, Kate. Dobbiamo uscire prima che crolli tutto, è
un terremoto!» I suoi occhi castani si fanno incredibilmente grandi.
Un folto gruppo di persone ci spinge da parte mentre corre verso l'uscita.
La scossa diventa più intensa, rendendo difficile anche solo stare in piedi.
Il pavimento va su e giù come le onde dell'oceano, e ogni volta che si sol-
leva trascina con sé tavoli e stoviglie.
«Oh, grazie al cielo! Eccolo!» Hannah indica il centro della sala, urlando
più forte che può. Jarrod è immobile, con un'espressione vacua negli occhi
vitrei. «Corri, Kate, vai a prenderlo!»
«Sì, Han, ma tu vai a casa, ti chiamo dopo». Mi allontano prima che lei
abbia la possibilità di seguirmi. Non so perché, ma non voglio che Hannah
sospetti Jarrod di alcunché di paranormale. Lei saprebbe come reagire,
ovviamente, è abituata a Jillian e a me. È solo che Jarrod non ne è consa-
pevole, e questo rende la situazione particolarmente delicata.
Quando lo raggiungo lui è solo, i suoi amici sono spariti da un pezzo.
Be', che cosa si aspettava da loro?
È come in trance. Non si muove neanche quando gli parlo. Niente sem-
bra avere effetto. Per un momento, non so cosa fare. Un grosso lampadario
di cristallo si schianta sul pavimento, sul soffitto si è aperta una lunga cre-
pa. Mi getto addosso a Jarrod per farlo scansare, e la cosa sortisce un certo
effetto. Almeno ora si muove, e riesce ad alzarsi lentamente in piedi.
Lo guido attraverso la cucina fino all'uscita posteriore. Nel vicolo sul re-
tro tutto è sorprendentemente calmo e tranquillo. Non si vede nulla di inso-
lito in nessun altro edificio, nessuna vibrazione, nessuna crepa nei muri,
nessuno in preda a urla isteriche. Scuoto la testa e mi riprometto di pensar-
ci più tardi, a casa. Ora devo portare Jarrod al sicuro. Se gli altri lo vedono
in questo stato semi-catatonico potrebbero ricordare com'era durante la
tempesta in laboratorio e cominciare a fare domande. Domande alle quali
Jarrod non potrebbe rispondere.
Forse è l'effetto dell'aria fresca, comunque comincia a riprendersi. È an-
cora stordito però, ed esausto. Cammina a stento. Ogni tanto dobbiamo
fermarci perché riprenda fiato. Per quasi tutta la strada devo sostenerlo,
specialmente negli ultimi cinquecento metri di salita.
Alla fine arriviamo, senza fiato. Jillian mi aiuta a mettere Jarrod nel mio
letto al piano di sopra. Ha molte domande da farmi, ma aspetta che lui sia
sistemato. Gliene sono grata, perché sono troppo stanca per pensare. Lui
sembra del tutto incosciente e i suoi occhi si chiudono all'istante. Il suo
respiro ha un ritmo insolitamente lento. Lancio un'occhiata preoccupata a
Jillian e cado a sedere sullo sgabello della toeletta.
«Preparo un infuso per farlo tornare in sé. E mentre fa effetto, tu mi
spieghi cos'è successo».
Jillian torna dieci minuti dopo con una bevanda fumante e odorosa. È un
infuso di erbe: basilico per l'esaurimento mentale, bergamotto per lo stress,
salvia per il tono muscolare, lavanda per l'ansia e il mal di testa. C'è anche
qualcos'altro, ma non ne riconosco il profumo. In due, riusciamo a farglie-
lo bere. Lui ricade sul letto, e mentre riposa io racconto del locale, della
scenata disgustosa di Bicipite, della trance di Jarrod e della scossa di ter-
remoto.
Jillian ascolta con attenzione; a volte scuote la testa come se non riuscis-
se a crederci. «Non sa come gestire il suo dono» spiega. «La sua mente
attiva la trance come meccanismo di difesa. Ha parecchio da imparare
prima di riuscire a controllarlo».
«È proprio quello il problema, Jillian. Non imparerà mai finché nega. E
poi c'è un'altra cosa. Credo che abbia una maledizione addosso, o lui o la
sua famiglia».
Le racconto degli incidenti e della sfortuna che li perseguita da anni, fino
alla sua strana goffaggine.
Jillian ha l'aria pensierosa. «Questo spiegherebbe perché il dono si sia
scatenato. Forse vuole essere uno strumento, un tentativo inconscio di
combattere la maledizione. Ma naturalmente non c'è modo di capirlo senza
l'aiuto di Jarrod. È vitale che lui l'accetti. E per come stanno andando le
cose, Kate, il tempo è la chiave di tutto. Più crescono i poteri di Jarrod più
cresce la forza della maledizione. Le due cose probabilmente sono collega-
te».
Jarrod
Mi sento così strano. Come un'ondata di calore dentro, una sensazione
bruciante. È come se potessi sentire ogni muscolo, ogni tendine, ogni cel-
lula nervosa.
«Si sta svegliando».
Kate! Oddio, non ditemi che è di nuovo nella mia testa. Apro gli occhi
ed eccola in piedi davanti a me, la testa e le spalle leggermente chine. Sono
sdraiato su un letto duro ma comodo. Se mi guardo intorno non riconosco
nulla, a parte Kate e sua nonna. C'è una luce ambrata a fianco del letto, una
toeletta con sgabello dall'aria antica, e campanelle a vento di cristallo ap-
pese davanti a una finestra chiusa. Sulla toeletta c'è una ciotola di legno, e
Kate fa scorrere un dito sul bordo. La ciotola dev'essere piena d'acqua e
petali di fiori freschi. Accanto c'è un bruciatore di ceramica per olio, ma
non è acceso. La stanza profuma di pulito e di legno, come la foresta.
«Come ti senti, Jarrod?»
Mi puntello con il gomito per rispondere alla nonna di Kate e mi do-
mando come rivolgermi a lei. «Meglio, grazie, signora...»
«Chiamami Jillian» suggerisce. Il suo sorriso è gentile. Almeno stavolta
non urla e delira di serpenti.
«È la tua stanza?» domando a Kate. Lei annuisce e mi aiuta a mettermi
seduto. Metto giù le gambe e appoggio i gomiti sulle ginocchia. Quello
strano bruciore, quella strana consapevolezza fisica sta svanendo. La testa
mi si schiarisce. «Cos'è successo? Come sono arrivato qui?»
«Cosa ricordi?»
Devo pensarci. «Ero all'Icehouse. C'eri anche tu con Hannah. La came-
riera ha rotto un bicchiere e ha versato tutto addosso a Pete». Mi ricordo
anche i commenti disgustosi di Bicipite. La guardo, per capire se anche lei
se li ricorda. Ma i suoi occhi, come quelli di Jillian, sono rivolti altrove. Le
campanelle a vento hanno cominciato ad agitarsi, riempiendo la stanza di
riflessi pastello e di un leggero tintinnio.
Quando si fermano, Kate lancia un'occhiata a Jillian, un'occhiata d'inte-
sa. «Tutto qui?»
Che cosa vuole? Un replay al rallentatore? Il pensiero mi torna al mo-
mento in cui Bicipite ha afferrato il braccio di Kate e ha cominciato a lec-
carle il collo, e io volevo fargli qualcosa. Non sono mai stato un tipo vio-
lento, io. Di solito scappo al primo accenno di guai. Non sopporto la vista
del sangue, soprattutto il mio. Ma Kate sta aspettando la risposta, come se
volesse tutti gli orripilanti dettagli. «Bicipite ha snocciolato un paio di de-
scrizioni colorite su di te, e ti ha sbavato sul collo».
Silenzio impacciato. Probabilmente l'ho offesa. Qualsiasi cosa sia Kate -
strana, inquietante, perfino psicotica - in questo momento non m'importa. I
suoi insoliti occhi grigioazzurri si fissano nei miei e non riesco a guardare
altrove. Ora colgo ogni dettaglio di lei. Lunghi capelli neri di seta, pelle
chiarissima, quasi trasparente, occhi dal taglio esotico. Non conosco nes-
sun'altra ragazza che sia così... non so. Unica.
«Grazie, Jarrod» dice piano.
«Perché mi ringrazi?»
«Per quello che hai fatto stasera. A modo tuo, anche se è finita con un
disastro, hai fatto quel che hai fatto perché... be', almeno in quel momento
t'importava. Bicipite mi ha insultata, e tu ti sei arrabbiato».
Non la seguo. Certo, ricordo di essermi arrabbiato. «Ma che ho fatto?»
«Hai provocato un terremoto».
Sì, ho sentito. Ha detto che ho provocato un terremoto. La guardo. «Ho
provocato un terremoto!»
Sorride appena, ma non scherza. «Non so con certezza cosa sia stato.
Mettiamola così: non c'è rimasto molto dell'Icehouse Café».
«Ora ricordo qualcosa. Vetri rotti e gente che gridava». Scuoto la testa,
tentando di ricordare. Sono sicuro che c'è dell'altro, ma il ricordo è confu-
so. «Forse ho preso un colpo in testa. Se è successo il disastro che dici,
qualcosa deve avermi fatto perdere la memoria. Non ricordo nessun terre-
moto».
Kate scuote la testa, frustrata. «Stavi quasi per prendere un colpo in te-
sta, quando è caduto il lampadario. Ma io ti ho spinto via».
«Stai dicendo che mi hai salvato la vita?»
All'improvviso l'espressione frustrata lascia il posto a qualcosa di deci-
samente ostile. «Oh, per la miseria, Jarrod, proprio non capisci».
Jillian le tocca il braccio, un gesto di pacificazione. «Non così in fretta,
tesoro».
Kate gira la testa di scatto, mormorando qualcosa. Poi raggiunge il cen-
tro della stanza, dove può stare in piedi senza chinarsi, e resta lì, con le
mani sui fianchi.
Jillian invece è ancora sulla soglia. Mi rendo conto che quelli sono gli
unici due posti dove si riesce a non sbattere la testa. «Ho conosciuto tua
madre, oggi, e tuo fratello... Casey, giusto?»
«Esatto» rispondo. Jillian sta cercando di alleggerire l'atmosfera, e le so-
no grato. Le cose tendono a farsi rapidamente difficili, con Kate.
«Hanno fatto un giro in negozio».
Distolgo lo sguardo dalla schiena rigida di Kate. «Davvero? A mia ma-
dre sarà piaciuto. Lei va matta per quella roba strana».
Jillian inarca le sopracciglia. Ecco, ora ho offeso anche lei. «Cioè, non
intendevo...» inciampo nelle parole, che come al solito non sono mai quel-
le che avevo in mente.
Lei sorride, rassicurante, e allora noto la somiglianza con Kate. Non nel-
l'aspetto, in quello sono diverse. Jillian ha i capelli corti e ondulati, castano
chiaro. Kate non le somiglia se non negli occhi. Mi domando di dove fosse
originario suo padre... asiatico probabilmente, o magari delle Hawaii.
Scommetto che se lo domanda anche lei.
«Mi ha parlato degli abiti e dei gioielli che fa» dice Jillian. «Sembrano
interessanti. La prossima settimana tornerà con un paio di esemplari. Li
terremo in negozio, vediamo se hanno successo. I turisti amano quel gene-
re di cose, sai... roba strana».
Non posso fare a meno di ridere. Jillian è simpatica, ha senso dell'umori-
smo. Vorrei che ne avesse trasmesso un po' a Kate.
«Vi preparo un paio di panini». E poi, rivolta alla nipote: «Ricordati,
Kate: tu hai avuto sedici anni per affinare il tuo talento, ma potresti dire di
essere del tutto a tuo agio con te stessa e le tue capacità persino ora, a di-
stanza di tanto tempo?»
Kate si limita ad annuire, ma sembra che questo a Jillian basti. Meno
male. Il pensiero di una discussione su poteri e magie mi dà i brividi. Jil-
lian esce e io decido di mettere in chiaro le cose prima che la conversazio-
ne prenda una piega strana. «Senti» comincio, e Kate si gira con aria ag-
gressiva. «So che ti intendi di magia e cose del genere». Lei mi guarda
male, gli incredibili occhi a mandorla stretti, sulla difensiva. Metto subito
le mani avanti. «Per me va benissimo. Cioè, credo di non avere problemi.
Almeno finché non mi coinvolgi. No, insomma, mi puoi coinvolgere, ma
non mi ci devi includere. Quello che sto disperatamente cercando di dire è
che io non possiedo nessun potere magico, né talento mistico né niente del
genere, a meno che tu non consideri la goffaggine una qualità paranorma-
le».
Lei sorride, poi si siede a terra, con la schiena contro la sponda del letto,
le spalle all'altezza delle mie ginocchia. La mia mano è così vicina alla sua
testa che sento il bisogno improvviso di toccarla, sentire se quei capelli
sono così morbidi e setosi come sembrano. Però non lo faccio. Non mi
sento a mio agio. Lei è bella, nel suo modo esotico. Ma l'aspetto non è tut-
to. È diversa dalle altre, e forse per questo mi attrae. Le altre ragazze della
scuola, Jessica Palmer, Tasha Daniels, sono così superficiali. Però hanno
un unico vantaggio su Kate: sono 'innocue'. Loro non mi spaventano, come
invece fa lei; e questo rende la loro compagnia tanto più confortevole.
«I serpenti sono un antico simbolo del male».
Mi prendo la testa fra le mani. «Oh, dio».
«Mi sono documentata. Guarda, ti faccio vedere». Si alza e prende con
cautela dal cassettone un libro dall'aria antica, tenendolo come se temesse
che le sue impronte potessero dissolvere la liscia copertina di pelle. Poi si
risiede per terra, le gambe incrociate e il libro in grembo. Deve avere mille
anni, tanto le pagine sono consunte e ingiallite. La liscia copertina nera è
spoglia, a parte un bordo dorato di viti intrecciate. «Questo è libro più vec-
chio della collezione di Jillian. È unico, sai. È scritto a mano e pieno di
magia antica».
«Ah, ecco» mormoro.
Ritrova la pagina segnata e comincia a leggere: «'Le serpi sono un antico
simbolo del male. Molte serpi, specialmente attorno alla testa, indicano
che il male circonda il portatore e tutti coloro con cui è alleato'».
Tiro fuori gli occhiali di tasca e sbircio la pagina. È un manoscritto, e le
lettere sono completamente indecifrabili. Mi domando che lingua sia.
«Come fai a capirlo?»
Lei si volta verso di me. «È un inglese molto antico, di quasi mille anni
fa. Jillian mi ha insegnato a parlarlo e leggerlo».
So che me ne pentirò, ma devo chiederglielo. «E perché? Mi pare un
sacco di fatica inutile. Voglio dire, se avessi imparato il francese o il giap-
ponese, almeno un giorno potresti andare laggiù».
Kate sbarra gli occhi, come se non potesse credere all'esistenza di qual-
cuno tanto stupido. «Così riesco a leggere gli antichi manoscritti, è ovvio.
Quest'epoca mi affascina, Jarrod. La magia era viva, allora. C'erano dei
maghi molto potenti».
Decido di assecondarla, ma non credo a una parola di questa roba, so che
per lei significa molto. Anche se immagino che non ne parli spesso con gli
amici, a parte Hannah, forse. Molti credono che Jillian sia una strega. Co-
me tratterebbero Kate se sapessero quanto è coinvolta anche lei in questa
storia?
«E tu credi» dico, con quello che spero sia un vago interesse nella voce,
«che questi serpenti siano legati a una maledizione».
Il sorriso le trasforma il viso nel ritratto del sollievo e dell'entusiasmo.
Ecco, sono fritto. Quasi mi pento, non vorrei che mi avesse frainteso. Le
brillano gli occhi. «Guarda qui» dice, avvicinandomi il libro. Perché? Io
mica so leggere quella grafia. Perciò mi concentro su una specie di illu-
strazione, sbiadita ma ancora chiara, un po' come un disegno in 3D. Guar-
do meglio e noto un dettaglio pazzesco: la figura di un essere metà uomo e
metà uccello. Sembra un corvo. La metà umana stringe un liscio bastone di
legno con la testa di serpente. Gli occhi sono bizzarri, da uccello, molto
all'insù eppure stranamente umani. Giurerei che quella creatura mi stia
guardando.
«Un mutaforma» spiega Kate con un brivido. «Solo gli stregoni più po-
tenti sono in grado di farlo. Sono rari, e anche solo leggere di loro mi fa
venire la pelle d'oca».
Meno male. Almeno c'è qualcosa che dà la pelle d'oca anche a lei. A me
basta anche solo guardare la figura. Prendo il libro che lei mi tiene prati-
camente sotto il naso e mi rendo conto che mi tremano le mani. La cosa
non mi sorprende: io odio l'ignoto, le cose al di fuori del mio controllo o
della mia comprensione, specialmente il paranormale. Mi piacciono le cose
semplici, regolari, come il sole che sorge ogni mattina a est, o quella noio-
sa famiglia di alcioni giganti che sghignazza sotto la mia finestra all'alba, o
il fatto che, se mi guardo allo specchio, so che vedrò la mia immagine, che
mi piaccia o meno.
La mia vita è già abbastanza complicata, non ho proprio bisogno anche
di questo libro. Ha perfino un vago odore di vecchio e di ammuffito, che lo
rende ancora più autentico. Vorrei tanto restituirglielo e schizzare via dalla
sua stanza. Ecco che torna quel desiderio di fuga, forte nello stomaco, che
mi fa salire l'adrenalina. Ma Kate sorride, entusiasta, indica le parole in-
comprensibili e cita, ogni tanto: «'Una volta che la maledizione è stata sca-
gliata può prendere diverse forme. Le più potenti possono durare da gene-
razioni all'eternità...'»
Il suo dito segue le parole sulla pagina. Non posso fare a meno di segui-
re anch'io. Sono parole sconosciute. Cerco di rilassarmi, di pensare ad al-
tro, ma non funziona.
All'improvviso mi manca l'aria. Ho la nausea e sono in debito d'ossige-
no. Mi sa che sto per svenire. La vista mi si offusca e mi sembra di spro-
fondare. I miei occhi sono ancora incollati alla pagina dove il dito di Kate
scorre sulle parole. Sobbalzo quando l'antica grafia scompare. Ma è solo
per un istante, e mi rilasso un pochino quando la rivedo, più chiaramente.
Eppure c'è qualcosa di diverso. Mi sistemo gli occhiali, più un'abitudine
che una necessità. È veramente strano, ma ora riesco a leggere anch'io,
come se le parole fossero in inglese moderno. «'... leggenda dice che i più
grandi stregoni possono formulare un maleficio che si trasmette spontane-
amente nel futuro a tutti gli eredi diretti di tale anatema... I veri eredi sono
segnati dal magico numero di sette. Ogni settimo nato maschio delle gene-
razioni successive porterà la maledizione nella sua interezza, e per tutto il
tempo che essa perseguiterà i non nati, crescerà in forza ed enormità, fin-
ché non si rivelerà...'»
Un improvviso fracasso spezza la mia concentrazione e le parole ridi-
ventano illeggibili. Sulla soglia c'è Jillian. Ha lasciato cadere un vassoio su
cui c'erano succo d'arancia e panini. Briciole di pane, pomodoro e liquido
si spargono sul liscio pavimento di legno.
«Jillian!» esclama Kate, chiudendo di scatto il libro nelle mie mani e
correndo ad aiutare la nonna.
«Scusate» dice Jillian con dolcezza, i grandi occhi ancora puntati su di
me. «Non avevo mai sentito leggere l'antica scrittura con tanta precisione».
Il mio sguardo torna al libro che ho in mano, e all'improvviso mi sembra
che bruci. Davvero ho letto quelle parole?
Devo avere un'aria confusa. Jillian lascia che Kate ripulisca e si rivolge a
me, in tono gentile e franco. «Chi ti ha insegnato a leggere l'antica lingua,
Jarrod?»
Scuoto la testa. Non posso accettarlo, questo. «Non so di cosa parli.
Quelle frasi erano in inglese perfetto».
Kate solleva il vassoio, carico di porcellana rotta e resti di panini, e lo
posa sulla toeletta. «Inglese antico, oggi praticamente incomprensibile».
«Non è vero» ribatto, anche se poco fa l'ho detto io stesso. Mi torna in
mente qualcosa delle lezioni di storia dell'anno scorso. «L'inglese moderno
conserva molte parole antiche. In effetti è solo una variante rivista e am-
pliata».
Kate non ci casca. «Dai, Jarrod. L'hai detto tu che quello non era ingle-
se».
Mi alzo, non proprio saldo sulle gambe, cosciente del fatto che devo u-
scire da questa casa il prima possibile. «Sentite, non so cosa sia successo
prima, mi sono lasciato trasportare dall'immaginazione».
Kate sbuffa. «Siediti, Jarrod, e stammi a sentire. C'è solo un modo per
convincerti».
La guardo, chiedendomi cos'abbia in mente. Sento un formicolio alla
nuca. Lei inarca un sopracciglio, cosa che significa 'siediti e ubbidisci'.
Apro la bocca per dire che invece ho deciso di restare in piedi e svignar-
mela, ma lei mi posa la mano sulla spalla e preme finché non mi siedo di
nuovo sul letto.
Poi scambia una rapida occhiata con Jillian, che prende il vassoio e si
avvia verso la porta. «Niente di troppo scioccante per ora, Kate. Se hai
bisogno di me sono di sotto».
La tentazione, fortissima, è di afferrare Jillian, magari anche urlando, e
costringerla a restare. Non voglio rimanere da solo con Kate quando fa
così. Può succedere di tutto. Il cuore comincia a battermi così forte che
temo possa balzarmi fuori dalla gola e mettersi a rotolare per la stanza.
La voce di Kate è dolce, mentre mi dice di stare calmo. Magari è un so-
gno, o uno scherzo. Sono disorientato. Lei siede di nuovo ai miei piedi,
così sono in trappola. Appoggia la schiena al letto e si gira verso di me.
«Non ho intenzione di farti del male, Jarrod. Voglio solo mostrarti un po'
di magia».
Annuisco, visto che le parole non possono formarsi nel deserto che è di-
ventata la mia bocca.
«Rilassati» mormora lei. Le sue dita cominciano ad armeggiare intorno a
una sfera che tiene in mano. Non saprei dire da dove l'ha tirata fuori, ma
del resto non sono esattamente al meglio quanto a riflessi. È una sfera di
vetro. Lei nota il mio sguardo. «È un cristallo che Jillian mi ha regalato
quando avevo tre anni. Serve per fare esercizio. Ormai non ne ho più biso-
gno, ma a volte, quando non riesco a dormire, ci gioco un po'. Cose sem-
plici, piccoli trucchi come questo».
Tiene il cristallo sotto il mio naso. Non sono sicuro di cosa dovrei vede-
re e non noto nulla di insolito. Eppure, non so se per via dell'agitazione,
non riesco a guardare altrove. Sembra avvicinarsi, diventare più grande,
ma questa dev'essere un'illusione. Ora sono molto concentrato. Per un mi-
nuto, all'interno della sfera si muovono colori vivaci, come fossero dei
nastri di seta, poi più nulla. Comincio a chiedermi se è tutto qui. Be', se
davvero è così, sono contento: niente di soprannaturale o straordinario.
Insomma, giochi di luce rossa, arancione e azzurra. Un trucco carino, cer-
to. Mi domando come faccia. E mentre sto per chiederglielo, succede qual-
cosa che attira la mia attenzione verso il centro della sfera. Qualcosa si
muove, e non sono solo colori: vedo strane sagome grigie che cambiano
forma. Mi aggiusto gli occhiali sul naso. Senza, tutto mi sembra vagamen-
te sfocato, anche se li uso soprattutto per leggere. Ora noto delle persone,
tre. La prima è un uomo, con un'espressione piena di dolore; poi c'è una
donna con i capelli scuri e l'aria stanca; l'ultimo è un bambino, sugli otto o
nove anni, con i capelli come i miei. Mi ci vuole un intero minuto per ca-
pirlo. Sto guardando una versione in miniatura dei miei genitori e di mio
fratello minore Casey.
Sono sotto choc. Per più di una ragione. Per quanto ne so, Kate non ha
mai visto la mia famiglia. Come fa a sapere che aspetto hanno? Mi manca
l'aria, questa cosa è assurda. Mi tiro indietro e tolgo gli occhiali.
Kate fa rotolare dolcemente la sfera sotto il letto. «Che cosa hai visto?»
La guardo negli occhi; le parole non vogliono uscire.
«Che cosa hai visto, Jarrod?» ripete, insistente.
«Non lo sai?»
«Io ho visto solo i colori» dice lei, scioccandomi ancora di più. «Ma tu
hai visto altro».
«La mia famiglia».
«Oh» dice lei, come se questo spiegasse tutto. Spiegasse cosa? «Ora ca-
pisco».
Il suo commento mi fa venire voglia di urlare. «Sarebbe a dire?»
«Ho suggerito al cristallo di rivelare le tue più profonde preoccupazio-
ni».
Respiro a fondo, un paio di volte. Cos'è successo poco fa? Ho visto dav-
vero i miei famigliari in quella sfera di vetro? Oppure è stata Kate a mani-
polare i miei pensieri per farmi credere di averli visti? Lei dice di riuscire
a percepire le emozioni. Forse ha davvero qualche strana capacità. Ci sono
persone che riescono addirittura a prevedere le cose, non è la prima volta
che lo sento. E se Kate avesse un po' di ESP? Forse era davvero nella mia
testa, l'altro giorno. Questo mi tranquillizza un po'. «Molto interessante».
«Tutto qui?» È incredula.
Scrollo le spalle. «Che ti aspettavi?»
Lei scuote la testa e se la prende tra le mani. Le parole escono soffocate.
«Pensavo che avresti creduto nella magia. Che, se ti avessi dimostrato che
esiste, avresti compreso di avere il dono».
Scoppio a ridere forte. Lei occhieggia fra le dita. «È stata una grande e-
sibizione, Kate. Sono impressionato, davvero. Ma come pensi che una pic-
cola manipolazione mentale mi possa far credere che ho dei poteri magici?
Insomma, qui parliamo di me. È un'idea assurda. Non vedi quello che suc-
cede a scuola? Combino continuamente disastri. Sono maldestro, giusto?
Tutto qui».
Sembra esasperata. «Jarrod, mi fai cadere le braccia».
«Mi dispiace per le tue braccia».
«Idiota». Mi colpisce un ginocchio con le nocche. Le afferro la mano per
impedirle di rifarlo, e non la lascio. «Insomma» inizia lei, e giuro che la
voce le trema un po', «dici di essere uno senza storia, eppure mi hai detto
che tuo padre ha ricostruito la vostra genealogia fino al medioevo. A me
questa pare una storia».
Ci penso su. Ha ragione. Mi fa sentire meglio, l'idea di appartenere a
qualcosa. Almeno quest'argomento mi pare sicuro. Mi piace dove va a
parare. Decido di provare a restare su questo punto, evitando roba sopran-
naturale. «Posso portarti il libro di papà domani, se ti fa piacere».
Le si illuminano gli occhi. «Davvero? Mi piacerebbe tantissimo».
Mi sembra che il tempo si sia fermato. Intreccio le dita nelle sue e sento
che le pulsazioni vanno a duemila. «Voglio ringraziarti per avermi tirato
fuori da quel locale stasera, e per avermi salvato la vita».
«Non credo che quel vecchio lampadario ti avrebbe ucciso, comunque
non c'è di che».
«Io... ehm, credo che sia ora di andare. Mia madre si starà preoccupan-
do».
«Hmm. Se proprio devi».
Parla così piano che devo chinarmi per sentirla. O perlomeno questa è la
mia scusa. Davvero, nella stanza non si sente un fiato a parte il mio cuore
che batte la grancassa. Mi chino ancora di più, ora i nostri visi sono a po-
chi centimetri. Abbasso gli occhi sulle sue labbra. Tempismo perfetto. Se
non lo faccio ora, non ne avrò mai più il coraggio. Perché oltre a essere
maldestro sono anche un codardo. Infatti non so cosa mi sia preso ora, ma
so che devo tentare. Perciò mi chino su di lei, prima che i nervi mi tradi-
scano. Le sua labbra sono così vicine che posso quasi sentirne il sapore.
Forse ce l'ho davvero, il malocchio. Mi sento cadere, e invece del sensu-
ale bacio che immaginavo, precipito con tutti i miei arti ossuti sopra di lei!
«Oddio, Kate» mormoro, avvampando come un becco Bunsen. «Scusami.
Che casino. Spero di non averti fatto male». Stando bene attento a dove
metto le mani, mi districo a fatica da lei, inciampo nell'angolo di un tappe-
to che prima non avevo neanche visto, e riesco a raggiungere chissà come
la porta. «Miseria».
«Tutto bene?»
Lei non ride, ma ci manca poco. Decido che non voglio essere qui quan-
do succederà. Perciò annuisco, non confido nella mia capacità di dire qual-
cosa di intelligente e farfuglio: «Sì... bene... Vado... La porta so dov'è...»
Lei mi scorta comunque, probabilmente per assicurarsi che non rompa
nulla lungo la strada. Non ne posso più. Corro giù per la strada come se mi
inseguisse il diavolo in persona.
Un brivido mi sale lungo la schiena. Va bene, fa freddo e il posto è un
po' inquietante, è buio e isolato, ma sono sicuro che in qualche modo c'en-
tra Kate. Come, non so. Ma ne sono sicuro.
Kate
Finiamo sia sulla stampa locale che su quella nazionale. Incredibile. Il
terremoto all'Icehouse Café non è stato registrato da nessun sismografo, e
il fatto provoca un notevole subbuglio, visto che invece i danni sono reali e
i testimoni oculari una quantità. La città brulica di gente dall'aria importan-
te e di giornalisti. È sabato mattina e le troupe televisive hanno continuato
ad arrivare per tutta la notte. Gli scienziati hanno formulato diverse teorie,
ma i testimoni li smentiscono. Non è stata una bomba, né una tempesta
anomala, come quella che ha colpito il liceo una settimana prima. La mag-
gioranza giura che si è trattato di un terremoto.
I due poliziotti arrivano alla Foresta di Cristallo la domenica mattina. Si
presentano con un breve balenare di tessere. Le loro sono domande di rou-
tine, io sono probabilmente l'ultima nella lista delle persone da sentire.
Dalle facce capisco che da me non si aspettano nulla di nuovo. Io non li
deludo e descrivo la scossa e come si è propagata con la giusta dose di
ansia. Mi domando come se la sia cavata Jarrod, con quelle domande. I
suoi ricordi, per quanto vaghi, saranno di certo stati sufficienti per gli inve-
stigatori. Un vuoto di memoria può essere facilmente giustificato con lo
choc, senza suscitare sospetti.
La polizia se ne va, apparentemente soddisfatta anche se continua a non
capirci nulla; e io decido di mettermi a fare i compiti. Tuttavia la mia testa
è altrove. Aspetto Jarrod, ma lui non arriva. Aveva detto che sarebbe pas-
sato con il libro del padre, ma immagino che abbia cambiato idea, forse per
stare alla larga da polizia, stampa e scienziati.
Lo vedo a scuola lunedì, ma lui mi ignora. È seduto nel cortile fuori dal-
la mensa con il solito gruppo: Bicipite con Jessica, e naturalmente Sua
Altezza Tasha Daniels. Ci sto male, però non voglio che se ne accorga. Ho
capito una cosa, e non è affatto piacevole: Jarrod sarà anche incredibilmen-
te dotato, ma nel profondo, nella sua anima, non è altro che un codardo,
patetico e smidollato. Corre a nascondersi piuttosto che affrontare ciò che
non riesce a spiegarsi, o lo mette a disagio, o non si conforma alle sue stu-
pide regole.
Continua a ignorarmi per tutta la settimana. Almeno non succede nien-
t'altro di strano. Registro un paio di commenti scemi di Bicipite sul fatto
che la distruzione dell'Icehouse sia frutto di una stregoneria, ma dopo po-
chi giorni quasi tutti si stancano di quella teoria e mi lasciano in pace. Per-
ciò sono sorpresa di vedere Jarrod alla Foresta di Cristallo il sabato succes-
sivo. Come al solito nel fine settimana aiuto Jillian al banco, lasciandole il
tempo per fare altre cose. C'è anche la madre di Jarrod. Seduta sul pavi-
mento, dove sto risistemando uno scaffale, guardo in silenzio mentre lei
posa sul banco un piccolo carico di gonne e camicette decorate con perline
in modo molto originale. C'è anche della bigiotteria: orecchini a pendente,
bracciali e collane. Jillian esamina tutto con sincero interesse. Alcuni capi
sono in jeans leggero, altri di lino o seta, ma tutti sono decorati con perli-
ne, pietre colorate e frange. Non sono male se ti piace la roba stile country,
o magari stai solo cercando qualcosa di diverso. Però non mi pare che si
adattino allo stile New Age di Jillian. Lei di solito propone ai clienti cose
nuove, ma decide di dare una chance ai monili e ai vestiti e di esporli ac-
canto alla vetrina principale.
Jarrod ha la mente altrove, perciò lo devo fissare per qualche minuto
prima che si accorga di me. Sembra particolarmente affascinato dai piccoli
maghi di peltro. Ne sta esaminando uno quando si rende conto che lo sto
guardando. Allora si ferma e sorride, un innocente sorriso da ragazzo, e
indica il libro che tiene sotto il braccio. È l'albero genealogico della sua
famiglia. Devo trattenermi per non sembrare troppo contenta. Certo, voglio
vedere quel libro, perché potrebbe aiutarmi a capire molte cose di Jarrod,
ma non è tutto qui.
Quello che cerco di nascondere è la fissazione che ho per lui. Dopotutto,
mi ha ignorata per tutta la settimana. Mi alzo, tentando di sembrare norma-
lissima, e lo raggiungo. «Allora hai portato il libro».
Con il gomito accenna al banco, dove sua madre e Jillian cercano di ca-
pire qual è il modo migliore di appendere i vestiti. «Sì, e anche la mam-
ma».
Guardo la signora Thornton sforzandomi di non sondarla. Sarebbe un
soggetto facile, il suo viso è sciupato ma fiducioso. Ha i capelli castano
chiaro, con qualche traccia di grigio che non si preoccupa di nascondere.
Porta pantaloni blu scuro che le fanno sembrare le gambe magrissime e
una maglietta gialla che le accentua in modo esagerato la pancetta tonda.
«Tuo fratello non c'è?»
«No, papà gli aveva promesso di portarlo a pescare nel ruscello dietro la
fattoria».
Quando hanno finito, la signora Thornton e Jillian ci raggiungono. Jil-
lian mi presenta, come se fossero già vecchie amiche. Io sorrido e stringo
la mano della signora. È piccola e fredda, eppure sorprendentemente forte.
Mi dice di chiamarla Ellen, una proposta carina che la dice lunga su di lei.
Mi piace subito, malgrado l'occhiata di disagio che si scambiano lei e Jar-
rod. Sicuramente lui le ha parlato di me. Il pensiero mi irrita, perciò mi
tocca farlo. Una volta sola, prometto. Una piccola ricognizione.
È diffidente, perfino un po' timorosa, con i sensi all'erta. Perciò Jarrod le
ha detto che sono strana, matta e cose simili. La cosa mi disturba, ma que-
sto non cambia la mia opinione su di lei. Dopotutto la sua diffidenza si
basa sui racconti del figlio, e quindi è quello che pensa lui a darmi fastidio.
Come diavolo faccio a entrare in contatto con Jarrod, se pensa che io sia un
caso clinico?
Jillian invita Ellen a fermarsi per un tè, ma lei declina. «La prossima
volta, magari» spiega. «Devo tornare da Ian, mio marito, e da Casey, l'altro
figlio. Li ho lasciati al fiume che passa dietro la nostra fattoria stamattina,
ma la gamba di Ian non stava per niente bene. Le medicine che prende gli
mettono sonnolenza».
Se ne va, e Jarrod mi segue di sopra. Ci sediamo insieme sul pavimento,
con biscotti alla soia da sgranocchiare e il libro aperto tra noi. È veramente
interessante, a cominciare dal presente. A quanto pare il padre di Jarrod,
Ian Thornton, è figlio unico. Suo padre è morto molti anni fa di un colpo.
Sua madre è ancora viva e sta in un ospizio a Sydney con una sorella mag-
giore.
Ci immergiamo nelle storie e il tempo vola. Facciamo una pausa per
pranzo e scendiamo a farci dei panini. Mentre mangiamo parliamo di cose
innocue, tipo i professori e i compiti, e le buffonate del fratellino di Jarrod.
Portiamo su delle bibite, ma ce le dimentichiamo subito non appena ri-
sprofondiamo nel libro. Scopro che la storia è la materia preferita di Jar-
rod, oltreché la mia. Ridiamo, e l'atmosfera si fa sempre più rilassata.
Non so con sicurezza che cosa sto cercando. Forse un segno che dimo-
stri che c'è una maledizione sulla famiglia Thornton. Il libro si rivela ricco
di informazioni interessanti. Ci sono i soliti scheletri nell'armadio, c'è chi
ne ha avuti di più e chi meno, ma alla fine comincia a delinearsi uno sche-
ma. Incidenti e disgrazie sembrano più frequenti nelle famiglie numerose,
quelle con molti figli. La cosa mi affascina.
Le origini della famiglia di Jarrod risalgono al medioevo, ben prima che
si cominciasse a tenere i registri delle nascite, perciò le informazioni più
antiche sono state probabilmente tramandate a voce. Quindi è difficile di-
stinguere tra fatti ed esagerazioni, frutto di racconti inventati per intratte-
nersi davanti a un magro fuoco nelle lunghe notti d'inverno.
Cerco di tenerlo a mente quando arrivo alla famiglia più antica, quella in
fondo al libro, la più controversa. Si parla del rapimento di una sposa no-
vella da parte del fratellastro illegittimo dello sposo, la notte delle nozze,
seguito dalla scomparsa della giovane coppia di sposi qualche tempo dopo.
Si disse che lei portava in grembo il figlio del fratellastro, e che lui le aves-
se fatto qualche stregoneria; ma visto che nessuno vide mai più la coppia
la cosa non poté essere provata. Tuttavia la controversia riprese quando il
loro primo figlio tornò a casa, il giorno del suo ventottesimo compleanno,
a reclamare l'eredità. Non gli credettero e ne seguì una sanguinosa faida di
famiglia.
Mi domando quanto di tutto questo sia vero. Seguono altre storie, ma la
mia mente continua a tornare a quella memorabile famiglia.
Per quanto sia affascinante, specialmente la parte sulla magia, mi sforzo
di non concentrarmi solo su quello. Ormai è tardo pomeriggio quando rie-
sco a individuare uno schema, che aggiunge veridicità a tutta la storia di
quell'antica famiglia. «Dev'essere così» annuncio, incrociando le braccia
con quieta soddisfazione. «Credo di sapere chi è lo stregone».
Jarrod alza di scatto la testa. «Cos'hai detto?»
Sfoglio le pagine fino alla prima famiglia. «Il fratellastro illegittimo ha
usato la magia. Dev'essere stato un intervento straordinariamente potente
per passare attraverso le generazioni. Immagino che...»
«Sì, certo» sfotte Jarrod.
«È tutto scritto qui, Jarrod. Devi solo leggere».
«Io direi che è una questione di interpretazione. Non hai detto tu stessa
che le informazioni in quei primi registri sono sospette?»
Sbuffo. Che ragazzo impossibile. Non c'è modo di scalfirlo. «Ammetto
che le notizie sono piuttosto frammentarie e, certo, possono anche essere
un po' esagerate, ma devi guardare il libro nell'insieme. C'è una decisa li-
nea di malasorte, disastri e morti nelle famiglie più numerose. Questo è un
fatto, Jarrod. Tutte queste cose sono accadute in famiglie con almeno sette
figli maschi. E la prima è stata segnata dalla stregoneria. Non vedi? De-
v'essere cominciata così».
«D'accordo, c'è stata un bel po' di sfiga» concede Jarrod. «Ma stregone-
ria? Stai scherzando?» Niente, proprio non vuole capire. Anzi, aggiunge:
«Il fatto che tutte quelle famiglie siano sfortunate non ha nulla a che vede-
re con il numero dei figli, e soprattutto non significa che siano maledette».
Sta cercando di razionalizzare la mia teoria. Lui cerca sempre di raziona-
lizzare tutto. Che abitudine fastidiosa.
«Ma non vedi che è evidente?» ribatto. «Ogni famiglia con più di sette
figli maschi incorre in qualche orribile disgrazia».
«È ridicolo! E poi, quasi tutte le famiglie hanno dei problemi, ogni tanto.
Figurati a quei tempi. E ancor più le famiglie con tanti figli. È che la tua è
così piccola che non lo puoi sapere».
Lo guardo, cercando di ignorare l'ultimo, offensivo commento. Quello
che mi preoccupa è la sua totale mancanza di fiducia. Perché non può con-
cedersi di credere e basta? Perché nega l'evidenza? «E tu li chiami solo
'problemi', Jarrod? Fallimenti? Perdita di arti? Morti inspiegabili? Seque-
stri? Omicidi? È tutto lì, in ogni famiglia con sette o più figli maschi».
Lui aggrotta la fronte e guarda fuori dalla finestra, al di sopra della mia
testa. Quando i suoi occhi tornano su di me sono incerti. Devo lottare con-
tro me stessa per non sondargli la mente. Alla fine scrolla le spalle e si
alza, con l'aria di chi ha deciso che è ora di andare. «Senti» dice, «è una
teoria interessante, ma con me non funziona. Casey è il mio unico fratello.
Io sono il primogenito, non il settimo. Come lo spieghi questo?»
Ovviamente ha ragione, e all'improvviso mi sento un'idiota. Tutte queste
chiacchiere di antiche maledizioni e stregonerie... ridicolo. O perlomeno è
così che la vede Jarrod. È così che vede me. Scuoto la testa, mi alzo e gli
porgo il libro. Ma non riesco a guardarlo in faccia.
«Tienilo se ti va, mio padre non lo cercherà per qualche giorno. Però ora
è meglio che vada. Mia madre doveva essere qui già da un pezzo. Dev'es-
sersi dimenticata di passare a riprendermi. Vado a piedi».
«Jillian può riaccompagnarti in macchina» mormoro.
«No!» risponde, troppo in fretta. È chiaro che ne ha abbastanza di queste
follie e non vede l'ora di filarsela. «Cioè» si corregge, «non mi dispiace
camminare. Non è così lontano. E poi è tutta discesa».
Il telefono suona, di sotto. Sono così imbarazzata che lascio che sia Jil-
lian a rispondere. Restiamo in silenzio per un minuto, uno di fronte all'al-
tra, senza sapere che cosa dire. Di sotto sento Jillian parlare, ma non riesco
a distinguere cosa dice. Alla fine taglio corto: «Ti accompagno giù».
«No, non ti preoccupare». Si dirige verso la porta, quasi di corsa... e va a
sbattere contro Jillian.
«Era tuo padre, Jarrod» dice dolcemente, e capisco all'istante che qual-
cosa non va. «C'è stato un incidente...»
Entrambi alziamo la testa di scatto, e Jarrod sbatte contro il soffitto. Ci
passa la mano, senza pensare. «Cos'è successo?» chiede con voce treman-
te. «È ancora al telefono?»
«Purtroppo no» risponde Jillian. «Andava di fretta, dice di raggiungerlo
all'ospedale, ti spiegherà tutto. Prendo la macchina e ti accompagno».
«Oh no, cos'altro sarà successo?» mormora lui, tra sé. E poi, a Jillian:
«Come ti sembrava? Ha detto chi si è fatto male?» Siamo già a metà della
scala.
«Non vorrei allarmarti, Jarrod, ma mi sembrava proprio sconvolto».
Ci vogliono circa venti minuti per raggiungere l'ospedale. Jarrod siede
davanti, accanto a Jillian. Non parliamo. Non ne sappiamo abbastanza per
fare congetture, tranne che se a chiamare è stato il padre di Jarrod, lui al-
meno sta bene. Quindi deve trattarsi di Ellen, la madre, o di Casey.
L'ospedale di Ashpeak Mountain sembra più una casa di riposo, ma il
pronto soccorso rimane aperto ventiquattr'ore su ventiquattro. Arrivano
soprattutto turisti, gitanti occasionali che si avventurano nella foresta senza
conoscerla a sufficienza. Poi ci sono gli incidenti stradali, per via dei tor-
nanti. E qualche agricoltore che si infortuna sul lavoro. Oggi, per esempio,
c'è un bambino malato dalle guance paffute che aspetta in braccio alla ma-
dre. Il padre ci guarda mentre passiamo, forse chiedendosi perché corriamo
tanto in una serata così bella.
Un'infermiera dell'accettazione ci accompagna in una stanzetta. C'è El-
len, rannicchiata su una sedia, che tortura fra le dita un fazzoletto. Sembra
molto piccola e quando alza gli occhi appare completamente stravolta. Ha
gli occhi rossi e gonfi di pianto, il viso incolore. «I miei incubi sono torna-
ti» mormora.
Lancio una rapida occhiata a Jillian, che solleva appena le sopracciglia e
va a sedersi accanto a lei.
Jarrod viene abbracciato da un uomo che dev'essere suo padre. La somi-
glianza è impressionante, a parte il fatto che l'uomo ha le spalle curve e usa
delle stampelle per muoversi. I suoi capelli sono una pallida replica di
quelli di Jarrod, più sottili e striati di grigio. Gli occhi sono di un verde
vivido, ma l'espressione è stanca e il volto segnato dal troppo sole o da
troppe batoste, facendolo apparire molto più vecchio della sua età.
Jarrod ci presenta. «Jillian, Kate, questo è mio padre».
Non dice il nome, ma ricordo che Ellen lo ha detto stamattina; si chiama
Ian.
Jillian e io veniamo invitate a restare. Sono contenta, perché non potrei
andare via ora. Ovviamente l'infortunato è Casey. E, anche se non l'ho mai
visto, mi sembra quasi di conoscerlo. Jarrod lo ha nominato spesso oggi, e
sempre con affetto, il che è un po' strano, per dei fratelli. Forse perché
cambiano casa così spesso, Jarrod dev'essere molto protettivo con lui.
«Cos'è successo?» chiede a suo padre, dopo aver scambiato una breve
occhiata con la madre.
«Stavamo pescando» comincia Ian. «Volevamo passarci tutto il giorno,
lui si stava divertendo tanto. Le occasioni non sono state molte, ultima-
mente». S'interrompe, la voce gli si spezza. Deglutisce e chiude gli occhi
per un lungo istante, poi prosegue. «Mamma l'ha sorvegliato per un po',
mentre io dormivo in macchina. Poi è andata a casa a preparare la cena, ha
detto che sarebbe tornata a prenderci dopo un'ora. Tu sai com'è tuo fratello,
ha l'argento vivo addosso. Non riesci a trascinarlo via fino all'ultimo minu-
to». Si ferma di nuovo e i suoi occhi vagano qua e là.
Dopo un momento ritrova il coraggio per continuare. «A un certo punto
ha visto una trota, ha cercato di tirare la lenza ma l'amo si è incastrato su
un tronco galleggiante. Ho cercato di liberarlo... maledetta gamba» impre-
ca. «Ma quello è andato via con la corrente, e allora è successo tutto».
«Che cosa, papà?»
«Casey teneva quella canna così forte... temeva di perderla e di beccarsi
uno scapaccione da me». Gli occhi gli si riempiono di lacrime, ma lui in-
spira e continua. «È caduto nel fiume, che era un po' salito per via della
pioggia. Non sono riuscito a tenerlo, gli ho gridato di mollare. Alla fine
l'ha fatto, ma è stato trascinato via dalla corrente. È caduto giù in una ca-
scatella, dove la corrente era ancora più forte. Maledetta gamba!» La col-
pisce col palmo della mano, e stringe gli occhi per il dolore. «L'ho guarda-
to allontanarsi, sicuro che non l'avrei rivisto mai più».
Jarrod passa il braccio attorno alle spalle curve di suo padre e lo stringe.
«No, papà. Sono sicuro che hai fatto tutto quello che potevi».
«Tua madre, dio la benedica, stava già tornando a prenderci. Siamo saliti
in macchina e abbiamo seguito il fiume, ma è stato inutile. L'abbiamo per-
so, non lo vedevamo più. Alcune persone, sull'altra sponda, ci hanno senti-
to urlare e sono corse a vedere. Grazie al cielo avevano un telefono cellula-
re. Hanno chiamato l'ambulanza e ci hanno aiutato a cercarlo».
«Dimmi che l'avete trovato». La voce di Jarrod è ridotta a un sussurro, il
volto pallidissimo.
Ian Thornton annuisce. «Sì, circa un chilometro a sud del punto in cui è
caduto; galleggiava. Però non respirava. Sono arrivate la polizia e l'ambu-
lanza. L'hanno rianimato, ma c'è voluto così tanto, figlio mio. Così tanto
che non sappiamo... le conseguenze. Capisci cosa intendo?»
«Sì, ho capito. Cos'hanno detto i medici?»
È Ellen a rispondere, la voce sottile e acuta: «Non lo sapranno finché
non avranno i risultati di certi esami. Respirava quando l'hanno portato
qui, ma non era cosciente. Potrebbe cadere in coma, Jarrod». Poi aggiunge,
con una punta d'isteria: «Io non posso perderlo».
Jillian le circonda le spalle con un braccio, mentre lei comincia a trema-
re. Sta perdendo il controllo e io mi sento impotente. «Si riprenderà» dice
dolcemente Jillian. «È in buone mani».
«Tu non capisci» mormora Ellen, sull'orlo di una crisi. Scuote la testa e i
suoi occhi si fanno enormi. È fuori di sé. «Io non posso perdere un altro
figlio!»
Questa affermazione disperata ci fa ammutolire tutti. I genitori di Jarrod
lo guardano con aria colpevole. Quando lui parla, la sua voce è profonda,
gli occhi stretti. «Mamma?» È solo una parola, ma il tono è di chi pretende
una spiegazione.
Suo padre risponde: «Mi dispiace, figlio mio. È una cosa di cui non par-
liamo più».
Jarrod si fa mortalmente pallido. «Di cosa non parlate più, papà?»
Ian sospira. «Degli altri. Dei bambini. Nessuno sa cosa ha passato tua
madre. Dopo che nascesti, così sano e forte, giurammo che avremmo ri-
cominciato da capo, senza più parlare dei dolori del passato».
«Ora dovete dirmelo».
Si guardano negli occhi, ma Ian cede per primo. «Eravamo molto giova-
ni quando arrivò il primo. Era prematuro di dieci settimane e visse solo
venti minuti. I medici dissero che era meglio così e noi sperammo di aver-
ne un altro presto. Esattamente un anno dopo nacquero i gemelli. Ma an-
che loro erano prematuri, e i loro piccoli polmoni non resistettero. Moriro-
no entrambi dopo una settimana, per un'infezione».
Si interrompe, e con gli occhi prega il figlio di non farlo continuare. Ma
Jarrod ha troppo bisogno di sapere. «Vai avanti» dice, a denti stretti.
«Aspettammo tre anni, perché tua madre recuperasse le forze, e spe-
rammo che quella fosse la volta buona. Alex, si chiamava. Era bellissimo
ma fragile, nato con solo metà del cuore. Visse tre settimane, e ogni giorno
fu un miracolo».
Ellen piange nel fazzoletto, è completamente distrutta. Non ha bisogno
di rivivere tutto questo adesso, ma Jarrod non vuole fermarsi. «E poi sono
venuto io?»
«No» risponde suo padre, con un sussurro. «È meglio che tu sappia tut-
to, a questo punto. Tua madre si sottopose a un intervento per ripulire e
rafforzare l'utero. Avevamo già deciso di fermarci, ma i medici dissero che
aveva delle buone possibilità... Tecnicamente non c'era nulla che non an-
dasse». Si ferma, angosciato dal ricordo. Sapeva che prima o poi sarebbe
successo, ne sono sicura. «Ce ne furono altri due, entrambi maschi, en-
trambi nati morti».
Sento che gli occhi mi si riempiono di lacrime e guardo Jillian: anche lei
ha gli occhi lucidi. C'è tanta emozione nella stanza, è una vera energia che
pulsa come un cuore. Mi rendo conto con sorpresa che viene da Jarrod.
Non è rabbia, ma un interessante miscuglio di meraviglia, choc e allarme.
«Quando sei nato tu» continua Ian, un po' più sollevato, «eri così forte e
pieno di salute... un vero miracolo. Tua madre e io giurammo di buttarci il
passato alle spalle. Per andare avanti dovevamo dimenticare tutto quel do-
lore. Se non lo avessimo fatto, ti avremmo cresciuto come se fossi stato di
vetro, saresti stato soffocato dalle nostre paure».
«E così non me l'avete detto» dice Jarrod, piano.
«Quando avevi sette anni ed eri forte e vivace, anche se un pochino mal-
destro... be', ci hai dato il coraggio di riprovare».
«Casey».
«Il tuo fratellino...» Ian tenta di sorridere, ma la voce gli si spezza.
Durante tutto il racconto non ho distolto gli occhi da Jarrod. Vorrei son-
dare la sua mente, ma non oso, non mentre le sue emozioni sono così in-
tense. Sarebbe invadente e offensivo, e oltretutto non ce n'è bisogno. Passa
dallo choc a una specie di attonita consapevolezza. Dopo qualche lungo
istante, i suoi occhi verdi guardano di lato, e incrociano i miei. Anche se la
domanda è rivolta a suo padre, non smette di guardare me. «E quindi cosa
sarei, io?»
«Tu?» replica Ian. «Sei il nostro settimo figlio. Il nostro fortunato nume-
ro sette».
Jarrod
La rivelazione di papà mi toglie il fiato. È in quel momento che comin-
cio a credere nella maledizione. In effetti per molti versi è come un'illumi-
nazione. Ora ho un'immagine chiara della lotta che i miei genitori hanno
dovuto sostenere prima che io nascessi. La consapevolezza arriva dolorosa,
come una pugnalata al cuore. Quanto può sopportare una famiglia prima di
andare in pezzi? All'improvviso mi sento molto fiero di loro. Sono forti,
più di quanto io potrò mai essere.
Perciò ora devo guardare le cose in modo diverso. La mia visione della
vita è radicalmente mutata. La mia famiglia è maledetta. Che io lo voglia
ammettere o no, le prove sono evidenti. Quale altra famiglia, di questi
tempi, dopo sei nascite e sei morti ci riprova ancora? Era come se in qual-
che modo io dovessi nascere, per perpetuare la maledizione. Forse i miei
sono stati manovrati da qualche forza più potente della vita stessa?
Ma che diavolo sto pensando? Sono impazzito? Sto parlando di maloc-
chio, di stregoni che scagliano malefici dai secoli passati. Io non ci credo,
a questa roba. Non è possibile, sono fesserie! C'è una spiegazione per tutto.
Su questo non ho dubbi.
Che cosa mi sta succedendo, allora?
Cerco di tornare in me e mettere ordine in questa improvvisa follia. So-
no solo sconvolto, ecco tutto. L'incidente di Casey mi ha scioccato. Il mio
fratellino potrebbe morire, o riportare danni permanenti al cervello. E co-
me se non bastasse ho appena scoperto di aver avuto altri sei fratelli, tutti
morti prima che io nascessi. Mi domando dove siano sepolti. È una cosa
che mi coglie impreparato, e mi commuove.
Kate mi guarda fisso, chiedendosi forse cosa penso. Mi meraviglio che
non sia già nella mia testa, a cercare di indovinare. Da un lato vorrei quasi
che lo facesse, forse potrebbe dirmi cosa mi sta succedendo. Devo seder-
mi. Mi prendo la testa tra le mani e va meglio, è come se pesasse di meno.
Una mano calda e gentile mi tocca la spalla. È Kate. «Stai bene?»
Annuisco, non fidandomi delle parole. Potrebbero suonare come un'am-
missione, e non sono pronto a dar voce ai miei dubbi. Renderebbe tutto
troppo reale.
Arriva il medico, una donna. La noto solo quando le stampelle di papà
battono in fretta sul pavimento di piastrelle. Tutti ci alziamo e la circon-
diamo, aspettando notizie. Si chiama dottoressa Reed, era di servizio all'ar-
rivo di Casey. «È un giovanotto forte» comincia, chiarendoci subito che
sta bene. «Abbiamo dovuto togliergli molta acqua dai polmoni, ma fortu-
natamente i fiumi da queste parti sono piuttosto puliti, e non mi aspetto
problemi di infezioni. Comunque voglio trattenerlo per stanotte, per sicu-
rezza».
Anche se tutti ci chiediamo la stessa cosa, mamma formula la domanda
per prima: «Sapete se ci sono stati...?» Ma non riesce a dire danni cerebra-
li.
Il sorriso della dottoressa Reed è rassicurante. «Non ci sono danni per-
manenti, signora Thornton. A quanto pare è stato rianimato all'ultimo se-
condo utile. È un bambino davvero fortunato, avrebbe potuto andargli mol-
to peggio».
Sospiriamo tutti, e scendono molte lacrime, anche se di sollievo.
«Volete vederlo?» domanda la dottoressa con una risatina. «Sta dando
un gran da fare a tutte le nostre infermiere. È sveglissimo, affamato e pieno
di energia, il che è sorprendente considerato quello che gli è successo».
Tutti ridiamo. Non perché la cosa sia particolarmente buffa, ma per sca-
ricare la tensione. Casey è piccolo, ma incredibilmente vivace. Può man-
giare come un porcello. Riesce tranquillamente a stare un giorno intero
senza cibo, occupato com'è a giocare e correre in giro, ma quando poi si
ferma è difficile che gli basti tutto il contenuto del frigo.
Jillian abbraccia con calore mia madre, mio padre e me. Kate si tira in-
dietro, in silenzio, con gli occhi lucidi e pieni di comprensione. Le sono
grato del suo silenzio, ora non c'è nulla nella mia testa che abbia senso a
parte il sollievo per Casey. Lei sa, come lo so io, che presto parleremo.
Della maledizione. Non muoio dalla voglia, beninteso. Ma forse, dico solo
forse, potrebbe avere ragione.
Lei e Jillian se ne vanno e noi andiamo da Casey. È seduto sul letto, in
una stanza singola. Non mi meraviglia che stia tormentando le infermiere,
odia stare da solo. Ha un bell'aspetto, tutto considerato. Sta mangiando un
gelato alla vaniglia e quando ci vede posa il cucchiaio con un largo sorriso.
Mamma e papà ricominciano a piangere, e quando finalmente finiscono
di coccolarlo con baci e abbracci, tocca a me. Lo stringo forte. È una sen-
sazione strana. Non il fatto di abbracciarlo, no. Ho sempre aiutato mia ma-
dre a badare a lui. Ho spinto la sua carrozzina, l'ho cullato, rialzato quando
cadeva, e a volte sono semplicemente rimasto seduto a guardarlo dormire,
come se non riuscissi a credere che tanta energia potesse a un certo punto
calmarsi. Mamma è sempre stata contenta di questo, come se non potesse
accadergli nulla fintantoché io lo sorvegliavo. E quando è cresciuto, anche
a scuola ogni tanto gli davo un'occhiata. Ma la sensazione che provo ora è
diversa dall'istinto di protezione di un fratello maggiore. Lo lascio andare
di malavoglia, e per nascondere le mie strane emozioni sorrido e gli scom-
piglio i capelli.
L'idea è terribile, e mi colpisce come un pugno nello stomaco: se Casey
ha rischiato di morire in qualche modo è colpa mia.
Kate
Tutta la città è venuta a sapere dell'incidente di Casey e all'alba, domeni-
ca mattina, si è già formata una squadra di assistenza. Hannah arriva da noi
per colazione e ci aggiorna sui dettagli. Non è gente cattiva, questa, quan-
do qualcuno ha bisogno di aiuto. La signora Daniels ha fatto in modo che i
Thornton avessero tre pasti caldi pronti entro le otto. Ken Darby, il pro-
prietario del negozio di ferramenta, ha portato a Casey una nuova canna da
pesca per rimpiazzare quella persa nel fiume.
«C'è gente che si è offerta di pulire la casa e occuparsi del giardino»
spiega Hannah. «Qualcuno si è perfino fatto avanti per costruire una stac-
cionata lungo il fiume».
Siamo sedute attorno al tavolo di cucina, mentre Jillian ci scodella nei
piatti i pancakes e Hannah carica i suoi con burro, sciroppo d'acero e ca-
ramello, e poi con un altro giro di sciroppo, tanto per gradire. Mi viene da
sorridere: mi domando dove metterà tutta quella roba, e penso a quella
gente che si è dimostrata così gentile. È uno dei motivi per cui mi piace
vivere qui, anche se dubito che tanta cortesia si estenderebbe anche a Jil-
lian e a me. La maggioranza, anche se viene abbastanza spesso al negozio,
non ci includerebbe mai in un elenco degli invitati. Tuttavia sono contenta
per Jarrod, si sentirà accettato. È qualcosa che lui desidera ardentemente,
al punto di perdere l'obiettività.
Suona il campanello all'ingresso e Jillian impreca a bassa voce. È ancora
tutta in disordine e già arrivano clienti. «Vado io» le dico. Lascio Hannah
a spazzolare allegramente un altro paio di porzioni di pancakes e a leccarsi
lo sciroppo dalle dita. Sorrido e scuoto la testa. So che a casa sua non può
abbandonarsi a questi piccoli lussi. Da quelle parti il cibo scarseggia e ci
sono molte bocche da sfamare, compreso un anziano nonno che si è unito
di recente alla compagnia. E poi Hannah non rischia certo di ingrassare, ha
lo spessore di un foglio A4.
La domenica Jillian apre alle nove. Le dico sempre che potrebbe tardare
di un'oretta, ma questo è il giorno più proficuo. Un sacco di gente arriva in
gita dalle città e i parcheggi sono pieni, tranne durante l'inverno. Quindi
bisogna fare più affari possibili finché il tempo è buono.
Ma non è un cliente quello che si aggira per il negozio: è Jarrod. Vedo la
sua bici fuori.
Aspetto dietro il bancone mentre lui si avvicina. «Possiamo parlare?»
Il suo tono è mortalmente serio, e ha gli occhi rossi. È chiaro che non ha
dormito molto, eppure ho la sensazione che non sia stato solo l'incidente di
Casey a tenerlo sveglio. «Certo, vieni su».
Ci siamo quasi, ma la campanella alla porta tintinna di nuovo, stavolta
per dei clienti veri; e quando ci voltiamo e vediamo chi sono, restiamo
paralizzati, ognuno per i suoi motivi.
«Jarrod!» squittisce Tasha Daniels. È in compagnia del suo cane da sa-
lotto preferito, Jessica Palmer. «Che strano vederti qui. Ho sentito di tuo
fratello, spero che stia bene. Mamma sta cucinando dall'alba, avete avuto il
pranzo?»
Lui risponde a questo assalto verbale solo con un cenno della testa, e si
volta leggermente verso Tasha.
Jessica Palmer si avvicina, lasciando la sua 'migliore amica' indietro.
Audace, non c'è che dire. Di solito Jessica sa bene qual è il suo posto, vale
a dire all'ombra di Tasha. Ma a quanto pare ha deciso che Jarrod vale il
rischio di far adirare Sua Altezza. «Ryan dà una festa in maschera sabato
sera, il primo giorno dell'inverno. Ti va di venire?»
Quindi fanno tutte e due il filo a Jarrod. Davvero interessante, mi dico
stringendo i denti. La loro gelosia può sfociare nella rissa del secolo. Spero
tanto di esserci quando scoppierà.
Tasha mette il broncio. La cosa più fastidiosa di lei è che insiste a recita-
re la parte dell'oca giuliva. Non è affatto stupida, invece. Anzi, è la ragazza
più intelligente di tutta la classe. Ma preferisce comportarsi da bambolina;
i ragazzi l'adorano. Mi viene da pensare a un incantesimo che invada il suo
corpo con una scarica di testosterone. Immagino le sue perfette guance
rosa che spariscono sotto un fitto strato di barba. Che pensiero magnifico.
Jessica mi distrae dal mio piano, che però - mi dico - è solo rinviato. «La
festa da Ryan si è sempre fatta, da quando mi ricordo».
Quello che non dice è che la festa annuale di Ryan è diventata l'evento
cruciale di Ashpeak. È una tradizione inaugurata da suo fratello maggiore,
prima che andasse all'università. Ryan invita praticamente tutti, anche
quelli delle classi superiori, e nessuno rifiuta mai. Io naturalmente non
sono mai stata invitata, né da lui né da nessun altro partecipante. Niente di
nuovo, quindi. Mi lasciano sempre fuori dalle loro feste, e allora? Sono
solo una massa di patetici snob. Sia chiaro, non mi dispiacerebbe andarci.
Specialmente se fosse Jarrod a chiedermelo.
«Ehm, sì, non ho avuto molto tempo per pensarci» risponde lui.
Tasha, completamente spiazzata dall'invito di Jessica, rimette di nuovo il
broncio, stavolta in modo seducente, e riesce a scavalcare graziosamente il
suo cane da salotto. Ora tra lei e Jarrod c'è solo qualche centimetro. Lei
avanza e lui indietreggia, ma a un certo punto deve fermarsi perché c'è il
bancone. «Cerco qualcosa di veramente diverso» spiega lei, chiarendo così
la sua presenza nell'Antro della strega, come lei e la sua cricca chiamano
di solito il nostro negozio.
«Bene» fa lui. «Non ti trattengo, allora».
Questo ragazzo è completamente privo di spina dorsale. Il suo dono na-
turale potrebbe rafforzargli il carattere, ma visto che non ammette di aver-
lo, è praticamente inutile. Si manifesta solo quando lui prova forti emozio-
ni e, da quello che ho visto, con risultati devastanti. Insomma, Jarrod è un
codardo e allo stesso tempo una bomba a orologeria.
«Allora» sussurra Tasha, passando le unghie rosse e curate sul petto di
Jarrod. «Tu cosa fai qui?»
È il momento della verità. I suoi occhi incrociano per un secondo i miei.
Riesco a sentire il suo conflitto interiore. Rivelare a Tasha la verità sarebbe
impossibile, ma sotto sotto mi piacerebbe sentirgli dire che è passato a
trovare un'amica, cioè me. Non che ci speri molto. Perché Jarrod dovrebbe
essere diverso da tutti gli altri? Farsi vedere in giro con la marziana? Ci
vorrebbe un bel fegato.
Eppure una parte di me, una grossa parte, desidera davvero che lui mi ri-
conosca come amica.
«Ehm, sì, ecco» esita lui. «Mia madre ha portato dei vestiti da esporre in
vetrina e, insomma, volevo vedere come andava» mente.
Chiudo gli occhi, trattenendo qualsiasi manifestazione di disappunto.
Imbecille. Stupide lacrime lottano per uscire, ma io le blocco. Non ho in-
tenzione di piangere, soprattutto non davanti a loro. Riapro gli occhi e Jar-
rod mi sta guardando con un'espressione di scusa negli occhi troppo gran-
di. Bravo. Troppo tardi, però.
«Vi posso aiutare, ragazze?» Jillian appare all'improvviso, vestita e pet-
tinata. «Cercate qualcosa in particolare?»
Lentamente, indugiando con lo sguardo su Jarrod che arrossisce, Tasha
si volta verso Jillian e le concede alla fine tutta la sua attenzione. «Vorrei
indossare un vestito bianco, lungo, da fata. Ho già delle stupende scarpe
d'argento e cercavo una bacchetta magica, e una mascherina d'argento a
farfalla. Mi piacerebbe con le paillettes ma quelle ce le posso mettere da
sola...» continua lei, ma io non la ascolto più.
Volto le spalle a tutti quanti ed esco in fretta dalla stanza. Mi dico che
non m'importa di quello che pensa Jarrod. Riecco quelle lacrime umilianti,
che di nuovo ricaccio indietro. Passo di corsa davanti a Hannah che tran-
gugia succo d'arancia seduta al tavolo di cucina e filo dritta nella mia ca-
mera. Lei mi segue, domandandosi probabilmente che fretta ho. Si sta an-
cora asciugando le mani quando mi raggiunge. In questo momento ho pro-
prio bisogno di un'amica. Se non parlo con qualcuno esplodo o, peggio
ancora, faccio un incantesimo. Qualcosa di nuovo e mai provato prima,
come per esempio cambiare il colorito di qualcuno in un bel verde fluo.
Le racconto tutto di Jarrod: la maledizione, il suo talento, e la mia stupi-
da, ma definitivamente archiviata, attrazione fatale per lui.
«Sì, come no» mormora quando ho finito. È sdraiata sul mio letto, con le
mani dietro la testa, mentre io siedo per terra a gambe incrociate.
«Come no cosa?»
«Archiviata, come no» ripete lei, sarcastica.
«Ci puoi scommettere che è archiviata!» insisto io, testarda.
«Quindi non lo aiuterai a liberarsi della maledizione?»
Devo pensarci. C'è solo un modo in cui io posso liberarmi dalla mia os-
sessione per quel tipo. «Non m'importa, anche se l'incantesimo l'ha fatto il
diavolo in persona» annuncio in tono melodrammatico. «Jarrod può pre-
garmi e scongiurarmi in ginocchio, pulirmi le scarpe con la lingua, raschia-
re via il fango dai miei stivali, la cacca degli uccelli dal mio davanzale, ma
non alzerò un dito per aiutarlo».
Sennonché Hannah ha lasciato la porta aperta. La voce di Jarrod mi fa
sobbalzare. «E se ti chiedo scusa?»
Alzo la testa di scatto, diventando rossa molto, molto rapidamente.
Da quanto tempo è fermo lì?
Il fatto che Hannah scoppi a ridere non mi aiuta di certo.
«Piantala, Hannah». Sono livida.
Lei torna seria. «Scusa» mormora, ma è ovvio che mente. Si mette a se-
dere, e Jarrod la raggiunge sul letto.
«Le hai raccontato tutto» dice tristemente, e a quel punto è chiaro che ha
sentito ogni cosa.
«Origli sempre alle porte delle camere da letto?»
«Sì, se la conversazione è interessante».
Hannah cerca ancora di reprimere una risatina ogni tanto, anche se la
tensione si potrebbe tagliare col coltello. «Lei ha ragione, sai».
Jarrod le lancia un'occhiata. «Su cosa?»
«Su tutto» risponde Hannah in tono casuale. «Tu non la conosci, io sì.
Se Kate dice che hai una maledizione addosso, ce l'hai. Lei le sa, queste
cose. Se dice che hai un dono, le devi credere. Accettalo e basta. Acciden-
ti, vorrei averlo io».
«Non la penso come te, Hannah».
«Peccato» dice lei, stirandosi e passandosi una mano sulla pancia inesi-
stente. «Comunque, ora che sono sazia e mi sono fatta due risate, me ne
posso anche andare». Si avvia alla porta. «Visto che hai ospiti, troverò da
sola l'uscita. E poi voglio ringraziare Jillian per la colazione. Ciao».
Jarrod scuote la testa mentre i passi di lei corrono leggeri giù per le sca-
le. «Perché le hai raccontato tutto?»
Non sono dell'umore adatto per essere gentile. «Perché non hai detto a
Tasha e a Jessica che sei venuto per vedere me?»
Accetta la sconfitta meglio di me. «Mi dispiace. L'ho detto senza pen-
sarci».
«Sei un idiota».
«Rimedierò».
I suoi occhi sono imploranti. Provo un gusto tale che quasi sorrido. «Ah
sì? E come?»
«Qualsiasi cosa. Prometto».
D'impulso, perché altrimenti non lo farei mai, butto là: «Portami alla fe-
sta di Ryan».
Non dice una parola, limitandosi a guardarmi con quegli intensi occhi
verdi. Il silenzio sta diventando soffocante. Per un secondo quasi mi di-
spiace per lui, gli sto chiedendo molto. Ma ormai l'ho detto e non posso
ritirarlo. Non voglio che lo faccia davvero. Voglio solo testare la sua ami-
cizia. Voglio solo sentirgli dire: 'Sì, certo, non c'è problema'. E che lo dica
sul serio.
Invece lui risponde: «Non ci vuoi andare davvero, giusto?»
È difficile capire se, semplicemente, non mi ci vuole portare, oppure in
qualche modo assurdo sta cercando di proteggermi. Sa che se andassi alla
festa di Ryan mi ritroverei subito al centro dell'attenzione, il genere di at-
tenzione che nessuno desidera. E poi ci sarebbe anche Bicipite.
Mi stringo nelle spalle e distolgo lo sguardo. Almeno, nessuno può dire
che sono una vigliacca.
«Se è davvero quello che vuoi, ti ci porto».
Lo guardo male. È evidente che si sente in debito. Be', che diavolo. For-
se dovrei farlo davvero, gli darebbe una piccola lezione di lealtà. Invece
mormoro: «Non dicevo sul serio».
Si china in avanti, nella sua voce c'è un tono di gentile minaccia. «Non
mi piace essere messo alla prova, Kate». Le campane a vento cominciano a
tintinnare, i riflessi pastello danzano sulle pareti della mia stanza. La sua
rabbia sta lentamente montando, e io ho la sensazione di giocare con gli
esplosivi.
Ma, ripeto, non sono una che si spaventa facilmente. «Sei solamente sol-
levato. Non oserei mai rovinarti la piazza con Tasha o Jessica. Sarebbero
talmente disgustate che potrebbero addirittura cacciarti via dal loro prezio-
so gruppetto».
«Non m'importa niente di loro» dice, prendendomi abbastanza di sorpre-
sa.
«Menti malissimo».
Lui si stringe nelle spalle come se l'argomento lo annoiasse. Le campane
smettono bruscamente come hanno cominciato. Almeno per ora, la mia
casa è al sicuro. «Pensavo che essere accettato fosse il tuo obiettivo princi-
pale».
Aggrotta leggermente la fronte. «Le mie priorità stanno cambiando».
Il suo tono grave mi spaventa. Non sarà mica successo qualcos'altro?
Non finirà mai? Lo guardo negli occhi e chiedo precipitosamente: «È suc-
cesso qualcos'altro di orribile ai tuoi?»
Riflette per un momento, e quando alza il viso ci vedo solo una tristezza
esausta. «È proprio questo il punto, Kate. Ho paura di quello che succederà
la prossima volta. La mia famiglia ne ha già passate tante, quanto può sop-
portare ancora prima di autodistruggersi?» Poi mi guarda con un'intensità
che farebbe paura a un criminale incallito. «Non ho mai pensato che avrei
finito per credere alle maledizioni, ma in questo momento penso di poter
credere a qualsiasi cosa».
La sua ammissione mi coglie talmente di sorpresa che dimentico all'i-
stante la festa di Ryan. Tiro su le ginocchia fino al mento e le abbraccio.
«Stai dicendo che ora ci credi?»
Lui respira a fondo. «Non so cosa credere. Per me è difficile, Kate. Non
ho avuto la tua educazione... magie, incantesimi e stregonerie non sono
mai stati argomento di conversazione a cena».
Annuisco. «Però ammetti l'ipotesi che possa esserci qualcosa di vero».
«Almeno è una spiegazione per tutto quello che è andato storto finora. E
la cosa più strana è successa ieri sera, mentre stringevo Casey tra le brac-
cia». Getta la testa all'indietro, fissando il soffitto per alcuni, infiniti se-
condi. L'ho già visto farlo, quando cerca di venire a capo di una cosa diffi-
cile, o è molto preoccupato. Lo fa sembrare così vulnerabile.
Finalmente abbassa la testa e mi guarda. «Gesù, Kate, mi sento respon-
sabile per quello che gli è successo. Tutto quello che è accaduto alla mia
famiglia potrebbe essere colpa mia».
Ci rifletto per un momento. «Questo senso di colpa potrebbe essere un
segno di accettazione, una consapevolezza interiore. Ma non essere così
duro con te stesso. Non sei stato tu a gettare la maledizione sulla tua fami-
glia».
«Ma se questa storia è vera, Kate, che cosa possiamo fare?»
«Ho parlato con Jillian. Dice che secondo gli antichi testi ci sono due
modi di mettere fine alla maledizione di uno stregone».
Lui si china verso di me, in attesa.
«La morte» spiego.
«Cosa? Di chi? Mia?»
«No. A quanto pare questo tipo di maledizione s'interrompe quando l'ar-
tefice muore per mano del portatore».
Mi guarda, incredulo. «Devo ammazzare lo stregone?»
Annuisco.
Restiamo in silenzio per qualche istante, ma i pensieri di Jarrod vanno a
tremila. «Tu credi che il presunto stregone sia un Thornton illegittimo vis-
suto circa mille anni fa» dice, serissimo. «Il che significa che è già morto.
Forse la maledizione finirà se muoio io».
Non mi piace la piega che sta prendendo la conversazione. Cerco di
spiegarmi meglio. Dall'antico libro di stregoneria di Jillian leggo: «Per
porre fine alla maledizione il portatore, o uno dei suoi discendenti» e qui
gli lancio un'occhiata, «'dovrà distruggere il negromante, se non di sua
propria mano, con altri mezzi'».
Lui aggrotta ancora di più la fronte. «È impossibile, Kate. Quell'uomo è
già morto».
Sospiro. Tutto questo non ci porta lontano. «Sì, lo so».
«E poi, non potrei farlo comunque. Insomma, uccidere qualcuno. No,
non fa per me. Un omicidio, dio mio». Infine aggiunge, pianissimo: «Sa-
rebbe più facile uccidere me stesso».
Lo guardo negli occhi per assicurarmi che stia scherzando. Ma è così se-
rio. «Non ci pensare nemmeno» dico sbrigativamente. «La tua morte non
impedirebbe alla maledizione di colpire i tuoi discendenti».
«Ma se morissi prima di avere dei discendenti...»
Lo interrompo subito. «La maledizione troverebbe un'altra via».
Lui annuisce con un sorriso sarcastico. «Sì, come ha fatto con me. I miei
non avrebbero mai avuto sette figli se i primi fossero sopravvissuti. Invece
in questo modo hanno continuato a provare».
Giusto. I suoi avrebbero smesso dopo il terzo o quarto figlio, e magari
ne avrebbero adottato un altro. Ma arrivare a sette, otto? Assurdo. E così la
maledizione ha trovato il modo di manifestarsi, uccidendo tutti quei bam-
bini. Mi viene la pelle d'oca. Chiunque abbia creato quest'incantesimo do-
veva essere un mago diabolico. Non meno di uno stregone, ed estrema-
mente malvagio. Cerco una soluzione. Dev'esserci qualcosa che possiamo
tentare. Dimentico subito di aver deciso di non aiutarlo. «Possiamo prova-
re un incantesimo».
Jarrod mi dedica tutta la sua attenzione, e questo mi fa piacere. Almeno
evita i pensieri cupi. «Dici sul serio?»
«È stata la magia a metterti in questo guaio, e forse serve solo un po' di
magia per tirartene fuori. E poi non abbiamo niente da perdere».
«Che tipo di incantesimo?»
Devo riflettere. Qualcosa di abbastanza efficace da sconfiggere un'al-
chimia potente. Non è facile, considerato che sono passati secoli dalla ma-
gia iniziale. «Dobbiamo andare al ruscello a mezzanotte, con la luna piena.
Per fortuna è stanotte. Ah sì, ci serve del sangue di capra. Puoi portarlo tu?
Al cuore di pesce ci penso io, Jillian dovrebbe averne qualcuno».
Sulla sua faccia l'incredulità è scritta a caratteri cubitali.
«Assecondami» lo prego, con un sorriso. «Devi solo venire al ruscello
nella foresta, dove siamo già stati. Un po' prima di mezzanotte. Ah sì, ve-
stiti di nero».
«Ho paura a chiedere perché».
Sorrido. «Per confonderti col buio e non spaventare gli animali, in modo
che la foresta resti in armonia con la luna. E con i quattro elementi, di cui
avremo bisogno».
Stringe gli occhi, china leggermente la testa, lo sguardo dice 'ma ci stai
con la testa?'«E l'altro modo?»
«Cosa?»
«Tu hai detto che Jillian aveva trovato due modi di mettere fine alla ma-
ledizione. Uno è la morte dello stregone. Qual è l'altro? Magari possiamo
tentare quello».
Mi mordo il labbro. Come faccio a spiegare l'altro modo? Se glielo di-
cessi, Jarrod scapperebbe come un fulmine, ridendo a crepapelle. «Ehm,
dunque» comincio, ma poi decido di non rivelarlo. Tanto non potremmo
farlo comunque. «È un'idea stupida, non funzionerebbe mai».
Lui alza le spalle e piega gli angoli della bocca all'ingiù, accettando la
mia spiegazione.
«Dobbiamo tentare con l'incantesimo, Jarrod».
«Non lo so, Kate. È così... ridicolo».
«No, ci vuole solo un po' di coraggio». Metterlo alla prova potrebbe di-
ventare un passatempo interessante. «Insomma, ce l'hai un po' di corag-
gio?»
«Non ci provare, Kate». Il tono è amaro, ma vedo che la curiosità sta
prendendo il sopravvento.
«Sei con me?» pungolo.
«Dimmi solo dove trovare il sangue di capra senza dover ammazzare
una capra».
Jarrod
Non posso credere di aver accettato. Lo sto facendo sul serio. Sangue di
capra, mio dio. Ma che accidenti mi succede? Sono diventato matto, non
c'è altra spiegazione.
Ma, visto che sono già matto, tutto sommato non rischio nulla. A parte
forse gli ultimi barlumi di lucidità.
La casa è addormentata, è quasi ora di andare. Devo uscire dalla finestra
se non voglio svegliare mamma e papà. Spero che dormano già profonda-
mente; non hanno avuto molte occasioni di riposare, negli ultimi due gior-
ni.
Esco di schiena dalla finestra, mi scortico il braccio su un infisso scheg-
giato e atterro con un tonfo su un cumulo di foglie secche. Guardo in su,
felice di vivere in una casa a un solo piano, e mi massaggio il gomito dolo-
rante. Non si accende nessuna luce. Almeno non ho svegliato nessuno, e
non mi sono rotto un altro osso.
Fuori fa già un freddo cane, anche se sono solo le undici e venti. Appena
in tempo, mi rendo conto, per arrivare in bici da Kate e farmi strada nella
foresta fino al ruscello. Lei mi ha detto di non usare la torcia se non è stret-
tamente necessario. La luna piena dovrebbe bastare. La luna e il mio istin-
to. Fidati, ha detto lei.
Scherzava, di sicuro. Il mio istinto è in massima allerta, visti i livelli di
paura e adrenalina. E la prevista luna piena pare che non voglia saperne di
farsi vedere. Niente di strano, non è mica stupida.
Non dovrei essere qui.
Tasto il barattolo di sangue di capra, avvolto con cura nel taschino della
camicia, sotto il pullover nero. Meno male, è intatto. Vorrei vedere, dopo
quello che ho fatto per trovarlo. Il veterinario del paese mi ha dato una lista
delle fattorie in cui allevano capre, dicendomi che comunque avrei ottenu-
to più facilmente latte che non sangue; e mi ha anche guardato come se io
non fossi completamente a posto. Non aveva tutti i torti. Ho fatto il giro
delle fattorie, dove se non altro ho dato modo a tutti di farsi una bella risata
alle mie spalle, e poi sono finito al mattatoio, dove ho avuto il mio bel da
fare a convincere il tizio che era sangue di capra che mi serviva per il
compito di biologia, e non i soliti organi tipo fegato o cervello. Lui mi ha
assicurato che stavo commettendo un errore e che non avevo capito bene le
istruzioni; ma, visto quello che è successo al mio fratellino, ha pensato che
fossi sotto choc e mi ha assecondato.
Il ricordo mi fa pedalare più veloce: almeno questo riesco a farlo senza
cadere. E poi devo affrettarmi. Le strade sono tranquille: non incontro né
macchine né passanti. Benissimo, così nessuno mi vedrà conciato in questo
modo: tutto in nero dalla testa ai piedi, come da istruzioni, a parte il picco-
lo simbolo rosso dei Chicago Bulls sul berretto che ho rubato a Casey. Fa
talmente freddo che ho deciso di concedermi questa trasgressione.
Quando arrivo al negozio di Jillian sono esausto, visto che l'ultimo tratto
l'ho fatto a piedi. Lascio la bici davanti alla vetrina e mi avvio per il sentie-
ro nella foresta che mi ha mostrato Kate. Ovviamente al buio non è facile
individuarlo e devo accendere la torcia. In effetti è a malapena un sentiero,
e dopo qualche minuto il cuore comincia a battermi all'impazzata. Se il
rumore dei miei passi sui milioni di foglie secche non mette in allarme gli
animali, ci penseranno i miei battiti cardiaci a rompere l'armonia tra la
foresta e la luna, o qualsiasi cosa abbia detto Kate.
Mi è subito chiaro che i miei peggiori nemici sono le ragnatele nuove,
create da grassi ragni che non aspettano altro che prede facili come me.
Tengo la testa bassa e le mani in avanti, strappando una tela dopo l'altra. A
ogni passo l'adrenalina sale sempre più. Comincio a sudare dappertutto,
anche se muoio di freddo. All'improvviso mi domando se sto andando nel-
la direzione giusta. Un escursionista esperto non tenterebbe una passeggia-
ta nella foresta in queste condizioni, a quest'ora della notte, senza una bus-
sola.
Questo pensiero mi mette ancora più in tensione. Il respiro mi si accor-
cia notevolmente. E se finisco fuori strada e non trovo affatto il ruscello? E
se invece trovassi un burrone? Andrei in ipotermia e morirei di freddo
prima che riescano a trovarmi, fra due o tre giorni.
Ecco il panico che monta, distruggendo i miei nervi come l'acido sullo
zucchero. Devo prendere una decisione. Non posso andare oltre. Faccio un
giro su me stesso, troppo in fretta. Da che parte? Sono completamente di-
sorientato. E a questo punto vedo un bagliore in lontananza. Sulle prime
penso sia un fuoco, ma manca il riflesso rossastro. Dev'essere Kate. Nes-
sun altro potrebbe essere qui in piena notte, a parte forse un assassino mu-
nito di ascia.
Mi faccio strada verso la luce, calmandomi un po' a ogni passo, in modo
che quando arrivo da lei ho recuperato una certa parvenza di controllo.
«Ce l'hai fatta» dice, come se avesse nutrito seri dubbi in proposito.
Mi stringo nelle spalle cercando di fare l'indifferente. Se c'è una cosa che
mi colpisce, è la totale mancanza di fiducia di Kate verso di me. Secondo
lei sono una specie di cretino senza spina dorsale. Non per gli incidenti, lei
non è così superficiale; anzi, guarda davvero a fondo, dritto nella mia ani-
ma. «Certo. Che cosa pensavi? Ti avevo detto che sarei venuto».
Con la bacchetta che tiene in mano descrive un ampio arco. «Ho già
formato il cerchio. Le candele segnano il perimetro. Puoi entrare solo dal
varco alle mie spalle».
Faccio come dice, anche se le sue parole mi danno i brividi. Mi ritrovo
seduto a gambe incrociate di fronte a lei. È allora che comincio a percepire
distintamente tutto ciò che ho attorno. Il ruscello, familiare e molto vicino.
Se allungassi abbastanza il braccio verso destra potrei toccare l'acqua lim-
pida. Una nebbia vaporosa aleggia sulla superficie. La scena è irreale, co-
me in un film fantasy. Piccole fiamme bruciano senza fumo in cima a can-
dele bianche disposte in circolo attorno a noi. Stranamente pare che non si
consumino. A destra di Kate c'è una scatola dorata, a forma di scrigno. Il
coperchio è sollevato e all'interno si vedono un cristallo rosa perfettamente
liscio, un calice d'argento, un paio di forbici, un pezzo di spago blu e qual-
che altra stranezza. Sento che i miei occhi sono sbarrati e decido di non
indagare oltre. C'è un odore di marcio che viene da qualche parte, ma non
ho proprio voglia di fare domande. Però la cosa più strana è la luce. A par-
te le candele non sembrano esserci fonti luminose, eppure tutta la zona è
circondata da una specie di cupola di luce bianca, come se fosse l'aria stes-
sa a brillare.
Kate legge la sorpresa sulla mia faccia. «È solo una piccola magia che
mi ha insegnato Jillian» dice piano, con voce dolce e melodiosa. Invidio la
sua calma. Mi fa sentire più smidollato che mai.
«Ti piace?»
Che cosa vuole che le dica? «Ehm, sì» farfuglio. «Come...?»
Lei si limita a sorridere. «È complicato, non sono sicura che tu sia pron-
to a sentirlo. Comunque Einstein ne andrebbe pazzo».
Devo accontentarmi di questo, anche se vorrei sapere di più. Di fronte
all'evidenza della sua magia comincio a rilassarmi un po', e anche a spera-
re. Se Kate sa fare cose del genere con la luce, e c'è davvero una maledi-
zione sulla mia famiglia, forse lei può risolvere i miei problemi, dopotutto.
«Sei pronto? È quasi mezzanotte».
Annuisco. «Credo di sì».
Sorride di nuovo e io sento che le mie pulsazioni tornano a un livello
vagamente umano. Lei è nel suo elemento, totalmente a proprio agio. Un
po' della sua calma passa anche a me. «Devi toglierti il berretto, e anche i
vestiti».
Mi sporgo in avanti, strabuzzando gli occhi. «Cosa?»
«Non tutto!» ride lei. «Solo sopra».
Sogghigno. «Non pensavo a quello. È solo che... insomma, ci saranno
due gradi».
Lei aggrotta la fronte, perplessa. «Senti freddo?»
La sua domanda mi spinge a un rapido riesame della situazione. Mi ac-
corgo che il nostro respiro non forma più piccole nubi di vapore, e che le
mie dita non sono più intorpidite. Anche i piedi stanno meglio. Mi tocco le
guance. Incredibilmente, non sono più gelide come qualche minuto fa, ma
calde. Guardo Kate. «Come hai fatto?»
«Non l'ho fatto. Non ho nessun potere sul tempo atmosferico, anche se ci
ho provato un sacco di volte. È la luce che genera un po' di calore, quanto
basta per combattere il gelo».
«Uau» è tutto quello che riesco a dire. È come se avessi il deserto in
bocca.
«Hai portato il sangue?»
Questo mi riporta alla realtà. Metto la mano nel taschino con un mezzo
sorriso al ricordo delle disavventure pomeridiane, e le porgo il mezzo ba-
rattolo di sangue, sperando che basti.
«Eccellente» dice lei. Meno male.
«Che ci fai con quello?»
Lei si volta e prende la fonte della puzza di rancido, una piccola ciotola
che contiene qualcosa di viscido e scuro. Con cautela, versa il sangue su
quella roba e mescola con un cucchiaio di plastica. «La visione che ha avu-
to Jillian dei serpenti significa che sei circondato dagli spiriti maligni. Sai»
aggiunge in tono indifferente, «probabilmente te li porti appresso sempre. I
serpenti sono solo la loro forma mortale».
Proprio quello che avevo bisogno di sentire.
«L'odore prodotto dal sangue di capra mescolato con il cuore e il fegato
di pesce e le interiora di rospo dovrebbe» continua piano, chinandosi in
avanti, «si spera, farne piazza pulita. È una tattica temporanea; ma se l'in-
cantesimo funziona stanotte, potrebbe aiutarci a togliere di mezzo i serpen-
ti definitivamente».
«Davvero?» è tutto quello che riesco a dire. L'immagine dei serpenti che
mi strisciano addosso mi fa venire la pelle d'oca. Circa sei anni fa abbiamo
vissuto in una fattoria che era stata un allevamento di cavalli prima che
papà decidesse di ricreare il manto erboso. Erano ventidue ettari di terra in
riva al fiume. Il primo serpente lo vedemmo il giorno stesso dell'arrivo.
Alla fine della settimana eravamo pronti ad andarcene. I serpenti venivano
su dal fiume, come se fossimo noi ad attirarli. I vicini ci dissero che dove-
va essere per via della siccità. Perdemmo un sacco di soldi, non riuscimmo
a venderla abbastanza in fretta, soprattutto dopo quella notte in cui mi sve-
gliai con tre serpenti nel letto e rischiai di non dormire mai più. Il solo
pensiero mi angoscia ancora.
Kate finisce di mescolare e posa cucchiaio e ciotola un po' distante,
sempre dentro il cerchio di candele. Almeno ora la puzza si sente di meno.
«Rilassati» dice dolcemente. «Non ti farò del male, Jarrod». I suoi occhi,
ora simili a zaffiri, fissano i miei. «Mai».
Mi fa piacere sentirlo. «E ora?»
La sua risposta mi lascia sbalordito. «Ti laverò».
Chiudo un occhio, cercando di registrare l'informazione; adesso capisco
la richiesta di spogliarmi. «Prego?»
«Da tutto il male».
Ah già, il male. Pensavo davvero che intendesse un bel bagno di schiu-
ma? Per quanto possa essere gradevole in quest'atmosfera, l'idea di farlo
qui fuori all'addiaccio è un po' meno eccitante. «In che modo?» chiedo
subito, cercando di nascondere il mio imbarazzo.
«Con l'aiuto degli elementi: terra, aria, acqua e fuoco».
Dice sul serio? Sembra il dialogo di un film di serie B. «Tu guardi trop-
po la TV».
La sua risposta va dritta al punto: «Non ce l'abbiamo, la TV».
«Okay, allora dimmi come puoi farti aiutare dagli elementi. Glielo chie-
derai per piacere?»
Mi guarda, gli occhi ridotti a fessure. È furibonda, e io non reggo il suo
sguardo. «Scusa» mormoro.
«Non funzionerà mai se non collabori, Jarrod. Il sarcasmo non farà altro
che creare un blocco. Un incantesimo di purificazione non è una cosa faci-
le».
«Te l'ho detto, mi dispiace».
«Va bene». È ancora arrabbiata e mi dispiace davvero. Dopotutto sta fa-
cendo tutto questo per me. «Cerca di non fare troppe domande e seguimi.
Okay?»
Annuisco, contrito.
«Ora togliti il berretto, il pullover e tutto quello che hai sotto».
I miei nervi gridano vendetta ma eseguo, appoggiando i vestiti accanto a
me. Mi sento arrossire mentre lei mi guarda. Anche se sono tutt'altro che
nudo, mi sento come se lo fossi. Mi sento affascinante come un mucchio di
ossa. Cerco di guardare altrove. Kate sta facendo qualcosa con le mani, e
quando realizzo che sono giunte in preghiera la cosa mi dà una strana sen-
sazione. Sta anche parlando, ma non a me. Tiene la testa all'indietro e non
distinguo le parole. Dopo qualche secondo si mette in ginocchio, afferra le
forbici e le avvicina alla mia testa.
«Ehi, aspetta un attimo. Che ci fai con quelle?»
La sua voce è incredibilmente calma, quasi piatta, come se fosse in tran-
ce. «Ho bisogno dei tuoi capelli».
«Cosa?» Mi sollevo su un ginocchio, pronto a correre via, in qualsiasi
posto, subito. Questa buffonata è durata anche troppo.
Ma lei sorride, con dolcezza. «Non tutti, solo una piccola ciocca».
Taglia in fretta, prima che cambi idea, poi lega la ciocca con del filo blu.
«Questo puzzerà un po'». Tiene la ciocca su una candela alla sua sinistra e
ricomincia a recitare, stavolta una cantilena in rima.
In realtà l'odore che sento è niente, in confronto all'intruglio di sangue di
capra. La ciocca di capelli brucia e si disintegra nella fiamma gialla.
Quando è sparita guardo Kate. Sembra proprio eterea, con la luce delle
candele riflessa negli occhi azzurri e la brezza che gioca con i lunghi ca-
pelli neri. Ecco, in questo momento sembra davvero una strega, con quegli
occhi luminosi e strani; le manca solo la scopa.
Si volta e mi guarda. «La prossima parte non ti piacerà» dice con dol-
cezza.
Mi preoccupo subito.
Con il calice raccoglie un po' di terra umida e nera. «Respira piano e a
fondo, da qui». La sua mano tocca un punto proprio sopra il mio ombelico.
È ferma, soffice e piacevolmente calda, e stavolta mi ci vuole tutta la con-
centrazione possibile per fare quello che mi dice. La sua mano, il suo tono
di voce e gli occhi brillanti stanno facendo strani effetti sul mio equilibrio.
Cerco di non mostrare le mie emozioni, visto che Kate le capisce così be-
ne. Alla fine riesco a dare al mio respiro il ritmo giusto dal fondo dell'ad-
dome. Lei lascia la mano appoggiata per qualche secondo, poi, lentamente,
mi versa sulla testa la terra umida. Con un movimento circolare mi sparge
la terra fra i capelli, sulla fronte e sul petto. Mentre lo fa, ripete la cantilena
in rima.
Chiudo gli occhi, nel vano tentativo di proteggerli dalla polvere e dal
terriccio. Vorrei essermi ricordato degli occhiali.
Quando li riapro, Kate sta sorridendo. «Stai andando benissimo».
Annuisco, ma il movimento non fa che aumentare la quantità di terra ne-
gli occhi e in bocca. «Ti stai divertendo un sacco, eh?»
Lei ride, e sono felice di vedere che quello strano luccichio è scomparso
dai suoi occhi. È di nuovo normale. Cioè, normale per quanto può esserlo
Kate. «Resta solo un'ultima cosa» dice. Allunga la mano verso il ruscello,
si sciacqua le dita e poi, con le mani a coppa, raccoglie dell'acqua e me la
porge.
Non c'è bisogno che dica nulla. Vuole che beva, lo so, ma solo il pensie-
ro di sorseggiare l'acqua direttamente dalle sue mani fa un effetto strano
alla mia anatomia. Quel gesto va al di là di quella particolare linea invisibi-
le, la linea dell'intimità.
Lei indica l'acqua con un cenno della testa. «Dai, che aspetti?»
Guardo le gocce d'acqua che filtrano tra le sue dita. Cercando di non la-
sciar trasparire quello che provo, mi chino e bevo. Non oso guardarla, per-
ché capirebbe subito l'effetto che mi fa. Quando l'acqua è finita, respiro a
fondo e mi risiedo sui talloni. Kate sussurra qualcosa tra i denti, oscillando
appena avanti e indietro. Mi sento scuotere dai brividi e da una strana on-
data di calore. Non appena la sensazione passa, resto senza fiato.
Kate sospira appena, poi sorride. «Ti senti bene?»
«Un po' strano, ma sta passando».
«Bene. Abbiamo finito». Si affretta a rimettere tutto in ordine. «Dob-
biamo uscire dal cerchio come siamo entrati». Una volta usciti, Kate spe-
gne le candele. Con il bicchiere di plastica scava una piccola buca e sotter-
ra il miscuglio puzzolente di sangue di capra, pesce e budella di rospo.
«Vestiti ora, ricomincerà subito a fare freddo». Mentre lo dice, il bagliore
che ci circonda svanisce poco a poco. Una luna vigliacca finalmente si
decide a comparire, ora che è tutto finito. La intravedo attraverso la volta
degli alberi, e la sua piccola luce mi aiuta a individuare i vestiti. L'aria si fa
più fredda, e dopo essermi scosso via un po' di terra di dosso mi rivesto,
berretto incluso. «È tutto, quindi?» chiedo, scuotendo ancora la testa.
«È tutto» ripete lei.
Mi frugo nella tasca dei calzoni in cerca della torcia, e finalmente la tro-
vo e l'accendo. «Ora che succede?»
Ci incamminiamo verso la strada, o almeno credo. Non saprei dirlo, ma
Kate sembra sicura del fatto suo, e io la seguo. «Bisogna aspettare e vede-
re, immagino» dice.
Non sembra molto fiduciosa. «Quanto ci vorrà, secondo te?»
«Se l'incantesimo funziona, allora la maledizione dovrebbe sparire subi-
to».
«Meno male!» Mi concedo un po' di entusiasmo. Forse dopotutto questa
notte folle è valsa la pena. «Ma come farò a sapere se la maledizione non
c'è più?»
«È ovvio» risponde lei. «Non sarai più così maldestro e la tua famiglia
vedrà interrompersi la serie di disgrazie».
Arriviamo alla strada e Kate mi accompagna alla bici. Ora c'è molta più
luce, le nubi si sono aperte e la luna brilla indisturbata. Spengo la torcia. Il
piccolo cofanetto sotto il braccio di Kate mi fa tornare in mente quello che
abbiamo appena fatto. All'improvviso mi sento a disagio. Come si fa a
ringraziare una strega per aver fatto un incantesimo che forse ti ha tolto un
anatema vecchio di secoli?
«Senti» comincio. «Per stanotte, io... ehm... insomma, grazie per il tuo
aiuto».
Lei sorride ed è carina da morire. «Potrebbe non funzionare, sai. Sono
solo una novizia, e lo stregone che ha creato la maledizione doveva essere
un potente alchimista». Distoglie brevemente lo sguardo, poi aggiunge,
piano: «Ricorda che non era magia antica, Jarrod».
«Quindi?»
«Abbiamo a che fare con una maledizione generata da una magia di qua-
si mille anni fa. Allora c'era un senso diverso nelle cose, un'altra intensità.
Ora è tutto molto diverso, più commerciale. E questo porta a una specie
di... sì, di debolezza. Jillian è capace di operare la magia antica, ma non ce
ne sono molti come lei».
«Be', comunque tu ci hai provato e hai avuto dei problemi a causa mia».
Si stringe nelle spalle. «Nessun problema. Non ho molte occasioni di fa-
re incantesimi. Qui in giro non ci sono abbastanza volontari. A parte Han-
nah forse, ma certe pratiche sono un po' troppo pericolose per provarle
sulla tua migliore amica».
Sta scherzando, glielo leggo negli occhi ridenti, però mi fa capire quanto
seriamente sia coinvolta in queste faccende di magia. Io ho ancora i miei
dubbi, ma devo ammettere che Kate ha dei talenti bizzarri, come creare la
luce dal buio, e quelle candele accese che non si consumano. Ora che il
mio cervello funziona di nuovo normalmente, mi domando come faccia.
Punto la torcia sul mio orologio ma non riesco a vedere le cifre.
«Sono le quattro» dice lei.
Sono sbalordito. Siamo davvero rimasti quattro ore nella foresta? «Devo
andare» dico. «È tardi».
«Sì, direi di sì».
Sembra riluttante, esattamente come me. Anche se la temperatura qui
fuori dev'essere scesa a meno cinque, non ho fretta. Potrei restare qui tutto
il resto della notte, finché c'è Kate. Questo pensiero mi colpisce come una
martellata. Meglio che risalga sulla bici prima di fare una figura da idiota
totale. «Ci vediamo. Grazie ancora».
Lei annuisce, ma il suo sorriso è velato. Per un attimo il suo viso è un li-
bro aperto. Si sta domandando se lunedì, a scuola, farò finta che non esista.
La saluto con un cenno e comincio a pedalare, con davanti agli occhi l'im-
magine di Tasha e Jessica, Bicipite, Ryan e Pete. Sapere che mi hanno
accettato mi tranquillizza, l'attrazione è forte.
Vorrei non essere un tale codardo. Mi odio. Kate si merita di meglio. Lei
è forte, molto più forte di me. Ha bellezza e talento, tutti e due di un genere
unico. Questo la rende diversa, oggetto delle offese di quella cricca e del-
l'indifferenza di tutti gli altri.
E io?
Be'... non sono certo migliore.
Kate
Non funziona. L'incantesimo non funziona. Me ne rendo conto subito
lunedì mattina, quando Jarrod arriva tardi a lezione e spiega al professore
di storia, Dyson, che ha forato con la bici su una bottiglia rotta; quando poi
è tornato indietro per farsi accompagnare da sua madre, la macchina non
ne ha voluto sapere di partire.
«Stamattina c'era anche molta brina» spiega il professore. Non è arrab-
biato, per fortuna di Jarrod, che pare già abbastanza avvilito. «Di' ai tuoi di
usare l'antigelo, probabilmente è stata solo colpa del freddo. D'altra parte
le previsioni dicono che questo sarà un inverno particolarmente rigido».
Non credo che Jarrod capisca che l'incantesimo è andato male fino all'o-
ra di ginnastica. I ragazzi devono formare una piramide umana. Jarrod, che
è tutto tranne che forzuto come Bicipite, non viene assegnato alla base.
Dopo una lunga serie di sbuffamenti e grugniti da macho, Bicipite prende
posto e la base è pronta. Poi salgono Callum e Todd, e lasciano il posto al
centro a Jarrod. Quando comincia ad arrampicarsi sento qualche risatina.
Non è cattiveria, è solo la sua reputazione che lo precede. È maldestro, lo
sanno tutti. Perde continuamente le cose, inciampa. Ora non porta nemme-
no gli occhiali, ma anche se li avesse non farebbe molta differenza.
È in piedi sulle spalle di Bicipite e Ryan, e finora va tutto bene. La clas-
se fischia e fa il tifo, e lui abbassa la testa con un sorriso imbarazzato. La
professoressa Milan dice a tutti di calmarsi, ma ride anche lei. Lo fa senza
malizia, e l'atmosfera in palestra è molto rilassata.
Ben Moffat è il sedicenne più piccolo che abbia mai visto. Da bambino
ha avuto la leucemia, e la chemio e la radioterapia gli hanno rallentato la
crescita. È minuto, ma comunque in forma, e per lui non è un problema
arrampicarsi al primo livello. È solo quando cerca di bilanciarsi sulle spal-
le di Todd e Jarrod che quest'ultimo perde per un istante l'equilibrio e fa un
brusco scarto di lato. Ben Moffat cade all'indietro e la piramide crolla con
un effetto domino; così Ben si ritrova sommerso da una valanga umana. La
professoressa spinge via tutti in fretta e lo raggiunge. È quasi sicura che si
sia solo storto una caviglia, ma vuole mandarlo a fare una lastra, per sicu-
rezza. La sua preoccupazione principale è la possibilità di una costola rot-
ta.
Jarrod è ancora sui grossi materassi blu, la testa fra le mani. Guarda len-
tamente in su e incrocia i miei occhi. Nei suoi c'è consapevolezza, e un
amaro disappunto. Sorrido e mi stringo nelle spalle. Perlomeno ci abbiamo
provato. Lui pare talmente depresso che vorrei dire qualcosa di carino. Mi
guardo bene dal farlo, è ovvio. Dio sa come reagirebbe, davanti a tutti gli
altri. Finora non mi ha neanche avvicinata.
Tasha, invece, non esita un secondo e corre subito ad aiutarlo. Lui sorri-
de e ringrazia. Digrigno i denti. La scena è talmente disgustosa che mi ro-
vina il resto della giornata.
Più tardi, all'uscita, Jarrod mi raggiunge sulla via di casa. Camminiamo
in silenzio per un po', ma non c'è un secondo in cui non sia consapevole
della sua presenza. Mi rende nervosa e, anche se mi sono ripromessa di
non farlo più, devo sapere cosa sta provando, perciò con molta cautela gli
sondo la mente.
Con mia grande sorpresa stavolta non incontro resistenza e, cosa ancora
più strana, non ci sono muri, perché è lui a non volerli. C'è amarezza, una
grande preoccupazione e confusione. Ci sono molti dubbi e capisco che la
sua fiducia nella magia è diminuita ulteriormente. L'incantesimo ha solo
peggiorato le cose.
Sa che sono lì, eppure non mi ferma. Vuole che io legga i suoi sentimen-
ti, capisca quello che prova. Per lui è più facile in questo modo, piuttosto
che trovare le parole per spiegarsi. E questo mi fa saltare i nervi. Non rie-
sco a credere che non abbia neanche il coraggio di esprimere i suoi senti-
menti. Ma cosa gli succede?
La tensione cresce al punto che se non dico qualcosa esplodo. «Mi di-
spiace» borbotto, «che l'incantesimo non abbia funzionato». Si stringe nel-
le spalle, come se non gli importasse, e questo mi fa arrabbiare ancora di
più. «Non è la fine del mondo, santo cielo!»
Lui apre lo zaino e pesca una bottiglia d'acqua. «Ora che cosa suggeri-
sci?» Beve un lungo sorso. «Sacrifichiamo una vergine? E se invece la
prossima volta facessi il bagno nell'acqua e mangiassi la melma? Oppure
magari mi rapo a zero e offro i miei capelli da mangiare a una capra?»
«Non c'è bisogno di fare il cretino».
In risposta ottengo un sonoro lamento. «Lo so, Kate. Scusa. Tu non c'en-
tri niente».
La sua capacità di commiserarsi è ributtante. Odio questo lato di lui. In
qualche modo gli farò passare questo vizio. «Svegliati, Jarrod. Neanche tu
c'entri niente!»
Non mi crede. Fin dal momento in cui ha ammesso la possibilità della
maledizione si è fatto completamente carico della colpa delle disgrazie di
famiglia, assumendosi tutte le responsabilità passate e presenti.
«Jarrod, stammi a sentire». Raggiungiamo il bivio. Da qui lui prende la
strada asfaltata verso ovest, dove a circa due chilometri c'è casa sua. È la
vecchia casa dei Wilson. Vic Wilson è morto circa cinque mesi fa e ha
lasciato il suo patrimonio al figlio Stephen, che fa l'avvocato a Sydney.
Stephen non aveva la minima intenzione di tornare ad Ashpeak, perciò ha
deciso di vendere la casa. È malmessa, ma non inabitabile. «Ci sono anco-
ra un paio di cose che possiamo tentare».
«Un altro incantesimo, Kate?»
Quanto vorrei che la piantasse. «No, idiota. Jillian ha un'idea, ma è un
po' inverosimile, perfino per me. Perciò per il momento non la prenderemo
in considerazione». Anzi, speriamo di non arrivare mai a doverla prendere
in considerazione.
«E allora l'altra idea qual è?»
«Sei tu».
Di nuovo quello sguardo incredulo. Non mi abituerò mai. Perché non
può accettare la realtà e basta? «In che senso?»
«I tuoi poteri, è ovvio. Quando ammetterai che io potrei avere ragione?»
Lui sbuffa e fa per avviarsi verso casa sua. «Kate, per l'amor del cielo,
lascia stare».
Lo afferro per il braccio e tiro forte. «No che non lascio stare. Senti, non
tutto rientra nel tuo semplice libro delle regole. Ci sono cose nella vita che
non si possono spiegare. Il paranormale è una di queste. Con l'aiuto del tuo
dono, Jarrod, possiamo combattere questa cosa».
«Tu sei confusa, Kate. Io non ho nessun 'dono'. Le cose che mi capitano,
casomai, e non posso credere che lo sto dicendo davvero, sono provocate
da quella stupida maledizione, non da qualche represso potere soprannatu-
rale».
«No, Jarrod, hai torto. Certo, gli incidenti e la sfortuna, le ossa rotte, la
tua goffaggine, sono effetto della maledizione. Ma le tempeste, il vento
improvviso, il terremoto! Sei tu a provocarli!»
Lui resta in silenzio, spero a meditare sulle mie parole. Usare i suoi po-
teri è davvero la nostra unica chance. L'idea di Jillian non funzionerà, non
può funzionare. E poi è un'idea pazzesca, servirebbe solo a convincere
Jarrod che siamo tutte e due pronte per un bell'incantesimo a base di psico-
farmaci.
Ma lui si limita a scrollare le spalle e a rimettere la bottiglia vuota nello
zaino. «Qual è l'altro modo? Quello che Jillian ha letto nel vecchio manua-
le?»
Lo guardo, senza parole.
«Cos'è, Kate?»
La frustrazione mi fa quasi esplodere. Mi volto, in direzione di casa.
«Lascia stare. Non lo vuoi sapere veramente».
«Te l'ho chiesto, no?» dice lui, da lontano.
Faccio il gesto di allontanarlo, non proprio convinta. «Vai a casa, Jar-
rod».
Non ci va. Anzi, mi raggiunge di corsa. Lo guardo male. «Che cosa
fai?»
«Be', se non me lo dici tu, lo chiedo a Jillian».
Mi pento all'istante di aver aperto la mia boccaccia. Dal giorno in cui Jil-
lian ha consultato gli antichi testi, è partita in quarta con la realizzazione
del suo piano. A parte le cose essenziali, non sta facendo altro che correre
in giro per frenetici preparativi, fino a cucire a mano i vestiti e a procurare
autentici stivali di cuoio. Rabbrividisco al solo pensiero. Se Jarrod sapesse
del suo piano si farebbe una risata, e oltretutto non credo che lo terrebbe
per sé. Non mi fido di lui. Nel modo in cui qui si spargono i pettegolezzi,
l'intera città sghignazzerebbe entro mezzanotte. Se lui chiede a Jillian, lei
glielo dirà, ecco tutto.
Ho una fiducia sconfinata in Jillian. Ho visto cosa è in grado di fare.
Come guaritrice, soprattutto di animali, è eccezionale. Non solo conosce le
erbe, ma il potere è nel suo corpo, nella sua mente. Attinge a piene mani
dalle sue antiche origini. È in grado di ascendere a un altro livello, e lì la
sua magia è davvero ultraterrena.
Ma quello che sta preparando adesso è diverso. Non rientra in nessuna
categoria, né soprannaturale né di altro tipo.
«Ascolta» comincio. «L'idea di Jillian è un po', come dire, sopra le ri-
ghe».
«E qual è la novità?»
Lo guardo malissimo, e devo forzarmi per non lanciargli qualche incan-
tesimo antipatico. Ricordando l'immagine del suo torace glabro, una cre-
scita incontrollata di peli, tipo vello, non ci starebbe male. Mi trattengo,
ma a fatica. «Stammi a sentire» provo di nuovo, a denti stretti. «Sai cosa
pensa la gente da queste parti. Se ti racconto del piano di Jillian, come fac-
cio a essere sicura che non andrai a raccontarlo in giro per tutta la monta-
gna?»
Lui fa un'espressione veramente offesa, e si ferma. «Ma per chi mi pren-
di? Per amor del cielo, Kate, non lo farei mai. Jillian mi piace, non farei
mai nulla per danneggiarla».
Quando riprendiamo a camminare mormoro tra me: «Provaci e vedrai».
«Cos'hai detto?»
Comincio a mordermi il labbro inferiore, ma riesco a smettere subito.
«Senti, non voglio che a Jillian capiti nulla. Lei è tutto per me. Chiaro?»
Lui annuisce silenziosamente.
Mi guardo le scarpe impolverate. «Lei non è solo mia nonna. Lei... mi
vuole bene».
«Questo si vede» approva lui, dolcemente.
Devo aggiungere qualcos'altro, ma non so come. «Lei non...»
«Cosa, Kate?»
«Lei non mi ha abbandonato, va bene?» Spero che questo basti. Per tutto
il resto della strada rimaniamo in silenzio.
Tuttavia Jillian non è in casa e sulla porta del negozio c'è un cartello che
dice 'temporaneamente chiuso'. Porto Jarrod sul retro, dove c'è l'orto delle
erbe, sotto il glicine spoglio che si arrampica sul portico. Di solito qui da
qualche parte c'è la chiave. Jillian è quasi sempre in casa. Immagino che la
sua assenza abbia a vedere con il suo piano. Chiude la porta a chiave solo
per via dei pezzi rari, dei libri antichi e insostituibili che si trovano nella
sua stanza, non per i gingilli per turisti del negozio.
Alla fine trovo la chiave, ma Jarrod è seduto su un masso all'estremità
della veranda che dà sulla foresta, e osserva la varietà di uccelli che ven-
gono a mangiare le briciole sparse da Jillian. Anche lei adora la foresta: è il
nostro giardino, un posto dove gli uccelli sanno di poter sempre trovare
cibo, acqua e riparo.
Jarrod sembra così a suo agio, in pace con se stesso per una volta, che
non mi va di rovinare la scena con l'incredibile piano di Jillian. Prendo uno
sgabello e mi siedo di fronte a lui, godendomi il gioco del sole tra gli albe-
ri, le palme, le felci e gli eucalipti che caratterizzano questa zona della fo-
resta.
«Sei così fortunata ad avere tutto questo, Kate» dice lui, piano.
«Lo so».
Distoglie lo sguardo dalla moltitudine di uccelli e lo posa su di me. «La
tua sicurezza mi spaventa».
«Solo perché tu non ne hai».
«Lo ammetto, sono un codardo smidollato. Tu ti meriti molto di più».
L'ultima affermazione mi sorprende. È come se ci avesse pensato, forse
mi ha perfino presa in considerazione come sua potenziale ragazza. Mi
sento solidale con lui, ma trovo veramente schifoso il modo in cui si com-
misera. «Se tu accettassi il tuo dono, Jarrod, la tua autostima salirebbe alle
stelle».
La sua espressione passa dalla meraviglia all'esasperazione. «Non vorrai
ricominciare, vero?»
È così frustrante che mi viene quasi da pestare i piedi. «Se solo trovassi
il modo di dimostrartelo! Potrei farti arrabbiare al punto da farti esplodere,
ma visto che non sai come gestire il potere entri in una specie di trance
catatonica e non ricordi più nulla. Perciò, a che scopo distruggere casa mia
e il lavoro di Jillian per una cosa che liquideresti in fretta con una delle tue
ridicole spiegazioni?»
«Sappiamo tutti e due che questa conversazione è senza uscita, Kate,
perciò dimmi il piano di Jillian».
«È folle» ammetto, in tutta onestà.
«Okay, spara».
Non riesco a guardarlo in faccia. Non voglio vedere quel sorrisetto che
gli spunterà, lo so, perciò fingo di essere affascinata dai tacchini selvatici
che litigano per qualche boccone prelibato. «Innanzitutto si tratta di bloc-
care la maledizione». Gli lancio una rapida occhiata. Ha gli occhi stretti, i
gomiti appoggiati sulle ginocchia. Si sporge in avanti, attento a ogni mia
parola.
«Secondo Jillian la maledizione ha creato un legame così forte da supe-
rare il tempo, lo spazio e la materia. Lei crede di poter generare un incan-
tesimo che ti possa riportare fisicamente nel luogo e nel momento in cui è
stata creata. Più o meno». Decido di usare un linguaggio semplice, in mo-
do che lui afferri subito l'idea e io non mi debba ripetere. Anche perché sto
perdendo la pazienza. «In parole povere, Jillian pensa di poterti riportare
indietro nel tempo, nell'Inghilterra del medioevo, nello stesso luogo in cui
vivevano i primi Thornton».
Mi guarda, con un buffo piccolo sorriso che aleggia attorno alle labbra,
come se volesse chiedere qualcosa ma temesse di alimentare ulteriori fol-
lie. A volte è lì, e un accenno di fossetta sulla guancia accompagna quella
leggera sul mento; poi scompare, e lui alza gli occhi al cielo. «Ti dispiace-
rebbe ripetere?»
Non mi crede. E di cosa mi stupisco? Non ci credo nemmeno io, eppure
ho visto Jillian all'opera. Emetto un piccolo grugnito. «La prima famiglia
elencata sul tuo albero genealogico è segnata dalle disgrazie: rapimenti,
tradimenti, figli illegittimi, tutto. Perfino stregoneria. Dev'essere contro di
loro che la maledizione è stata generata. Anche Jillian lo pensa. Ha studia-
to il libro di tuo padre giorno e notte».
Jarrod fa un gesto vago con le dita. «Non parlavo di questo» dice, come
se si rivolgesse a una bambina stupida. «Ma di quella follia sul tempo, lo
spazio e la materia».
Non ho intenzione di ripetere quello che per lui è evidentemente un'as-
surdità. Anche se io stessa non credo alla teoria di Jillian, mi metto subito
sulla difensiva. «Come fai a dire che è una follia? Quali altre idee brillanti
hai avuto, a parte il suicidio? Sei sempre così ingrato con chi cerca di aiu-
tarti?»
«Vacci piano, Kate. Non ti rendi conto di quant'è ridicolo? Non mi me-
raviglia che ti preoccupi di quello che può pensare la gente. Ma sta' tran-
quilla, non lo dirò a nessuno. So benissimo che, se lo facessi, due letti a te
e Jillian all'ospedale psichiatrico non li toglierebbe nessuno».
È una tale cattiveria che mi viene voglia di picchiarlo. «Stronzo».
«Va bene, allora spiegami come farà Jillian a compiere questo miracolo.
La sua teoria contempla anche un viaggio di ritorno, o cosa?»
«Non mi va di sprecare il fiato».
Lui si stringe nelle spalle. «Fai come ti pare».
«Senti, tu non capisci. Anche Jillian ha il dono. E il suo viene da molto
lontano. È magia antica, Jarrod. È diversa, e molto potente».
«Spiegami il piano, Kate. Poi decido io».
Decido, contro ogni ragionevolezza, di tentare. Al diavolo! Le cose non
possono andare peggio di così. Lui pensa già che Jillian e io siamo matte,
che altri danni posso fare? E poi forse, solo forse, con qualche spiegazione
in più potrebbe cominciare a credere... «Ha a che vedere con gli alberi».
«Come?»
«È una questione di legami».
«Non ho capito».
«Secondo Jillian tu sei legato al passato dalla maledizione. E, visto che
quella è ancora attiva, rimandarti indietro sarà facile. Il difficile sarà farti
tornare».
Lui annuisce, così continuo, anche se non entro in dettagli. «Sta lavo-
rando su un amuleto i cui componenti creeranno un legame tra te e la fore-
sta. La sua magia, vecchia quanto il tempo, ti rimanderà indietro, e l'amu-
leto, che possiede un fortissimo legame con la foresta, ti farà tornare».
«Che cosa c'è nell'amuleto?»
«Ha a che fare con gli alberi, i più antichi e i più nuovi». Lo sto perden-
do di nuovo, lo vedo dalla sua espressione dubbiosa, perciò taglio corto.
«Non importa come, tu devi solo fidarti».
Jarrod scoppia a ridere. «Se non ci credi tu, perché dovrei crederci io?»
Touché. Mi mordo di nuovo il labbro, pensando a cosa rispondere.
Lui scuote la testa. «Lascia stare, non lo voglio sentire. In realtà non vo-
glio sentire più una sola parola di queste follie».
Non ho la possibilità di replicare perché sento la macchina di Jillian en-
trare nel garage. Restiamo tutti e due in silenzio mentre lei apre la porta del
negozio, cantando un motivo scozzese. Mi domando dove lo abbia pesca-
to.
«È tornata Jillian» mormoro, anche se lui l'ha sentita come me. All'im-
provviso vorrei essere in qualsiasi altro posto, perfino nella stanza da letto
di Bicipite. «Spero che almeno ti comporterai in modo civile» sibilo tra i
denti.
Lei esce quasi volando dalla porta sul retro, con le mani piene di briciole
di pane mischiate a mangime per uccelli. Ci chiniamo per evitare il lancio
di briciole, ma lei ci vede troppo tardi. «Ooops, e voi due da dove saltate
fuori?» Per la sorpresa sbaglia la mira e ci tira tutto addosso. «Ooh, mi
dispiace. Guarda che disastro. Scuotetevelo di dosso prima di entrare, o gli
uccelli vi seguiranno».
Non sarebbe la prima volta.
Ci alziamo e cominciamo a scuoterci via le briciole dai capelli e dai ve-
stiti. «Figurati, Jillian» dice Jarrod. «Niente di grave».
Lo guardo di traverso, impressionata. Gli piace davvero, Jillian. È calmo
e controllato.
«Be', a questo punto, il minimo che possa fare è offrirvi qualcosa da be-
re».
La seguiamo in cucina e ci sediamo al tavolo, mentre lei versa in tre bic-
chieri acqua ghiacciata e succo di lime fresco. Intanto la tensione nella
stanza sale, in un silenzio imbarazzato. Jillian chiede a Jarrod come sta
Casey e tra quanto potrà tornare a scuola.
Jarrod risponde gentilmente, ma capisco che è a disagio. Preferirebbe
anche lui essere altrove, piuttosto che star qui seduto a fingere cortesia.
Non ci vuole molto perché Jillian capisca. Le sue dita accarezzano il
bicchiere e i suoi occhi si fissano, tranquilli, sul volto aggrottato di Jarrod.
«Vedo che Kate ti ha spiegato la mia teoria».
Lui deglutisce, a fatica. Il suo pomo d'Adamo fa su e giù. Mi domando
se riuscirà a mantenere a lungo quel contegno pacato e tranquillo. «Non
credo che sia possibile, Jillian» dice.
Be', almeno non le ha detto che è una povera pazza.
Lei sorride e annuisce, comprensiva. «Non ci credi molto, eh, Jarrod?»
Lui si mette sulla difensiva. «Vedi, io credo che Kate abbia certe capaci-
tà, è innegabile. A volte la sento nella mia testa...»
Jillian mi lancia uno sguardo di rimprovero. «Lo sai che non devi, Kate.
Io non ti ho insegnato questo».
«Hai ragione, scusa» mormoro.
«È una cosa invadente, tesoro».
«Lo so. Ma non lo faccio spesso. Davvero» aggiungo, in risposta al suo
sguardo scettico.
«Non ti preoccupare, Jillian» dice Jarrod, calmo. «Il più delle volte non
m'importa. Non fa mica male. E poi posso tenerla fuori, se voglio».
«Sul serio?» domanda Jillian. «Notevole. La maggior parte delle persone
non si accorge nemmeno che lei lo sta facendo, figuriamoci riuscire a im-
pedirglielo».
Jarrod stringe le labbra. Sembra indispettito, come se si sentisse indotto
ad ammettere qualcosa. L'acqua nei nostri bicchieri comincia a ribollire.
Jillian lo nota e mi lancia un'occhiata significativa.
«Non cominciare anche tu, Jillian. Ho appena spiegato a Kate che non
deve insistere con quella stronzata del dono».
«Non c'è bisogno di diventare cafoni, Jarrod» sbotto.
Lui si alza e la sua sedia cade all'indietro con un tonfo. «Be', ora ne ho
abbastanza. Scordatevi i vostri... piani. Io non ne voglio sapere». Si volta e
rimette a posto la sedia, poi cerca il mio sguardo. Quando lo trova dice
piano, come per assicurarsi che io capisca esattamente cosa intende: «Ho
ascoltato le tue teorie, Kate. Diavolo, ho perfino cominciato a crederci. E
ora non ci capisco più niente». Si passa bruscamente una mano tra i capel-
li. «Ma questa storia del viaggio nel tempo è troppo. Non voglio averci
niente a che fare. Ora me ne vado e non mi rivedrai, Kate. Mai più!»
Trattengo il respiro. Il pensiero che lui non mi parli più, che non passi
più di qui mi spezza il cuore. Non ha bisogno di spiegarsi meglio, quello
che mi sta dicendo è chiaro: se mi avvicino, lui mi ignorerà, farà finta di
non conoscermi. Lo odio. Ho voglia di piangere, ma Jillian mi sta guar-
dando e io detesto la compassione. Perciò rimango calma, e cercando di
controllare il tono di voce rispondo: «Per me va bene. La porta, sai dov'è».
Lui si volta ed esce.
Nell'attimo in cui la porta si chiude, il contenuto dei bicchieri salta fuori
e si versa sulla tovaglia.
Kate
Il giorno dopo Jarrod non viene a scuola. Non so cosa pensare, spero so-
lo che non sia successo niente. Sulle prime cerco di ripetermi che non
m'importa, ma con il passare delle ore il presentimento si fa così forte che
mi è impossibile non pensarci. Alla fine della giornata il senso della di-
sgrazia incombente è così netto che non riesco a concentrarmi. Mi sento
male. Perfino Hannah mi sta alla larga.
Sulla via di casa, arrivata al bivio, lotto con me stessa per non imboccare
la strada asfaltata che porta da Jarrod. Dopotutto potrei avere torto marcio
e Jarrod potrebbe aver saltato la scuola per un milione di motivi. Magari ha
il raffreddore, o il mal di testa o chissà cosa. Se arrivo alla sua porta e non
è successo nulla farò la figura dell'idiota totale, o peggio: penserà che ho
una fissazione per lui. Il suo messaggio di ieri era di una chiarezza umi-
liante: stammi alla larga!
Perciò vado a casa e decido di chiedere a Jillian se lei per caso ha sentito
qualcosa.
Non ne sa nulla, ma dice che è tutto il giorno che pensa a Jarrod e alla
sua famiglia, anche lei con presentimenti poco positivi. Cerca di imputare
tutto alla spiacevole scenata di ieri in cucina, ma ammette di non avere
molto spesso sensazioni così forti.
Non c'è nulla che possiamo fare, perciò Jillian finisce di cucire gli abiti
medievali a cui sta lavorando, visto che dopotutto possiamo anche esporli
in vetrina. «Magari qualcuno li comprerà per la festa in maschera».
«Giusto» mormoro, ma non riesco a manifestare un grande entusiasmo,
non in questo stato d'animo.
Mentre Jillian finisce di cucire, preparo una pasta con verdure. Siamo
entrambe vegetariane e mangiamo spesso insalate, ma oggi ha cominciato
a fare davvero freddo e un piatto caldo ci sta bene. E poi pulire e tagliare le
verdure serve a distrarmi. Qualsiasi cosa pur di non pensare a Jarrod.
Sono sul punto di chiamarlo più di una volta, ma poi non lo faccio. Non
mi vuole nella sua vita, devo accettarlo. Poco dopo le nove, però, convinco
Jillian a chiamare. Se lo fa lei non è un problema. Deve solo informarsi
sulla salute di Casey.
Jillian chiama, ma nessuno risponde.
«Per favore, fallo squillare ancora».
«L'ho fatto, Kate. Non c'è nessuno».
«A quest'ora della notte?»
Jillian guarda l'orologio sulla parete. «Sono solo le nove e venti, tesoro.
Magari sono andati al cinema».
«Non è venerdì».
Lei mi dà una pacca sulla spalla e comincia a sparecchiare.
«Lascia stare» dico bruscamente. Ho bisogno di darmi da fare per occu-
pare il tempo.
Lavare i piatti per due mi prende ben dodici minuti, anche pulendo tre
volte il tavolo. Non mi resta che andare a letto. Di fare i compiti non se ne
parla nemmeno, non riuscirei a concentrarmi. Do la buonanotte a Jillian e
vado in camera mia.
Sento i colpi alla porta non appena arrivo in cima alle scale. Mi precipito
giù, gridando: «Vado io!»
È Jarrod, lo so. Spalanco la porta, col cuore incastrato da qualche parte
nelle vicinanze delle tonsille. Quando lo vedo ha l'aria così sconvolta che
non riesco a trattenere una specie di urlo strozzato. È come se fosse appena
stato all'inferno, e l'unica uscita possibile fosse stata attraverso una fogna-
tura. «Jarrod, che è successo?»
Non riesce quasi a parlare. Gli occhi sono sprofondati nelle orbite e cir-
condati da occhiaie nere, la pelle è grigiastra. Non dice granché, tranne:
«Papà ha tentato di uccidersi».
«Oh dio, è...?»
«All'ospedale».
Lo tiro dentro. Sta tremando, non si è nemmeno messo la giacca. Con
questo tempo, è impensabile. «Come?»
«Overdose di antidepressivi».
Ricordo che mi ha raccontato di quanto suo padre fosse stato depresso
dopo l'incidente, e come fosse proprio questo il motivo per cui erano venu-
ti quassù, perché si riprendesse. «Quanto mi dispiace. Che cosa dicono i
medici?»
Respira affannosamente. «Guarirà. Ma deve essere curato. Hanno paura
che possa riprovarci, parlano di rinchiuderlo».
Senza rendermene conto, rimango a bocca aperta. Se succede davvero, le
cose per loro saranno ancora più difficili. Sono una famiglia così unita, ne
hanno già passate tante. Tremo al pensiero delle conseguenze sulla loro
psiche. «Tua madre come reagisce?»
«Resiste. Come ha sempre fatto. Non è giusto, Kate. Perché?»
Non mi pare il momento giusto per parlare di maledizioni, perciò mi
stringo appena nelle spalle, con un sorriso mite. «Vieni a sederti accanto
alla stufa». In soggiorno abbiamo una di quelle grandi stufe a legna, che
spande il calore fino su alla mia stanza.
Ma lui non si muove. Getta la testa all'indietro e chiude gli occhi, cer-
cando di respirare a fondo per non singhiozzare. Aspetto in silenzio che si
riprenda. Quando riapre gli occhi e mi guarda, mormora: «Voglio tentare il
piano di Jillian».
Il mio stomaco fa un triplo salto mortale. «Certo» dico, improvvisamen-
te molto nervosa. È disperato. E se il piano di Jillian non funziona? È con-
tro le leggi della probabilità. Contro quelle della logica. Io stessa non credo
che sia possibile tornare indietro nel tempo. In quel caso, fin dove arrive-
rebbe la delusione di Jarrod? «Certo» ripeto, prendendo tempo.
Jillian aspetta in silenzio. Ora fa un passo verso di noi. «Jarrod, mi di-
spiace tanto per tuo padre».
Lui annuisce, in segno di ringraziamento, ma chiede subito: «Dove lo
facciamo?»
Parla già del piano, ma solo a guardarlo mi sento nervosa. E, se anche
funziona, sarà una cosa complicata. Non abbiamo nemmeno discusso dei
dettagli, di quello che può andare storto, di che cosa fare una volta là. Se ci
arriviamo, là.
«Stanotte va bene?» chiede Jarrod.
Mi volto verso mia nonna. «Guarda in che condizioni è, Jillian. Non ha
bisogno di essere nel pieno delle forze, per una cosa del genere?»
Jillian storce la bocca, riflettendo. «La forza conta molto certamente,
Kate, ma anche le emozioni, e le sue sono al limite. In questo stato potreb-
be essere molto più ricettivo».
«Che cosa stai dicendo? Che dovremmo farlo ora?»
«Be', è tutto pronto».
Li guardo, prima lui, poi lei. Le cose stanno precipitando. Di sicuro bi-
sognava riflettere di più su una decisione del genere.
«Sono pronto, Jillian» mormora Jarrod. I suoi profondi occhi verdi tro-
vano i miei e restano fermi, determinati, con una traccia di sfida, come per
smentire la mia opinione che lui sia sì un prodigio, ma senza fegato né
spina dorsale.
«Avverto tua madre che resti qui per stanotte».
Jillian va a telefonare alla signora Thornton e io colgo l'occasione per
dirgli che secondo me dovrebbe aspettare, almeno un altro giorno. Ma lui
respinge ogni obiezione. Anche quando suggerisco che sua madre potrebbe
aver bisogno di lui, mentre suo padre è in ospedale.
«Potrebbe succedere qualcos'altro, Kate» mi spiega. «Se c'è qualcosa
che posso fare adesso, per fermare questa follia, allora devo tentare. A
qualsiasi costo».
So cosa intende. Parla della propria morte. Se non riesce a spezzare la
maledizione e muore nel tentativo, perlomeno la sua famiglia sarà libera in
questa generazione. Ovviamente non sta pensando al fatto che i suoi sa-
rebbero distrutti se lo perdessero. Perciò gli ricordo quanto hanno bisogno
di lui a casa, quante ne hanno già passate; ma lui pensa solo al fatto che, se
pure dovesse fallire, almeno la sua famiglia avrebbe tregua.
È così determinato che alla fine non posso fare altro che dichiararmi
d'accordo e sostenere la sua decisione. Gli consegno gli abiti medievali
cuciti da Jillian e gli spiego come indossarli. Non è difficile, sono un paio
di calzoni attillati di lana, una camicia di lino, una lunga tunica con le spal-
le imbottite stretta in vita da una cintura e morbidi stivali di cuoio. Lui
annuisce e io lascio la stanza mentre si veste.
Anch'io vado a cambiarmi. Jarrod ancora non lo sa, ma il piano di Jillian
include pure me. È l'unico modo per essere sicure di riportare Jarrod a casa
sano e salvo. Potrebbe farlo da solo se accettasse la sua natura e le sue ca-
pacità, ma ancora non l'ha fatto, e forse non lo farà mai. Perciò non si può
rischiare.
Mi infilo le calze di lana, che mi fanno venire immediatamente voglia di
grattarmi. Forse potrei farne a meno... Ma no, per riuscire bene bisogna
curare tutti i dettagli. Poi è la volta della sottoveste, morbida e lunga fino a
terra, con le maniche abbottonate dal gomito al polso. Sopra indosso una
veste lunga, piuttosto attillata sino ai fianchi, dove si apre con due piccoli
spacchi per poter sollevare la sottoveste e non inciamparci. Ha trentasei
noiosissimi bottoni sulla schiena e maniche svasate, lunghe fino al gomito
ma ampie fin quasi a terra. Porto anch'io stivali di cuoio, anche se sotto
tutta quella roba è impossibile vederli. Per finire mi pettino i capelli in due
trecce avvolgendole sopra le orecchie.
Mi esercito a tirar su le gonne attraverso gli spacchi mentre scendo le
scale. Sono talmente concentrata nel tentativo di non cadere che arrivo in
cucina senza alzare gli occhi, e solo allora mi accorgo della presenza di
Jillian e Jarrod.
La prima cosa che noto, in realtà, è il silenzio di tomba. Mi guardano
tutti e due e, mentre Jillian inspira forte, Jarrod resta semplicemente a boc-
ca aperta, squadrandomi dalla pettinatura all'abito beige. «Stai benissimo»
dice piano; poi aggiunge: «Ma perché ti sei vestita così?»
È ora di dirglielo. Evidentemente Jillian non l'ha fatto e gliene sono gra-
ta. Faccio due passi avanti, pienamente cosciente dell'ondeggiare delle
gonne. «Non te l'ho detto? Non mi sono mai tolta il vizio di mascherarmi»
scherzo, tanto per alleggerire un po' l'atmosfera. Lui non dice niente e si
limita a fissarmi. «Io vengo con te, è ovvio».
Lui si sporge in avanti, afferrandomi saldamente il polso. «No».
Lancio un'occhiata di supplica a Jillian e Jarrod si volta verso di lei.
«Non credi che io possa farcela senza Kate?»
Sbuffo e libero il polso. Tipico atteggiamento da maschio. «Guarda che
non è per sminuire la tua virilità».
Lui mi guarda, offesissimo. «Non pensavo a quello. Pensavo a te, ai pe-
ricoli».
La luce del lampadario comincia a tremolare. «Calma» gli raccomando.
«Chiedo scusa».
Pare soddisfatto e lo sguardo si addolcisce.
Ora è Jillian a parlare. «Tu pensi che io voglia mandare Kate in questo
viaggio?»
Lui aggrotta la fronte. Ora finalmente capirà con chi ha a che fare.
«Lei non è solo mia nipote, Jarrod. Kate è mia figlia, sotto tutti i punti di
vista. Sua madre ci ha abbandonate entrambe, anni fa, e Kate mi è molto
cara. Ma tengo anche a te e, per quanto tu faccia fatica a capirlo, sento che
c'è qualcosa di molto speciale in te. Voglio aiutarti a liberarti della maledi-
zione in modo che tu riesca a essere la persona che meriti».
Sospira e gli posa una mano sulla spalla, guardandolo negli occhi. A
questo punto so che non ha nessuna possibilità di resisterle. «Jarrod, Kate
ti aiuterà nella tua ricerca, e avrai bisogno delle sue capacità per tornare a
casa. Ricorda, affrontare un potente alchimista è una grande prova. Se non
prendi coscienza dei tuoi poteri, non hai altra scelta che accettare la gene-
rosa offerta di Kate».
Lui diventa più docile. «Mi dispiace. È solo che non voglio che altri si
facciano male al posto mio».
«Kate sa badare a se stessa. Mi fido ciecamente di lei».
Ho le lacrime agli occhi. Abbraccio Jillian e indugio nel suo calore.
«Grazie». Poi mi rivolgo a Jarrod. «Potrebbero volerci le forze di tutti e
due per sconfiggere questa cosa. E poi» mi stringo nelle spalle, scatenando
il panico in quel cumulo di stoffa, «come potrei perdermi un'occasione
come questa? Se la magia di Jillian funziona potrò sperimentare di persona
la vita nel medioevo. È eccitante da morire, non ti pare? E poi quel periodo
storico mi è sempre piaciuto».
«Non condivido il tuo entusiasmo» risponde lui, cinico. «Non riesco
quasi a immaginare niente di peggio. Anche a me piace la storia, è la mia
materia preferita. Ma viverla? Sarò contento se torniamo tutti interi».
Cerco di sollevargli il morale. «Non essere morboso, Jarrod. Guarda che
non dobbiamo mica metterci alla testa di un esercito e invadere un paese.
Potremmo perfino divertirci... se la magia funziona, è ovvio» concludo,
dando voce ai miei dubbi.
«Be'» dice Jillian, aprendo la porta sul retro e lasciando entrare una fola-
ta di vento freddo, «se non ci proviamo non lo sapremo mai, giusto?»
La seguiamo nella foresta. Lei punta dritta verso il ruscello, so esatta-
mente dove. È il mio posto preferito, dove ho tentato l'incantesimo purifi-
catore su Jarrod. È anche il punto dove sono stata concepita, perciò il mio
legame con questo luogo della foresta è molto forte, e Jillian lo sa. L'ha
scelto apposta.
Non portiamo nulla con noi, tranne le vesti medievali che indossiamo e
la scatola di Jillian. Mi domando che tipo di incantesimo farà.
Devo sollevare le gonne per non impigliarmi nelle liane e nelle radici
degli alberi. Quando arriviamo Jillian ci fa sedere su un tronco caduto
mentre prepara la zona. È buio, quindi usiamo una torcia, ma non per mol-
to. Jillian dispone con cura cento piccole candele bianche in un cerchio
grande abbastanza per due. Quando il cerchio è completo si rialza, chiude
gli occhi e si concentra. Stende le mani ed emette un sordo mormorio a
bocca chiusa. Con la coda dell'occhio osservo la reazione di Jarrod. Ho
visto Jillian fare questo centinaia di volte, ma è sempre emozionante. Jar-
rod è incantato. Sa che sta per succedere qualcosa di molto speciale.
Jillian inizia a recitare una litania in latino, e anche se è buio la vediamo
benissimo. Brilla di una luce morbida, la sua pelle ha una tinta dorata che
sembra provenire da dentro di lei. All'improvviso la litania s'interrompe, i
suoi occhi si aprono e Jarrod emette un suono strozzato. Sono rossi e lu-
centi.
«Kate?» sussurra lui, nel panico.
«Rilassati» gli dico.
E poi accade. Le cento candele si accendono simultaneamente. Non c'è
fumo, solo fiammelle blu che subito diventano dorate. L'aria è elettrica.
Completato il piccolo incantesimo, creato e protetto il cerchio, gli occhi
di Jillian tornano del solito colore azzurro scuro e lei si volta verso di noi.
«Ci sono alcune cose importanti che dovete ricordare». Dalla scatola tira
fuori due ciondoli appesi a laccetti di cuoio e ce li mette al collo, uno per
ciascuno. «Proteggeteli a costo della vita. Il loro potere combinato vi ripor-
terà a casa».
Jarrod annuisce e mi guarda, ricordando la mia breve ma insufficiente
spiegazione. «Che cosa sono esattamente?»
«Gli amuleti sono una combinazione di elementi della foresta. Sono sta-
ta molto fortunata a trovare i feti abortiti di due cuccioli di marsupiale. La
madre è stata investita da una macchina l'altra notte. Me l'hanno portata,
ma era già morta. Non c'era modo di salvare i piccoli, e allora mi è venuta
l'idea. Erano stati concepiti nella foresta e privati del loro diritto di viverci,
ma la loro nascita mancata non sarà un sacrificio vano. Uno è stato forgia-
to con la linfa dell'albero più vecchio, l'altro con quella del più giovane.
Ora sono entrambi racchiusi nell'ambra. Non dubitate della loro forza».
Chiudo le dita attorno all'amuleto, con reverenza. Jarrod fissa il suo, co-
me se cercasse di distinguere la sagoma nell'ambra. Ma è impossibile, gli
embrioni erano troppo piccoli. Alla fine li nascondiamo sotto i vestiti, a
contatto con la pelle.
«Non portate via da questo mondo nulla che non sia strettamente neces-
sario» ci ammonisce Jillian, indicando l'orologio da polso di Jarrod. Lui se
lo toglie subito, e fa lo stesso con gli occhiali.
«Di questi sentirò la mancanza» commenta.
Mi domando perché si affidi tanto a quelle lenti. So che ne ha bisogno
per leggere, ma dubito che quando saremo nel passato sarà un problema.
E, anche se li porta molto spesso, l'ho anche visto andare tranquillamente
in giro senza.
Jarrod si passa una mano sulla tunica. «E questi vestiti? Sembrano au-
tentici, ma...»
«Andranno bene» dice Jillian, con tono sicuro. «Sono cuciti a mano e
tinti nel modo in cui si usava allora». Poi la sua voce si fa più dura. «Ma
ricordate: se costruirete qualcosa di moderno per aiutarvi, distruggetelo
prima di venire via. In pubblico non dovrete mostrare di possedere più
conoscenza degli altri. Mi fido di te, Kate, tu hai studiato molto a fondo
quell'epoca, e quindi capirai cosa è adatto e cosa non lo è. Avete capito
bene?»
Annuiamo: dobbiamo portare a termine un compito, non trasferire nel
passato tecnologie moderne. Bisognerà stare molto attenti.
Jillian torna a pescare nella scatola e ne estrae un anello per ciascuno, da
mettere all'anulare. Il mio è un rubino incastonato in oro antico, quello di
Jarrod consiste di tre bande d'oro intrecciate, senza gemme. «Valgono mol-
to, ma se doveste aver bisogno di denaro usateli pure».
Guardo le nostre mani: la mia trema, quella di Jarrod è salda. Sembra
che quello che stiamo facendo non abbia effetto su di lui, il che è piuttosto
strano. Immagino che l'angoscia per la sua famiglia abbia superato la sua
naturale riluttanza a credere. Questo intendeva Jillian, quando ha detto che
stanotte era il momento giusto. Domani, magari, lui sarebbe tornato a esse-
re scettico come sempre.
«Ancora una cosa» continua Jillian, seria. «Jarrod, tu vieni da una fami-
glia ricca, come minimo di cavalieri del re. Gli abiti che indossate sono
adeguati alla vostra condizione. Ma non so dove arriverete, quanto sarete
distanti da casa. I contadini potrebbero essere ostili. Se arrivate in un vil-
laggio, un villaggio povero, dovrete stare molto attenti e trovare gli abiti
giusti per passare inosservati».
Ci sono molte cose da ricordare. Spero che durante il trasferimento non
ci scorderemo nulla.
«E la lingua? Come faremo a comunicare?» domanda Jarrod.
Jillian sorride. Sta pensando alla sua lettura impeccabile dell'antico ma-
noscritto. Mentre questa notte diventa spaventosamente reale, sono conten-
ta di essermi presa la briga di imparare quell'antico idioma. «Non ti preoc-
cupare, stanotte c'è magia sufficiente da rinfrescare le tue conoscenze lin-
guistiche».
Jarrod però non sembra convinto. «Non lo so, Jillian. Come farai?
All'improvviso mi farai imparare una lingua sconosciuta?»
«Se sono in grado di esercitare una magia così forte da riportarti indietro
nel tempo, questa sarà anche abbastanza forte da risvegliare la conoscenza
che è già dentro di te, non credi? Questa magia, Jarrod, rafforzerà il tuo
legame col passato, comprese le capacità che già possiedi. Fidati di me, e
fidati di te stesso: tutto andrà bene».
Ci abbracciamo e compaiono lacrime nei suoi occhi, ma lei le caccia su-
bito via. Poi ci indica il cerchio e ci spiega come entrarvi, possibilmente
senza bruciarci i vestiti. Ma Jarrod ha altre domande. «Come funziona?
Sentiremo qualcosa?»
«Richiamerò gli elementi della terra e della natura per attivare il legame
già creato dalla maledizione».
«Non devo cospargermi di polvere o bere il ruscello, vero?» chiede lui,
sgradevole.
Jillian mi guarda, allarmata. Io mi sento arrossire dalla testa ai piedi.
«Hai tentato un incantesimo purificatore, Kate?»
Io giocherello con una piega del vestito. «Sempre meglio che pensare al
suicidio».
Le sopracciglia di Jillian raggiungono quasi la radice dei capelli mentre
si volta a guardare Jarrod.
«Lasciamo stare» mormora lui.
«Avete altre domande?» chiede Jillian. Noi scuotiamo la testa. «Allora
cominciate a imparare le parole che dovrete recitare per tornare a casa.
Non dovrebbero essere difficili da ricordare». Respira profondamente e
dice: «Ad silvam redire».
È latino.
«Significa solo 'Ritornare alla foresta'» spiega Jillian. «Ma gli amuleti
dovranno essere insieme, o non funzionerà».
Ripetiamo la formula più volte, finché Jillian non si convince che ce la
siamo stampata in mente.
«Bene» dice, compiaciuta dei nostri progressi. «Ora voglio che comin-
ciate a respirare piano e a fondo».
Noi restiamo fermi, in silenzio, respirando come ha detto Jillian. Jarrod
mi prende la mano, la sua è fredda. «Ci vediamo al confine tra Scozia e
Inghilterra» sussurra. «Speriamo che gli scozzesi siano gentili».
Annuisco, cercando di non pensare a guerre di confine e via dicendo. In-
consciamente, muovo le labbra seguendo le parole di Jillian. Sta invocando
i singoli elementi, a cominciare dall'aria e dalla terra, per finire con il fuo-
co che ci circonda. Nella sua voce c'è molta emozione, e molto potere.
A questo fa seguire alcune antiche parole. Mentre mormora l'incantesi-
mo, le piccole candele esplodono in fiamme blu alte quanto noi. Sento
l'energia scorrermi attraverso, danzare dentro di me e combattere con ogni
cellula del mio corpo.
Mi stringo a Jarrod, mentre le fiamme volteggiano attorno a noi. È arri-
vato il momento.
Sento che qualcosa nella mia testa si lacera. Le mie mani cominciano a
tremare incontrollabilmente, e con loro tutto il resto. Anche Jarrod sta tre-
mando, e la sua presa sul mio braccio fa male. Gli affondo le unghie nella
schiena.
Succede tutto molto in fretta. Ho l'impressione che la testa mi stia per
esplodere. Mi rannicchio contro il petto di Jarrod, e lui posa la testa sulla
mia, tremando. Poi mi sento tirare, dapprima piano, come se il mio corpo
fosse diventato liquido e qualcuno lo stesse risucchiando verso l'alto, in un
abisso colorato. Il ritmo accelera, e anche i colori. Diventano vividi, quasi
accecanti, composti in un disegno misterioso. I colori diventano il mio
mondo, sono ovunque. Fluttuano, turbinano, vibrano. Mi sembra che il
mio corpo si allunghi oltre le possibilità date da sangue, ossa e tessuti. Mi
viene da pensare che non sopravviverò a questo, e la cosa mi rattrista.
È l'ultimo mio pensiero.
Parte Seconda
Il viaggio
Kate
Venti leghe a sud del confine tra Scozia e Inghilterra
Villaggio di Thorntyne, 1252
Ho male dappertutto. Dalle dita dei piedi alla radice dei capelli. In parti-
colare, sento la mia testa come se fosse esplosa e poi fosse stata rimessa a
posto in fretta... solo che non tutti i pezzi combaciano. Sono distesa supina,
con dei simpatici sassi sotto la schiena e le gonne tirate su. Sbalordita, mi
passo le dita sul viso per vedere se c'è tutto. Pare di sì.
«K-Kate?»
Nella mia mente ancora addormentata sento la voce di Jarrod lontana, da
qualche parte nella nebbia. Alzo la testa e apro gli occhi. Sta calando la
notte, o almeno credo. Sono completamente disorientata.
Ora ricordo cos'è successo. Jillian, sfruttando il legame della maledizio-
ne, ci ha rimandati indietro nel passato. Per un attimo il mio cuore smette
di battere. Ha funzionato!
Mi siedo e mi guardo intorno. Non ci posso credere. Tanto per comincia-
re, la foresta pluviale è sparita!
Sono seduta su una strada che è poco più di un sentiero polveroso. Poco
più in là la strada sparisce nel folto di un bosco, ma in lontananza la vedo
proseguire dove comincia un promontorio. Edifici che potrebbero essere di
pietra sembrano occupare tutta la vetta. Accidenti, ma è un castello!
Distinguo due picchi e, al di là, l'oceano. Ne sento l'odore. Si sta alzando
una nebbiolina salata. Il secondo picco di questo strano paesaggio si esten-
de fino a un secondo promontorio, anche quello dominato da un edificio,
ma è troppo buio per vederlo bene.
Se quei due edifici sono fortezze di pietra - cioè castelli! - allora la ma-
gia di Jillian ha funzionato.
Nel frattempo il mio corpo pare tornato in sé e provo ad alzarmi con
cautela, con la testa ancora pulsante, e cerco Jarrod. Dobbiamo esserci
separati in qualche modo durante il salto. Però è vivo, ho sentito la sua
voce.
«Jarrod?» Mi guardo intorno. Ci sono campi divisi in larghe strisce. Al-
cune sono state arate di recente, altre rozzamente mietute.
Mentre osservo, Jarrod mi raggiunge, cercando di scuotersi via la terra
dai vestiti. «Dove pensi che siamo?»
Lo guardo male. Come al solito il suo atteggiamento negativo mi spiaz-
za. La sua tunica grigia è sporca di terra fino al collo. Lo aiuto a toglierse-
ne un po'.
«Non è incredibile?» dico, mentre l'eccitazione prende il posto dello
smarrimento. «Ci siamo, Jarrod! Nell'Inghilterra medievale! Dove, se no?»
Lui alza la testa, si guarda intorno strizzando gli occhi, indugiando sugli
edifici lontani. «Non ne ho idea. Potremmo essere ovunque».
«Dai, Jarrod, abbi un po' di fiducia». Comincia a girarmi la testa, non
per il dolore ma per l'adrenalina. Sono così su di giri che inizio a ridere e a
far piroette, reggendomi le gonne. «È fantastico! Sono la ragazza più for-
tunata del mondo!»
Jarrod aggrotta la fronte, gli occhi impassibili e privi di emozione. Vor-
rei sondargli la mente, ma non ce n'è bisogno. Il tentativo di suicidio di suo
padre l'ha sconvolto e ha paura per la sua famiglia. Ma ora è qui e presto
troveremo la causa della maledizione e in qualche modo la fermeremo.
Perlomeno questo è il piano. Mi aggiusto le sottane e sorrido, incoraggian-
te. «Forza, uomo di pochissima fede, troviamo un riparo prima che faccia
buio». Passo il braccio sotto il suo, felice di avere abbastanza entusiasmo
per due.
Partiamo in direzione dei due picchi. Naturalmente i due edifici sono
troppo lontani per raggiungerli prima che sia notte, ma con un po' di fortu-
na troveremo una casa, un fienile o qualche altro riparo lungo la strada. A
giudicare dall'aria fresca, la notte sarà gelida.
Proseguiamo mentre nuvole nere si inseguono in cielo, portando via o-
gni traccia di luce. L'aria si fa più fredda, e senza cappotti iniziamo a tre-
mare. Ma finalmente udiamo dei rumori e un brusio di voci.
La strada porta dritto a un villaggetto, poco più di un gruppo di capanne
in una macchia di alberi. La prima cosa che noto è il fumo. Sembra quasi
che le case stiano andando a fuoco. Il fumo esce da buchi nel tetto e si ri-
versa fuori dalle finestre. Non ci sono camini.
Restiamo sopraffatti. È evidente: siamo proprio ai margini di un villag-
gio nell'antica Inghilterra. Non è possibile stabilire una data, guardando le
case. Il nostro legame con il passato è stabilito dalla maledizione. Non
sappiamo per certo quando essa è stata generata, il momento potrebbe es-
sere trascorso da anni o magari deve ancora venire, anche se Jillian non
dovrebbe essersi allontanata di molto dal tempo esatto.
Il pensiero che sto davvero vivendo la storia mi rende euforica, ma devo
frenare l'entusiasmo. Questo non è un gioco, se non stiamo attenti po-
tremmo correre seri pericoli.
Guardo Jarrod. È rimasto a bocca aperta, i suoi grandi occhi verdi sem-
brano ancora più enormi. È quasi sotto choc. «Dovremmo trovare un ripa-
ro» dico, additando la terza casa sulla sinistra della strada. «È l'unica senza
fumo. Che ne pensi?»
Segue con lo sguardo il mio dito e scopro con piacere che ha ancora una
voce. «Potrebbe essere una trappola».
Lo guardo dritto negli occhi. «Non essere ridicolo. Non ci aspetta nessu-
no».
«Sì, è vero» ammette, un po' imbarazzato. «Immagino che non ci sia
nessuno».
Decidiamo di provare, ma andare dritti al centro del paese non ci pare
molto furbo. Probabilmente ci sentirebbero e ci vedrebbero. Un cane ab-
baia dall'interno di una casa, e si sentono voci soffocate di persone e ani-
mali. Aggiriamo in silenzio le piccole costruzioni.
C'è molta vita all'interno. È incredibile pensare che queste persone non
sanno nulla di elettricità, acqua corrente o fognature, eppure vivono, e resi-
stono.
Superiamo il retro della prima casupola senza problemi. C'è solo una fi-
nestra, chiusa da ante di legno, ma la evitiamo. Mentre ci avviciniamo al
retro della seconda, sentiamo una voce maschile, brusca e troppo vicina.
Non siamo ancora pronti a fare la nostra prima apparizione, quindi ci na-
scondiamo dietro il tronco di un enorme olmo che sta rapidamente perden-
do le foglie. Alla voce maschile si aggiungono altri suoni, passi accelerati
e grugniti. La polvere e l'odore della terra umida mi fa venire voglia di
starnutire. Un uomo basso e tarchiato, con le spalle curve e la barba taglia-
ta rozzamente, appare all'improvviso, ansimando e bestemmiando contro
una dozzina di maiali. A quanto pare, sta tentando di spingerli all'interno
della capanna, servendosi di un bastone curvo. Purtroppo per lui i maiali
non ne vogliono sapere e decidono di restare fuori. Rapidissimi, arrivati
quasi alla porta, tornano indietro.
Io smetto di respirare, per evitare che il minimo rumore possa tradirci.
Ma il nostro nascondiglio alla fine si dimostra inutile, visto che un maiale
particolarmente svampito decide di fare di testa sua e, presa la rincorsa, dà
una capocciata al nostro albero. L'impatto ci fa sobbalzare e l'uomo si vol-
ta, all'erta. Raddrizza per quanto possibile le spalle curve, e il suo bastone
assomiglia sempre di più a un'arma letale.
«Chi è là?» grida.
Ma noi non apriamo bocca.
«Fatevi vedere». L'uomo si avvicina e i maiali, non più inseguiti, si ra-
dunano attorno alle sue gambe in un concerto di grugniti. «Fa freddo, ed è
tardi per stare fuori, sempre che non siate una coppia di amanti che si go-
dono il chiar di luna». L'uomo guarda in su, verso i pesanti banchi di nuvo-
le che oscurano il cielo. «Ah, per piovere, pioverà di sicuro».
A questo punto ci ha quasi raggiunto. Il suo respiro, ora che non corre
più, rallenta, cosa che lo aiuterebbe nel caso si dovesse difendere.
Afferro la mano di Jarrod e prendo l'iniziativa. Nascondersi come ladri o
amanti farà solo aumentare i sospetti dell'uomo. Usciamo insieme da dietro
l'albero. «Siamo viaggiatori stanchi, veniamo da molto lontano». Jarrod si
volta a guardarmi, sorpreso di quanto parli bene la lingua.
L'uomo ha in mano una torcia accesa. Si avvicina, tenendola sollevata. I
suoi occhi stretti e astuti ci squadrano da capo a piedi. Credo di avere le
pulsazioni a duemila, mentre la mano di Jarrod nella mia è gelida.
«E dove siete diretti? Certo non in questo villaggio, a guardare i vostri
bei vestiti».
«Cerchiamo la fortezza dei Thornton».
L'uomo indica con un brusco cenno della testa il promontorio a due pic-
chi, con gli occhi praticamente fuori dalle orbite. «Lo sapevo» mormora,
con la voce carica di disprezzo. Con una mossa improvvisa che ci coglie
completamente di sorpresa, ci prende le mani unite. «Guarda qua».
E noi guardiamo, allarmati, temendo che le nostre mani possano tradirci.
Quanto possono essere cambiate le mani in ottocento anni?
L'uomo aggiunge: «Neanche un giorno di lavoro». Poi le lascia andare,
come se le dita callose gli stessero bruciando. «Che commerci avete con
sua signoria?»
Sua signoria? Restiamo meravigliati un secondo, poi ricordo che Jillian
ci aveva avvertiti. La famiglia di Jarrod è ricca e i villici potrebbero non
averci in simpatia.
«Se cercate denaro, avrete più fortuna col diavolo in persona».
Jarrod tira istintivamente la testa indietro. Non posso dargli torto. Non
solo il tipo ha il fiato rancido, ma trasuda odio; però dobbiamo pur avere
qualche indicazione su dove trovare gli antenati di Jarrod. «Potete dirci
dove trovare Lord Thornton? Siamo suoi lontani parenti».
«Parenti!» sbotta lui, come se avesse appena ingoiato del veleno. Co-
mincia a piovere, gocce leggere e gelide. I maiali grugniscono e ricomin-
ciano a scorrazzare. L'uomo impreca contro di loro, ma giurerei che invece
si rivolge a noi. Vorrei tanto non aver detto di essere una parente.
Il porcaio agita il bastone verso uno dei maiali, poi si avvicina a Jarrod e
lo guarda negli occhi, anche se è molto più basso di lui. «È vero, tu gli
assomigli» sibila, con rabbia. E poi gli sputa un bel po' di saliva in faccia.
Sono completamente basita. Il porcaio sposta lo sguardo su di me, e io di
riflesso mi copro la faccia. Non voglio che quell'individuo mi sputi addos-
so. Ma lui non lo fa e si limita a fissarmi. «Thorntyne Keep è sul picco
sud. Badate, il picco nord non è per i forestieri».
Anche se alla fine ci ha dato le informazioni che ci servono, sto ribol-
lendo dalla rabbia e dalla voglia di prendere a pugni quel troglodita. Que-
sto però metterebbe a rischio i nostri piani. Non vedo l'ora di allontanarmi
da lui e dal suo fiato puzzolente. Jarrod si sta ancora ripulendo la faccia
con la manica. Mi viene da vomitare solo al pensiero, e sono contenta che
Jarrod non sia andato in collera, anche se una parte di me avrebbe deside-
rato che si fosse lasciato andare e avesse scagliato quel tizio da qualche
parte, magari insieme a tutti i suoi preziosi maiali.
Il porcaio si volta per andarsene, poi ci ripensa. «Se non aveste sangue
Thorntyne, vi inviterei al mio focolare. Ma non siete i benvenuti. Io ci spu-
to, su tutti voi».
Con queste affettuose parole ci lascia e va a radunare i maiali; stavolta
l'impresa gli riesce quasi subito.
Do uno strattone al braccio di Jarrod. È immobile e non si preoccupa di
ripararsi dalla pioggia che gli cade sul viso. Sta tremando. «Ehi!» dico.
«Stai bene?»
«Quell'uomo» dice lui, piano. «L'hai sentito?»
«Be', era difficile non sentirlo».
«Odia i miei antenati. Li detesta».
«Ma davvero? E da cosa l'hai capito?»
«Non è divertente, Kate».
«Lo so. Ma non preoccuparti così tanto. Quello odia i Thornton, e allo-
ra? Almeno ci ha detto dove trovarli. E poi abbiamo anche imparato come
si pronuncia qui il tuo cognome. Ti dirò, sono piuttosto soddisfatta. Magari
non gli siamo piaciuti, ma non ha messo in dubbio chi eravamo. E questo è
un punto a nostro favore».
La pioggia s'infittisce. Prendo Jarrod per il braccio e mi avvio verso la
casa senza fumo. «Cerchiamo un riparo, chissà dove dormiremo domani
notte».
Jarrod
Kate ha ragione. Il porcaio ha ovviamente un conto in sospeso con i miei
antenati. Questo mi porta a chiedermi che tipo di persone siano. L'ha
chiamato sua signoria, il che significa che la gente del villaggio si spacca
la schiena dall'alba al tramonto a lavorare nei suoi campi, mentre lui sta nel
castello a farsi servire da gente probabilmente malnutrita. Certo, probabil-
mente fa anche lui la sua parte di feudatario: in caso di necessità, interverrà
con un esercito di cavalieri. Visto che ci troviamo accanto al confine con la
Scozia, credo che la necessità si presenti con una certa frequenza. Spero
che non capiti proprio ora.
L'anno scorso ho fatto una tesina sul medioevo, a scuola. L'ho trovata
un'epoca affascinante, con tutte quelle storie d'amor cortese e cavalleria,
ma non immaginavo tanta povertà come in questo villaggio. Qui tocchia-
mo il fondo. Di amor cortese non se ne parla, né tantomeno di cavalleria. E
tutto puzza in modo nauseante, di sudore, fumo e fogna.
Il fatto che mi trovi davvero qui, nel passato, a sgattaiolare tra le capan-
ne, conferma se non altro una cosa: la natura della nonna di Kate. È davve-
ro una strega. Una di quelle vere. Una di quelle che fanno magie, sul serio.
Tuttavia devo stare attento a non ammettere troppe cose. Kate penserebbe
subito che io creda anche di avere qualche potere nascosto. Aspetta, com'è
che lo chiama? Il dono. Probabilmente ha ragione riguardo alla maledizio-
ne, ma questo è il massimo a cui posso arrivare. Ma un dono... Io? Assur-
do.
Spero soltanto che riusciremo a concludere la nostra impresa al più pre-
sto e che torneremo subito a casa. Una volta spezzata la maledizione, spa-
rirà anche il nostro legame con questo posto. In un improvviso moto di
panico mi cerco addosso l'amuleto di Jillian. Lei ci ha ripetuto all'infinito
quant'è importante, è il nostro biglietto di ritorno a casa. Quando sarà il
momento dovremo romperli uno contro l'altro, mischiando la linfa dell'al-
bero antico con quella dell'albero nuovo. Sento il piccolo cristallo sotto le
dita. Grazie al cielo non l'ho perso durante il salto.
Nella casa c'è vita, ma non umana. Una mucca, una mezza dozzina di
maiali grufolanti e qualche gallina sono rudemente confinati da una parte.
Non che l'ambiente sia grande a sufficienza per animali e persone. È solo
una stanza. Le uniche luci vengono da alcune candele, come le chiama
Kate. Cerco di ricordare come le facevano: stoppa intinta nel grasso di
animale. Mandano un odore tremendo, ma Kate dice che presto i nostri
sensi si abitueranno. Al centro della stanza c'è un focolare con un paiolo di
ferro appeso sopra.
Dopo aver passato in rassegna gli animali, Kate spiega che nel paiolo le
donne preparano da mangiare, e che di solito nella bella stagione questo
avviene fuori; quindi dobbiamo essere prossimi all'inverno. Lei è davvero
interessata a quest'epoca, sa tantissime cose. Gli occhi le brillano: l'entu-
siasmo per il fatto di essere qui la manda in estasi. Mi domando se non le
piaccia un po' troppo.
Nella stanza aleggia solo il pallido fumo delle candele. Qui il fuoco non
è acceso, come nelle altre capanne, e l'umidità è insopportabile. Sto ancora
tremando per la pioggia di fuori e un bel fuocherello non mi dispiacerebbe.
Mi guardo intorno. Sorvolando sugli animali, inquieti e maleodoranti, mi
rendo conto che la casa ha una sola finestra. Chiudo le imposte di legno
per arginare il freddo. Le pareti sono nere di fumo, e ci sono ben pochi
mobili. In un angolo c'è un mucchio di paglia e un paio di sporche pelli di
animali; probabilmente gli abitanti dormono lì. Poi due rozzi sgabelli, un
tavolo con sopra un pezzo di pane nero raffermo che pare un mattone,
qualche piatto di legno; e una cassa piena di abiti che sembrano stracci.
L'entusiasmo di Kate è davvero inquietante. Non ha paura di niente e
contempla con ammirazione tutto ciò che vede, carezzando con aria ado-
rante anche l'oggetto più insulso. Niente sfugge alla sua attenzione devota.
Anche se mi sono divertito a fare quella tesina, non condivido tutta que-
sta passione. L'idea stessa di essere qui, non solo da intruso in casa d'altri,
ma anche nell'epoca d'altri...
«È incredibile, Jarrod!»
La guardo. «No, è puzzolente».
Lei si limita a ridere, scuotendo la testa come chi tollera i capricci di un
bambino idiota.
Comincia a piovere forte. Mentre mi domando se c'è il rischio che l'ac-
qua filtri dal tetto, piove già dentro. Nello stesso momento sentiamo dei
passi affrettati fuori, sulla strada già ridotta a un pantano. Vengono proprio
da questa parte. Tempo un secondo, e ci scopriranno.
«Di qua». Kate mi afferra la mano.
Scavalchiamo il recinto e scateniamo il panico tra gli animali mentre ci
dirigiamo nell'angolo più remoto e più buio della stanza. Ci acquattiamo,
stringendoci le ginocchia al petto e cercando di calmare i polli. Un maiale
viene ad annusarci. Il suo muso è a due centimetri dalla mia faccia. Cerco
di guardare altrove e rallentare il ritmo del mio respiro.
Due donne con cinque bambini piccoli entrano di corsa. I bambini co-
minciano a rincorrersi per la stanza, tranne il piccolo che è in braccio alla
donna più anziana, con i capelli grigi che le sfuggono da sotto una cuffia
bianca inzuppata. «Dici davvero, Edwina?»
La donna chiamata Edwina dimostra al massimo vent'anni ed è magris-
sima. Tende le braccia a uno dei bambini, un maschio, che subito le salta
in collo. «Ogni parola».
Sono ancora accanto alla porta mentre la pioggia si fa sempre più fitta,
di pari passo con lo sgocciolio dal tetto. «È un uomo crudele, non c'è dub-
bio, ma questo...» La più anziana scuote la testa, incredula, e con la mano
libera si toglie la cuffia bagnata. «Può farlo davvero? Ti può buttare fuori
di casa, toglierti la terra?»
Edwina ricaccia le lacrime. C'è una specie di orgoglio doloroso nei suoi
occhi. «Per sua signoria una donna senza marito non serve, pace all'anima
del povero William. Chi lavorerà la terra? Chi lavorerà nei campi di sua
signoria?»
«Non c'è gentilezza nell'anima di quell'uomo. Dovrebbe farti stare al ca-
stello, ecco».
«Dice di no. Di servi pigri ne ha già abbastanza, dice».
La donna anziana storce la bocca in una smorfia disgustata. «Che cosa
farai?»
«Domani andremo verso sud, a Londra. Spero di trovare un posto come
serva. Altrimenti farò qualsiasi cosa per sopravvivere. Ho i miei piccoli a
cui pensare, anche a costo di chiedere l'elemosina».
L'altra si guarda intorno con gli occhi lucidi, e per un secondo giurerei
che si sofferma sul nostro angolo buio. Chiudo gli occhi, come se questo
servisse a farmi sparire. Un lunghissimo istante dopo sento rumore di pas-
si. L'attenzione della donna è stata attratta da uno dei bambini più grandi,
che le ha abbracciato la gamba. Lei gli liscia i capelli rossi. «La casa è
troppo fredda, Edwina. Non hai fuoco stasera, e con questa pioggia sarà
difficile accenderlo. Vieni da me, berremo in barba alle tue disgrazie.
Thomas ha birra abbastanza fino a domani. Non temere, arriverà anche
l'ora del barone Thorntyne. E allora io sarò lì a sputare sulla sua tomba».
«Mi raccomando, sputa anche per me». Ridono insieme e poi passano a
parlare dei bambini.
Alla fine la pioggia diminuisce e le donne, con i bambini attaccati alle
lunghe gonne, se ne vanno.
Siamo finalmente soli ma sembra che né io né Kate abbiamo voglia di
fare o dire nulla. Non so Kate, ma io sto ancora digerendo la conversazio-
ne. Il quadro comincia a delinearsi. Il mio antenato, Lord Thorntyne, sta
gettando in mezzo alla strada un'intera famiglia perché l'uomo di casa è
morto e non può più lavorare nei campi. Che cosa disgustosa.
«Quel tuo parente è un mostro».
«Di sicuro non vincerebbe l'oscar della popolarità». Ci aiutiamo a vicen-
da ad alzarci, attenti a tenere le vesti lontane dal letame che insudicia que-
sta parte della stanza. Visto che la ragazza e i suoi figli non torneranno
stanotte, possiamo uscire dal nascondiglio. Il resto della stanza è più puli-
to, anche se è impossibile sfuggire al puzzo degli animali bagnati e dei loro
escrementi.
Kate, con mani esperte, prepara un letto con la paglia. «Che gentile, E-
dwina, a lasciarci la casa per la notte».
Mi sdraio accanto a lei. «Stupendo». Mi rannicchio sotto le coperte puz-
zolenti e mi domando con quali insetti passerò la notte. La temperatura si è
abbassata parecchio. Presto si fa completamente buio e le candele si esau-
riscono. Anche gli animali dormono. A parte il puzzo, non c'è che silenzio,
profondo e vuoto.
Malgrado la stanchezza non riesco a dormire. Comincio a pensare
all'impresa immane che ci aspetta. «Come diavolo faremo a trovare il re-
sponsabile della maledizione?» domando a Kate. «Credi ancora che sia il
fratellastro illegittimo?»
Lei risponde con voce sonnolenta: «Lo riconosceremo quando lo vedre-
mo, Jarrod. Sono abbastanza sicura che non ci vorrà molto».
«E la gente del villaggio? Odiano così tanto i Thornton che forse sono
stati loro. Siamo qui solo da poche ore e già abbiamo tre sospetti».
«Eh? Ma che dici? Questi poveri contadini non hanno la minima idea di
come si fa una maledizione».
La sento rabbrividire e stringersi a me in cerca di calore. Ci vuole tutta la
mia concentrazione per ricordarmi di cosa stavo parlando. Kate rannicchia-
ta contro di me provoca strani effetti ai miei sensi, tutti quanti. China la
testa umida sul mio petto e mi circonda la vita col braccio. Tempo due
secondi e si addormenta. Lo capisco dal respiro lento e regolare.
In questa posizione, con Kate addormentata fra le mie braccia, perfino il
puzzo degli animali si attenua. Le passo le dita tra i capelli. Il fermaglio c'è
ancora, ma le trecce si sono sciolte. Proprio come immaginavo, sembrano
di seta.
Il sonno si avvicina, inesorabile come se avessi preso un sonnifero; ep-
pure cerco di resistere per godermi il più possibile il calore del corpo di
Kate accanto al mio. Ma la giornata e i suoi incredibili eventi hanno pro-
sciugato le mie energie.
Mi lascio scivolare nella pace offerta dal sonno. L'alba, e tutte le com-
plicazioni che porterà, arriveranno presto.
Almeno per il momento, però, siamo al sicuro.
Kate
Qualcosa mi sveglia. Fuori c'è movimento. Non è ancora l'alba, ma il
cielo comincia a cambiare. Sento il calore del corpo di Jarrod accanto al
mio. Mi sposto, svegliandolo all'istante, anche se poi rimane stordito per
un po'. Questo mi dà il tempo di strisciare via. Gesù, ma come siamo finiti
in quella posizione, con le gambe intrecciate e le sue dita tra i miei capelli?
Mi alzo a sedere e mi aggiusto i vestiti, che sono un disastro; e io pure.
Ho bisogno di acqua per togliermi la sensazione di ovatta dalla bocca. De-
vo anche andare in bagno, ma per quello temo di dover aspettare di essere
fuori, sulla strada. Vorrei tanto anche uno specchio, un pettine e soprattutto
uno spazzolino.
Sappiamo tutti e due, per istinto, che dobbiamo lasciare la casa prima
che il resto del villaggio cominci a svegliarsi. Abbiamo saputo dal porcaio
dove vivono i Thorntyne, sul picco sud che abbiamo visto ieri. Dovremmo
arrivarci in mezza giornata di cammino.
Senza dire una parola, per paura che ci sentano nel silenzio immobile
dell'alba, Jarrod e io ci avventuriamo fuori, costeggiando il villaggio per
evitare i mattinieri. Abbiamo tutta la discrezione che ci serve perché una
nebbia fitta e umida arriva dall'oceano. Fa un effetto curioso, come un len-
zuolo bianco di vapore che nasconde ogni cosa.
Per fortuna la strada pare proseguire dritta fino all'oceano. Eppure man
mano che avanziamo il bosco intorno si fa più fitto, e stiamo ben attenti a
non deviare per non perderci. La strada è dura e gelida, con pozzanghere
ghiacciate e scivolose. Le suole degli stivali non proteggono abbastanza e
in questo momento vorrei tanto le mie scarpe da ginnastica.
Ci siamo messi in cammino da poco quando Jarrod va praticamente a
sbattere contro un abbeveratoio sul ciglio della strada, forse usato dal be-
stiame e dai cavalli dei viandanti.
Lo guardiamo, cercando di valutare quanta sete abbiamo.
Jarrod ha le labbra secche. «Io ho davvero bisogno d'acqua, ma...»
«Ha piovuto, quindi dovrebbe essere abbastanza pulita» dico io.
Jarrod mi guarda, dubbioso. «E la peste bubbonica?»
Scoppio a ridere, allentando un po' la tensione. «Oddio, quanto sei nega-
tivo!» Gli do un colpetto sul braccio. «Se Jillian ci ha azzeccato, dovrem-
mo essere arrivati almeno cent'anni prima della Morte Nera. Mi sembra un
buon margine, no?»
A parte le battute, però, anch'io esito. Ma la sete, alla fine, è più forte.
«Non mi pare che abbiamo molta scelta».
Jarrod cerca qualcosa per rompere la superficie ghiacciata e alla fine ri-
media un sasso. Tuffo le mani nell'acqua gelida e bevo. Non è poi tanto
male.
Dopo che anche Jarrod ha bevuto ci rimettiamo in marcia, un po' più di-
sinvolti. Decido di ignorare il brontolio del mio stomaco; il cibo è un'altra
di quelle cose per cui dovremo aspettare. Speriamo di essere i benvenuti, a
Thorntyne Keep. Non voglio nemmeno pensare a quanto potrebbe andarci
male. Mentre camminiamo ripassiamo il piano, diamo voce ai dubbi, ri-
controlliamo i dettagli. Abbiamo una sola possibilità: se non ci credono
subito non resteranno certo lì buoni buoni mentre noi elaboriamo una ver-
sione più plausibile.
Finalmente la nebbia si alza e permette al sole di scaldarci un po'. Prose-
guiamo il cammino, sulla strada che ora va decisamente in salita. È già
quasi mezzogiorno quando arriviamo ai piedi del ripido promontorio. Ci
fermiamo, nasi in su, a guardare il castello.
«È tutto vero» mormora Jarrod, come se solo ora si rendesse conto di
dove siamo, e quando.
«Ma certo. Te l'avevo detto che Jillian è brava».
Restiamo in silenzio per un minuto. Io mi lascio sfuggire un sospiro di
meraviglia e penso a tutto il lavoro che ci è voluto per costruirlo. Sta in
cima all'altura, e dall'angolo posteriore si erge una torre quadrata che svetta
verso il cielo. Quanta fatica dev'essere costato ai contadini issare le pietre
sul promontorio. Devono aver impiegato anni. «Uau» non posso fare a
meno di dire. «È magnifico. Guarda le mura, e i bastioni. Ci sono dei sol-
dati lassù, che probabilmente ci stanno osservando».
Jarrod mi guarda malissimo. «Grazie, proprio quello che avevo voglia di
sentire».
Decidiamo di riposare un momento e ci appoggiamo a un albero. L'erba
è ancora inzuppata per via della pioggia, ma non ha senso preoccuparsi
dello stato dei miei vestiti. Sono già infangata fino alle ginocchia.
Guardo Jarrod e percepisco i suoi dubbi senza nemmeno provarci. «At-
tieniti alla nostra storia e tutto andrà bene».
«E se non se la bevono?»
«Piantala di essere così catastrofico. Possiamo sempre tornare a casa».
Lui tenta un sorriso, ma senza successo. Tornare a casa prima di aver ri-
solto la faccenda della maledizione significherebbe che tutto è stato solo
una perdita di tempo, e il problema di Jarrod rimarrebbe irrisolto.
«Senti» comincio, cercando di tirarlo su. Se vogliamo riuscire, Jarrod
dev'essere il più disinvolto possibile con i suoi antenati. «Certamente non
si aspettano visitatori da un'altra epoca. Non capirebbero nemmeno il con-
cetto. E grazie a Jillian siamo abbigliati e ingioiellati nel modo giusto».
Tendo la mano, con le dita aperte, e l'anello d'oro brilla come in segno di
assenso. «Che importa se il nostro accento è un po' strano? In fondo ve-
niamo da un paese lontano, non ricordi? Te lo giuro, Jarrod, non sospette-
ranno nulla. E poi il porcaio ha detto che assomigli a loro, no?»
Jarrod mi guarda, con un barlume di speranza negli occhi. «Hai ragione.
Anche se forse è solo una coincidenza».
Mi rialzo, ansiosa di concludere questo primo incontro. «Coincidenza o
ereditarietà, non fa differenza. A noi basta che se la bevano».
Siamo stanchi, abbiamo camminato tutta la mattina senza cibo e con po-
ca acqua. Ma siamo quasi arrivati, e questo ci dà energia. Non parliamo
molto, restiamo in compagnia dei nostri pensieri e dei nostri dubbi. E poi
la salita è talmente ripida che parlare diventa subito difficile, soprattutto
per me che devo combattere con le gonne infangate.
Man mano che ci avviciniamo alla vetta, i dettagli del castello si preci-
sano. Intravedo una saracinesca formata da una grossa grata di ferro e, di
fronte, un ponte levatoio. Sulla cima, una piccola costruzione di pietra, che
dev'essere il posto di guardia. Ci sono infatti dei soldati, cavalieri forse, e
giurerei che sono gli stessi che ci stavano osservando. È irritante sapere
che sono lì a guardarci, armati di tutto punto. Mi volto. Da qui c'è una vi-
suale perfetta della strada, giù fino al villaggio. Ora capisco perché hanno
costruito il castello così in alto, e così vicino all'oceano. È strategicamente
perfetto, difendibile da qualsiasi invasore.
Il panorama è spettacolare. Un lato della fortezza è a strapiombo sul ma-
re verdeazzurro, che sembra non finire mai. Verso nord, sul picco gemello,
c'è un'altra fortezza, che ha un'aria inquietante e sinistra. Il punto più alto è
una torre circolare altissima, con nuvole nere e rumoreggianti che sembra-
no volerla oscurare.
Mi fa venire la pelle d'oca. «Mi domando chi viva lì».
Jarrod dà un'occhiata e scrolla le spalle. «Boh?»
«È tetro, dà i brividi. Il porcaio non ci ha detto di starne alla larga? Se-
condo te perché?»
Jarrod mi guarda perplesso, poi accenna con la testa al castello, così vi-
cino che possiamo sentire l'odore stagnante del fossato. «Perché, secondo
te Thorntyne Keep invece ha un'aria invitante? L'hai guardato bene?»
Ha ragione, nessuno dei due edifici ha un aspetto molto accogliente. E
anche se Jarrod porta il loro nome, i suoi abitanti sono dei perfetti scono-
sciuti. Ma bisogna evitare i pensieri cupi. «Sono sempre tuoi parenti» gli
ricordo.
Lui fa una smorfietta sarcastica. «Sì, certo. Cugini di ottocentesimo gra-
do».
Scherzi a parte, non riesco a liberarmi della sensazione innaturale che
viene dal castello vicino. Mi fa paura.
Quando raggiungiamo il cancello, una profonda voce maschile ci chiede
cosa vogliamo.
«Siamo viandanti stanchi da un paese lontano, e siamo dei Thorntyne»
annuncia Jarrod con una calma che so essere solo simulata. Ma abbiamo
provato quella frase diverse volte, e se la cava bene.
«Thorntyne! Chi siete voi per rivendicare il nome dei Thorntyne?»
«Il mio nome è Jarrod, e sono il figlio del fratello maggiore del Signore
di Thorntyne» risponde Jarrod. Anche questa abbiamo dovuto provarla
svariate volte.
L'uomo impreca. Segue una lunga discussione tra le guardie. Comincio a
sentirmi come se migliaia di formiche stessero giocando a rincorrersi su di
me. Alla fine i soldati si allontanano dai bastioni per guardare meglio il
ragazzo che dice di essere il figlio del Thorntyne perduto.
Vedo chiaramente il capo. È massiccio, con spalle larghe e una massa di
capelli di un rosso pallido che stanno diventando grigi. Ai suoi tempi de-
v'essere stato un tipo notevole, e lo è ancora, anche se probabilmente ades-
so ha più o meno quarantacinque, cinquant'anni. Le sue gambe sono fa-
sciate di cuoio; sopra indossa una tunica beige lunga fino alle ginocchia e
un mantello, appuntato sulla spalla destra. Lui non porta cotta di maglia,
ma gli altri sì, e nell'insieme sono uno spettacolo. Vorrei solo non essere
tanto nervosa.
Dev'essere un cavaliere di qualche alto ordine. A un certo punto torna
indietro e comincia a scendere la scala interna, sempre con quel piglio
formidabile. Ha preso una decisione.
Un ordine riecheggia sui bastioni e, mentre il ponte levatoio si abbassa,
la grata si solleva. Il cavaliere è accompagnato da due soldati, uno giovane
e uno molto più anziano. Resto a guardarli mentre attraversano il ponte e si
dirigono verso Jarrod, a poca distanza da me. Il cuore mi batte all'impazza-
ta, mi sudano le mani e sono contenta di aver intravisto l'altro castello, e di
sapere che questo è meglio. Spero che Jarrod segua il nostro piano. Ha
l'aria spaventata, non riesce a smettere di asciugarsi le palme delle mani
sulla tunica e di lanciarmi brevi occhiate preoccupate. Sembra un cavallo
selvaggio pronto a imbizzarrirsi e scappare.
Il cavaliere si ferma davanti a Jarrod e lo studia attentamente, stringendo
gli occhi. È sospettoso e osserva ogni dettaglio, dal color rame dei capelli
alla sua pelle chiarissima. Ma sono i suoi occhi che il cavaliere scruta più a
lungo. E ci sorprende quando sono i suoi stessi occhi a inumidirsi, e un
largo sorriso gli apre quasi a metà la faccia segnata. Si volta a guardare i
due soldati per un secondo, sorridendo e annuendo. Poi spalanca le braccia
con un'esclamazione e stritola Jarrod in un abbraccio che lo solleva di peso
da terra.
Dopo avergli fatto fare un paio di giri in aria, l'omone lo rimette a ma-
lincuore a terra, poi comincia a dargli grandi pacche sulle spalle, ridendo
forte. Jarrod cerca disperatamente di mantenere l'equilibrio. «Benvenuto,
nipote. Benvenuto!» annuncia l'uomo tra una pacca e l'altra. «Sapevo che
questo giorno sarebbe arrivato. L'ho sognato molte volte da quando tuo
padre è partito».
La parola nipote mi colpisce come una botta in testa. Quest'uomo non è
solo un cavaliere, o uno dei soldati del signore del castello, è il barone di
Thorntyne in persona. E ha accettato la spiegazione di Jarrod dopo una
sola occhiata. Mentre mi domando quanto Jarrod assomigli davvero ai suoi
antenati, penso che se si fidano così tanto della somiglianza fisica, il resto
della nostra storiella è appena andato in fumo. È troppo tardi per trovare
un'alternativa, e il cuore comincia a martellarmi in petto.
Guardo di nuovo il barone di Thorntyne, signore del castello e di quelli
che ci vivono. Il calore con cui ha accolto Jarrod non è proprio quello che
mi aspettavo, dopo aver sentito cosa dicono di lui gli abitanti del villaggio.
Anche gli altri due soldati danno il benvenuto a Jarrod. Uno dei due, pe-
rò, resta piuttosto freddo. Il barone lo presenta come Malcolm, suo figlio,
di vent'anni, ma non si accorge del suo tiepido entusiasmo. L'altro soldato
si chiama Thomas e a quanto pare è un vecchio amico del 'padre' di Jarrod.
Infatti non gli stacca gli occhi di dosso e continua a scuotere la testa e a
stringergli la spalla, sorridendo.
Una donna vestita elegantemente si fa strada tra la piccola folla che si è
radunata al cancello. «Richard» dice, rivolta al barone. «Che succede? Vi
abbiamo sentito fin dal salone...»
«Isabel, mia cara» dice Lord Richard eccitato, passando un braccio at-
torno alla vita sottile della donna. «Questo è il figlio di Lionel, ritornato
qui da noi da un paese lontano».
Isabel spalanca gli occhi, all'erta, mentre diffidenza e ospitalità si con-
tendono i suoi lineamenti delicati. Scruta Jarrod più da vicino. «In fede
mia, certamente assomiglia a un Thorntyne, ma non direi a Lionel».
Ahi. Se non somiglia a Lionel, il fratello disperso, a chi allora?
«Geoffrey» decide lei.
«Geoffrey?» domanda educatamente Jarrod. Abbiamo deciso che se ab-
biamo bisogno di informazioni su nomi o cose del genere dobbiamo chie-
derle con l'aria più naturale possibile. Jarrod è perfetto.
Isabel, apparentemente soddisfatta di aver inquadrato la parentela di Jar-
rod, lo prende sottobraccio e spiega: «Naturalmente non puoi conoscerlo, e
tuo padre, che dio lo benedica, avrebbe dovuto raccontarti di lui. Geoffrey
era tuo nonno. È morto molto prima che tu nascessi, caro». Lo guarda an-
cora, con molta attenzione. «Ma tu sei troppo giovane per essere il primo-
genito di Lionel».
Jarrod si affretta a spiegare. «Oh no. Ho un fratello maggiore». Sta an-
dando bene. Sospiro di sollievo. Ma lo spettacolo non è finito, manca la
parte più difficile: io.
«Lui sta bene, ma io desideravo grandemente vedere la mia terra» conti-
nua Jarrod, con calma.
Dobbiamo fare molta attenzione a non dare informazioni di cui non sia-
mo sicuri, e questo è veramente tutto quello che sappiamo. Jillian ci ha
ammonito a non interferire con i destini futuri, a non fare né dire nulla che
possa modificare la storia. Sappiamo che un giorno il primogenito di Lio-
nel tornerà a reclamare la sua legittima eredità.
Altre persone ci raggiungono. C'è una ragazza più o meno della mia età,
che ci viene presentata come una cugina di Jarrod, Emmeline, che non
riesce a staccare gli occhi dal nuovo arrivato e gli sorride con un misto di
malizia e timidezza. Non mi piace per niente. E poi un bambino di sei o
sette anni, attaccato alla gamba di una donna, che risulta essere il figlio più
piccolo di Isabel e Lord Richard, John. La donna che lo accudisce è la da-
migella di Isabel, non degna di presentazione, a quanto pare.
Durante tutto questo passaggio sembra che si siano dimenticati di me.
Meglio così, mi dà il tempo di riflettere. Se non fosse stato per la straordi-
naria somiglianza di Jarrod con i suoi antenati dubito che questo primo
incontro sarebbe andato così liscio. Ma il problema sono io, e la mia pre-
senza deve ancora essere spiegata. Come abbiamo fatto a essere così stupi-
di?
Stanno per avviarsi lungo il ponte levatoio verso la corte interna quando
Jarrod si volta verso di me, ma non fa in tempo a parlare. Lord Richard
comincia a farfugliare scuse per la propria rozzezza.
Mi mette un braccio intorno alle spalle, spingendomi in avanti. Una vol-
ta entrati nel castello ci fermiamo, perché nel frattempo si è radunato un
folto capannello di curiosi. Richard presenta Jarrod alla folla come se fosse
tornato il figliol prodigo in persona. Tutti esultano e Jarrod viene quasi
soffocato dal loro entusiasmo.
In quella confusione Lord Richard piega la testa verso di me e dice:
«Chi è questa graziosa dama?» E la folla ammutolisce.
Jarrod a questo punto dovrebbe presentarmi come sua sorella, secondo il
nostro piano originario. Mi guarda ansioso. Ora che dirà?
Isabel mi osserva aggrottando la fronte e dice: «Di certo non è una
Thorntyne. Guarda la sua pelle chiara e i capelli neri come l'ebano, e que-
gli occhi, così chiari eppure di un azzurro così intenso... e di una forma
così inusuale».
«Sembrano occhi di gatto» s'intromette Malcolm.
Cerco di non guardarlo, anche se non mi dispiacerebbe trasformarlo in
un gatto all'istante.
Isabel si rivolge a me. «Mia cara, da quali terre provenite?»
La guardo stupidamente.
Lord Richard, che ancora stringe la mia spalla, lancia un'occhiata impa-
ziente a Jarrod. Evidentemente non è un uomo abituato ad aspettare.
So esattamente quando quell'idea lo colpisce. Le sue dita si irrigidiscono
e affondano nel mio braccio, non tanto da far male, ma abbastanza da far-
mi capire che è irritato. Entro subito in agitazione. Che cosa può pensare
ora? Qualcosa di offensivo, ci giurerei. Non oso sondare la sua mente, Jil-
lian mi ha messo in guardia. Questa gente convive con la magia, ma in
modo timoroso, senza comprenderla. Se dovessero pensare che pratico la
stregoneria, mi ammazzerebbero di sicuro.
Il barone esclama: «Di certo, Jarrod, questa esotica creatura non viaggia
con te senza un'accompagnatrice!»
Jarrod è completamente disorientato da questa svolta imprevista. Porca
miseria, avremmo dovuto studiare una storia migliore. È ovvio, sono tanto
diversa da loro, ho perfino gli occhi a mandorla. Avremmo dovuto pensar-
ci prima, ora è troppo tardi: tutti aspettano una spiegazione da Jarrod, e
solo da lui. Di certo la storia della sorella non se la berrebbero, ora.
«Jarrod! Chi è questa dama?»
«Lei, ehm...» comincia Jarrod. «Si chiama Kate...»
«Katherine» dico in fretta. Quel diminutivo non si usa ancora, di questi
tempi.
Ma non è una spiegazione sufficiente e la folla aspetta altro. Le dita di
Lord Richard si stringono ancora attorno alla mia spalla, i suoi pensieri
corrono di nuovo. Si volta bruscamente verso Jarrod. «Dimmi che non hai
strappato a Lady Katherine la sua innocenza e ne hai fatto la tua concubi-
na!» La sua voce sale di tono e la folla si accalca attorno a noi. «Tuo pa-
dre, il mio diletto fratello» continua lui, scuotendo la testa, «non perdone-
rebbe mai un'azione del genere, se lo sapesse».
Non mi piace quello che sta succedendo. In un istante il benvenuto è di-
ventato una trappola. All'improvviso mi immagino le segrete del castello.
Certo, sarei curiosa di vedere anche quelle, ma non da inquilina, grazie.
Tutti gli occhi sono puntati su di me. Mi sento il viso in fiamme. Jarrod, di'
qualcosa, qualsiasi cosa.
E infatti dice: «Katherine viene da... un'isola, molto lontana da qui. Lei
è...» Inspira profondamente. «È mia moglie».
Dalla folla arriva un sospiro di sollievo, e la stretta del barone sulla mia
spalla si allenta. Mi lascia il braccio e solleva la mia mano, come in cerca
di qualcosa. Quando lo trova, tiene alta la mia mano, in modo che tutti
vedano. È l'anello, quello con il rubino, che attira l'attenzione.
«È vero, dunque» annuncia Isabel, e viene ad abbracciarmi. «Che gioia,
mia cara. Venite, dovete essere affamati». Poi guarda i miei abiti infangati
e i capelli in disordine. «E quando vi sarete rifocillati, farò preparare bagni
caldi e un letto comodo». A questo punto guarda suo marito, inarcando un
sottile sopracciglio. Dev'essere un esempio di comunicazione familiare
muta, perché hanno appena preso una decisione, e Isabel dice: «Non pos-
siamo certo farvi dormire nella sala, con i servi. Dormirete nella camera
della torre. Non è stata più usata da quando Lionel ha sposato la sua gio-
vane moglie».
Una stanza tutta per noi. Questo è un buon risultato. A quanto pare, a
parte il barone e la baronessa, gli altri dormono più o meno tutti insieme
sui pagliericci.
Lo sguardo di Isabel si posa su Jarrod, e la sua voce diventa un sussurro.
«È la loro camera. Tuo padre l'aveva fatta costruire apposta per Eloise,
come dono di nozze. È la camera in cui i tuoi genitori dormivano quando
vivevano qui, prima che...» Le sue parole cadono in un silenzio elettrico.
L'aria è carica di tensione. Anche se Jillian mi ha severamente ammonito,
devo farlo, solo una volta. Isabel sta nascondendo qualcosa. Se riesco a
decifrare alcune delle sue paure, potrei forse capirne la ragione. Anche
perché l'idea di dormire nella torre improvvisamente sembra molto poco
attraente. Perciò sondo, con molta cautela, la mente di Isabel. Quello che
trovo mi scuote un po'. Questa donna, così apparentemente forte e control-
lata, ha paura. Sappiamo dal libro di famiglia di Jarrod che la giovane spo-
sa è stata rapita. Ma, da quanto ho capito, era stata restituita poche ore do-
po. La vendetta di un innamorato respinto, forse. Eppure su quelle facce è
dipinta la paura. Qualcosa di oscuro e sinistro è accaduto a quella giovane
coppia, i presunti 'genitori' di Jarrod. Anche se sono passati più di vent'an-
ni, quel fatto tormenta ancora quelli che ricordano, e pure i loro figli. Ed è
successo nella torre, questo è chiaro.
All'improvviso mi pervade una sensazione di gelo. Il pensiero di dormire
lassù ora mi dà i brividi. Mi ritiro dalla mente di Isabel, ma la paura rima-
ne, troppo forte per essere ignorata.
Jarrod
Lord Richard insiste per farci visitare il castello, e questo occupa il resto
di un pomeriggio comunque breve. È incredibile quanta gente ci vive. Ci
sono capanne lungo le mura, con soldati di guardia sui bastioni, mentre
servi e artigiani con le loro famiglie, e perfino preti, si affaccendano in
giro. Ci sono anche animali: galline, cani, maiali.
Kate si sta divertendo da pazzi, anche se devo ricordarmi di chiamarla
Katherine. È assolutamente incantata.
Ceniamo nel salone. Il focolare fa tanto fumo che sono lieto di non sof-
frire di asma. Come fanno a vivere in queste condizioni? Il fuoco è neces-
sario, altrimenti il salone, e l'intero castello, sarebbero una ghiacciaia; ma
non c'è modo di far uscire il fumo. Le finestre, poco più che feritoie ad
arco, sono molto in alto, e il fumo ci mette una vita ad arrivare lassù.
Kate e io siamo seduti a un lungo tavolo sistemato su una pedana di le-
gno. Tutti quelli che vivono o lavorano al castello cenano qui, ma servi e
soldati hanno tavoli separati, dall'altra parte del salone. Il cibo è servito su
grosse fette di pane scuro e raffermo. Ci sono coltelli e cucchiai di legno,
niente forchette, e tutti mangiano con le mani. Kate quasi vomita alla vista
del cibo, specialmente quando ci viene presentata con orgoglio un'intera
testa di maiale. Sono sicuro che l'unica cosa che la trattiene è la pancia
vuota.
Il cibo è costituito quasi esclusivamente da carne sotto sale. C'è un pa-
sticcio di anguilla, salse piccanti e pane nero e denso. Non c'è acqua, ma
una gran quantità di vino rosso. Purtroppo è robaccia. Non che io sia un
intenditore, ma ogni tanto a casa lo compriamo. Papà ne beve un po' per
dormire. Questo è veramente tremendo, però non c'è altro per togliere la
sete. Non riesco nemmeno a mangiare molto, il mio stomaco si rifiuta.
Kate pilucca qualche mela cotta. Per non offendere Lord Richard lamen-
tiamo entrambi un'immensa stanchezza e i postumi di un avvelenamento
da cibo.
È buffo, però. Non direi che questa gente sia stupida, ma si sono bevuti
la nostra storia senza battere ciglio. Sono avidi di ogni dettaglio del nostro
presunto viaggio. Immagino che qui non arrivino spesso notizie dai viag-
giatori. Dobbiamo stare bene attenti a non dire troppo. In questo Kate è più
brava, e quindi lascio a lei la responsabilità della conversazione.
Lei racconta di come abbiamo perso tutto ciò che avevamo, cavalli com-
presi, a Londra. Questo spiega perché siamo arrivati a piedi, con solo i
vestiti sporchi che avevamo indosso.
«Ero lì la scorsa primavera» conferma subito Richard, con un cenno di
assenso e gli occhi sgranati. A giudicare dal rossore sulle guance, direi che
il vino sta cominciando a fare effetto. «Quella città brulica di mendicanti e
ladri».
Il pensiero mi torna alla ragazza di nome Edwina, che lui sta per gettare
in mezzo alla strada semplicemente perché ha perso il marito e non può più
lavorare nei campi. Lord Richard è un uomo contraddittorio: con noi, che
crede parenti, non sarebbe potuto essere più ospitale, mentre verso i suoi
sudditi è crudele e ingiusto.
La cena finisce e Isabel afferra una torcia accesa da un supporto sul mu-
ro e ordina alle fantesche di preparare per noi due bagni caldi nella stanza
della torre. I miei pensieri prendono la fuga. Pare proprio che Kate e io
divideremo la stanza, che probabilmente contiene un letto e poco altro.
L'idea di stare in un letto vero con Kate mi fa decisamente sudare le mani.
Seguiamo Isabel su per una buia scala a chiocciola che sembra non finire
mai, e arriviamo in cima alla torre, dove c'è un'unica stanza. Immagino che
di giorno sia bene illuminata, visto che ha delle vere finestre su due lati,
ma il sole è sparito molto tempo fa, lasciando il posto a un freddo gelido.
Prima di andarsene Isabel ordina alle domestiche di accendere fuoco e
candele e procurarci degli abiti appropriati. Le vasche sono già quasi pie-
ne, e secchi di acqua calda continuano ad arrivare ogni pochi minuti.
Le ragazze eseguono, e subito la stanza si riempie di calore e di una luce
morbida, anche se un po' fumosa. Kate è in piedi accanto a una delle alte
finestre ad arco, quella rivolta a nord. La raggiungo e vedo che sta guar-
dando il castello sul picco nord, la cui sagoma si staglia nel buio grazie a
un'unica luce che splende in cima alla torre più alta.
«Chi abita laggiù?» chiede a una delle fantesche, quella che Isabel ci ha
assegnato come cameriera personale, Morgana. L'altra, un po' più matura e
più massiccia, si chiama Glenys.
Morgana, che sta sistemando un'altra torcia nel supporto a muro, si fer-
ma di colpo, il volto rannuvolato. «Si chiama Rhauk, mia signora. Il suo
castello si chiama Blacklands».
Kate non ha bisogno di dire nulla, so cosa sta facendo a Morgana. Ha
percepito la sua paura e ora sta sondando la sua mente. Spero che non esa-
geri, perché dobbiamo stare molto attenti. Ma è più forte di lei, dubito che
riesca a vivere senza sondare menti, ogni tanto.
«Perché hai paura di questo Rhauk?»
Morgana va dritta all'enorme letto a baldacchino e comincia a sprimac-
ciare i cuscini. «Tutti ne hanno paura, mia signora. Anche sua signoria».
«Perché?» insiste Kate.
Morgana fa una pausa, con il cuscino in mano. Quando rialza la testa ha
gli occhi velati. «Dicono che discenda dal diavolo, e che padre e figlio si
parlino spesso».
«Tu credi a queste voci?»
È l'altra ragazza, Glenys, a rispondere. «Non sappiamo nulla, mia signo-
ra. Niente è accaduto da che siamo nate. Sono solo storie, esagerate appo-
sta per far andare a letto i bambini».
Sorrido, il buon senso di Glenys mi piace subito, e guardo Kate. Non in-
siste, ma vedo che è ancora turbata.
L'ultimo secchio di acqua fumante va a riempire le due vasche di legno
affiancate nel mezzo della stanza. Morgana finisce di stendere sul letto le
nostre camicie da notte, lunghe e bianche. Glenys batte sul bordo di una
delle vasche. «Io pulirò i vostri abiti e Morgana vi aiuterà con il bagno».
Intende dire a toglierci i vestiti. Ora. Ed entrare nelle vasche. Morgana
inizia subito a lavorare sui bottoni del vestito di Kate. Lei si fa da parte e
mi guarda. A quanto pare, le ragazze rimarranno qui mentre Kate e io fac-
ciamo il bagno.
Osservo i suoi occhi, calmo. Non c'è bisogno di nessun cosiddetto dono
per avvertire il suo imbarazzo. I suoi occhi sgranati mi stanno pregando di
dire qualcosa, ma onestamente l'idea non mi dispiace, e una volta tanto non
è male vedere Kate a disagio. La sua pelle chiara arrossisce violentemente.
La cosa difficile è non ridere.
«Jarrod!» sibila tra i denti. Vede che mi sto divertendo e si imbestiali-
sce. «Fai qualcosa!»
Scrollo le spalle e mi sfilo la tunica.
Lei sibila. Davvero, proprio come un serpente. Sono sicuro che sta pen-
sando a qualche incantesimo disgustoso tutto per me.
È un sollievo liberarsi da quegli stivali infangati. Kate nel frattempo sta
creando problemi a Morgana.
«Mia signora» dice dolcemente la ragazza, «sarebbe più semplice se mi
permetteste di spogliarvi».
Devo dargliene atto. Dopo aver inspirato a fondo, Kate sfoggia un sorri-
so fantastico e dice, calma: «Se non ti dispiace, Morgana, Jarrod e io pen-
seremo da soli al nostro bagno».
Sono sicura che Kate non è preparata alla reazione di Morgana, o alla
sua ferrea determinazione. La ragazza praticamente squittisce e c'è paura
autentica nella sua voce. «Oh no, mia signora. Non possiamo lasciarvi sen-
za aiuto. Sua signoria ci batterebbe fino a toglierci la pelle».
Da quello che abbiamo sentito nel villaggio non ne dubito nemmeno per
un secondo. Neanche Kate, ma fa un ultimo tentativo. Mette il braccio at-
torno alle piccole spalle della ragazza e la guida verso la porta. «Non pre-
occupatevi, nessuna delle due» dice, includendo con lo sguardo anche
Glenys. «Assicurerò personalmente Lord Richard di che meravigliose da-
migelle siete e di come avete provveduto a tutte le nostre necessità. Avete
la mia parola».
Morgana guarda Glenys, in cerca di un consiglio. Ma l'altra scuote la te-
sta. «Voi non conoscete il barone, mia signora. Se scopre che nessuno vi
ha aiutato durante il bagno, saranno le nostre schiene a portare il segno
della sua ira».
La pazienza di Kate va in pezzi. È la prima volta che la vedo quasi in
preda al panico. Dev'essere esausta quanto me. E, anche se la scena è di-
vertente, decido che non è il caso di rischiare tutto per una sciocchezza.
Perciò prendo la questione da un altro lato. «Glenys» comincio, visto che è
ovviamente lei quella che decide. «La ragione per cui la mia sposa è così
prossima a battervi lei stessa, è che ama provvedere al mio bagno perso-
nalmente e, be'... privatamente». Sorrido, incrocio gli occhi sgranati di
Kate e aggiungo: «Dopotutto ci siamo appena sposati».
Morgana ha la grazia di arrossire, ridacchiando dietro la mano. Glenys
sbuffa, ma alla fine acconsente a lasciarci, promettendo di tornare per spe-
gnere le luci e riprendere i nostri abiti sporchi.
Se ne vanno e Kate si volta verso di me. «Ti sei divertito, eh?»
Scoppio a ridere e le lancio un ruvido asciugamano. «Permettimi di farti
da cavaliere. Dopo di te».
Lei mi guarda fisso a lungo, aspettando.
«Che c'è?»
Il gesto che mi fa con la mano è inequivocabile, perciò mi volto, e la
guardo di nuovo solo quando sento l'acqua cadere sul pavimento. Ora è
immersa fino al collo, e stringe in mano l'amuleto. La capisco, anch'io l'ho
cercato spesso durante la giornata. È il nostro biglietto di ritorno a casa, e
dobbiamo proteggerlo a qualsiasi costo.
Mentre Kate fa il bagno io osservo l'oceano attraverso la finestra aperta.
Le onde s'infrangono contro la parete di roccia, giù in basso. Mi ricorda di
quando abbiamo vissuto in un caravan parcheggiato lungo la costa del
Nuovo Galles del Sud. Papà aveva un amico che gestiva un'azienda ittica e
che gli aveva offerto un lavoro. Dal nostro caravan l'oceano non si vedeva,
ma di notte era l'unica cosa che si sentiva. Mamma era incinta di Casey, e
papà era fuori ogni notte. Ma il lavoro durò solo un paio di mesi, dato che
non si era mai visto periodo di pesca peggiore nella storia e l'amico di mio
padre dovette vendere l'azienda.
Stanotte non c'è luna, almeno non ancora, ma si vedono lo stesso le pic-
cole creste bianche delle onde, simili a minuscole vele. La familiarità del
suono, del profumo, perfino del sapore di sale dell'aria è confortante. Fi-
nalmente Kate finisce, si asciuga e si mette a letto, ravviandosi i capelli
con le dita.
Mi spoglio dietro la vasca, che mi arriva fino alla vita. Kate ci ha messo
così tanto che ormai l'acqua è appena tiepida. Va bene lo stesso: chissà
quando ci concederemo il lusso di un altro bagno. Mi sa che questa gente
non deve lavarsi spesso, forse neanche una volta al mese. Non c'è sapone,
perciò devo grattarmi via il fango con le unghie.
Finisco di lavarmi e m'infilo la lunga camicia da notte. Ho le gambe
stanche e doloranti, e il letto sembra comodo e invitante, specialmente con
Kate dentro. Il pensiero, anche dopo questa giornata incredibile, mi fa gira-
re la testa. All'improvviso tutta la spavalderia che mostravo poco fa svani-
sce. Non mi dispiacerebbe, per cambiare, sondare la mente di Kate, per
vedere, sentire quello che sente lei. Ma non posso, e quindi non mi resta
che tirare a indovinare. L'istinto mi dice che non disdegnerebbe se tentassi
di baciarla, ma si comporta in modo così riservato che non so cosa pensa-
re.
Con un tempismo perfetto, non appena mi metto sotto le coperte riap-
paiono Glenys e Morgana con due domestici maschi. Ci mettono un po',
ma alla fine svuotano le vasche e le portano via. Le ragazze portano via i
nostri vestiti e li sostituiscono con altri. Prima di andarsene attizzano il
fuoco e spengono le torce.
Finalmente siamo soli. Completamente. Soprattutto considerato che ci
troviamo in cima alla torre. Guardo Kate. È rannicchiata sul suo lato del
letto, il più lontano possibile. «Kate».
«Voglio dormire!» sbotta lei.
Rimango di sasso. Ehi, ma che si è messa in testa? Che io avrei... che i-
o... Cosa? Cercato di...?
Infastidito, rotolo al lato opposto. Ma, anche se sono stanco e dolorante,
e mentalmente esaurito, il sonno non arriva subito.
Non riesco a smettere di pensare a Kate.
Kate
Non so cosa possa pensare Jarrod di me ora. Che idiota. Mi sono messa
a fare la vergine terrorizzata. Non è colpa sua, sono io. E dove ci troviamo,
poi. A letto insieme! I miei sentimenti per Jarrod sono abbastanza intensi,
ma non credo che lui li ricambi. Almeno non ancora. Perciò esito a fare il
primo passo. Se ci baciassimo o cose del genere, finirebbe lì? Non mi fido
molto di me stessa, considerato che siamo soli quassù e, be', che facciamo
finta di essere sposati. E ora, qui, non sarebbe giusto.
E poi non mi va di diventare un'altra ragazza madre. Mia mamma lo era
e non ha saputo cavarsela. E se non ce la facessi neanch'io?
Perciò faccio finta di dormire, ma non dura molto. Sono comunque tesa.
Siamo nella torre dove dormivano Lionel ed Eloise. Qui è successo qual-
cosa di sinistro, e sento una strana energia pulsare da quel castello tetro
chiamato Blacklands. È come un battito, lento e pesante, sincronizzato
completamente con il mio cuore. Sono abbastanza sicura che non lo avver-
te nessun altro, certamente non Jarrod. Mi fa impazzire. Chi ci abita, lag-
giù? Morgana dice che è un uomo di nome Rhauk. Potrebbe essere lui il
fratellastro illegittimo con poteri di stregone?
Alla fine, immagino di essermi addormentata. Mi sveglio alle prime luci
dell'alba. Capisco confusamente che a svegliarmi è stato un forte suono
gracchiante. Mi stropiccio gli occhi e vedo un grosso corvo nero sul da-
vanzale della finestra, che guarda me e Jarrod rannicchiati ai due lati del
letto. Giurerei che il corvo abbia un ghigno compiaciuto negli occhi neri,
troppo umani, intelligenti come gli occhi di un corvo non dovrebbero mai
essere.
Decido che la notte insonne mi ha dato alla testa. Un uccello, in qualsia-
si secolo, è e resta solo un uccello. «Che cavolo guardi?» sbotto. Lui grac-
chia e vola via.
Jarrod si volta, assonnato. «Eh? Con chi stai parlando?»
«Con un corvo».
«Cosa?»
Scendo dal letto e comincio a rivestirmi: prima di tutto le calze pesanti.
Durante la notte il fuoco si è spento e ora quassù si gela. «Lascia perdere.
Siamo così in alto che gli uccelli credono che sia casa loro».
Finisco di vestirmi senza mai voltarmi a guardare cosa fa Jarrod. La not-
tataccia mi ha messo di malumore, sento ancora l'effetto delle strane vibra-
zioni di ieri. Jarrod e io siamo qui per un motivo preciso; prima terminia-
mo il nostro compito e meglio è. Non che mi dispiaccia poter sperimentare
la vita nel passato; anzi, è una cosa che mi affascina moltissimo.
La colazione viene servita nel salone. Anche se sto morendo di fame du-
bito che riuscirò a mangiare. Ieri sera il cibo sembrava così... poco igieni-
co. E poi, essendo vegetariana, mi resta ben poca scelta.
Mentre ci avviamo giù per la scala a chiocciola, ogni pensiero sul cibo
svanisce. Qualcuno sta urlando, una voce di donna talmente terrorizzata
che echeggia nei corridoi di pietra come le urla di uno spettro tormentato.
Non possiamo fare altro che correre dritti verso il salone.
È Morgana, la più giovane e la più minuta delle due ragazze che ci han-
no preparato la stanza ieri. Jarrod e io ci scambiamo rapidamente un'oc-
chiata, chiedendoci se è colpa nostra. Ricordiamo tutti e due quanto fosse
spaventata al pensiero che Lord Richard potesse venire a sapere del nostro
bagno solitario.
«Che cosa succede?» chiedo. «Che cosa ha fatto questa poverina?»
Sono pronta a prendermi la colpa, a spiegare che è stata una mia scelta
non permettere alle domestiche di lavarci ieri sera. La povera ragazza è
piegata in due dal dolore, e Lord Richard in persona la sta colpendo col
dorso della mano. Morgana è così piccola che ogni colpo la manda a sbat-
tere contro la parete; le guance rosse già cominciano a gonfiarsi. Ci sono
anche gli altri: Isabel; la nipote Emmeline; Malcolm, con una certa aria di
compiacimento negli occhi verde scuro; Thomas, il più fedele dei cavalieri
e degli amici di Richard; ma tutti osservano la scena con un interesse solo
casuale. Picchiare i servitori, a quanto pare, è un'attività di routine. Mal-
colm incrocia il mio sguardo e solleva un sopracciglio, quasi divertito dalla
mia espressione scioccata. Emmeline, la cugina, appare del tutto indiffe-
rente. Il suo sguardo si posa su Jarrod e ci resta, con un chiaro intento. Ec-
co chi mi ricorda, Tasha Daniels. La mia solita fortuna.
Lord Richard si accorge finalmente della mia preoccupazione. «Stupida
ragazzina» mormora rabbiosamente, ancora con la mano alzata pronta a
colpire. «Guardate la mia tunica» e indica una macchia bagnata che si
spande lentamente sul davanti della veste e tinge quello che senz'altro è lo
stemma di famiglia: due colombe bianche chine su una rosa rossa all'inter-
no di un rombo cremisi. «Mi ha buttato la birra addosso». La guarda di
nuovo, furente, e Morgana si fa ancora più piccola. «Glielo insegno io a
essere così sbadata». Ciò detto la colpisce di nuovo, facendola cadere
all'indietro.
«Mio signore!» Non posso fare a meno di intervenire. Non resisto di
fronte a tanta ingiustizia. «Vi chiedo di mettere questa fantesca al mio ser-
vizio. Non danneggiatela al punto che non possa più servire alle mie ne-
cessità».
Lui si volta verso di me, e per un attimo temo di aver passato il limite.
Ma il suo viso si addolcisce, e abbassa la mano. «Avete ragione, Lady Ka-
therine. Direi che la disgraziata ha imparato la lezione». E con questo la-
scia andare Morgana, che mi lancia uno sguardo di gratitudine prima di
scappare via.
Dopo quest'incidente non ho proprio lo stomaco per mangiare. Facciamo
il giro del tavolo e Jarrod urta contro lo spigolo. Lo prendo per il gomito.
A parte la sua abituale goffaggine, è anche senza occhiali. Prendo mental-
mente nota di stare attenta a ostacoli che potrebbe non vedere.
Jarrod mi sussurra un grazie. Ci sediamo e lui mi passa una fetta di pane
nero, che accetto a malincuore, conscia del fatto che dobbiamo tenerci in
forze.
E anche la marmellata tutto sommato non sembra male. Perlomeno a
giudicare dall'odore e dall'assenza di muffa. La frutta fresca sarebbe andata
ancora meglio, ma come abbiamo appreso ieri mancano poche settimane
all'inverno e di frutta e verdura è rimasto poco o niente; quella che c'è è
stata seccata o conservata o, peggio, talmente riempita di sale da essere
velenosa solo a guardarla.
Anche il sapore in fondo è buono, e la spalmo generosamente sul pane.
Devo comunque concentrarmi per non vedere gli altri, che si lanciano sul
cibo con la grazia di lupi affamati, azzannando cosce di pollo con le mani
unte e sbrodolandosi di birra.
E mentre mangiamo, Lord Richard si vanta della propria crudeltà nei
confronti dei contadini che lavorano le sue terre. Thomas e Malcolm sorri-
dono e annuiscono, e lo stesso fanno i soldati agli altri tavoli, che trovano
divertenti le bravate del loro padrone. Il mio appetito svanisce di colpo
quando cominciano a sghignazzare sulla sorte di una contadina che ha per-
so il marito durante una battaglia, combattuta per impedire che la fortezza
cadesse nelle mani di un signore scozzese rivale. A quanto pare quell'uomo
era un gran lavoratore, e la moglie non è altri che Edwina, che ora vorrei
non aver mai conosciuto. E quelli discutono come se niente fosse di come
ormai lei sia condannata a una vita di ruberie, di elemosina o prostituzione.
Quasi mi strozzo con il cibo che non ne vuole sapere di andar giù. Jarrod
mi guarda, solidale, ma sa come me che non c'è assolutamente nulla che
possiamo fare per quella donna e la sua famiglia. Dobbiamo lasciar perde-
re. Se solo potessi usare un po' di magia...
E proprio mentre penso alla magia un trambusto fuori del salone attira
l'attenzione di tutti. A quanto pare Lord Richard ha un ospite inatteso: un
uomo alto, dall'aspetto autorevole, completamente vestito di nero. Asso-
miglia a Jarrod in modo ancora più impressionante di Richard, a parte il
fatto che è più alto e robusto. Ha anche il colore dei capelli di Jarrod,
biondo scuro con riflessi ramati; solo i suoi occhi sono diversi, neri come
la pece. E capisco con un sussulto da dove viene quella strana pulsazione.
Perciò so chi è ancora prima che Lord Richard dica il suo nome. Solo un
mago potente può emanare tanta energia. E ricevere un'accoglienza così
poco calorosa. «Com'è possibile, Rhauk» protesta Richard con voce fredda
e ostile, «che tu riesca sempre a passare davanti alle mie guardie senza che
nessuno ti veda?»
L'uomo di nome Rhauk si limita a sorridere. Lentamente. Si dirige verso
Richard. «È questo il modo di trattare tuo fratello, Richard?»
«Bah!» sbotta il barone. «Tu non sei mio fratello. Mio padre non ti ha
mai riconosciuto come figlio. Mai, nemmeno sul letto di morte».
«Forse, ma non l'ha mai neanche negato. Ma non voglio parlare di que-
sto, oggi» risponde lui, con aria annoiata. «Ho cose più importanti da fa-
re».
«Ebbene, che vuoi stavolta?»
Ignorando Lord Richard, come se non fosse alla sua altezza, Rhauk si
volta di lato, in cerca di qualcosa, finché i suoi occhi non trovano i miei.
«Eloise» sussurra. Un brivido mi scuote da capo a piedi.
Tanto per cominciare, non posso somigliare a Eloise; queste persone se
ne sarebbero accorte e avrebbero reagito diversamente. Non somiglio in
nulla a nessuno di loro e, visto che non viaggiano, non possono aver mai
visto una come me, così bruna e con tanto di occhi a mandorla.
Rhauk sembra riprendere il suo contegno e sorride di nuovo. Un sorriso
astuto, stavolta. Fa un cenno della testa verso di me, come ad ammettere
che è per me che è venuto. «Che creatura squisita» dice, facendo le fusa
come un felino. «Presentaci, Richard».
Lord Richard è palesemente a disagio e si schiarisce la gola, immagino
per prendere tempo. La reazione di Rhauk lo confonde. «Ehm, questa no-
bile dama è Lady Katherine. Ha viaggiato a lungo per essere qui con noi.
Non ha nulla a che fare con te, quindi levale gli occhi di dosso e stanne
alla larga».
Mentre parlano di me sento un'altra energia pulsare nella stanza. All'ini-
zio non la riconosco, finché non si leva un vento quasi familiare, che di-
venta subito gelido. È Jarrod, che guarda Rhauk con occhi di ghiaccio.
«Calma, Jarrod» dico dolcemente, riconoscendo al volo il grosso pro-
blema che ci sta di fronte. Abbiamo trovato l'istigatore della maledizione,
ma Jarrod non ha ancora né ammesso né tantomeno imparato a controllare
i propri poteri.
Anche Rhauk sente che c'è un'altra forza nella stanza. Le sue narici fre-
mono, alza la testa e stringe gli occhi neri in due fessure. Lentamente si
volta verso Jarrod, e di nuovo esibisce quello snervante sorriso.
I loro occhi si incontrano, e il vento nel salone diventa un tifone. Ora c'è
un altro potere a muoverlo, quello di Rhauk. Emmeline grida, ma la sento
a malapena con il vento che aumenta di intensità. Si aggrappa a Isabel, che
chiede spiegazioni, ma il suo Richard non ne ha. Per ora tenta di rimanere
in piedi. Né Jarrod né Rhauk si muovono; continuano a fissarsi.
Il vento travolge tutto. Tavoli, sgabelli, tappeti volano per la stanza. O-
vunque regna il caos.
Finalmente Rhauk rompe l'incantesimo e Jarrod cade in ginocchio, con
la testa fra le mani. Richard pretende di sapere cosa è accaduto, ma Rhauk
lo ignora. Invece parla con me: «Blacklands è sul picco nord, Lady Kathe-
rine». Fa una pausa, per darmi il tempo di capire bene. «Dalla torre lo ve-
dete molto chiaramente».
Sbarro gli occhi dalla sorpresa. Sa che ho dormito nella torre stanotte.
Questo mi dà i brividi. Lui mi dà i brividi. È esattamente quello che vuole:
farmi sapere quanto è potente. Perciò tento di restare calma e dico: «Avete
notato le torce accese, dunque. Che spirito di osservazione».
La sua risata è sarcastica. «Ragazza intelligente. Mi piace il vostro spiri-
to. Volete unirvi a me per cena, questa sera al crepuscolo?»
Prima che abbia il tempo di replicare, Richard ci interrompe. «Scordate-
lo, Rhauk. Non puoi mettere gli artigli su di lei. Lady Katherine è già spo-
sata».
Rhauk inarca le sopracciglia. Guarda Jarrod e scoppia in una risata bef-
farda. «Con voi!» E ride, come se fosse una battuta che capisce solo lui.
«Oh be', immagino che dobbiate venire anche voi, allora».
Se ne va, lasciando dietro di sé una scia di devastazione e discorsi agita-
ti. Aiuto Jarrod a rialzarsi, ma è ancora malfermo e confuso. Prendo una
sedia e lo faccio sedere.
Mentre i domestici cominciano a rassettare il caos penso a Rhauk. Ha
percepito i poteri di Jarrod e ha fatto una piccola esibizione dei propri. Ma
stava solo giocando, per mettere alla prova le sue forze.
E non gli ci è voluto molto a capire che Jarrod è tutt'altro che una mi-
naccia per lui.
Jarrod
Lo sguardo negli occhi di Rhauk quando ha visto per la prima volta Kate
resterà con me per sempre, inciso nella mia memoria. È come se avesse
trovato un tesoro, qualcosa che aveva cercato per tutta la vita.
Dunque, vuole Kate. Ma perché? Che sta succedendo? Non è solo un'at-
trazione folgorante, è qualcosa di più profondo. E questo non va.
Quel tipo strano dev'essere la persona che stiamo cercando, quello che
ha maledetto la mia famiglia. C'è una forza notevole in lui, a giudicare
dallo stato pietoso del salone. Richard corre su e giù come un pollo senza
testa, mentre servitori e soldati rassettano il disastro. Per quanto mi riguar-
da, la mobilia può andare all'inferno, in questo momento mi interessano
solo le motivazioni di Rhauk. Ha parlato a Richard in nome di un legame
di sangue; una parte della storia la so già, ma è comunque un buon punto
di partenza.
«Perché Rhauk dice di essere tuo fratello?» domando a Richard.
Lui smette per un attimo di dare ordini, e mi guarda. «Sfortunatamente,
nipote, è una sua errata convinzione».
«È per questo che è così rancoroso?» domanda Kate posandomi una ma-
no sulla spalla e incoraggiando questa linea di conversazione.
Richard inspira a fondo, trattiene il fiato per un momento e poi crolla a
sedere nel suo scranno. «Io ho qualcosa che lui ritiene sia suo».
«E cosa sarebbe?» insisto, visto che lui non continua.
«Il castello, naturalmente» risponde Isabel. «E le nostre terre e le nostre
ricchezze».
«Rhauk è forse il primogenito?» domanda Kate.
«No!» grida Richard battendo il pugno sul tavolo, appena rimesso in
piedi. «Rhauk può anche sostenere di essere il primogenito di Geoffrey,
ma la sua nascita non è mai stata riconosciuta da mio padre».
Kate aggrotta la fronte. «Non sembra abbastanza vecchio da...» Ma la
sua voce svanisce.
Richard si volta verso di lei, e il suo tono è stranamente roco. «È la sua
magia, mia cara. Si dice che la madre di Rhauk fosse un'autentica strega».
È chiaro cosa sta pensando Kate: questo spiegherebbe i poteri straordi-
nari di Rhauk, la sua capacità di lanciare maledizioni sulla famiglia che
l'ha rifiutato. E Richard è un uomo duro, crudele, che non cederebbe mai la
proprietà del castello e delle terre.
«La madre di Rhauk non potrebbe confermare la sua storia?» domanda
Kate.
«Aha!» Richard getta una breve occhiata a Isabel, che è in piedi accanto
a lui, con una mano sul suo braccio. Lei è la sua roccia, e quell'omone non
si vergogna affatto di appoggiarsi a lei. Un altro aspetto della sua pittore-
sca personalità.
«I genitori di lei morirono in un incendio. Lei venne a Blacklands in cer-
ca di cibo e riparo. Le suore le dettero asilo, ma lei era già incinta. Le voci
dicevano che era stata sedotta dal diavolo in persona» sibila Isabel. «Rima-
se a Blacklands fino al parto. Le suore sapevano delle sue stregonerie e
tentarono di purificarla, ma nemmeno la sua stessa magia bastò a salvarle
la vita».
«Dunque morì?» chiedo.
«Sì, di parto».
Kate impreca piano, tra i denti. Sia Richard che Isabel si voltano a guar-
darla. Non sono abituati a sentire certe parole da una dama. Per fortuna
Kate si riprende subito e aggiunge: «Che sventura. Per il bambino, intendo.
Nascere già senza una madre. Chi lo ha allevato?»
Richard risponde: «Ah, quello è un altro mistero».
È di nuovo Isabel a dare spiegazioni. «Qualcuno dice che sono stati i
corvi che volano intorno a Blacklands, ma naturalmente questa è una
sciocchezza. Altri credono che lo abbiano allevato le suore, prima che lui
uscisse di senno e le uccidesse quando era ancora ragazzo, impossessando-
si del loro convento».
Propendo per la storia delle suore, anche se entrambe le versioni mi
paiono un po' esagerate. È molto superstiziosa, questa gente. Sono così
isolati quassù che credono a qualsiasi cosa, e il resto probabilmente lo in-
ventano per passare il tempo.
«Come è possibile che non conosciate la verità?» chiedo. «Dopotutto i
due castelli sono vicini».
«Le suore provvedevano per se stesse e vivevano ritirate. Potevano pas-
sare anni prima che si avessero loro notizie» spiega Isabel.
«Una cosa è certa» interviene Richard in tono molto serio. «Rhauk è po-
tente e malvagio. Vi raccomando caldamente di non accettare il suo invito
a cena. Non vuole solo le nostre terre e il reddito che ricaviamo da esse,
ma anche vendicarsi della nostra famiglia».
Ora sì che ragioniamo.
Mentre Richard racconta, il salone si fa silenzioso. Parla rivolto a me:
«Tuo padre ti ha mai raccontato perché se n'è andato, cedendo il suo titolo
e i suoi beni a me?»
Scuoto la testa, ansioso di sentire. «Tua madre, Eloise, era una bellissi-
ma giovane. Molti la desideravano, ma nessuno quanto tuo padre... e
Rhauk».
Kate trova un'altra sedia e si accomoda accanto a me.
«Entrambi la corteggiavano, ed era chiaro che lei provava dell'affetto per
tutti e due, ma quando le fu chiesto di prendere una decisione, scelse tuo
padre. Rhauk non riuscì ad accettarlo, e la notte delle nozze tuo padre disse
che lui aveva rapito la sua sposa ancora illibata. Nessuno vide Rhauk. Io
stesso ero di guardia quella notte e non vidi nulla. Nessuno oltrepassò le
nostre difese. Eppure tuo padre ne rimase sconvolto, e raccontò per giorni
una storia folle a proposito degli occhi di Rhauk. Parole senza senso che
nessuno capì. Alle prime luci dell'alba Eloise era tornata, ma restò confusa
e quasi incosciente per giorni».
Gli occhi di Richard si fanno lucidi, e Isabel gli passa il braccio intorno
alle spalle. Le lacrime lasciano intravedere che in lui c'è anche un punto
debole. Verso i membri della sua famiglia è leale e devoto, e sono sicuro
che porta un peso sulla coscienza per quello che è successo durante la pri-
ma notte di nozze del fratello, visto che era di guardia. Forse pensa che
avrebbe dovuto proteggerli di più. Forse, visto che era stato un giorno di
festeggiamenti, Richard era ubriaco, quella sera. E ora è lui il signore di
Thorntyne, mentre suo fratello si nasconde in una terra straniera.
«Si disse che Rhauk avesse ingravidato Eloise, perché il bambino che
nacque nove mesi dopo gli assomigliava molto. La voce si sparse ovunque
e Lionel portò via la sua famiglia, lontano». Gli occhi di Richard tornano
limpidi e fissano i miei. «Come sta tuo fratello?»
Mio 'fratello' è colui che tornerà a reclamare il suo legittimo titolo prima
o poi, a quanto diceva il libro, addirittura con le armi, perciò almeno so
che è vivo. «Sta bene».
«Hai visto Rhauk. A chi assomiglia tuo fratello, ora che è un uomo?»
Bella domanda. Non ne ho la minima idea. Scrollo le spalle, come se
non m'importasse. «Per me, lui è solo mio fratello».
La risposta sembra soddisfare Richard, che all'improvviso pare stanco
della conversazione. Si guarda intorno, nota la quiete nella stanza e rico-
mincia ad abbaiare ordini.
Kate e io andiamo fuori, sulle mura. Dobbiamo parlare di quello che ab-
biamo saputo. Rhauk è ovviamente il nostro uomo, e il tempismo di Jillian
è stato perfetto. Ma dobbiamo parlare della prossima mossa. Come riusci-
remo a fermarlo?
Una cosa è certa: malgrado le raccomandazioni di Richard, dobbiamo
andare a quella cena.
Blacklands e i suoi misteri ci aspettano.
Kate
Richard organizza per noi una scorta di dodici tra i suoi migliori cavalie-
ri. I cavalli stanno di fronte a noi, enormi e irrequieti. Dovremmo essere
cavallerizzi provetti, ma io non sono mai andata a cavallo in vita mia, e
dall'espressione degli occhi sgranati di Jarrod direi che non l'ha fatto nean-
che lui, o perlomeno non con successo. Ma questa gente crede che siamo
venuti a cavallo fin da Londra, e che abbiamo passato in sella almeno metà
della vita.
Per me la cosa risulta più facile, visto che uno dei cavalieri più forti mi
solleva facilmente per la vita e mi sistema in sella. A quanto pare nessuno
si aspetta la perfezione da una donna. Non devo fare altro che stare seduta
in un modo strano, con le gambe da un solo lato dell'animale, e tenere le
briglie senza cadere. Appunto.
La faccenda è meno semplice per Jarrod. Tanto per cominciare senza
occhiali vede tutto piuttosto sfocato, senza contare la sua abituale goffag-
gine. E gli è stato dato uno stallone! È una splendida creatura bianca e gri-
gia. Nelle intenzioni doveva essere senz'altro un complimento, ma non
credo che Jarrod la veda così. Quando prova a montare in sella cade diret-
tamente dalla parte opposta. Atterra accanto alla zampa anteriore del caval-
lo, rendendolo subito nervoso. E mi pare che abbia anche battuto mala-
mente una spalla, poveretto.
Per rispetto verso il loro signore, i cavalieri cercano come possono di
non ridere del nipote imbranato, ma li sento ridacchiare comunque. Solo
Malcolm fa un commento maligno sull'incompetenza di Jarrod. Mi fa ri-
cordare un certo bullo della scuola, parecchio lontano da qui. Certe cose
non cambiano mai.
Malcolm mi guarda e mi viene la pelle d'oca. E, anche se so che non do-
vrei, ma proprio perché sento di stare guardando in faccia un nemico, de-
cido di sondare la sua mente.
Malcolm è pieno di risentimento, invidia e, cosa sorprendente, anche
paura. Ma certo. Malcolm è il figlio maggiore di Richard, ed è destinato a
ereditare castello, terre e titolo. Ed ecco che spunta Jarrod, figlio del Thor-
ntyne maggiore, e potrebbe reclamare il titolo per sé. Così, per Malcolm,
Jarrod rappresenta una minaccia.
Dovremo guardarci da lui.
I suoi occhi si stringono mentre mi osserva. Sto bene attenta a non in-
crociare il suo sguardo, specie mentre sono ancora nella sua testa. Non che
possa sentirmi, ma mi metterebbe a disagio. Crea troppa intimità.
Il secondo tentativo di Jarrod è ancora patetico, ma almeno stavolta non
cade. Si afferra alle redini come se ne andasse della sua vita, il viso colora-
to di varie sfumature di rosso. Finalmente, dopo molti sbuffi e grugniti,
riesce a raddrizzare la schiena. Se fossimo a scuola partirebbe un'ovazione.
Arriviamo a Blacklands al tramonto, come da invito. I cavalieri restano
fuori dai cancelli, chiaramente agitati dalla vicinanza con le nere mura del
castello. Solo Malcolm pare calmo e rilassato.
I cancelli si aprono all'improvviso, anche se intorno non si vede nessuno.
Jarrod e io smontiamo, lasciando i cavalli con Malcolm e gli altri, e ci av-
viamo da soli all'interno delle mura. Nessuno ci viene incontro o ci indica
la strada. Il castello ha una struttura intricata, con molti edifici comunicanti
e non è costituito, come molti castelli dell'epoca, da un'unica fortezza. È
costruito per la maggior parte in legno, intonaco e tetti di tegole. È giusto,
una volta era un convento. Ora è solo desolato e inquietante.
Si apre la porta del primo edificio e vediamo Rhauk, in piedi sotto un
grande arco di pietra. È sempre vestito di nero, in calzamaglia, camicia
chiusa fino alla gola, tunica e stivali. S'intravedono ricami d'oro sull'orlo
del colletto della camicia, e anche alla cintura, chiusa da una fibbia d'oro
massiccio, che attira la mia attenzione. Man mano che mi avvicino la vedo
chiaramente, e il cuore mi salta in gola. La fibbia è un groviglio di serpi,
decine di serpi, dai corpi attorcigliati in modo che solo teste e occhi spor-
gano.
Ricordo la visione di Jillian, dei serpenti che avvolgevano Jarrod, e
quanto lui li detesti. Infatti alla vista della fibbia pare a disagio. Forse an-
che lui ricorda la visione di Jillian.
Seguiamo Rhauk lungo un viale lastricato e su per una scala a chioccio-
la, in una sala scarsamente ammobiliata, a parte un magnifico tavolo di
legno a un'estremità. Al centro della sala c'è un focolare che dà calore e
luce. Noto che il fumo è meno molesto che a Thorntyne Keep, perciò lo
seguo con lo sguardo. Ci sono delle prese d'aria, lunghe fessure verticali
nel tetto sormontate da una piccola torre, in modo che il fumo esca, ma che
non entri la pioggia.
Rhauk mi guarda. Mi dà decisamente i brividi. Anche mentre dispone
sulla tavola vassoi di cibo, i suoi occhi non lasciano i miei. Sta flirtando,
sfacciato e indifferente. E non è facile ricordare che ha almeno il doppio
degli anni che dimostra. Le sua pelle è liscia, senza rughe, i capelli di un
biondo ramato ancora lucente, la figura snella e giovanile. Ogni tanto i
suoi occhi neri guardano Jarrod, che cerca come può di non perdere la pa-
zienza. L'ho avvisato: stasera siamo qui per raccogliere informazioni, qual-
siasi indizio che ci possa aiutare a risolvere la faccenda della maledizione.
Forse osservare Rhauk nel suo ambiente ci darà una dritta. Perdere il con-
trollo vorrebbe dire rovinare tutto. Ma Rhauk lo sta prendendo in giro.
Spero solo che Jarrod non ci caschi.
Sediamo per cenare, e io sgrano gli occhi alla vista del cibo. Pare che
Rhauk sia solo nel castello, eppure ha preparato un banchetto sontuoso.
Soprattutto cibi freschi, mirtilli e uva, pere, mele, perfino pane bianco. C'è
anche molto da bere, sidro e vino rosso dolce, non rozzo e aspro come
quello di Thorntyne Keep. Dev'essere quasi impossibile coltivare queste
cose in questo periodo dell'anno. Il profumo è forte e invitante. Muoio di
fame ma sono scettica. E chi non lo sarebbe?
«Il cibo non è di vostro gradimento?» chiede Rhauk, aggrottando la
fronte.
«È solo che... be'» mormoro, poi opto per un approccio diretto. Lui non
mi rispetterebbe, altrimenti. «È quasi inverno. Non c'è molta frutta fresca
in questa stagione».
Lui sorride. «Niente è impossibile a Blacklands. Ho i miei orti. Vorreste
vederli, Lady Katherine?»
La sua voce è come velluto, morbida e sensuale. Lancio un'occhiata a
Jarrod per osservare la sua reazione all'invito di Rhauk, che palesemente
non includeva anche lui. Per fortuna, anche se infastidito, mantiene il con-
trollo. Torno a guardare Rhauk. «Potremmo gradirlo più tardi, grazie».
Rhauk ha l'aria compiaciuta e divertita. Sta giocando con noi. Be', so
giocare anch'io. Vorrei solo che le regole, e la posta, fossero chiare.
Rhauk taglia una faraona e depone qualche fetta del petto sul piatto di
Jarrod. Sul mio e sul suo posa invece una fetta di pasticcio ai mirtilli. Mi
guarda con aria di sfida. Sa che sono vegetariana, o perlomeno che preferi-
sco gli ortaggi alla carne. Ma come fa a saperlo?
«Come sta il mio caro fratello?»
Jarrod e io alziamo la testa. Ma di che sta parlando, esattamente? Calma,
stiamo diventando paranoici.
«Tuo padre». Il tono è canzonatorio. «O forse il lungo viaggio ha otte-
nebrato il ricordo dell'uomo che ti ha allevato?»
Dolcemente, per fortuna senza raccogliere la provocazione, Jarrod ri-
sponde: «Sta bene».
«E la tua bella madre?»
Jarrod lo guarda fisso, ma non sostiene a lungo il suo sguardo. Maledi-
zione. Non dargli indizi, penso tra me. Tieni un profilo basso.
«Bene anche lei».
«Hmm, bene, tu dici» dice Rhauk annoiato, poi aggiunge: «Ricordo E-
loise come una donna eccezionale, eppure... non tanto quanto voi, Kate».
Resto sbalordita. Perché mi ha chiamata così? Come fa a sapere tante
cose? È istinto o magia? I miei occhi incrociano i suoi, e sono in trappola.
Sono bloccata tra le grinfie di qualcosa di stranamente forte, non di questo
mondo.
Jarrod percepisce la tensione, e la sua pazienza sta per finire. «Lasciala
in pace».
Lentamente lo sguardo di Rhauk lascia il mio e si sposta su Jarrod. «Per-
ché? La conversazione è di mio gusto».
La voce di Jarrod si fa più dura. «Katherine è mia moglie».
Rhauk ride di cuore. «Sei un pessimo bugiardo».
«Non sto mentendo» ribatte Jarrod, ma non è abbastanza convincente.
Rhauk si sporge un po' in avanti, gli occhi neri ridotti a fessure. «I gio-
vani sposi non dormono ai lati opposti del letto» sibila.
«Come...?» Ma per fortuna riesco a tenere il pensiero per me, lottando
per non sembrare sorpresa e non tradire la vera natura del nostro stato civi-
le. Malgrado i suoi sospetti e la sua intelligenza, Rhauk può solo tirare a
indovinare. Jarrod mi lancia un'occhiata preoccupata.
Un forte suono gracchiante attira la nostra attenzione verso le feritoie.
Appollaiato su un davanzale c'è un corvo nero. Lo osservo, chiedendomi
se è lo stesso che ho visto questa mattina sulla nostra finestra. Rhauk lo
chiama con un piccolo cenno della testa e il corvo arriva in volo, posandosi
sul suo gomito. Rhauk gli parla emettendo un suono a bocca chiusa e il
corvo risponde, reclinando la testa a forma di freccia in modo quasi affet-
tuoso.
Non riesco a non guardarlo. Quello non è un uccello qualsiasi. Eppure
non riesco ad accettare che sia stato lui a riferire a Rhauk di come dormi-
vamo. Non è possibile.
Rhauk dà al corvo un pezzo di mela succosa e quello torna al suo davan-
zale, apparentemente soddisfatto. Ma non se ne va. Resta lì durante tutta la
cena, a osservarci.
Cala la notte e Rhauk accende altre torce lungo le pareti della grande sa-
la. Ho lo stomaco chiuso e voglio andarmene. Il buio a Blacklands fa pau-
ra. Ma ancora non abbiamo saputo granché, perciò decido di accelerare le
cose. Rhauk comincia a servire i dolci. Quando si china verso di me of-
frendomi il vassoio dico: «Sappiamo del tuo piano di vendetta».
Lui si ferma, resta immobile per un attimo. Mi viene la pelle d'oca. «Ma
certo che lo sapete. È per questo che Jarrod ha affrontato un viaggio così
lungo».
Mi chiedo quanto sappia davvero di noi. Devo scoprirlo senza tradirmi
troppo. «Perciò sai che siamo qui per fermarti».
Lui si erge in tutta la sua statura. «Potete anche provarci, ma siamo se-
ri». Lancia un'occhiata a Jarrod, come se avesse visto una mosca fastidio-
sa. «Perderete solo il vostro tempo, e senza dubbio morirete nel tentativo».
Ritorna al suo posto all'estremità del tavolo e mi guarda. «Mia cara Kate,
per voi ho una visione». E si frega le mani, contento come un bambino.
Jarrod si alza. «Tu non hai nulla a che spartire con Katherine».
Anche Rhauk si alza, guardandolo negli occhi. «Tu, Jarrod, sei venuto
per proteggere la tua famiglia. È una cosa che rispetto, anche se tutto
sommato il rispetto per me non significa nulla. E, anche se non ne sei con-
sapevole, hai portato qui Lady Katherine perché questo è il suo posto».
«Cosa?» sibila Jarrod.
«Molti anni fa tuo padre ha commesso un'ingiustizia verso di me. Mi ha
portato via la mia dama, facendola schierare contro di me con subdole ca-
lunnie e oltraggiose bugie. La tua sposa sarà la mia ricompensa. Ciò che è
stato rubato viene finalmente reso». Guarda nella mia direzione, con un
sorriso raggelante. «Che magnifica presenza sarete a Blacklands, Lady
Katherine. Proprio come lo sarebbe stata Eloise».
«Ti sbagli» provo a dire, mentre il terrore mi attanaglia, «io non sono la
sostituta di Eloise».
«Ah, ora sei tu che sbagli» ribatte lui. «Tutto sta andando come doveva.
Sapevo che questo giorno sarebbe venuto».
«Katherine non rimarrà qui!»
Jarrod sta perdendo rapidamente il controllo. Gli tocco il braccio e sus-
surro: «Non farlo, ti sta solo provocando. Vuole solo misurare i tuoi pote-
ri».
Rhauk ride e ribatte, compiaciuto: «Giusto, Kate. Ma non del tutto».
Trascino via Jarrod, via dall'energia che Rhauk emana. «È meglio che ce
ne andiamo».
Jarrod si calma un po' e annuisce.
Ma Rhauk non ha ancora finito di giocare con noi. «Non abbiate tanta
fretta. Non vi ho ancora spiegato i miei piani. Non è per questo che siete
venuti?»
Proprio come prevedeva, le sue parole ci fermano. Inspiro a fondo, cer-
cando di dominare i nervi.
Certo di avere la nostra totale attenzione, Rhauk si spiega. «Le paure di
Jarrod per la sua famiglia non sono certamente prive di fondamento. Pro-
prio in questo momento, nella torre, sto preparando uno spaventoso anate-
ma. Ogni settimo nato dei Thorntyne ne conoscerà la forza, d'ora innanzi e
per l'eternità. Saranno degli sciocchi maldestri, e sventura e disgrazia col-
piranno ogni membro della loro famiglia».
«Quindi» dico, cercando di capire meglio, «la maledizione di cui parli
non è ancora completa?»
Lui s'interrompe, gli occhi fissi nei miei, come se stesse decidendo cosa
rispondere. «Ahimè, manca solo un ingrediente. La radice di un'erba in-
vernale».
Visto che l'autunno sta per finire abbiamo pochissimo tempo. Dovremo
usarlo saggiamente, trovare il modo di salire nella torre, distruggere la po-
zione e fare in modo che Rhauk non ne faccia un'altra. Come ci riusciremo
non lo so. Ma almeno ora abbiamo un punto di partenza.
È tempo di andarsene.
Anche Jarrod non vede l'ora. Mi prende la mano e se la porta alle labbra,
mormorando: «Andiamocene via, presto».
Facciamo per avviarci verso la scala a chiocciola, ma l'espressione di
Rhauk ci ferma. Ha le pupille completamente dilatate. Mi domando cosa
abbia causato questa reazione, e vedo i suoi occhi sbarrati scendere sulle
nostre mani giunte.
«Ce ne andiamo, Rhauk» dice Jarrod, glaciale.
Rhauk sbatte le ciglia e sembra tornare in sé. «Oh, ma non potete andar-
vene senza un regalo d'addio».
Mentre parla, una pesante porta di legno si chiude di schianto, bloccan-
doci la via d'uscita verso la scala. Il fragore riecheggia nei corridoi vuoti.
Spaventati, ci voltiamo di nuovo verso di lui, giusto in tempo per vederlo
lanciare in aria una scintillante sfera d'argento. La sfera esplode, e l'aria
intorno a noi si riempie di sciami di minuscoli proiettili affilati, tutti diretti
verso di noi. Cerco di proteggermi il viso con le braccia, ma gli aghi sono
tanti e acuminati.
Ci raggiungono e ci pungono attraverso i vestiti. «Jarrod, fai qualcosa!»
«Cosa, Kate? Come faccio a combatterlo?»
Mi riparo gli occhi e cerco di guardarlo, pregando che capisca il suo do-
no e lo usi. «Tu puoi fermarlo, Jarrod! Cerca dentro di te!»
Lui mi guarda, a bocca aperta, scuotendo la testa. «Io non so come...»
Non ce la fa. È proprio quello che Rhauk vuole: saggiare i poteri di Jar-
rod.
Getto una rapida occhiata per vedere se la pioggia d'argento si esaurisce.
Cerco di ripetermi che è solo un trucco, un'illusione, ma il sangue comin-
cia a macchiare la mia veste e a scendermi sulla fronte. C'è talmente tanta
luce che la sala scintilla di un'energia innaturale. In questo momento mi
rendo conto che Rhauk non si fermerà davanti a nulla pur di compiere la
sua vendetta. La vendetta sul fratellastro che gli ha rubato la donna che
amava, e sul padre che non ha mai riconosciuto il suo diritto ereditario.
Non esiterà a ucciderci, se gli sbarreremo la strada.
Lo odio. E non posso stare qui senza fare nulla, lasciare che le cose va-
dano come vuole lui. Jarrod forse non è nelle condizioni di usare il suo
dono, ma io sì. Perciò, senza pensare ai rischi di esporre le mie capacità a
quell'uomo pericoloso, raddrizzo la schiena e abbasso lentamente le brac-
cia. Mi concentro, rallentando il respiro per non sentire il dolore. Nella mia
mente vedo i proiettili d'argento trasformarsi in oggetti innocui, le loro
punte acuminate incurvarsi, addolcirsi, fondersi.
Ancora prima di rendermi conto che ha funzionato, sento l'esclamazione
di meraviglia di Jarrod. Apro gli occhi e tendo le mani, e non posso fare a
meno di sorridere nel vedere, al posto degli aghi, centinaia di piume bian-
che fluttuare intorno a me e posarsi sulle mie mani.
Ma subito dopo mi rendo conto di aver appena commesso un errore fata-
le. Ho mostrato a Rhauk i miei poteri e vedo la gioia dipingersi sul suo
volto. Comincia a battere le mani, estasiato, con un'espressione ammirata.
Poi avanza verso di me, sorridendo, con gli occhi che brillano. «Saremo
una coppia formidabile tu e io, Katherine».
Scuoto la testa, senza parlare, e faccio un passo indietro, evitando il suo
sguardo.
Lui scoppia a ridere. «Ma sì. Immagina, i tuoi poteri e i miei! Il mondo
sarà nostro. Chi mai oserebbe contrastarci? Nessuno ci supererà!»
Jarrod aggrotta la fronte, con rabbia. «Lei non resterà con te!»
Rhauk lo guarda. «Alla fine sarà lei a scegliere. A essere onesti, Jarrod,
Kate deve avere un'idea di ciò che potrebbe essere suo, di ciò che potrei
darle. Deve poter vedere entrambi i mondi». Riporta velocemente lo
sguardo su di me, catturando i miei occhi prima che abbia il tempo di
guardare altrove. La sua voce è di nuovo vellutata, ipnotica. «Resterai,
Lady Katherine? Kate? Qui, con me, a Blacklands?»
Jarrod mi guarda, attonito. Si chiede perché non rispondo. Perché non
oppongo un secco 'no' all'oltraggiosa proposta di Rhauk. Non capisce che
quando lo sguardo ipnotico di Rhauk cattura i miei occhi, quando la sua
energia stordisce i miei sensi, non è facile per me liberarmi dalla sua presa.
E in questo momento la pressione è molto intensa. Sbatto rapidamente le
ciglia, mi aiuta a liberarmi. Finalmente mi lascia andare.
Con la mente svuotata guardo Jarrod e mormoro: «Portami a casa».
Lui mi afferra per il gomito per sostenermi. «L'hai sentita, Rhauk. Facci
uscire».
Mentre il pesante portone di legno si apre, il corvo si leva in volo e
sfreccia tra di noi, costringendoci a piegarci di lato, e atterrando poi sul
braccio di Rhauk. È strano: sembra che ci guardi con dispetto. Ma non ho
tempo di pensarci, voglio solo uscire. La scala buia si apre davanti a noi,
offrendoci una via di fuga. Stiamo per raggiungerla quando la voce di
Rhauk ci precede, raggelante: «Non mi lasci scelta, mia cara...»
Continuo a camminare, anche se nulla può fermare le sue parole che ci
inseguono giù per le scale. «Dovrò venirti a prendere». Comincio a trema-
re. «Guardati dall'oscurità, perché io sarò l'ombra che viene per te». E infi-
ne, una specie di sussurro: «Dormi bene, mia cara».
Dio mio. Solo il pensiero di passare la notte a Blacklands mi terrorizza.
Almeno sulle mura non sento più le sue parole, ma l'immagine dei suoi
occhi piccoli, neri e freddi resta impressa nella mia mente. Mi domando se
riuscirò mai più a dormire.
Jarrod
La cena a Blacklands con Rhauk ha lasciato Kate veramente sconvolta.
Siamo sulla via del ritorno a Thorntyne Keep e lei è silenziosa, gli occhi
sgranati. Trema tutta, e tiene le mani giunte nel tentativo di fermare il tre-
mito, ma non ci riesce.
Lord Richard ci accoglie sui bastioni e ci accompagna alla torre, mentre
il resto del castello dorme. Dopo aver ascoltato un breve resoconto della
cena con Rhauk, felice di ritrovarci sani e salvi, ci dà la buonanotte. I do-
mestici hanno preparato la stanza, riscaldata da un bel fuoco.
Kate sembra stordita. Si siede meccanicamente sul letto e nasconde il vi-
so nella camicia da notte, aspirandone il profumo. Poi mi guarda. «Lo sai,
vero, che dovrai combattere con lui?»
Con Rhauk, ovviamente. Decido che sta scherzando. «Sei matta?»
Lei sospira, con una specie di stanco disappunto. «Io non vedo altre so-
luzioni».
«Davvero? E come dovrei fare, esattamente?» Lei sa quanto sono inca-
pace di affrontare chiunque, figuriamoci poi Rhauk con la sua magia. Rab-
brividisco al ricordo dell'esibizione con gli aghi, poco prima. «A saperlo
prima, mi portavo una bella mitraglietta semiautomatica».
«Non sto scherzando, Jarrod».
Il mio tono è pungente. «Lo so». Ma non è con lei che ce l'ho, è con me
stesso. Dopotutto lei è qui per me, e io invece l'ho appena delusa. «È che
non so cosa ti aspetti da me».
Lei sbuffa e sprofonda di nuovo il viso nella camicia da notte, aspirando.
Fa sempre questo tipo di cose, con i pesanti tendaggi, con gli arazzi sulle
pareti, perfino con i candelieri. Oggi l'ho vista annusare una bacinella per
l'acqua! Lei adora quest'epoca, ed è felice di essere qui. Io credo che non si
tratti solo dell'opportunità di vivere la storia: il punto forse è che lei una
sua storia non ce l'ha. Niente madre, niente padre.
Kate mette giù la camicia e ne sfiora i ricami con le dita. «Tu devi rico-
noscere il tuo dono». Mi guarda negli occhi e il suo tono s'indurisce. «Per-
ché devi usarlo per sconfiggerlo!»
«Kate, non cominciare...»
Lei getta rabbiosamente la camicia sul letto. «Ma come puoi non creder-
ci, dopo tutto quello che è successo? Ma guarda dove siamo! In un castello
nell'Inghilterra medioevale! Non ti dice niente? Ora non puoi non ammet-
tere che Jillian è una vera maga e che, sì, c'è una maledizione su di te. Sei
appena stato a cena con colui che l'ha creata!» Fa una pausa, mentre io
registro l'informazione. «Pensaci, Jarrod. Permetti a te stesso di credere.
Fino a questo momento ho avuto ragione. Magari ce l'ho anche su di te!»
Cerco di fare come mi dice, di permettere a me stesso di credere. Ma è
difficile. La mia vita è stata una serie di batoste una dietro l'altra. Come
posso ora, all'improvviso, cominciare a credere di essere dotato di incredi-
bili poteri magici? L'idea è troppo pazzesca.
«Senti» riprova lei. «Potresti anche aver ereditato i poteri di Rhauk».
La guardo, incredulo. Ma che sta dicendo?
«Questo ti renderebbe potente almeno quanto lui, se non di più. C'è que-
sta possibilità».
«Perché Rhauk?»
Lei fa una faccia esasperata. «Ricordi il libro di tuo padre? Tu discendi
direttamente da questa gente. Se Rhauk ha davvero rapito la moglie di
Lionel e l'ha sedotta, o violentata...» lascia in sospeso il resto della frase,
ma capisco ugualmente cosa intende. Nella mia linea di nascita c'è la stre-
goneria. L'ho vista stasera, con i miei occhi. «Dio, potresti avere ragione».
Lei sorride e mi fa cenno di voltarmi mentre si cambia. Quando la guar-
do di nuovo è già a letto. Il fuoco si sta esaurendo e l'aria si sta facendo
fredda. Mi cambio in fretta e mi metto a letto anch'io.
Stavolta è diverso. Lei non si ritira, né si rifugia sul lato opposto del let-
to. Rhauk l'ha veramente scossa. E, se è di compagnia che ha bisogno, di
qualcuno che la conforti quando il fuoco si sarà spento e le ombre si allun-
gheranno, per me va benissimo.
Perciò ci sediamo con la schiena contro la testiera magnificamente intar-
siata del letto, molto a nostro agio. «Se davvero ho questi poteri, come
faccio a... ehm, usarli?»
Lei mi prende una mano tra le sue. Sono calde. «Non devi fare altro che
concentrarti».
«Fin qui sembra facile».
Kate storce un pochino la bocca. «Be', mica tanto. Ci vuole tempo e
molta pratica. Ti devi esercitare. Parecchio».
Sembra ragionevole. Ma mi domando quanto tempo abbiamo.
Sento che lei entra nella mia mente, per sondare le mie emozioni. Non
sarà difficile percepire dubbi e paure. A un certo punto mi viene voglia di
bloccarla, e quest'idea mi colpisce: l'ho già fatto prima, e Jillian ha detto
che la maggior parte della gente non si rende nemmeno conto che Kate è
nella loro testa. Io non solo lo so, ma riesco anche a impedirglielo, se vo-
glio. È la prova che possiedo delle capacità fuori dalla norma?
La guardo negli occhi e sento che va più a fondo. Lei non distoglie lo
sguardo, e la sensazione diventa molto intensa. È straordinario avere Kate
nella mia testa, condividere le mie emozioni con lei e guardarla negli oc-
chi. È come essere nudi, esposti l'uno all'altra. Restiamo così, senza dire
una parola, e l'intensità cresce.
Alla fine lei parla, con voce roca. «È meglio che mi baci».
Annuisco e cerco di mandare giù il groppo che ho in gola.
Ci baciamo e scivoliamo lungo i cuscini, senza smettere, dimenticando
tutto: dove siamo, quando, e perché. Kate è meravigliosa. So che siamo
fatti l'uno per l'altra.
«Jarrod» mormora lei.
«Hmm?»
«Ho paura».
Queste parole mi lasciano interdetto. Tanto per cominciare, stonano con
lei. Kate ha sempre tutto sotto controllo, anche quando è sconvolta o ar-
rabbiata. Non perde mai la testa. Dev'essere davvero preoccupata, allora.
Sta ripensando alle parole di congedo di Rhauk. Vorrei poter dire qualcosa
che la faccia sentire meglio, più al sicuro. La guardo. I suoi begli occhi
limpidi sono grandi e spaventati. Mi ricorda un puledro appena nato, non
ancora saldo sulle gambe. La sua pelle chiara è ancora più chiara del solito,
quasi risplende al debole chiarore del fuoco che si spegne. Sfioro legger-
mente con le labbra le sue palpebre, le sue guance, sopraffatto dal deside-
rio di proteggerla.
«Ho bisogno che tu mi tenga stretta» dice piano. «Tutta la notte...»
Glielo prometto con lo sguardo, perché non mi fido molto della mia vo-
ce.
«Prometti di non lasciarmi neanche un secondo, Jarrod?»
Le sue parole mi colpiscono come mai prima. Mi chino su di lei e la ba-
cio sulle labbra. «Prometto» sussurro, e dico sul serio.
Un gracchiare lontano riecheggia nella notte silenziosa, ma nessuno dei
due riconosce subito il pericolo. Da qualche parte, nei recessi della mia
mente, registro il suono, ma è solo quando questo proviene da dentro la
nostra stanza, pochi momenti dopo, che capisco. È il corvo di Rhauk. Ci
guarda dal davanzale della finestra ed emette suoni rabbiosi per attirare la
nostra attenzione.
Alzo lo sguardo sull'intruso. «Kate, è il corvo di Rhauk».
Quello piega la testa da un lato, come se ascoltasse, e capisse, la nostra
conversazione.
«No» sussurra Kate, «non mi sembra...»
Il corvo si avvicina.
«Hai mai visto una bestia così grossa?»
Kate continua a guardarlo. «Gli occhi...» mormora.
Il fuoco è quasi spento, perciò c'è pochissima luce nella torre, eppure
non è possibile non notare gli occhi del corvo. Perché non sono affatto
occhi di corvo, ma umani. Sono gli occhi di Rhauk, neri e gelidi.
Prima che possiamo fare una qualsiasi mossa, il corvo si lancia. Mi getto
su Kate. Gli artigli del corvo affondano nella mia schiena nel tentativo di
spostarmi. Cerco di scuoterlo via senza allontanarmi da Kate, ma quello mi
colpisce con gli artigli e con le ali, sempre stridendo e gracchiando. Anche
l'odore non è di animale, è l'odore della vendetta. Sento il sangue che co-
mincia a scorrermi sulla schiena, dove sono penetrati gli artigli. Lo colpi-
sco con i gomiti, con la testa, con i talloni, provo di tutto per scacciarlo.
Siamo così in alto che mi domando se qualcuno può sentire cosa sta suc-
cedendo e venire ad aiutarci.
Si leva un vento forte. All'inizio credo che sia proprio quello di cui ab-
biamo bisogno, ma mi accorgo subito che non ha effetto sul corvo. Anzi,
sembra aizzarlo.
Kate urla sotto di me, cerca di colpire con i pugni quella cosa mostruosa
sulla mia schiena. La bestia sembra ghignare, come se i nostri tentativi la
divertissero, e poi scaglia un attacco più deciso, puntando con il becco a
un'arteria sul mio collo. Non sfiora nemmeno Kate, ed è ovvio il perché: la
vuole.
Il sangue comincia a uscirmi dalla gola, colando sulla camicia di Kate.
Lei grida: «Jarrod, stai sanguinando!»
«Non è niente! Non ti muovere, non lascerò che ti prenda!»
«Vuole me, e non gli importerà di uccidere te. Fai qualcosa!»
«Cosa, per l'amor del cielo?»
«Usa il tuo dono!»
«Non so come!»
Il panico non mi sarà di aiuto. Cerco di liberarmi con il braccio e la spal-
la, mentre il sangue zampilla dalla ferita alla gola. Il corvo si solleva per
un attimo, dandomi il tempo di respirare, ma poi si rituffa su di noi, fa leva
sotto la mia spalla, e con una spinta poderosa mi butta a terra.
So di aver perso. Ho perso Kate. Il corvo enorme prende il mio posto.
Mi lancio su di lui con tutto il mio peso, ma non funziona. È come se lui
fosse d'acciaio e io di piume. Kate urla, e il suono riecheggia nella mia
testa come l'eco di mille campane. Il vento aumenta d'intensità, diventa un
ciclone che si muove contro di me. Devo combatterlo per rialzarmi. Il cor-
vo avvolge Kate con le ali e la solleva. Indugia per un attimo, con i neri
occhi fissi nei miei. Poi, con un movimento aggraziato, spicca il volo at-
traverso la finestra che guarda a nord, portandosi via Kate tra le ali.
Corro alla finestra e mi sporgo per afferrarla, rischiando di precipitare.
Per un secondo riesco a toccarle i piedi, ma le mie dita scivolano. Le sue
grida svaniscono man mano che il corvo si allontana in direzione di Bla-
cklands.
Mi lascio scivolare a terra, in preda alla più nera disperazione. La porta
si apre di schianto e Richard, Isabel, Morgana, Malcolm, Thomas ed Em-
meline, tutti sommariamente vestiti, entrano nella stanza. Hanno sentito le
urla di Kate, spiega Isabel, e tentato di raggiungere la torre, ma sulle scale
sono stati bloccati da una quantità di pipistrelli.
È la magia di Rhauk, ovviamente. «Ha preso Kate... Katherine» riesco a
dire, raggiungendo il letto. C'è talmente tanto sangue su quello che resta
della mia camicia, sia davanti che dietro, che non so più da dove provenga.
«Com'è potuto accadere?» grida Isabel. «Abbiamo raddoppiato la guar-
dia, stanotte».
Indebolito dall'emorragia, raggiungo una delle colonne del baldacchino e
cerco di tirarmi su. «Era lui, il corvo».
«Allora è vero» mormora Richard, facendosi il segno della croce e vol-
gendo lo sguardo verso Blacklands. «Da molti anni sappiamo quanto è
malvagio». Si rivolge di nuovo a me. «La notte che rapì tua madre, Lionel
disse che era stato un corvo. Nero, con gli occhi di Rhauk. Nessuno gli
credette, e pensammo che avesse temporaneamente perso il senno. Ma che
razza di fratello sono? Avrei dovuto dare la mia vita e la mia anima per
proteggerli. E ora mio nipote subisce lo stesso destino».
Scuoto la testa, ma non riesco a condividere il suo senso di colpa. I miei
pensieri sono con Kate, alla mercé di un pazzo pericoloso.
Morgana mi si avvicina con acqua e bende, e tenta di pulire le ferite. La
allontano, incapace di pensare ad altro che al dolore che provo, un dolore
che lei non può curare in nessun modo. «Come faccio a pensare a me stes-
so quando Katherine è nelle mani di Rhauk?»
«Devi lasciare che ti curiamo le ferite, Jarrod» dice una flautata voce
femminile, quella di Emmeline. «Morgana sa cosa fare. Lei è la migliore
guaritrice di queste terre. E non puoi affrontare Rhauk se muori dissangua-
to. Come potresti aiutare Katherine, allora? Avrai bisogno di tutte le tue
forze per salvarla».
La ragazza ha ragione, anche se la sua voce suona davvero falsa. Mi tor-
na in mente, all'improvviso, la forza di quel vento. Ora è svanito, perciò
provo a concentrarmi, come mi ha consigliato Kate. E quello ricomincia,
piano all'inizio, ma abbastanza forte perché io capisca... il vento è mio!
Lo ha creato una forza interiore, che però non riesco ancora a inquadra-
re.
Mi concentro ancora di più. In pochi secondi cresce di intensità, fino a
diventare un uragano. Niente resta al suo posto, gli arazzi si strappano, il
corpo esile di Morgana vola dall'altra parte della stanza, vasi e suppellettili
si schiantano ovunque, lo posso farlo davvero! La consapevolezza è una
cosa incredibile, che rafforza la mia concentrazione, e l'intensità del vento.
«Che cosa succede?» urla Richard, afferrandosi al baldacchino per non
essere scagliato via come gli altri.
Dovrò dirglielo, visto che ho bisogno del loro aiuto, ma non voglio spa-
ventarli. E non ho né la pazienza né la conoscenza necessarie a spiegare
cose che nemmeno io capisco bene. Dovrò pensare a un modo per non
metterli troppo in allarme. Ma ora c'è un unico pensiero nella mia mente:
riprendermi Kate.
Camminando controvento raggiungo la finestra a nord. «La riporterò a
casa!» grido nell'oscurità.
So che Rhauk mi sta ascoltando.
Kate
Ancora prima di aprire gli occhi so che è mattina. Il sole splende, anche
se debolmente, vista la stagione. L'aria ha un forte sapore di sale, e il suo-
no delle onde che s'infrangono rimbomba nella mia testa. Se solo quello di
ieri notte fosse stato un sogno, un incubo... In quel caso ci potrei stare. Ma
quando costringo i miei occhi ad aprirsi vedo che non sono nella torre di
Thorntyne Keep, e Jarrod non c'è.
È ovvio che non è stato un sogno. Chi voglio prendere in giro? I segni
della lotta con il corvo sono ben evidenti sul mio braccio e su una guancia,
gonfi e arrossati. Il davanti della mia camicia è sporco di sangue. Il sangue
di Jarrod.
La stanza dove mi trovo, però, è davvero bella. Il letto è coperto di raso
bianco. Ci sono tende blu alle finestre, e un arazzo enorme con una scena
di caccia: cavalli, cani e un cavaliere nero in pompa magna in sella a un
enorme stallone nero. Occupa quasi tutta la parete di fronte. A terra, a lato
del magnifico letto a baldacchino, ci sono un tappeto e un tavolino su cui è
posata una bacinella di ceramica con una brocca.
Corro alla finestra per vedere se in qualche modo sia possibile scendere
o saltare giù. Ma è uno strapiombo, alto circa tre piani, che termina su una
scogliera frastagliata. L'oceano, di un intenso verdeazzurro, s'infrange con-
tro le rocce aguzze.
Percepisco la presenza di Rhauk, e la sensazione mi spaventa. Ma perché
sono così consapevole di lui? Percepisco che sa che sono sveglia e che è
ugualmente conscio della mia presenza. I brividi che sento non hanno nulla
a che vedere con il fatto che indosso solo la camicia da notte, e siamo in
autunno.
Mi volto al suono dei suoi passi sul legno liscio del pavimento. In cia-
scuna mano porta un calice di peltro. Beve un sorso da uno - e una goccia
color rubino indugia per un attimo sul suo labbro inferiore - e mi porge
l'altro. «Un brindisi per festeggiare» dice, in tono disgustosamente com-
piaciuto.
Incrocio le braccia sul petto. «Vai all'inferno».
Inarca le sopracciglia e si avvicina, in modo che io possa prendere il ca-
lice e sentire il suo fiato pungente. «Mai senza di te, mia cara».
La sua determinazione è ferrea. Per un secondo mi torna in mente il por-
caio e la sua accoglienza non proprio calorosa verso i parenti di Lord Ri-
chard. Prendo il calice, bevo una sorsata del dolce vino rosso di Rhauk e
glielo sputo in faccia.
Per un istante lui sembra sorpreso e infuriato. Penso che stia per colpir-
mi, cosa che in questo momento non mi preoccupa particolarmente. Mi
sento così carica che sono pronta a ricambiare, lì dove fa più male, più
forte che posso.
Ma la sua reazione è imprevedibile. Scoppia a ridere, una risata di cuore,
estrae un fazzoletto di raso nero e si asciuga il viso senza smettere di sorri-
dere. «Tu e io saremo una coppia formidabile, mia cara».
«Non pensarci nemmeno. Non resterò a Blacklands. Qualsiasi cosa tu mi
faccia, troverò il modo di batterti».
«Non ne dubito».
Per un istante la sua risposta mi spiazza. Sta forse accettando la sconfit-
ta? Ora sono io a dubitare. È evidente che ha un altro piano. Attraversa la
stanza, posa il calice sul tavolino, contempla la brocca di ceramica con tale
intensità che si direbbe stia guardando una foto della mamma, poi i suoi
occhi penetranti tornano su di me. «C'è solo un modo in cui Jarrod può
impedirmi di mettere in atto la mia efficacissima maledizione».
«Sarebbe?» chiedo, scettica.
«È molto semplice. Un piccolo scambio».
Il terrore mi chiude all'istante le vie respiratorie. «Che tipo di scambio?»
Un sorriso astuto gli si forma lentamente sulle labbra. «Te, in cambio
della maledizione».
«No».
«Ti consiglio di pensarci meglio, mia diletta».
«Non ho bisogno di pensarci. E non chiamarmi in quel modo».
Lui ride. «Io ti chiamo come più mi aggrada. Non puoi impedirmi nulla,
tu appartieni a me ora».
Si avvicina, sfiora la mia guancia con un dito gelido. Tiro indietro la te-
sta. «Stai lontano da me».
«Oh, per ora lo farò. Vedi, devo ancora riprendermi dalla delusione. Al-
l'inizio avrei giurato che eri vergine. Proprio come la mia Eloise».
Mi costringo a non reagire, a non smentire l'illusione. Rhauk ha un intui-
to superiore, ma non dovrà mai scoprire che Jarrod e io non siamo sposati,
né tantomeno amanti. «E ora che sai la verità, mi vuoi ancora? Perché non
prendere qualche innocente ragazza del villaggio?»
«È semplice, mia cara. Ne ho avute a dozzine e mi annoiano. Ma tu, ora
che ho avuto un assaggio dei tuoi talenti, sei un'altra cosa. Sarai perfetta
come Regina di Blacklands».
La sua sfacciataggine mi snerva. «Q-q-quanto dovrei restare con te?»
Il sorriso diventa un ghigno. «Non ti facevo così ingenua, Lady Kate. La
maledizione è per l'eternità. Io invece ti voglio solo per il resto della tua
vita». I suoi occhi neri fissano i miei. «Mi sembra equo, non ti pare?»
Sbuffo sonoramente. «E se rifiuto?»
Lui scrolla le spalle. «Oh, be', allora Jarrod morirà».
Riesco a malapena a respirare. Il petto mi fa male. Dio, quanto odio que-
st'uomo. Non rappresenta solo il male, è il male stesso. Forse le voci su di
lui sono vere, forse nelle sue vene scorre davvero il sangue del diavolo.
«Verrà a riprenderti» continua lui, sempre più compiaciuto. «Ci sarà una
sfida formale. È già stato qui a far chiasso fuori dai cancelli. Ma è troppo
debole, sia nel fisico sia, ecco... nella mente».
«Jarrod è stato qui?»
Assume un'aria annoiata. «Ha capito subito che i suoi patetici tentativi
erano inutili, senza qualcosa di più forte di un pugno di soldati. La sua
magia è ignota alla sua volontà e alla sua mente. L'inesperienza sarà causa
della sua rovina. Questo, naturalmente, se tiene a te al punto da sfidarmi a
duello. Altrimenti, c'è sempre la sua deliziosa cugina a intrattenerlo».
Emmeline. Un altro dei giochetti di Rhauk. Cerco di ignorare il com-
mento e taccio.
Allunga la mano e mi afferra il mento. «Una sfida formale è l'unico mo-
do per attirarmi fuori dal mio castello». Le sue dita sono come artigli di
ghiaccio. «Se accetti la mia offerta, cara, questo ragazzo che gioca a fare
l'uomo sarà libero di tornare a casa illeso. È una seccatura, non lo voglio
qui. Ma di certo se ne potrà andare unicamente senza di te».
Il calice di peltro trema incontrollabilmente, e lo afferro con entrambe le
mani. Rhauk allontana la mano dal mio viso, in modo che possa risponde-
re. «Come faccio a sapere che non scaglierai ugualmente la maledizione,
che io rimanga o meno?»
«Sarai qui per sincerartene». Mentre rifletto, lui prosegue: «Naturalmen-
te, quello sciocco ragazzo potrebbe decidere di sfidarmi, anche dopo che tu
l'avrai convinto che desideri restare a Blacklands. In entrambi i casi avrò il
mio tornaconto. Non scaglierò la maledizione se tu rimarrai; starà a te con-
vincere Jarrod a non sfidarmi. Se lui persevera, ebbene, non mi resterà
altra scelta che ucciderlo».
Lo guardo, senza parole. Mi sta chiedendo troppo. La mia vita sacrifica-
ta a un pazzo furioso, in cambio della salvezza per la famiglia di Jarrod. E
comunque Jarrod potrebbe morire. Non è giusto. Rhauk mi guarda atten-
tamente.
«Voglio la tua risposta entro il tramonto. Nel frattempo, vieni» dice, of-
frendomi il braccio. «Lascia che renda la tua decisione più semplice. Ti
mostrerò Blacklands, le sue meraviglie, il potere che può essere nostro».
Rifiuto il suo braccio e bevo una lunga sorsata di vino, dopodiché sca-
glio a terra il calice vuoto.
Lui sembra soddisfatto, e un sorriso compiaciuto gli compare sulla fac-
cia. «Ah, che spirito. Sarai la mia più grande sfida, mia cara. Ma sarai
mia».
Ora lo odio ancora di più, se possibile. Però, visto che ho tutto il giorno
per pensare, decido che è meglio approfittare dell'occasione. Forse, più
cose vedrò di Blacklands, più possibilità avrò di scoprirne le debolezze.
«Mostrami la maledizione».
«Vieni» sussurra lui, deliziato.
Lo seguo lungo un lungo corridoio buio fino a una scala a chiocciola che
porta all'incirca a metà del cielo. La torre è circolare, cosa insolita in que-
sto periodo, e luminosa, anche se fredda e ventosa. Ci sono molte finestre
aperte. Comincio a tremare nella mia sottile camicia da notte, la brezza
gelida mi penetra nelle ossa. Rhauk sembra non curarsi del freddo.
La mia conoscenza piumata, il corvo, nella versione più piccola stavolta,
sta appollaiato su una barra sospesa al soffitto per mezzo di catene. Rhauk
pesca qualcosa dalla tunica. Il corvo la becca avidamente e poi reclina la
testa per ricevere la carezza del padrone, a mo' di ringraziamento.
Mi guardo intorno nella stanza, meravigliata dal disordine caotico che vi
regna. È stipata di panche, tavoli e scaffali disposti a casaccio, contenitori
pieni di polveri, cristalli e pietre multicolori, dal nero a tutte le possibili
sfumature del rosso, al blu elettrico. Ci sono liquidi di strani colori e stru-
menti da mago: campane, bacchette, una daga dalla lama insolitamente
lunga. E naturalmente il manuale classico, Il Libro delle Ombre. Noto an-
che un assortimento di rozzi apparecchi di distillazione, e immagino che di
questi tempi siano il massimo della tecnologia. Il pavimento presenta pic-
coli buchi e bruciature provocati dalla caduta di composti chimici durante i
tanti esperimenti di Rhauk.
Un calderone in particolare mi interessa; mi sento stranamente attratta.
Gli occhi di Rhauk mi seguono. Sento di avere la maledizione a portata di
mano e mi chiedo quanto sia difficile distillare, che tipo di ingredienti usa-
re. Jillian lo saprebbe.
Mi avvicino al calderone per guardare meglio. All'inizio resto delusa. Mi
volto verso Rhauk. «Dov'è la pozione? Hai detto che la stavi distillando».
«La stai guardando, mia cara».
Indico il paiolo. «Questo è vino rosso».
«Oh, certamente».
Aggrotto la fronte davanti al suo sorriso soddisfatto. Poi guardo di nuo-
vo il vino, e resto attonita. «Mio dio, è il vino. Hai distillato la maledizione
nel vino».
Lui scoppia a ridere con entusiasmo quasi infantile. «Sei intelligente, ca-
ra, ma mai quanto me. Questo vino estinguerà la sete dei Thorntyne per
generazioni. È una questione di qualità, vedi» spiega, con gioia maligna.
«Aah, è così soave, così dolce che solo Lord Richard in persona, i suoi
parenti più stretti e forse qualche stimato ospite avranno l'onore di berlo».
So che il piano funzionerà. Dopotutto, questa è la maledizione che per-
seguita i Thorntyne da ottocento anni. Superba, nella sua semplicità. Il
vino a Thorntyne Keep è molto rozzo. Lord Richard apprezzerà questo, e
lo riserverà per sé e le uniche altre persone che ama, cioè i suoi familiari.
C'è solo una cosa che voglio sapere. «Cosa ti fa pensare che Lord Richard
accetterà questo vino da te? Non avrà dei sospetti?»
«Quell'idiota del mio fratellastro crederà che si tratti di un dono del re».
«Hai previsto tutto, non è vero?»
Lui inarca un sopracciglio, reclinando appena la testa verso di me. «Tut-
to».
Include anche me. Mi volto verso una delle tante finestre, quella che
guarda a sud verso Thorntyne Keep. Mi domando cosa stia facendo ora
Jarrod, che cosa pensi. Era qui questa mattina presto, fuori dalle mura.
Allungo il collo per guardare giù, ma non c'è nessuno, nessuno sulla lunga
strada che porta al castello e s'immette nel bosco. Tento di sondare la sua
mente, ho bisogno di sentire la sua forza, di sapere come sta, ma la distan-
za mi rende cieca. Mi viene in mente che forse è morto, le ferite inferte dal
corvo erano troppo gravi. Potrebbero essersi infettate e averlo avvelenato.
In un moto di panico mi balzano agli occhi le macchie di sangue sulla mia
camicia. Automaticamente, le mie dita le sfiorano.
«È vivo» dice Rhauk all'improvviso, facendomi sobbalzare. Per un se-
condo penso che possa leggermi nel pensiero. Ma poi capisco che la mia
espressione mentre guardo Thorntyne Keep è più che eloquente. Mi volto
verso Rhauk, guardandolo con occhi pieni di odio. Lui mi ignora. «Ma
quello sciocco ragazzo ha sprecato le sue energie venendo qui questa mat-
tina, dopo aver perso tanto sangue ieri. Richard avrebbe dovuto avvertirlo
che non c'è modo di entrare a Blacklands senza invito».
Mi sento ribollire dalla rabbia. «Tu gli hai fatto questo!»
«Ha ha» cantilena lui, accarezzando la testa del corvo. «Non ero io, mia
adorata, ma il corvo. Possibile che non lo ricordi?»
«Quel corvo eri tu!»
Lui finge di restare a bocca aperta per lo choc. «Stai scherzando».
«Come ci riesci?» Mi vengono i brividi. Solo i maghi più potenti, quelli
leggendari, hanno questa capacità. Anche se sono cresciuta con la magia, il
solo pensiero dell'arte di mutare la forma mi terrorizza. Non è umano.
«Come fai ad assumere la forma di un corvo?»
I suoi occhi neri scintillano in modo strano. «Resta con me, Kate, e te lo
mostrerò. No! Te lo insegnerò».
La sola idea mi dà il voltastomaco. «Non ho voglia di trasformarmi in un
uccello, né niente del genere, grazie».
«Ah be', alla fine la scelta è tua». Si volta e prende qualcosa da uno dei
tavoli. È un mantello marrone, lungo. Me lo lancia. «Hai tempo fino al
tramonto per prendere una decisione. Fino ad allora» s'inchina, stendendo
il braccio in un gesto ipocrita di reverenza, «sei la mia ospite d'onore. An-
diamo dunque a fare colazione, poi ti mostrerò il resto di Blacklands».
Lo seguo meccanicamente, gettandomi il mantello sulle spalle, rinfran-
cata da quel po' di calore e protezione.
Solo molto più tardi mi ritrovo da sola nella mia stanza. Ci sono degli
abiti sul letto, una semplice veste blu, molto elegante, di stoffa morbida e
setosa. C'è anche della biancheria, e stivali di cuoio. Sono riluttante a in-
dossare cose di proprietà di Rhauk, ma i vestiti mi servono, se non altro
per essere meno a disagio in sua presenza.
Mi cambio e mi stendo sul letto, esausta. Trascorro le ultime ore del
giorno a riflettere su quello che ho visto e su ciò che Rhauk ha detto. Non
è solo un mago di talento, è fuori di senno. Le prove della sua magia sono
ovunque, non posso negarlo. I suoi giardini sono incredibili, lunghe file di
piante da frutto esotiche e verdure, molte delle quali crescono fuori stagio-
ne, e altre che non avrebbero nessuna possibilità di maturare sotto il freddo
sole britannico. E che astuta, la trovata del vino stregato. Un dolce vino per
un signore crudele; e sarà proprio l'avidità di Richard la causa della rovina
della sua famiglia. I Thorntyne berranno quel vino per il resto della loro
vita, ignari del fatto che agirà sui loro geni, che renderà maldestre e sfortu-
nate tutte le loro generazioni future. Ma il vero potere è quello di restare
latente fino al settimo nato. Questa è la vera magia, e la sventura che ac-
compagna quel figlio e i membri della sua famiglia.
È questa la ragione per cui Jarrod e io siamo qui. Ma qual è il prezzo da
pagare per interrompere la maledizione? Le nostre vite? Jarrod non so-
pravviverebbe mai a una sfida con Rhauk. E quanto a me, la mia vita sa-
rebbe un inferno. Non potrei più tornare a casa, rivedere Jillian. Il solo
pensiero di vivere il resto della mia vita a Blacklands, con Rhauk, è così
insopportabile che mi vengono le lacrime agli occhi. Le ricaccio a fatica.
Il sole sta rapidamente scomparendo dietro un orizzonte dorato. Rhauk
verrà molto presto a sentire la mia risposta. Devo fare una scelta, ma ne ho
una? Nel profondo so che devo solo convincere Jarrod a tornare a casa da
Jillian... senza di me. Almeno in questo modo la maledizione verrà fermata
e uno di noi potrà continuare a vivere la sua vita.
Una parte di me muore nel momento in cui formulo questo pensiero. Ma
come altro possiamo fare? Rhauk è troppo potente per Jarrod e me. Se
scelgo di restare qui potrà soddisfare la sua sete di vendetta.
Non consegnerà quel vino in dono.
Il prezzo per la libertà di Jarrod sarà la mia prigionia.
Jarrod
Richard ha ragione. Mi aveva avvertito che Blacklands è protetta dalla
magia di Rhauk. Eppure mi ha accompagnato lo stesso questa mattina,
insieme a Malcolm, Thomas e a una dozzina dei suoi migliori cavalieri. È
stata una spedizione inutile, però. I cancelli di Blacklands non si aprono se
Rhauk non vuole, le mura sono protette da un incantesimo.
Sulla via del ritorno a Thorntyne Keep, Richard mi convince a fare cola-
zione nel salone. Non ho fame, ma so che la battaglia di ieri sera mi ha
indebolito. Morgana ha ricucito la ferita alla gola, dove il Rhauk-Corvo ha
affondato il becco, e ha applicato un disinfettante vegetale sui graffi lascia-
ti dagli artigli.
Sono così preoccupato per Kate che il mio stomaco è annodato. Non rie-
sco a pensare ad altro che a riportarla qui. Il cibo sembra di cartone, ma mi
costringo a mangiare per recuperare le forze. Naturalmente so che non
basterà a riavere Kate; ho bisogno della forza del mio dono. E dovrà essere
qualcosa di più che la capacità di scatenare un tifone. Ho bisogno di magi-
a.
Kate crede che io la possegga. È arrivato il momento di affrontare la re-
altà, accettare la mia natura ed esercitarmi. E per questo ho bisogno
dell'appoggio di Richard. Queste persone diffidano profondamente del
paranormale, è anche per questo che odiano tanto Rhauk. A parte il fatto
che lui vuole le loro terre, sanno che è padrone delle arti magiche, e questo
li terrorizza. Io non ho voglia di finire in qualche segreta, o peggio ancora
sottoterra, lasciando Kate a Blacklands per sempre.
Perciò procedo cautamente. «Devo sfidare Rhauk».
Richard batte il pugno sul tavolo, stringendo ancora in mano il cosciotto
che stava addentando. «Impossibile! Credi che non abbiamo mai tentato?»
Sento che è preoccupato per me. Faccio parte della famiglia, e questo si-
gnifica molto per lui. Spero che se lo ricorderà, dopo che gli avrò spiegato.
«Con il tuo aiuto, mio signore, posso batterlo sul suo stesso terreno».
«Rhauk è uno stregone!» esclama Malcolm, seduto accanto al padre.
«Come pensi di superare le sue astuzie, cugino?»
È l'aggancio che mi serve. «Con la sua stessa medicina. La magia».
Sulla tavolata cade un silenzio di tomba. Perfino Isabel, che si unisce di
tanto in tanto alla nostra conversazione, sobbalza. «Senza dubbio stai
scherzando».
Li guardo entrambi, Richard e Isabel. Anche se è lui il padrone, si affida
alla moglie per prendere molte decisioni. «Non voglio spaventare nessuno.
Capisco solo ora i miei talenti e non vi farei mai del male. Voglio solo
combattere Rhauk e riprendere Katherine».
Malcolm si alza da tavola e mi guarda con occhi di fuoco, puntandomi il
dito contro. «Stregone! Sei tu che hai provocato le tempeste! Una volta
qui, e ieri notte nella torre!»
«Sì» ammetto, affrettandomi a spiegare prima che Malcolm mi procuri
dei guai. «Ma allora non capivo i miei poteri. Ora invece sì. Vi prego, ho
bisogno del vostro aiuto. Voglio distruggere Rhauk, devo distruggerlo».
«E noi con lui!» Ora Malcolm ha l'attenzione di tutti.
«No! Io voglio soltanto Rhauk».
Malcolm porta velocemente la mano alla spada, e solo una rapida mossa
di Richard gli impedisce di estrarla. «Basta, Malcolm. Come tuo padre e
tuo signore, te lo ordino!»
Malcolm si ferma; il suo sguardo è come una lama color smeraldo.
Richard si rivolge a me, pensoso. «Di cosa sei capace?»
Scrollo le spalle. «Non ne sono sicuro, questo è il problema. Devo sco-
prirlo. Ma non voglio spaventare nessuno. Se voi capirete che ciò che fac-
cio non ha intenzioni malvagie, allora potrò esercitarmi».
«Io posso aiutarti».
«Cosa? Padre, sei impazzito?»
«Fai silenzio, Malcolm! Ho vissuto tutta la vita nell'ombra di Rhauk, e
un giorno, come signore di queste terre, toccherà a te. Solo un altro adepto
delle arti oscure può avere la possibilità di sfidare quel demonio».
Ho le pulsazioni a duemila, ma il sostegno di Richard è incoraggiante.
«Che cosa ne dici, mia cara?» domanda a sua moglie.
Lei resta pensierosa a lungo, guardandomi con la fronte aggrottata. «Io
sono arrivata ad avere fiducia nei modi e nella fedeltà di Jarrod. Credo che
tu debba offrirgli tutto il sostegno di cui necessita».
Sorrido, con gratitudine e sollievo.
«Mia signora, è un oltraggio!» urla Malcolm alla madre. «State conse-
gnando a quest'eretico l'eredità su un piatto d'argento! Se aiutiamo questo
scellerato, e lui diventa potente, forse anche più di Rhauk, chi gli impedirà
di prendersi Thorntyne Keep?»
Isabel e Richard aspettano ansiosamente la mia replica. Cerco di mante-
nere un tono calmo e sicuro. «Avete la mia parola» dico. «La parola di un
Thorntyne».
Speriamo che basti.
Kate
Parto per Thorntyne Keep all'alba del giorno seguente, in sella allo stal-
lone nero di Rhauk, Ebony Prince. È una bestia enorme, ma sorprendente-
mente facile da governare. Ha un dorso poderoso, però è tranquillo e stabi-
le. Come se fosse stato programmato, sa esattamente dove andare, e mi
porta dritto alle mura del castello.
Malcolm è di guardia, con molti altri soldati compreso Thomas, che non
nasconde il suo sollievo nel vedermi sana e salva. Un Malcolm molto teso
mi annuncia che mi condurrà da Jarrod. Lo seguo in un cortile privato do-
ve lui, nudo fino alla cintola, osserva i petali di una rosa rossa.
Trattengo il respiro alla vista delle ferite sulla schiena e alla lunga fila di
punti sul collo. Sembrano lesioni molto serie e devo resistere alla tentazio-
ne di corrergli incontro. Mi dico che le ferite sono recenti e che probabil-
mente il loro brutto aspetto è normale. Perlomeno sono state curate da una
persona capace, e di questo sono felice. Le dita corrono meccanicamente
all'amuleto sotto i miei abiti, e la sensazione mi conforta. Mi dispiacerà
separarmene.
Malcolm si schiarisce la gola e Jarrod si volta. L'amuleto di Jillian riflet-
te la luce del sole. «Kate!»
È solo una parola, ma esprime tante cose: sorpresa, sollievo, passione.
Devo sforzarmi di assumere un'espressione che simuli calma, controllo,
perfino disinteresse. «Jarrod, spero che le tue ferite stiano guarendo».
«Morgana è una guaritrice molto dotata. A tua nonna farebbe piacere
conoscerla».
La mia espressione frena il suo impulso di corrermi incontro e stringer-
mi. Lo vedo, lo sento, che è quello che vorrebbe. Mantengo le spalle rigi-
de, il mento su, cercando di apparire superiore. È difficile, ma Jarrod dovrà
credere a ogni parola. Malcolm si congeda con un cenno della testa.
«Ti ha fatto del male?» mi chiede Jarrod, facendo un passo verso di me.
«Assolutamente no, è stato molto affascinante con me» mento, e mento,
e mento.
«Davvero? Be', la tua faccia è piena di graffi».
Sto per portarmi le dita alle guance, ma mi trattengo. «È stato il corvo».
«È stato Rhauk!»
A fatica, cerco di ignorare il suo tono ostile. «È un uomo molto intelli-
gente».
«È malvagio».
Sono perfettamente d'accordo, ma non devo dimostrarlo. «A dire il vero,
Jarrod, la sua magia m'intriga».
Lui inarca un sopracciglio. «Cosa? E quanto t'intriga?»
Ecco, è il momento. «Al punto che ho deciso di restare con lui».
Lui mi guarda, immobile. Poi, quando temo di crollare sotto il suo
sguardo, dice: «Stai mentendo».
Certo, ma lui non deve saperlo. La sua libertà e la sua vita dipendono da
quanto riesco a essere convincente. Perciò mi volto, fingendo interesse per
il cespuglio di rose appena potato e domandandomi da dove venisse, allo-
ra, quella rosa sbocciata. So che i miei occhi sono la chiave d'accesso alla
mia anima. «Mi ha offerto di fare di me la sua regina. Vuole condividere i
suoi poteri con me, insegnarmi quello che sa. E un'opportunità che non
posso...»
«Sono stronzate, Kate! Sono tutte bugie! Come hai potuto cascarci? Ti
sta solo usando!»
«No, non è vero. Lui mi desidera».
Parla pianissimo, ma sento ogni parola. «Anche io ti desidero».
Stringo le labbra, ricacciando il groppo in gola. «Be'» dico voltandomi
verso di lui, decisa ad andare sino in fondo. «Io voglio lui». E prima di
andare in pezzi, mi sfilo l'amuleto e lo metto in fretta nelle sue mani. «Ne
hai bisogno per tornare a casa. Ricordati le parole».
Lui mi guarda scuotendo la testa, incredulo. «Non puoi dire sul serio».
«Invece sì, Jarrod. Sono mortalmente seria». È vero. Mi sento già morta,
dentro.
«E cosa ti ha promesso Rhauk in cambio? La fine della maledizione?»
Mi sforzo di non mostrare sorpresa, di mantenere la mia faccia impassi-
bile e quasi annoiata. «È uno scambio equo».
«La tua vita, Kate, è più importante di uno scambio di promesse che non
sai se lui manterrà!»
«Le manterrà, Jarrod. Io sarò lì ad assicurarmene».
«È per questo che rimani?»
«No!» Dio, è così vicino alla verità. «Resto perché lo voglio».
«Stai mentendo».
Stavolta devo convincerlo sul serio. «Senti, lo so che è difficile da accet-
tare, specie dopo... be', dopo l'altra notte». Mi sento avvampare al ricordo
del tocco delle sue mani. «Finalmente ho trovato il mio posto in questo
mondo, con Rhauk. Tu sai che nell'altro io sono un'emarginata. Non posso
praticare la magia. Non ho nessuna libertà, nulla di paragonabile a quello
che avrei qui con lui. È un maestro, Jarrod. E sono stufa del modo in cui
mi trattano dall'altra parte. Voglio vivere dove sono la benvenuta, dove
sono accettata. Sono sicura che capirai».
E so che farà male, ma devo. Cerco di far vibrare la mia voce di odio. «E
tu sei stato peggiore degli altri, con il tuo finto interesse. Pensavo che fossi
mio amico, ma l'hai mai dimostrato in pubblico?»
Mi si stringe il cuore alla vista dell'espressione desolata sulla sua faccia.
«Non voglio vivere in quel modo, Jarrod. Qui, con Rhauk, non ho impe-
dimenti. Posso praticare la mia magia e imparare da un vero mago».
«Lo sfiderò lo stesso».
«Ma allora non mi ascolti?» Mi prende il panico. «Non devi, sei libero.
Usa gli amuleti, di' le parole che Jillian ci ha insegnato. Sarai a casa in un
minuto, e tutto sarà diverso. La tua famiglia vivrà una vita normale, senza
più disastri. Non si meritano questa possibilità? E tu? Pensaci, Jarrod: puoi
tornare da Tasha, Jessica, Bicipite e Ryan, e goderti la vita che ti meriti».
«Mi credi davvero così superficiale, Kate? Come potrei tornare sapendo
che ti ho lasciata qui con quel mostro? Al posto mio?»
«Io lo voglio. Non voglio quello che tu mi offri».
Stavolta le mie parole hanno l'effetto sperato. Ma poi i suoi occhi torna-
no increduli e sento che i suoi dubbi riaffiorano. «Voglio sfidarlo lo stes-
so» ripete, testardo.
Dio, ma perché è così difficile? Cerco di impedirmi di urlare. «Per l'a-
mor del cielo, Jarrod, non mi stai ascoltando!»
Lui stringe gli occhi, mi guarda con espressione astuta. «Come mai sei
tanto nervosa? Perché è tanto importante che io torni a casa?»
Perché sarà tutto inutile se muori! Mi prendo un momento per inventare
qualcosa che lo faccia allontanare senza rimorsi. Ecco, ora lo so. Mi volto
e lo guardo dritto negli occhi. «Ho paura che possa accadere qualcosa di
male a qualcuno».
Il suo viso si distende e accenna un sorriso, e la sua mano fa per toccar-
mi.
Lo ignoro. «Ora che hai coscienza dei tuoi poteri, è possibile che tu pos-
sa fargli del male».
Lui si blocca. «A lui?»
Annuisco. È come se in bocca avessi la sabbia del deserto.
La sua mano ricade, si stringe in un pugno bianco.
«Rhauk! Stai proteggendo lui!»
Cerco di inumidirmi il palato. «Certo. Chi altri?»
Lui sbarra gli occhi, spalanca la bocca. Poi si ricompone. «Lo ami?»
Di nuovo, mi si stringe il cuore. Deglutisco. «Lui è la mia vita, ora. Non
voglio nessun altro».
Non c'è altro da dire. Non posso restare qui e guardare l'espressione sul
suo viso nemmeno per un secondo senza crollare e dirgli tutto. Giro sui
tacchi e me ne vado. Torno da Ebony Prince, da Rhauk. Ma non dimenti-
cherò mai quello sguardo.
Era devastato. E furioso. Spero che lo diventi ancora di più, al punto che
afferrerà quegli amuleti, li spaccherà e dirà le parole latine impresse nelle
nostre menti, prima di fermarsi a pensare.
Ho bisogno che lui lo faccia, per dare un senso al mio sacrificio.
Jarrod
Non posso crederci. Kate è tornata. Avrei voluto stringerla per sempre,
non riesco neanche a dare un nome a quello che sentivo. Malcolm, ancora
risentito e ostile, l'ha portata da me. L'ho ignorato, perché ho sentito subito
che in Kate c'era qualcosa di strano. Malcolm ci ha lasciati soli, ma co-
munque non ho potuto avvicinarmi. Lei aveva quella faccia che diceva
'non toccarmi, non ci pensare nemmeno'. All'inizio ho pensato che Rhauk
le avesse fatto del male, in senso fisico, o emotivo, o tutti e due. Perciò
sono stato attento a non saltarle addosso. Ma poi, a quanto pare, lui non le
ha fatto nulla, almeno a quanto dice lei.
È difficile crederle, ma è stata così convincente.
Ora se ne sta andando. Ho voglia di correrle dietro, di riportarla qui, ma
le mie gambe non si muovono. Mi sento a pezzi. Vorrei odiarla. Vorrei
metterle le mani alla gola e scuoterla finché non torna in sé. Stringo forte il
pugno attorno all'amuleto di Kate. Mi sfilo il mio e li stringo insieme. Una
pressione un po' più forte e il cristallo si romperà. Potrei essere a casa in un
secondo.
Ma non posso. Non ora, perlomeno. Non finché non sono sicuro delle
motivazioni di Kate. Se lei non amasse tanto quest'epoca, se non amasse
tanto la sua magia, direi per certo che lo sta facendo per me. Come faccio a
dire qual è la verità? Lei è stata molto convincente. Eppure, anche se esiste
una sola remota possibilità che lei stia sacrificando la sua vita per me, non
posso voltarle le spalle. Piuttosto morirò.
E non è improbabile che accada, se decido di sfidare Rhauk. Ma non so-
no tanto stupido da tentare senza fare prima un po' di addestramento. Il
poco che ho imparato basta appena a controllare il flusso di energia che si
libera quando perdo la calma. I venti, che spesso si sono trasformati in
tempeste e cicloni, non si levano più, a meno che io non lo voglia. È un
piccolo risultato, ma mi dà la sicurezza di poter educare il mio dono. Que-
sta mattina ho giocato con il giardino di Isabel, che aveva appena potato le
rose. Ho creato un bocciolo e l'ho guardato fiorire e appassire nel giro di
pochi secondi.
«Jarrod?»
È Emmeline. Oh no, ancora. La ragazza si annoia a morte. La capisco,
chi resisterebbe a ricamare arazzi tutto il giorno? Sfortunatamente non c'è
nulla che possa fare per aiutarla. E mi sa che un videogame tascabile è
fuori questione. «Emmeline, che c'è stavolta?»
Lei siede su una panchina di pietra, raccogliendo le lunghe gonne color
malva attorno alle caviglie. Così facendo riesce a mostrare, come per caso,
non solo le caviglie ma anche una porzione dei bianchissimi polpacci. Mi
viene da ridere, mentre una fugace visione di ragazze stese a prendere il
sole in bikini ridottissimi mi attraversa la mente.
«Una piccola richiesta» mormora lei, facendo il broncio.
Mi siedo accanto a lei, cercando di non sbuffare troppo forte. «Dai, dim-
mi».
«Quando te ne andrai di qui, voglio che mi porti con te».
«Ma...»
Lei alza una mano per zittirmi. «Aspetta, Jarrod. Stammi a sentire, per
favore. Tu non sai com'è la vita qui. Io voglio viaggiare, vedere il mondo.
Il tuo mondo».
«Cosa ti fa pensare che da dove vengo io sia meglio di qui?»
«Per forza dev'esserlo. Guardati. Sei così istruito, sai tante cose».
«Mi dispiace, Emmeline. Quando Katherine e io ce ne andremo di qui,
non saremo diretti dove pensi tu».
«Non andrete a casa?»
Non voglio mentire, ma neanche posso dirle la verità. «Non esattamen-
te».
Lei emette un sospiro drammatico. «Non importa dove mi porterete. Io
non sopporto più di vivere qui. Sto diventando pazza, poco a poco. E tu
avrai bisogno di compagnia durante il viaggio, Jarrod. Qualcuno che ti
tenga caldo di notte».
La guardo. Questa ragazza vive decisamente nell'epoca sbagliata. Pur-
troppo le è andata male. «Ho già Katherine».
Lei fa una smorfietta. «Oh, certo. Chissà cosa mi era venuto in mente?»
Si alza, rassettandosi le gonne.
«Io la riporterò a casa, Emmeline».
«Hmm, forse la vita a Blacklands comincia già a piacerle. Nel villaggio
circolano molte voci, le ragazze dicono che Rhauk non manca di fascino».
Mi alzo anch'io, col desiderio impellente di strangolarla. Mi domando se
questo cambierebbe il corso della storia. Ma lei non batte ciglio, si limita a
passarmi le unghie sulla spalla, in modo che lascino piccoli segni rossi, e a
sorridere in modo provocatorio. Il messaggio è molto chiaro, peccato che
mi faccia venire voglia di vomitare.
«Forse dovresti andarci tu, da lui» suggerisco.
In quel momento arriva Malcolm, e osserva con molto interesse la sce-
netta. Anche Emmeline lo vede, e fa un cenno con la mano. A me rivolge
un sorriso astuto che non coinvolge anche i suoi occhi. Poi ride, una breve
risata cinica. Mi dà l'impressione che di Rhauk lei sappia già tutto.
«Che è successo?» domanda Malcolm.
«Si annoia. Dovresti portarla a caccia».
Lui ride. «Trova che cavalcare sia di pessimo gusto. È la vita di corte
quella più adatta a quella sfacciata».
«Se ne vuole andare».
«Quando comanderò io lo farà, non prima. Mio padre è al corrente delle
mie intenzioni quanto io lo sono delle arti di seduzione di lei. Le ha prova-
te anche con me, Jarrod». Poi, a voce bassa: «Stai attento, cercherà di met-
tere zizzania fra te e Katherine».
Aggrotto la fronte. Magari ci fosse qualcosa da mettere, tra me e Kate. Il
suo accenno al fatto di diventare il signore del castello mi fa pensare che ci
sono delle cose di cui dobbiamo discutere. Malcolm mi è ostile perché mi
vede come un concorrente. «Sarai tu il signore di Thorntyne un giorno,
Malcolm».
«Non se tu ti intrometterai, cugino».
Gli poso la mano sulla spalla, cercando di rassicurarlo sulla sincerità del-
le mie parole. «Io non voglio Thorntyne Keep».
Lui scrolla via la mia mano. «Ah, sì? E per quale altro motivo saresti
qui, allora?»
Se mentissi se ne accorgerebbe, quindi evito le bugie. «È difficile spie-
gare le mie ragioni. Posso dirti che da dove vengo ho saputo di Rhauk e
della sua malvagità».
Lui inarca le sopracciglia. «La sua reputazione si è dunque sparsa».
«E visto che anche io possiedo... strane capacità...»
«Stregoneria, vuoi dire!»
«In un certo senso sì» ammetto, con riluttanza. «È stato deciso che io
cercassi di aiutare i miei parenti a liberarsi dei poteri malefici di Rhauk».
Noto con sollievo che Malcolm sta prendendo in considerazione le mie
parole. Ho bisogno di lui come alleato. «C'è della ragionevolezza in quello
che dici».
Respiro, e proseguo nel mio tentativo di persuasione. «C'è anche un'altra
cosa che dovresti sapere. Riguarda mio fratello».
Mi guarda, accigliato.
«Un giorno ti sfiderà. Non so dirti quando, ma so che questa è la sua in-
tenzione».
«Sta forse radunando un'armata ora, mentre parliamo?»
Questo non lo so. Ma so che al momento della battaglia, che sarà dura,
Malcolm vincerà. Vorrei poterglielo dire, ma questo potrebbe fargli pren-
dere la questione sottogamba e impedirgli di prepararsi a dovere. E se per
questo perdesse la battaglia, la storia dei Thorntyne cambierebbe. Ricordo
l'ammonimento di Jillian a non interferire. «Lui è molto forte. Dovrai esse-
re pronto, e stare sempre all'erta».
I suoi occhi verdi brillano di gratitudine. Credo di essermi appena fatto
un amico.
Le due settimane successive passano come avvolte nella nebbia. La
mancanza di notizie di Kate mi rende spasmodicamente teso. Lei è a Bla-
cklands con Rhauk. E ora io lo sento, sento la sua energia, la sua aura; cosa
che fino a poco fa per me era impossibile anche solo immaginare. Sta di-
ventando nervoso, immagino perché sente crescere i miei poteri. La cosa lo
mette a disagio.
Mi alleno tutti i giorni. Richard e Malcolm mi aiutano a raggiungere
nuove zone della mia magia man mano che ne divento cosciente. Anche
Morgana mi aiuta, visto che possiede anche lei un dono: la sua è una ma-
gia calda, dolce, è il potere di guarire con le erbe. E grazie a lei le mie feri-
te stanno guarendo in fretta. Proprio questa mattina mi ha tolto i punti sul
collo, ed è stata felice quanto me di notare che non c'è più segno di infe-
zione.
Sfortunatamente tra i miei spettatori fissi c'è anche Emmeline, sempre
pronta a trovare una scusa per starmi vicino. Cerco di ignorare i suoi ap-
procci. Non voglio urtare i suoi sentimenti, ma più la conosco e più mi
sembra che non ne abbia, a parte il culto della propria bellezza e dei propri
appetiti sessuali.
Mi sento sempre più vicino a Richard e Isabel, specie ora che accettano
l'evidenza della mia 'stregoneria'. Loro ricambiano i miei sentimenti. Se c'è
una cosa a cui Richard è leale fino in fondo è la famiglia; escluso natural-
mente Rhauk, con cui nega recisamente ogni legame di sangue. Ammetter-
lo, d'altra parte, significherebbe perdere Thorntyne Keep, che passerebbe
di diritto a Rhauk in quanto figlio maggiore. Richard non lo permetterà
mai: l'amore per le sue terre, per il castello e la famiglia è il motore di ogni
sua azione.
A volte provo a farlo riflettere sulla lealtà verso il villaggio, verso i con-
tadini e gli artigiani che ci vivono. Ma lui scoppia in una risata beffarda e
io ricordo che non devo interferire. Per Richard il confine tra nobili e resto
del popolo è netto. Ai suoi occhi i contadini sono più o meno feccia.
Quanto a me, pare che io non sia in grado di fare incantesimi come Kate,
la mia magia è tutta nella mia testa. È una specie di proiezione del pensie-
ro, che però trasforma davvero le cose. La natura è la cosa più semplice
con cui lavorare. Ho fatto fiorire le preziose rose di Isabel due volte più
grosse del normale, e fatto avvizzire il suo orto con uno sguardo. Lei mi ha
rimbrottato, ma con affetto, e mi ha abbracciato quando l'ho fatto rivivere.
Ho ancora molta strada da fare, ma sento che Rhauk si fa sempre più ir-
requieto. Spero solo che riesca a trattenere la propria ira finché avrò impa-
rato abbastanza da superarlo. È anche possibile che questo non succeda;
ma l'idea non basta a distogliermi dal proposito di sfidarlo. È diventata più
di una battaglia per salvare la mia famiglia da una orribile maledizione.
Ora è una questione personale, tra me e lui.
Per Kate.
E ogni giorno che passa senza sue notizie mi fa diventare pazzo. Di pari
passo con le mie abilità paranormali, devo sviluppare quelle fisiche. Devo
saper maneggiare una spada, e combattere corpo a corpo, se necessario.
Per aiutarmi in questo ho tutti i volontari che mi servono. Oggi per esem-
pio tocca a Malcolm. Mentre schivo i suoi colpi, arriviamo a parlare delle
mie paure per Kate.
«Su questo ho un'idea» dice, e me la spiega.
È un buon piano. Ne soppeso i pregi. E, dopo una lunga discussione, riu-
sciamo ad affinarlo e ad attuarlo.
Metterà alla prova l'amicizia di Malcolm.
Kate
Sono passate quasi tre settimane e Jarrod non è tornato a casa. Rhauk si
rifiuta di insegnarmi alcunché finché non si sarà liberato di Jarrod, in un
modo o nell'altro; è ben consapevole della sua presenza. Perciò so per cer-
to che Jarrod è ancora a Thorntyne Keep. Ogni giorno l'inquietudine di
Rhauk cresce. È costantemente di umore schifoso. Basta che io nomini
Jarrod per vederlo andare fuori di testa, perciò preferisco tenere la bocca
chiusa. Quasi sempre. Ma a volte il mio lato perverso gode nel vedere
Rhauk perdere il controllo.
Il tempo passa lentissimo, è un'agonia. Non ho quasi niente da fare. Per-
lopiù resto confinata nella mia stanza, a contemplare l'oceano ostile. Tra-
scorro ore e ore a pensare quanto sarebbe facile sporgersi dalla finestra
quel tanto che basta a perdere l'equilibrio. Le mie sofferenze finirebbero,
ma cos'altro risolverei? Non resterebbe nessuno a sorvegliare Rhauk, a
badare che mantenga la sua promessa.
Irrompe nella mia stanza in un accesso d'ira, il peggiore che abbia visto
finora. Come al solito è vestito di nero, solo un bordo argentato orna l'orlo
della tunica. «Non mi lascia altra scelta, signora!»
Mi allontano dal davanzale e lo fronteggio. «Di che cosa parli? Chi non
ti lascia altra scelta?»
Lui fa un gesto vago in direzione di Thorntyne Keep. Una pioggia di
scintille dorate s'infrange contro la parete alla mia sinistra. «Il tuo aman-
te!»
Non lo correggo, lasciandogli la sua illusione. Fintantoché crede che Jar-
rod e io siamo amanti mi lascia in pace, almeno dal punto di vista sessuale.
E oltretutto l'idea lo infastidisce molto, cosa che mi dà un piacere immen-
so.
«Che sta facendo Jarrod per inquietarti così tanto?»
I suoi occhi neri si stringono, ma lui tace. Non me lo dirà. Eppure, qual-
siasi cosa sia, lo mette davvero in agitazione. Con un'intuizione improvvisa
che quasi mi stende, capisco. Apro la bocca, e non riesco a impedirmi di
sorridere. «Si sta esercitando, non è così?» Rhauk non risponde, non ne ha
bisogno. Posso sentire l'odore della sua disapprovazione. Quindi sa che il
talento di Jarrod è davvero immenso, e il fatto che ora sappia usarlo rende
Rhauk molto nervoso. Il cuore comincia a battermi forte. «Jarrod sta di-
ventando sempre più forte, giusto?»
Silenzio.
«Mio dio, il suo potere è diventato così grande che ti spaventa».
«Zitta, sgualdrina!»
Il suo tono gelido non mi spaventa come forse dovrebbe. Sono troppo
eccitata dalla novità: Jarrod in questo periodo ha accettato il suo dono e sta
imparando a controllare i suoi poteri. «Hai paura di lui!» oso. «Te la fai
sotto!»
In un batter d'occhio lui attraversa la stanza e mi colpisce. Se avessi pre-
stato più attenzione al suo stato d'animo, avrei potuto evitarlo; invece, mi
prendo il suo pugno proprio sulla mascella. Un dolore acuto si irradia dal-
l'orecchio al mento. Qualcosa mi cade sulla lingua, qualcosa di piccolo e
solido. Lo sputo. È un dente. E c'è sangue, naturalmente. Che bastardo.
Potrei scagliare un incantesimo veloce, ma non ha senso. Lui si diverti-
rebbe. Quelli che ho provato nelle ultime settimane si sono rivelati inutili.
Lui è consapevole di ogni mia mossa, e mi precede. Lo odio.
Si avvia verso la porta, ma poi si volta. «Jarrod deve andarsene entro
domani mattina. Ora vado a raccogliere la mia dolcissima erba e a ricavare
l'essenza che mi serve per finire quella dannata pozione. Con l'inverno così
vicino la forza del suo veleno sarà sufficiente, e non cambierà il dolce gu-
sto del mio vino».
«Romperesti dunque la promessa?»
Lui scoppia in una risata volgare. «Mia cara, pensavi davvero che l'avrei
mantenuta?»
«Ma... hai detto... che se fossi rimasta...»
«Ho mentito».
«Perché? Io ho tenuto fede ai patti. Sono tornata da te!»
«E io ti ho dato ciò che volevi: la libertà per il tuo amante di tornare là
da dove è venuto. È colpa tua se non è partito. È ovvio che non hai fatto
abbastanza per convincerlo».
La nausea mi assale. Vacillo e mi aggrappo alla sponda del letto. «Ma
avevi promesso di distruggere la pozione. Faceva parte dei patti!»
«Se non avessi promesso, avresti scelto lo stesso me?»
La domanda non richiede risposta. Sa benissimo che non lo avrei mai
fatto, e questo spiega il perché delle sue bugie. Mi ha ingannata, proprio
come secondo lui Eloise era stata indotta con l'inganno a scegliere Lionel
invece di lui, tanti anni prima. E Jarrod probabilmente morirà lo stesso, e
io resterò intrappolata in questo buco gelido in compagnia di un pazzo
pericoloso per il resto della vita. È stato tutto inutile. La maledizione andrà
avanti, e non c'è modo di far partire Jarrod entro l'alba. Non rivedrò mai
più Jillian...
Devo tentare qualcosa, o il panico mi soffocherà. Come è potuto succe-
dere tutto questo? Guardo Rhauk che se ne va furente. «Se rompi la tua
promessa e finisci la pozione, salterò giù dalla finestra e saranno le rocce a
decidere del mio destino».
Questo attira la sua attenzione. Inarca le sopracciglia, gli occhi neri cor-
rono veloci all'unica finestra sullo strapiombo mentre valuta il peso della
mia minaccia. Lo farei sul serio? Quando torna a guardarmi cerca i miei
occhi, e li aggancia. Troppo in fretta, l'effetto è ipnotico. «In questo caso,
mia cara, non mi lasci altra scelta che controllare la tua mente fin d'ora».
«Cosa?»
Non si cura di dare spiegazioni. Sento immediatamente un flusso d'ener-
gia. Lui si avvicina e l'energia all'improvviso cambia, si contorce, affonda
come una lama nella mia mente. È così intensa da far male, e ci vuole tutta
la mia concentrazione per evitare che penetri così a fondo da provocare, ne
sono certa, un danno cerebrale.
Cerco di liberarmi, ma è inutile. Le gambe vorrebbero muoversi, ma la
punizione di Rhauk mi paralizza. L'energia cresce e l'elettricità attraversa il
mio corpo in scariche successive.
Poi, a un certo momento, quel poco controllo cui mi aggrappo svanisce.
Comincio a scongiurarlo, con il pensiero. Non so se mi senta, o se la cosa
lo inciti a fare di peggio, ma so che, se non mi lascia andare ora, la mia
mente non sarà più la stessa. Mai più.
Mi accascio a terra, la connessione è rotta. Non so perché mi abbia la-
sciata andare, forse perché non mi vuole ridotta a un vegetale. Quali che
siano le sue ragioni, sono troppo esausta per pensarci ora.
Però lo sento, mentre scivolo nell'incoscienza. «Non mi sfuggirai mai,
Lady Katherine. Questo era solo un assaggio di ciò che ti attende. Quando
avrò finito con il tuo amante, e dopo che avrò consegnato il vino a quel
traditore di mio fratello, mi occuperò del tuo addestramento. E tu sarai
mia, completamente».
Fa per andarsene, ma sulla soglia si gira verso di me. «Avrei voluto lo
stesso per Eloise, ma la sua mente non era forte come la tua». Mi lancia
un'ultima occhiata. «Quando avrò finito con te, mia cara, allora sì che ap-
prezzerai la bellezza di Blacklands, e ti piacerà essere la mia regina».
Jarrod
So esattamente quando il mio tempo è scaduto. Rhauk sta facendo qual-
cosa a Kate. C'è un'energia così forte che la sento quasi nella mia testa,
come se qualcuno mi ficcasse un cacciavite nel cranio. Per un istante mi
domando se lei sopravviverà. Sento il suo cuore battere lento, troppo lento.
Ma è viva. Per ora, non ho altro.
Quindi devo smettere di allenarmi e lanciare la sfida. Domani all'alba in-
contrerò Rhauk in duello.
«Jarrod, cosa succede?»
La voce di Richard è preoccupata. Irrompe nella mia immagine di Kate
prossima alla morte. Gli spiego la mia sensazione. «È arrivata l'ora, mio
signore».
La sua espressione si fa allarmata. Percepisco i suoi pensieri, leggo i
suoi dubbi. Sappiamo entrambi che mi sono allenato duramente, e che con
il suo aiuto, quello di Malcolm e naturalmente quello della piccola Morga-
na riesco a fare cose incredibili, ora. Cose che non avrei mai creduto pos-
sibili. Eppure Richard si chiede ancora se sono abbastanza forte per scon-
trarmi con Rhauk, e batterlo.
Gli metto un braccio attorno alle spalle. «Sarà meglio che lo sia, zio» di-
co, sorprendendolo per l'esattezza con cui ho letto i suoi pensieri. «Rhauk
non mi darà una seconda possibilità».
Kate
Quando rinvengo sono ancora sul pavimento. Lentamente mi trascino
verso il letto e mi siedo, con la testa fra le mani. È come se fosse piena di
piombo. Cerco di ricordarmi cosa è successo e come sono finita in questo
stato, ma sento delle voci in lontananza. Durante tutto il tempo passato a
Blacklands non ho mai sentito Rhauk conversare con nessuno a parte il suo
corvo. Ma stavolta sento davvero due voci, entrambe maschili. Una è sicu-
ramente quella di Rhauk. L'altra... non riesco a inquadrarla, ma suona va-
gamente familiare.
Barcollo fino alla porta. Non è chiusa a chiave. D'altra parte non avrebbe
senso, nessuno può entrare o uscire da Blacklands senza invito. Il castello
è incantato, i cancelli rispondono al comando di Rhauk. Solo gli uccelli
sono liberi di volare dentro e fuori.
Grazie a dio la mente si comincia a schiarire, e metto insieme la forza
sufficiente a scoprire chi è il visitatore di Rhauk. Forse potrebbe aiutarmi a
fuggire. Quest'idea mi dà una notevole scarica di adrenalina. Percorro il
corridoio a piedi scalzi, seguendo le voci.
Li trovo alla fine nel refettorio, che una volta le suore usavano anche
come aula di studio. Ci sono ancora i tavoli e le panche. Resto dietro la
porta accostata, col cuore in gola al punto che mi sembra di doverlo ingo-
iare.
Almeno ora distinguo le parole. All'inizio credo che sia finalmente arri-
vato l'aiuto di cui ho bisogno, se non altro per portare un messaggio di
avvertimento a Jarrod. L'altra voce è quella di Malcolm, il figlio di Lord
Richard.
Solo quando li sento ridere capisco che in quella scena c'è qualcosa di
orribilmente sbagliato. Sembrano troppo cordiali. E come ha fatto Mal-
colm a entrare a Blacklands? Su invito di Rhauk? O è stato Malcolm a
richiedere l'incontro? Conoscendo Rhauk, qualsiasi richiesta costerà a
Malcolm un ben caro prezzo.
Resto in ascolto, attenta a non sondare in alcun modo i pensieri, o Rhauk
saprà immediatamente che sono qui.
«E così...» La voce vellutata di Rhauk riecheggia nella sala vuota. «Le
vostre informazioni non sono prive d'interesse. La nostra conoscenza ha
fatto passi avanti nelle ultime settimane... sebbene non al punto da supe-
rarmi».
«Naturalmente no».
Segue una pausa, poi ancora la voce di Rhauk. «Abbiamo dunque gli
stessi obiettivi?»
Senza esitare Malcolm risponde: «Sapete che tengo a Thorntyne Keep
tanto quanto voi tenete a Blacklands».
Malcolm non può essere tanto ingenuo. Rhauk vuole sia Thorntyne Ke-
ep che Blacklands, se non altro per soddisfare la sua sete di vendetta.
«Le vostre confidenze non mancheranno di procurarvi una ricompensa»
dice Rhauk.
«Sono già lieto di poter essere d'aiuto. Prima ci libereremo di quella ca-
naglia, meglio sarà per tutti. Ma...» C'è una pausa significativa, e mi sem-
bra che il mio cuore si fermi. «Se avete in mente una piccola ricompensa...
forse una notte con la dolce signora? Immagino che sia ancora in vostra
compagnia».
Quasi cado all'indietro per lo choc. Mio dio! Malcolm parla di me!
Rhauk scoppia in una risata sarcastica. «Oh sì, e la sua compagnia è quan-
to mai intrigante. Non temete, amico mio, la vostra ricompensa sarà ben
dolce».
Immagino cosa voglia dire. Non appena liquidata la questione Jarrod,
Rhauk probabilmente ucciderà Malcolm, che considera senza dubbio
un'ulteriore minaccia alla sua eredità. Come fa Malcolm a non capirlo?
Ovviamente la sua paura che Jarrod possa avanzare pretese sul titolo gli
impedisce di vedere altri pericoli. Quell'uomo non solo è un traditore, che
passa a Rhauk informazioni di prima mano sui nuovi poteri di Jarrod e sui
suoi eventuali punti deboli, è anche uno stupido. Sicuramente la sua ri-
compensa sarà una morte violenta.
Be', se lo sarà meritato.
L'incontro finisce, e in una stretta di panico mi dico che devo sparire.
Ma non torno nella mia stanza, non posso. In qualche modo devo avvertire
Jarrod che c'è un traditore tra i suoi. Perciò decido di fare ancora un tenta-
tivo di fuggire. Vado alle scuderie. Ebony Prince è lì, nella sua stalla, in-
quieto. Anche gli altri cavalli si agitano un po' quando passo, ma devo ri-
schiare. I cavalli sono l'unica via che ancora non ho tentato. Non mi si è
mai presentata un'occasione come questa. E se Ebony Prince mi ha portato
a Thorntyne Keep una volta, forse posso convincerlo a farlo di nuovo. Ba-
sta solo che un paio di cose vadano per il verso giusto. Prima di tutto i
cancelli: non si aprono se Rhauk non vuole, ma dovrà pure far uscire Mal-
colm.
Sento dei rumori alle mie spalle e sobbalzo. È Malcolm, da solo. È il
momento giusto. Scivolo nella stalla di Ebony Prince e salgo sulla sua nu-
da groppa, sussurrando parole tranquillizzanti, creando un po' di confusio-
ne nei suoi pensieri con una piccola sonda mentale. Non l'ho mai provata
su un animale, è una strana esperienza. Almeno mi lascia salire, scuotendo
la testa in modo curioso; è la sonda che sta funzionando.
Sento i cancelli aprirsi e, senza pensare un secondo di più a come sto in
groppa, con le gonne praticamente sollevate fino a metà coscia, affondo le
ginocchia nei fianchi muscolosi del cavallo. Lui si lancia fuori come un
fulmine e, grazie a una ulteriore piccola pressione mentale, si dirige verso i
cancelli aperti.
Malcolm sente il galoppo furioso e scarta di lato per non essere travolto.
Quello che non mi aspettavo, però, è che si riprendesse così presto. È un
cavaliere esperto, dopotutto. Balza in groppa al suo cavallo e si lancia al
mio inseguimento nei boschi.
Rami bassi, spine, arbusti s'impigliano nei miei vestiti, nei capelli, mi
graffiano ovunque. Cavalco china in avanti, stringendo il collo del cavallo,
spronandolo ad andare più in fretta. Il rumore degli zoccoli dietro di me si
fa troppo vicino per i miei gusti. Malcolm guadagna terreno in fretta.
Anche se è ancora giorno, diventa sempre più difficile vedere dove sto
andando. Cerco di convincere Ebony Prince a dirigersi verso Thorntyne
Keep, ma il bosco intorno a me è fitto e non saprei dire se la sonda mentale
funziona ancora.
Malcolm è così vicino che sento il suo cavallo ansimare alle mie spalle.
Vedo il tronco caduto solo un secondo prima che Ebony Prince salti.
Non avendo altro che il collo del cavallo cui aggrapparmi, non sono sor-
presa di volare via. Atterro sulla schiena, per fortuna su un prato.
Momentaneamente stordita, non posso fare altro che stare a guardare
Malcolm che fa fermare il cavallo a pochi centimetri dalla mia faccia.
«Bene, bene. Che stile interessante hai nel cavalcare, mia signora».
Non ancora pronta ad accettare la sconfitta, cerco di rialzarmi per fuggi-
re a piedi. Ma Malcolm mi è addosso in un momento. Immagino che i suoi
riflessi rapidi siano frutto dell'addestramento da cavaliere. Ricado a sedere
sull'erba e lo guardo negli occhi.
«Ucciderà anche te!» grido, sperando che capisca.
«Non preoccuparti per me, Lady Katherine. So quello che faccio».
«No, tu non lo conosci come me. Lui mente, fa promesse che non ha in-
tenzione di mantenere. Ti sta usando, come ha usato me. Mi ha convinto
con l'inganno a restare qui, e ora sta ingannando te. Solo quando avrà il
completo controllo di Thorntyne Keep il suo desiderio di vendetta sarà
soddisfatto». Cerco di riprendere fiato. «Non ha nessuna ricompensa in
mente per te, Malcolm, tranne la morte. E forse in un certo senso lo è dav-
vero, una ricompensa. Meglio morire che passare il resto della vita schiavi
del potere di Rhauk. Credimi».
Lui mi fissa stringendo gli occhi verdi, pensieroso. Tra noi cade un si-
lenzio impacciato, poi Malcolm getta una rapida occhiata alle proprie spal-
le. Infine mi tende una mano e mi aiuta a rialzarmi. Intravedo un barlume
di speranza, e provo a fare leva su quello.
«L'avete trovata. Ben fatto!»
Oh, no. È Rhauk, in sella a uno degli altri cavalli. Stavolta ne ha scelto
uno grigio, e si è anche preso il disturbo di sellarlo. La sua arroganza mi fa
uscire di senno.
Malcolm mi tira su con più forza del necessario, storcendomi il braccio
dietro la schiena. Mi sforzo di non gridare, e lui mi spinge verso Rhauk.
Vado a sbattere contro il cavallo grigio, che non ne è molto felice. «Credo,
Rhauk, che per tenere buona questa ragazzina ci vogliano i ceppi».
Rhauk si china e mi tira a sedere sulla sella davanti a sé. Averlo così vi-
cino mi fa risalire la bile.
Rhauk fa un cenno di saluto a Malcolm e un fischio a Ebony Prince, che
trotterella docilmente, anche se un po' disorientato, accanto a noi. Stiamo
tornando a Blacklands. Mi volto. Malcolm non si è mosso. È rimasto lì a
guardarci, con un'espressione curiosa sul viso.
Strano, per un traditore.
Kate
La sfida viene consegnata da una colomba bianca poco prima del tra-
monto. Sono con Rhauk nella torre, con i polsi incatenati come suggerito
da Malcolm, e lo guardo con orrore mentre finisce di preparare il suo vino
maledetto. Ha trovato l'ultimo ingrediente e dalle sue radici ha estratto
un'essenza. Mentre la mescola nel vino, la sua faccia è il ritratto del com-
piacimento. Nel momento in cui si volta verso di me con un sorriso nause-
ante, compare la colomba.
Attira immediatamente la sua attenzione. «E questa cos'è?»
La guardiamo entrambi mentre si libra sul davanzale della finestra, rilut-
tante a posarsi. Il corvo, appollaiato sul solito trespolo, gracchia minaccio-
so, ma un gesto di Rhauk lo zittisce.
Finalmente la colomba si posa. Rhauk la solleva e la esamina. Ha un
messaggio legato a una zampetta; Rhauk lo prende e lascia cadere l'anima-
le, che sbatte le ali per recuperare l'equilibrio, perde un paio di piume e
vola via.
Guardo gli occhi di Rhauk mentre legge la minuscola pergamena. Sono
pieni di sorpresa, rimpiazzata subito da un entusiasmo infantile. Neanche
un vago accenno di paura. E perché dovrebbe averne, ora che c'è anche
Malcolm a guardargli le spalle? Il suo sguardo incontra il mio. «Quello
sciocco ragazzo osa sfidarmi».
L'orrore e il disgusto mi pervadono. È impossibile. Come potrà Jarrod
battere questo psicopatico? È solo un ragazzo goffo e maldestro che ha
persino bisogno degli occhiali. Mi chiedo chi l'abbia aiutato a stilare il
testo della sfida; dubito che i suoi occhi riuscirebbero a leggere quei carat-
teri così piccoli. E, anche se si è allenato nelle ultime settimane, per Rhauk
esercitare la magia è facile come respirare. Che possibilità avrebbe Jarrod?
Se solo le condizioni fossero più eque - se solo potessi essere lì ad aiutar-
lo... forse, i nostri talenti combinati... forse, se cogliessimo Rhauk di sor-
presa...
Lui interrompe i miei pensieri. «Richiede un duello».
«Un duello?»
«Alla spada, su terreno neutrale».
Notizia ancora più terribile. Le spade sono pesantissime, ci vogliono an-
ni per riuscire a maneggiarle.
«E poiché Jarrod ha scelto l'arma, tocca a me scegliere il terreno». Guar-
da fuori, pensoso. «Minneret Cliffs, direi».
Sgrano gli occhi. Minneret Cliffs è un tratto di costa molto pericoloso a
metà strada tra i due picchi, Blacklands e Thorntyne. Non c'è sabbia, solo
incredibili scogli bianchi a strapiombo.
«Domani all'alba».
«No» esclamo, «non può essere».
«Ah, invece sì, mia diletta».
Decido che la supplica è l'unica cosa che non ho mai tentato. «Ti prego,
Rhauk, pensaci. Hai tutto quello che vuoi. Lascia andare Jarrod».
Lui storce le labbra. «Oh sì. Ho te, e la maledizione. Ma non è colpa mia
se quel ragazzo manca di lungimiranza. Non riesce a vedere la sua morte
che si approssima. Gliela mostrerò io, in tutta la sua vivida realtà».
«Voglio esserci anch'io».
«Ma certo che ci sarai. Non potrei mai privarti dello spettacolo». Stringe
gli occhi, mi esamina. «Però, dovrò fare qualcosa per impedirti di interferi-
re».
«Nooo!» Dio, è sempre un passo avanti a me. Come si fa a rompere que-
sto circolo vizioso?
Resto a guardare, sempre più nauseata, mentre Rhauk raccoglie vari og-
getti in giro. Un'erba, una fiala di liquido blu, un misto di polveri.
Io scuoto furiosamente la testa mentre lui, sogghignando, mi si avvicina
con un'ampolla di liquido fumante. Dev'essere una droga.
«Qualcosa per prosciugare le tue energie. Non è male, come sapore».
«No, io non...»
«Bastano poche gocce». Mi afferra il mento con la mano libera, con la
forza di una morsa d'acciaio, senza più sorridere.
«No!» grido, agitando le mani inutili e appesantite dalle catene. Chiudo
la bocca, determinata a non far toccare alle mie labbra neanche una goccia
di quella roba.
Ma non sono preparata alla tattica di Rhauk. Toglie la mano dal mio
mento, la chiude a pugno e senza tanti complimenti mi sferra un colpo
sotto le costole. Apro la bocca in cerca d'aria, annichilita dal dolore e dalla
sorpresa, ed è allora che mi getta il liquido in bocca. Mi soffoca, brucia.
Mi piego in due, apparentemente per alleviare il dolore allo stomaco, e
così ne sputo fuori il più possibile.
Rhauk si allontana soddisfatto e comincia a mescolare il vino avvelena-
to. «Dopo la sfida lo travaserò in una bottiglia. Tra qualche giorno Richard
riceverà il prezioso dono del re».
Respiro a fondo molte volte, cerco di raddrizzarmi e di alleviare il dolore
del pugno nello stomaco. Mi asciugo la bocca contro la spalla. L'effetto
della droga è immediato. La stanza comincia a ondeggiarmi intorno. Cado
all'indietro, contro un tavolo.
Questo distrae Rhauk. «Mia cara, faresti meglio ad andare a letto, poiché
stanotte la morte ti farà compagnia. Non allarmarti, tuttavia. Non sarà lì
per te, ma per la tua forza». Portandomi giù per la scala a chiocciola Rhauk
ride, sicuro di se stesso più che mai.
Mi lascia cadere sul letto, e io mi rannicchio. Rhauk fa un passo indietro
e reclina la testa, in modo da potermi guardare in viso. «Sì» sussurra con
voce vellutata. «Non sarai di alcuna utilità a quello sciocco, privata della
tua magia. Privata quasi della vita, direi» aggiunge.
Mentre si allontana dal letto i miei occhi si chiudono, pesanti come
piombo. Mi sento sprofondare giù, in una spirale senza fine. È buio, ho
paura, ma continuo a precipitare. Sento l'odore della morte, che sorride e
affila i denti e mi attira sempre più in basso.
La voce di Rhauk si allontana, si fa indistinta. Ma anche nei recessi del
baratro in cui sto sprofondando sento le sue parole di commiato. «E Jarrod
sarà sufficientemente distratto vedendo la sua amante così sottomessa al
mio controllo».
Allora capisco perché mi ha drogata. Non solo per impedirmi di aiutare
Jarrod con la magia, ma anche per distrarlo, per fargli perdere concentra-
zione durante il duello. Mi sta usando come strumento per battere Jarrod.
Ironico, no? I miei tentativi di aiutare Jarrod ora serviranno a ucciderlo.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime, e non m'importa se Rhauk o il dia-
volo in persona mi vedono. Sono troppo stanca per nasconderle.
Rhauk mi lascia con l'amaro sapore dell'odio in bocca, e la Morte per
compagna.
Kate
Mi veste come una regina, in cremisi e oro, i capelli raccolti in una croc-
chia alta sulla testa. Al collo mi mette una pesante catena d'oro fatta di
piccoli serpenti attorcigliati. Lui è come sempre in nero, con la fibbia dei
serpenti alla cintura. Ha un aspetto potente, affascinante. Io invece sono
ridotta a una specie di bambola di pezza, con braccia e gambe pesanti e i
ricordi di una notte piena di incubi che lentamente, grazie al cielo, stanno
svanendo.
Non è ancora spuntata l'alba quando arriviamo, in sella a Ebony Prince.
Minneret Cliffs si stende minaccioso davanti a noi, bianco e frastagliato
alla pallida luce grigiorosata dell'alba. Rhauk mi trascina verso il punto più
estremo dello strapiombo, dove basterebbe il respiro di un gabbiano a far-
mi cadere. Frammenti di roccia simile a gesso si sbriciolano sotto i miei
piedi. Faticosamente cerco di allontanarmi dal baratro.
Oltre alle mani, Rhauk mi ha incatenato le caviglie. Mi domando perché:
drogata come sono, non rappresento una minaccia per nessuno. Trovo dif-
ficile anche solo concentrarmi. Riesco a malapena a muovermi, figuriamo-
ci a fare incantesimi. Resto lì, semisdraiata, cosciente degli spruzzi salati
che arrivano dal cupo oceano là sotto il cui cuore pulsa al solito, eterno
ritmo.
Aspettiamo, ma non per molto. Non appéna il sole spunta all'orizzonte
sentiamo un rumore di zoccoli provenire dal sentiero che scende da Thor-
ntyne Keep; Jarrod è il primo ad apparire.
È stupendo, e il mio cuore intorpidito riesce perfino a battere un po' più
forte. È vestito in oro, con lo stemma dei Thorntyne che splende sul davan-
ti della tunica. C'è una pesante catena d'oro attorno alla sua vita sottile.
Non porta armatura né, cosa ancor più allarmante, spada. È accompagnato
da Richard, Isabel, Morgana, Thomas alla testa di una mezza dozzina di
cavalieri, Emmeline, e Malcolm il traditore, che se ne sta un po' in dispar-
te, la testa bassa come sotto il peso della colpa. Quando guarda in su vedo
che ha gli occhi arrossati. Mi domando perché e cerco segnali di rimorso,
qualsiasi indizio che mi dica che è tornato in sé.
Ma in fondo non fa alcuna differenza. Nessuno, per quanto forte, armato
o preparato, potrà aiutare Jarrod. È solo contro Rhauk. Solo che Rhauk è in
vantaggio, grazie alle informazioni di Malcolm. Perfino i migliori cavalieri
di Richard non potranno essere d'aiuto in questo duello di magia.
Jarrod sta in sella allo stallone bianco e grigio come se ci fosse nato so-
pra. Appare calmo e sicuro di sé. Non c'è traccia del ragazzo goffo e im-
pacciato che conoscevo. I riflessi ramati dei suoi capelli brillano al sole
nascente. Smonta da cavallo con grazia. I suoi occhi mi studiano a lungo,
immagino in cerca di segni di maltrattamento; e infatti diventano duri e
rabbiosi alla vista della mia mascella gonfia e livida.
Mi guarda ancora un momento, credo nel tentativo di trasmettermi un
po' della sua forza, ma la mia mente narcotizzata non riceve nulla. Lui lo
capisce, e la cosa lo fa infuriare ancora di più. Con il pensiero lo scongiuro
di non badare a me. Sono solo un'esca, vorrei dirgli.
«Ecco che arriva mio nipote» dice Rhauk in tono indifferente, col solito
sorriso compiaciuto. «Una sfida folle, che non porterà ad altro che alla tua
morte. Guarda il sole, Jarrod. Un'alba magnifica. Peccato che per te sarà
l'ultima».
«Che parole audaci» risponde Jarrod con una sicurezza che mi coglie di
sorpresa. Perfino nel mio stato di narcosi, mi fa osare una speranza. «So-
prattutto, dette da un uomo che ha bisogno di usare una donna per distrarre
l'avversario».
L'insulto coglie nel segno. Gli occhi neri di Rhauk diventano, se possibi-
le, ancora più neri. Tutti restano immobili, come se trattenessero il respiro.
Rhauk riprende la concentrazione. «La distrazione è solo uno strumento,
ragazzo mio. Questo, invece, per esempio...»
Solleva la mano che tiene alla cintura, aperta. Tutti aspettano, in ansia.
Poi comincia. All'inizio si vede solo un accenno di movimento. Guardo
intensamente Jarrod. No, non può essere... Oh, dio, no. Sbatto le palpebre,
ma invece di svanire la visione si fa più chiara. Le forme semoventi diven-
tano più definite. Vorrei portarmi una mano alla bocca, ma le catene sono
troppo pesanti per le mie braccia. Resto a guardare, orripilata.
Serpenti. Decine di serpenti si attorcigliano e ondeggiano, sibilando, at-
torno al busto di Jarrod. Alcuni si fanno strada verso la gola, altri tra i ca-
pelli, altri scivolano lungo le braccia. Sono ovunque, lo ricoprono comple-
tamente.
Ricordo la terribile visione di Jillian. Dunque era questo che aveva pre-
visto. Mi domando se avrò mai modo di raccontarglielo. Ricordo anche la
repulsione di Jarrod, il suo terrore per i serpenti.
Mi aspetterei di sentirlo urlare, addirittura correre verso l'abisso nel ten-
tativo di liberarsi. Probabilmente era quella l'intenzione di Rhauk, di farlo
gettare di sua volontà nell'oceano gelido. Ma questo nuovo Jarrod è calmo,
anche se i suoi occhi verdi si fanno più scuri e profondi.
Sono io che quasi mi faccio prendere dal panico, dalla tentazione di ur-
largli di fare qualcosa. Morgana in effetti urla, ma Isabel le sibila qualcosa
mentre Richard alza una mano minacciosa. La ragazza tace, ma il terrore è
dipinto sui volti di ciascuno. Perfino di Emmeline, che osserva la scena
con gli occhi sbarrati. Questa però è la battaglia di Jarrod.
Ma non può restare lì fermo! Il morso di una di quelle creature viscide lo
ucciderebbe senz'altro; i serpenti di Rhauk sono sicuramente pieni di vele-
no.
Jarrod comincia a sudare, le gocce si formano sulla sua fronte e scendo-
no giù per le guance; i serpenti continuano a ondeggiare e sibilare. Uno si
inarca in fuori, sollevando la testa a forma di diamante per guardare Jarrod
dritto negli occhi, i denti velenosi sfoderati.
Tra un secondo o due quell'essere malvagio colpirà. Mi concentro a tal
punto su quell'unico serpente da non vedere più gli altri. Il viso di Jarrod
diventa di un rosso cupo, e il sudore continua a gocciolare. I serpenti co-
minciano a scivolargli giù lungo le gambe, in fretta, come se non vedesse-
ro l'ora di lasciarlo. Perfino quello che lo guardava negli occhi all'improv-
viso fugge a terra, lontano da lui.
Quasi svengo dal sollievo, maledicendo la droga di Rhauk. Jarrod, ora
libero da quelle dannate serpi, scrolla le spalle, come a voler rassettare i
vestiti. Anche il colorito torna normale.
Ha vinto il primo round, ma c'è poco da rallegrarsi. Ha aumentato la
propria temperatura corporea al punto da renderla insopportabile perfino
per i serpenti; ma ora Rhauk è furibondo per aver fatto la figura dello stu-
pido.
«Hai intenzione di giocare per tutta la mattina?» lo sfotte Jarrod.
Gli occhi di Rhauk si stringono, le labbra diventano una linea dura. «Vi-
sto che hai tanta fretta di morire, Jarrod» risponde, con un inchino formale,
«ti accontenterò con molto piacere».
E con questo alza le spalle e, anche se non ha la spada, si porta una ma-
no al fianco con gesto teatrale e poi stende il braccio, accompagnandolo
con l'altro, come se dovesse sollevare un peso.
Gli occhi di tutti sono su di lui. E adesso? mi domando, allarmata. Dalle
sue mani giunte si sprigiona all'improvviso un lampo argenteo: un'esplo-
sione di energia, luce e calore, come una fiammata da una fornace. Mi
prende in pieno e mi sbilancia all'indietro. Le rocce mi franano sotto i pie-
di. Con quel che resta delle mie forze evito di franare con esse.
Rhauk ha portato una spada di sua invenzione. Appare affilata e lucente,
e ondeggia in modo quasi seducente lasciando una scia rossa. È una spada
di fuoco.
Mi rendo conto, con angoscia, che Jarrod non sta guardando la spada. I
suoi occhi, sbarrati dalla paura, sono fissi su di me. Quando si rende conto
che sono incolume il suo viso si rilassa, e la sua attenzione torna all'avver-
sario.
Rhauk approfitta del vantaggio. La preoccupazione di Jarrod per me lo
ha fatto esitare troppo. Non ha prodotto alcuna arma, e ora Rhauk gli sta
puntando contro la sua.
«Jarrod!» esclama un coro di voci. Richard, Isabel, Emmeline e perfino
Malcolm, anche se con meno convinzione. Il loro sostegno è incoraggian-
te.
Jarrod si getta a terra, giusto in tempo per evitare la punta della spada.
Le scintille volano mentre Rhauk fa un giro su se stesso, con un verso rab-
bioso. Si sprigiona un fuoco nero, e l'acciaio rovente fa capolino tra le
fiamme.
Anche Jarrod gira su se stesso.
«Questo non è un combattimento leale» protesta una voce.
«Io non sono leale, mia signora» risponde Rhauk, compiaciuto. Si sta
divertendo, lui.
«Non temete, Lady Isabel» dice Jarrod. E con queste parole alza le mani
e le congiunge, come se stesse puntando una pistola. Ma una pistola, anche
se senza dubbio gli darebbe un grande vantaggio, è fuori questione, e lui lo
sa. Non possiamo introdurre oggetti che non verranno inventati ancora per
qualche centinaio di anni. Cambieremmo il corso della storia, e questo è
proibito. Già la nostra presenza qui suscita una serie di interrogativi ai qua-
li rifiutiamo anche solo di pensare. Che effetto avrà la nostra permanenza
qui sul futuro? E se morissimo in quest'epoca, nasceremmo di nuovo nella
nostra? Nessuno sa per certo cosa potrebbe succedere. Possiamo solo
prendere le precauzioni che ci sembrano ovvie.
Perciò so che Jarrod non caverà fuori una pistola. Lancia una rapida oc-
chiata di avvertimento nella mia direzione, e mi preparo meglio che posso
all'effetto. Sta creando la sua spada. Esplode come un fulmine, una massa
di calore bruciante e di energia. Nascondo la faccia nella polvere, mi ag-
grappo al suolo con le unghie.
Un'ondata di calore intenso mi investe. Quando passa, guardo in alto e
vedo Jarrod brandire una lucente spada d'argento, circondata da fiamme
blu.
S'incontrano al centro dello spiazzo. Le spade cozzano, le scintille vola-
no. Qualcuna atterra accanto a me, una anche sul mio vestito. Mi rotolo per
terra per spegnerle. Mentre loro duellano, spada contro spada, fuoco contro
fuoco, le scintille incendiano l'erba secca circostante. La leggera brezza del
mattino alimenta il fuoco, che ora crepita in modo allarmante, corrodendo
come acido le sterpaglie.
Man mano che l'incendio si estende e lambisce i boschi, i cavalli si agi-
tano sempre più. Richard ordina che siano liberati. Malcolm, Thomas e gli
altri cavalieri si danno da fare per spegnere il fuoco. Usano tutto, anche le
loro stesse tuniche. Nessuno si aspettava una cosa del genere.
Nel frattempo Jarrod e Rhauk continuano a duellare, ignari, a quanto
sembra, degli incendi provocati da ogni scontro delle loro lame.
Io non posso fare altro che guardare, impotente e in preda a una patetica
frustrazione. «Alle tue spalle!» grido, dando fondo alle mie esigue energie.
Rhauk butta a terra Jarrod e si prepara a colpirlo da dietro.
Jarrod rotola via, mentre l'altro lancia l'affondo con un grido.
Nella mia mente vedo tutto al rallentatore. Jarrod a terra, Rhauk che as-
sapora la vittoria e si lancia in avanti, a spada tratta. Gli avrebbe trapassato
il cuore se Jarrod non si fosse scansato. Ma non è stato abbastanza veloce
da evitare completamente la lama, che gli penetra nel fianco. A fondo.
Quando la tira fuori, è rossa di sangue.
Non ho tempo di chiedermi quanto sia profonda la ferita di Jarrod per-
ché, cosa ancora peggiore, ora è avvolto dalle fiamme. Tutto il lato destro
della sua tunica sta andando a fuoco, si sente l'odore nauseante della carne
bruciata.
«Nooo!» grido inutilmente, sentendo le fiamme come se stessero attac-
cando me. «Qualcuno lo aiuti!»
Lui si rotola a terra, e così facendo le spegne. Richard corre a soccorrer-
lo. Io maledico ancora e ancora queste stupide catene ai polsi e alle cavi-
glie.
Ora Jarrod è disteso a terra, immobile, e Richard è in ginocchio accanto
a lui. «Vieni qui, ragazza, svelta!» grida a Morgana.
La piccola Morgana quasi vola. Scosta con delicatezza il tessuto brucia-
to. «La ferita è profonda, peggiore della bruciatura. Dovrò cucire». Scuote
la testa. «E anche allora, dipenderà da quanto sangue ha perso».
«Allontanatevi da lui!» Rhauk si fa avanti. «Non ho ancora finito».
«È finita, Rhauk, il ragazzo ha perso» sbotta Richard. «Vattene, ora».
«La sfida non sarà conclusa» tuona la sonora e potente voce di Rhauk,
«finché quello sciocco ragazzo non sarà morto».
Cerco di alzarmi, ma ricado nella polvere. Anche solo appoggiarmi sui
gomiti è una fatica immane. «Lascialo!» scongiuro, con le lacrime che
ormai scorrono incontrollabili sul viso. Non posso accettare che Jarrod
muoia. Sarebbe tutta colpa mia. Io l'ho portato qui, in questo posto e in
quest'epoca, a combattere contro uno stregone che nessuno può sconfigge-
re. Jarrod non ha mai avuto una chance.
«No!»
È la voce di Jarrod. Spinge da parte Richard e Morgana e si rialza a fati-
ca, evidentemente in preda a un dolore lancinante. Si afferra il fianco feri-
to. «Io non ho ancora perso. Combattiamo all'ultimo sangue».
Lo guardo. Dov'è finito il goffo ragazzo senza fegato che impallidiva al-
la vista del sangue e scappava di fronte alle cose che le sue bizzarre regole
non contemplavano?
Rhauk sorride lentamente, assaporando di nuovo la vittoria. Agita la
spada verso Richard e Morgana, che indietreggiano davanti alle fiamme.
«Non ci vorrà molto, ragazzo» lo schernisce, spietato, e affonda la spada.
Jarrod, pur a fatica, riesce a schivare il colpo. E con mia sorpresa, ma
più ancora con sorpresa di Rhauk, passa a un deciso contrattacco. Altri
colpi, altre scintille e altre fiamme esplodono sulla scogliera, già avvolta
dal fuoco che ora si dirige verso i picchi a sud e a nord. All'improvviso mi
rendo conto che sia Blacklands che Thorntyne Keep sono sulla linea del
fuoco. Penso a tutte quelle capanne di legno all'interno delle mura, alle
case dei domestici, dei mercanti, dei soldati, alla cappella, alle scuderie.
Non avranno scampo, il fossato non è abbastanza largo per fermare la for-
za distruttiva di quel fuoco.
I soldati di Richard, Isabel, Emmeline e Malcolm ritornano dalla loro
battaglia contro le fiamme, i visi esausti e arrossati.
«Non c'è speranza» grida Isabel. «Thorntyne Keep è perduta».
«E anche Blacklands!» ribatto io rivolta a Rhauk, ricordando i lucidi pa-
vimenti di legno, i tetti di paglia dell'antico convento, le pareti, le panche,
le porte, tutto quello che non è di pietra e che brucerà in un istante.
Rhauk getta una rapida occhiata al di sopra della spalle in direzione della
sua amata Blacklands e impallidisce visibilmente. «La mia torre!»
«Brucerà» dico con gioia maligna, pensando all'immenso assortimento
di erbe ed essenze. Penso alla pozione maledetta. «Con tutto quello che c'è
dentro!»
Il sangue sgorga dalla ferita di Jarrod, le forze lo abbandonano. Non può
resistere ancora a lungo. Non so come faccia, ma riesce a cogliere Rhauk
di sorpresa. Forse la preoccupazione per la sua preziosa Blacklands provo-
ca un vuoto nella sua concentrazione; Jarrod lo percepisce e se ne avvan-
taggia. In una incredibile esibizione di abilità cavalleresca lo disarma. La
spada di Rhauk vola via ed esplode non appena tocca terra.
Ora Rhauk è a terra, con il ginocchio di Jarrod puntato sul petto, e la
punta fiammeggiante della spada sospesa proprio sulla gola. Jarrod non
deve fare altro che affondare, e sarà finita. Mi domando se possa davvero
farlo. Dovrà, o il nostro viaggio fin qui sarà stato senza senso. È la sua
estrema prova di coraggio.
Rhauk cerca di scuotere via Jarrod, ma lui sta attingendo a una forza in-
teriore che va al di là di questo mondo. Con un urlo possente, solleva la
spada con entrambe le mani, e affonda.
Rhauk grida, e segue una confusione totale. La spada di Jarrod esplode,
mandandolo a cadere lontano per il contraccolpo. Ricade pesantemente,
per fortuna lontano dal fuoco, mentre il fianco gli sanguina copiosamente.
Mi volto verso Rhauk, ma non c'è più. Al suo posto c'è lo sbattere d'ali di
un corvo enorme. Vola verso Jarrod e lo colpisce crudelmente sul fianco
ferito. Lo getta a terra, bloccandolo. Jarrod prova a strisciare via, ma il
corvo è troppo vicino. Ricordo quando faceva lo stesso con me, e capisco
le sue intenzioni.
«No!» grido, agitando debolmente il pugno in aria. «Sta cercando di por-
tarti via!»
Jarrod non mi sente, stordito da quel potente rumore d'ali. Gli occhi di
Emmeline vagano tra me e Jarrod, confusi, mentre quelli verdi di Malcolm
sono rabbiosi. Lo vedo afferrare la spada e il panico mi attanaglia al pen-
siero delle intenzioni di quel traditore, ma non posso muovermi.
«Jarrod!» urla lui.
Jarrod si volta, al suono di quella voce forte.
«Prendi!»
Malcolm lancia la sua spada. Jarrod l'afferra con la mano tesa e in una
mossa fulminea l'affonda nel petto del Rhauk-Corvo.
L'animale grida, in tono quasi incredulo. Dopo un patetico tentativo di
volare via, ricade a terra nella sua forma umana, con la spada di Malcolm
ancora conficcata profondamente nel cuore.
«Eloise!» è l'ultima parola che esala, in un roco e sinistro sussurro.
Jarrod striscia via da sotto il corpo senza vita di Rhauk. È morto, final-
mente. Come per assicurarsene, Lord Richard, a bocca aperta dalla mera-
viglia, si avvicina, si fa il segno della croce per proteggersi dalla malvagità
del fratellastro e poi gli rovescia la testa all'indietro, tirandolo per i capelli.
Gli occhi neri di Rhauk sono vuoti. Solo allora Richard annuisce, soddi-
sfatto.
Jarrod è sfinito. È così frustrante stargli tanto vicino e non riuscire ad
andare da lui. All'improvvisio qualcuno grida, un cavaliere è avvolto dalle
fiamme. Altri corrono in suo aiuto. Mi guardo intorno e mi rendo conto
che abbiamo formato una specie di circolo: lo strapiombo alle mie spalle,
Richard e gli altri riuniti ai due lati. Le fiamme ci sbarrano completamente
la strada.
Jarrod si muove lentamente, il suo fianco destro è insanguinato fino alla
gamba. «Il fuoco ci circonda». La sua voce è spenta, stanca.
«Ma Rhauk è morto» dico.
I nostri sguardi si incrociano e lui si avvicina, con molta fatica. «Che co-
sa ti ha fatto?»
«Mi ha drogata. Non mi sento più braccia e gambe». Guardo intensa-
mente Malcolm. «Lui ti ha venduto, Jarrod. Quell'uomo è un traditore».
«Forse, ma non per me» risponde Jarrod, piano.
«Che vorresti dire?»
«Mi ha raccontato come hai tentato di fuggire».
«Ti ha anche detto che mi ha catturata e riportata da Rhauk?»
Malcolm s'inginocchia davanti a me, a disagio. «Volevo aiutarti, mia si-
gnora, ma sapevo che Rhauk sorvegliava ogni tua mossa. Per un momento
ho pensato che avremmo potuto farcela, ma poi è apparso lui. Non avevo
altra scelta che riconsegnarti».
La mano di Jarrod trova la mia, le nostre dita si intrecciano. «Lasciami
spiegare» dice a Malcolm, e poi si rivolge a me. «All'inizio Malcolm pen-
sava che io volessi qualcosa di più della morte di Rhauk, che volessi Thor-
ntyne Keep per me. Ma poi sono riuscito a convincerlo che non era così, e
lui mi ha aiutato ad allenarmi per questo duello. Mi ha insegnato tutto
quello che poteva nel poco tempo che avevamo. E poi, vedendo quanto ero
preoccupato per te, ha elaborato un piano: dare a Rhauk false informazioni
sui miei punti di forza e di debolezza, in cambio di una piccola ricompen-
sa. Se non l'avesse chiesta, Rhauk avrebbe sospettato altre motivazioni».
Guarda Malcolm, che inarca un sopracciglio e accenna un sorrisetto. «Da
quello che ho visto, ha recitato così bene la sua parte che Rhauk non ha
avuto il minimo dubbio».
«Perché non me ne hai parlato ieri nel bosco?» domando a Malcolm.
«Grazie alla sua stregoneria, Rhauk avrebbe potuto ascoltare la nostra
conversazione. Non potevo rischiare. Dovevo salvare il piano di Jarrod».
«Che piano?»
Jarrod lo interrompe, imbarazzato, e mi sembra di rivedere il ragazzo di
una volta. «Ne parliamo più tardi».
«No!» Sono troppo curiosa per lasciar perdere. «Che altro, Malcolm?
Qual era il piano?»
Malcolm lancia una rapida occhiata a Jarrod e sorride. «Dovevo salvarti
nel caso fosse accaduto qualcosa a lui. Almeno, con la scusa della ricom-
pensa, avevo un motivo per tornare a Blacklands, a riprenderti».
Annuisco. Ora è tutto chiaro. Il tradimento di Malcolm era un piano di
riserva nel caso la sorte fosse stata avversa a Jarrod. «Hai rischiato la vita».
«Non più di quanto abbia fatto Jarrod per te e per la mia terra».
Meno male che Malcolm non è un traditore. Mi domando che avremmo
fatto se lo fosse stato. Malcolm erediterà Thorntyne Keep, un giorno, e
combatterà per tenersela. Gli auguro ogni bene.
Jarrod mi prende i polsi tra le mani, poi chiude gli occhi e si concentra
sui ceppi di ferro. Quelli si aprono e cadono a terra. Dopo aver fatto lo
stesso con le catene alle mie caviglie, mi prende in braccio e mi tiene stret-
ta. «I nostri guai non sono finiti, Kate».
«Mettimi giù, Jarrod. Sei ferito».
Lui stringe ancora più forte.
Morgana grida. Il fuoco, a causa di un cambiamento nel vento, si avvici-
na a noi, spingendoci verso l'unica via d'uscita, la scogliera. Sbircio giù da
sopra la spalla di Jarrod e mi vengono le vertigini. Nessuno può sopravvi-
vere a un salto simile. Figuriamoci poi Jarrod, con quella ferita nel fianco
che ancora sanguina, oppure io nel mio stato letargico. Oltretutto c'è la
possibilità di schiantarsi sulle rocce frastagliate. «Siamo in trappola».
«Moriremo tutti!» grida Morgana.
Isabel si volta verso di lei. «Zitta, ragazza!»
«Io non so nuotare» mormora Richard, guardando giù.
«Nemmeno io» aggiunge Emmeline.
«È così che finirà, Jarrod?» chiedo, visto che lui è l'unico tra noi che sia
in grado di fare qualcosa. «Non hai più forze?»
La cosa migliore che possa fare è dimenticarsi di me, di tutti noi, e sal-
varsi, penso. Ora solo lui ha il dono della magia. Ovviamente potrebbe
usare gli amuleti e riportarci entrambi da Jillian, ma vorrebbe dire vivere il
resto della vita con il rimorso di aver abbandonato i suoi antenati a morire
tra le fiamme o a schiantarsi nel baratro. E non è così che la loro vita deve
finire.
Mi guarda negli occhi, come se leggesse i miei pensieri. «Non potrei mai
abbandonare la mia famiglia, Kate».
Resto di sasso. Li ha letti davvero, i miei pensieri! La sua magia dev'es-
sere immensa! E allora usa qualsiasi potere tu abbia, Jarrod, penso. «Sal-
vaci».
Lui sorride e annuisce. «Ci posso provare».
Non so cosa abbia in mente, ma dovrà fare in fretta. Chiude gli occhi, e
quasi istantaneamente si leva il vento. Diventa subito forte, e soffia da
nord, non solo lontano da noi ma anche da Thorntyne Keep. E, cosa mi-
gliore, porta con sé enormi nuvole nere, che corrono verso di noi a velocità
pazzesca. Morgana inizia a gemere, sopraffatta. Il fuoco si fa sempre più
vicino. Il fumo ci invade i polmoni, ci soffoca. I cavalieri sono caduti in
ginocchio, tossendo e recitando mute preghiere.
«Presto, Jarrod» dico piano, rannicchiandomi contro il suo petto, senten-
do arrivare una morte orribile. «Portaci la pioggia».
Ed ecco che all'improvviso cade a scrosci torrenziali, spinta da un vento
gagliardo. Il cielo si fa scuro, sembra quasi notte mentre la pioggia spegne
il fuoco ai nostri piedi e lungo la strada verso Thorntyne Keep. Sentiamo
grida di vittoria in lontananza, la cittadella è salva.
È finita, e noi siamo vivi. Il sollievo è incredibile. Isabel, Emmeline e
Morgana piangono a dirotto. Perfino Richard ha gli occhi lucidi, e non solo
per via della pioggia.
«Guardate!» Malcolm indica il picco nord, Blacklands. Là non sta pio-
vendo. Il cielo è azzurro, e il fuoco ha avvolto completamente il castello.
Anche la torre sta bruciando.
Guardo Jarrod, che mi tiene ancora stretta. Ha evitato di proposito che la
pioggia cadesse su Blacklands. In questo modo anche la maledizione mori-
rà. «Grandioso» mormoro. Lui sorride. «Io mica volevo vivere con Rhauk
sul serio, sai» gli dico, con un'ansia improvvisa.
Lui annuisce. «Lo so».
Non deve dire altro. Sorrido anch'io, e sento che una parte della mia nar-
cosi svanisce. Le forze stanno lentamente tornando. Ricaccio le lacrime.
«Un altro corvo!» esclama Morgana, indicando in direzione di Bla-
cklands.
Non è Rhauk, ma il suo fedele compagno.
Guardiamo tutti, con un misto di sbalordimento e orrore. Il corvo è av-
volto dalle fiamme.
«Oh!» mi copro la bocca con la mano.
«Brucia» mormora Jarrod.
La pioggia finisce, le nubi si disperdono. Ci faccio appena caso. Fissia-
mo tutti, come ipnotizzati, il corvo che gracchia, reso folle dal dolore. Alla
fine cade a terra con un tonfo, e il suo corpo si consuma in fretta.
«Oh, no» dico, tristemente. In fondo era solo un corvo.
Un'esplosione attira di nuovo la nostra attenzione su Blacklands. La tor-
re è saltata in aria, e quindi anche il laboratorio di Rhauk, con il vino ma-
ledetto. Restiamo a guardare come in trance, mentre frammenti di legno,
pietre, strumenti preziosi e di tutto ciò che non è già bruciato ricadono a
pioggia tutt'intorno.
Passa molto tempo prima che il frastuono dell'esplosione si esaurisca, e
torni il silenzio.
Kate
Richard proclama un giorno di festeggiamenti per Thorntyne Keep. Gio-
colieri, giullari, poeti e musici si preparano a intrattenerci nel grande salo-
ne. Con la morte di Rhauk è svanita anche ogni altra pretesa al titolo, e
questo è un buon motivo per festeggiare.
Jarrod e io non vediamo l'ora di tornare a casa da Jillian, al nostro mon-
do; ma le ferite di Jarrod richiedono cure immediate. Osservo Morgana
all'opera. Ricuce la ferita con molta cura, lavorando abilmente sui muscoli
lacerati, alleviando l'ustione con un unguento a base di erbe anestetiche.
Tuttavia, vorrei che anche Jillian ci desse un'occhiata. Un vero medico è
l'ultima risorsa, farebbe troppe domande.
Emmeline ci segue dappertutto, senza lasciarci un minuto di privacy. È
nervosa, tollera a malapena la mia presenza, ma non molla mai Jarrod.
Comincio a pensare che non sia per niente contenta che io sia tornata inco-
lume, e la cosa non mi piace. Ne parlo a Jarrod, ma lui non se ne preoccu-
pa affatto. «È solo nata un migliaio d'anni troppo presto» spiega. «È an-
noiata e frustrata. Malcolm dice che sta cercando di convincere suo padre a
mandarla a corte».
A metà pomeriggio inizia la festa. Sediamo al tavolo principale con Ri-
chard e Isabel, godendoci la loro compagnia per l'ultima volta. Emmeline è
seduta accanto a Jarrod, imbronciata e cupa; nei suoi occhi c'è un'immensa
delusione, come se i suoi sogni fossero stati appena infranti. È uno strano
contrasto con gli altri, che invece sono tutti felici. Malcolm ha ragione:
prima Emmeline sarà mandata a corte e meglio sarà, per il suo bene. Lord
Richard, dal canto suo, festeggia alla grande. Ha le guance rosa e gli occhi
lucidi. È incredibilmente allegro, e credo che molto del merito sia di quel
vinaccio rosso.
«Un brindisi» annuncia a un certo punto, alzandosi da tavola. Con passo
malfermo si avvicina a Jarrod e a me. Quando ottiene l'attenzione di tutti i
presenti, alza il calice con una mano, posando l'altra sulla spalla di Jarrod.
«A mio nipote e a Lady Katherine. Possano tutti i loro figli nascere qui nel
mio castello prima che io muoia, in modo che possa vedere i loro visi alle-
gri e sapere che sono al sicuro».
Il salone esplode in applausi e ovazioni. Non condivido il loro entusia-
smo, sono troppo occupata ad arrossire.
«Un immenso grazie a Jarrod per aver distrutto il nostro peggior nemico,
un uomo che ci ha portato più guai degli inquieti scozzesi al nostro confi-
ne».
Altre ovazioni. Richard beve una gran sorsata dal calice, come se fosse
nettare divino. Poi sia lui che Isabel ci guardano, in attesa. Riluttante, mi
porto anch'io il calice alle labbra e bevo.
Per un secondo penso davvero che il mondo si sia rovesciato. In un lam-
po ho la pelle d'oca ovunque. Bevo un altro sorso, per essere sicura.
Il vino è dolce, soave, corposo. Niente di simile alla solita robaccia di
Richard, si direbbe piuttosto... Oh, no...!
Richard si risiede, china educatamente la testa verso di me. Sta cercando
di sentire cosa farfuglio. Alla fine riesco a chiedere: «Da... da dove viene
questo vino?»
La sua faccia s'illumina. «Dalla cantina, mia cara. Non è spettacolare?
Lo serviamo solo in occasioni speciali come questa, o un matrimonio, o
altre feste importanti». Scrolla le spalle.
Io quasi mi strozzo. Non può essere... «Chi... ve lo ha dato?»
«Cielo, il re in persona, per gli ottimi servigi resi. Le nostre vittorie sugli
scozzesi sono leggendarie. Solo gli abili servi del re potevano distillare un
vino così eccellente. Ed è riservato ai membri della famiglia, per ordine del
re».
Lo guardo, senza parole.
Lui pensa che io non capisca. «È un dono del re» ripete, scandendo le
parole.
«Da... da quanto tempo?» balbetto.
«Oh, saranno vent'anni circa». Ci pensa su, chiede conferma con lo
sguardo a Isabel.
Lei dice: «Le prime botti sono arrivate non molto tempo dopo la parten-
za del padre di Jarrod. Lo ricordo bene, perché fu come se avesse riportato
la vita nella nostra famiglia. Avevamo ancora motivo di festeggiare».
Guardo Jarrod. Ha il calice in mano, ed è stato momentaneamente di-
stratto dalla conversazione fra me e Richard. Ora guarda il calice come se
lo vedesse per la prima volta. «È dolce, quindi» mormora, quasi più a se
stesso, e si porta il bicchiere alle labbra.
In un momento di panico glielo faccio saltare di mano. Emmeline grida
quando vede il vino finire sul bel vestito blu. Salta su dalla sedia, il suo
tetro malumore esplode in una serie di frasi sconnesse. La sua rabbia sem-
bra un tantino esagerata, e credo che ci sia dell'altro oltre alla noia descritta
da Jarrod. Ci sto proprio pensando quando con la coda dell'occhio la vedo
sollevare un vassoio di carne sotto sale.
Per fortuna la vede anche Malcolm. Troppo tardi, però, per impedirle di
tirarmi il vassoio. Malcolm mi spinge da parte e afferra la cugina, mentre
Isabel si arrabbia moltissimo. Lord Richard diventa rosso fuoco, e si alza a
fatica. «Che ha quella ragazzina? Insomma, che vada a corte, Malcolm,
come hai suggerito tu. Fai predisporre tutto subito».
Non ho né il tempo né la voglia di pensare ai problemi di Emmeline, ma
lo chiederò più tardi a Jarrod. Ora ne ho abbastanza dei miei, di problemi.
Jarrod, allibito, guarda alternativamente me ed Emmeline, poi di nuovo
me. Questo momento di distrazione mi serve per sgattaiolare via.
«Mi dispiace per il vino» mormoro, trascinando via Jarrod per il gomito.
Non lo mollo finché non siamo fuori dal salone fumoso, sui bastioni.
Ci sono due cavalieri di sentinella sulle mura, ma dalle loro risa direi che
non stanno sorvegliando granché; però a me serve un posto tranquillo e
isolato, e trascino Jarrod nel cortile che ospita il giardino privato di Isabel.
«Che succede? Perché mi hai fatto cadere il bicchiere?»
Respiro a fondo, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. Mi siedo
sulla panca più vicina e tiro Jarrod accanto a me. Ma sono troppo agitata,
così mi alzo e comincio a camminare su e giù davanti a lui.
«Kate, ti vuoi calmare? Mi spieghi cos'è successo?»
«È il vino».
Mi guarda attonito. Non capisce, e così continuo: «Ricordi quando ab-
biamo cenato a Blacklands e Rhauk ci ha detto che stava distillando la po-
zione nella torre?»
Lui annuisce e io cerco di sedermi. Gli racconto di come la pozione do-
veva finire nel vino, e di come Rhauk avrebbe ingannato il suo fratellastro
facendogli credere che quel vino, di qualità sopraffina rispetto al suo, era
un dono del re.
«Stai scherzando».
«Ho la faccia di una che scherza?»
Lui finalmente capisce. Se c'è uno scherzo qui, siamo noi a esserci ca-
scati. Jarrod alza la testa, riflettendo. I suoi occhi scrutano il cielo del cre-
puscolo, è come se fosse incantato dalle prime stelle. Alla fine mi guarda.
«Jillian ha sbagliato di vent'anni».
Scrollo le spalle. «Nessuno è perfetto».
«Ma allora perché Rhauk ci ha detto che stava ancora preparando la po-
zione quando invece l'aveva finita da vent'anni?»
Ci penso su a lungo, poi credo di capire. «Era uno dei suoi trucchi. Ha
mentito per ottenere quello che voleva».
«Voleva te».
«Sì, per sostituire Eloise. E voleva vendicarsi. La maledizione era la sua
vendetta, ma fintantoché noi avessimo pensato che non era terminata, lui
avrebbe potuto manipolarci per seguire il suo piano».
«E avere te» finisce Jarrod.
«Aveva promesso di non completare la maledizione se restavo con lui. I
patti erano questi».
«E allora cos'era quel vino nella torre?»
Ora è tutto chiaro. «Altro vino avvelenato, certo. Probabilmente forniva
a Richard nuovo vino ogni anno, per mantenere viva la storia del dono del
re».
Jarrod raddrizza la schiena e geme. «E allora che significa tutto questo,
Kate? Che è stato tutto inutile?»
Scuoto la testa. «No, non ci posso credere». E poi mi tornano in mente le
parole dell'antico manoscritto. «'Per porre fine alla maledizione dovrà
distruggere il negromante'».
«Cosa?»
Ricomincio a camminare su e giù, eccitata. «Fermiamoci a pensare un
momento. L'antico testo diceva che dovevi mettere fine alla vita del ne-
gromante. È proprio quello che hai fatto, Jarrod, hai ucciso Rhauk».
«Il che significa...?»
All'improvviso tutto si chiarisce. «La maledizione è finita, Jarrod. Al-
meno per te. Proprio da questo momento».
Lui mi guarda, con un barlume di speranza negli occhi.
«Non dico da questo momento nel medioevo. Per i tuoi antenati non
cambierà nulla, la maledizione farà il suo corso. Dopotutto, bevono quel
vino da vent'anni. Io parlo del nostro tempo».
«Spero che tu abbia ragione, Kate».
Sorrido, raggiante. Io ce l'ho sempre, non posso fare a meno di pensare.
Lui si alza e mi guarda dritto negli occhi, con le sopracciglia inarcate.
Troppo tardi, mi viene in mente che lui può leggere i miei pensieri più in-
timi!
Arrossisco violentemente, e vorrei tanto che fosse più buio. Mi domando
come farò con lui, che sa sempre cosa penso. Potrei cercare di bloccarlo,
ma i miei poteri non sono ancora tornati. Spero che la mia magia non abbia
subito danni permanenti. Non potrei sopportarlo.
All'improvviso sentiamo un grido dai bastioni. «Scozzesi!»
La parola passa velocissima di bocca in bocca. Scoppia il caos, ma è un
caos con un certo criterio. Questa gente sa già cosa fare, ha già difeso la
propria casa e la propria terra, ed è pronta a farlo di nuovo. Gli abitanti del
villaggio corrono dentro le mura, Isabel prende il controllo della situazione
e assegna un posto a tutti, mentre Richard indossa la cotta di maglia e dà
ordini ai suoi cavalieri.
È una scena fantastica, e mi sento privilegiata a potervi assistere. Ma,
per quanto mi piacerebbe restare e prendere parte alla battaglia, so che non
ci sarà un solo angolo sicuro in questo posto.
Jarrod è dello stesso avviso. «Andiamocene di qui».
Annuisco e cerco un posto tranquillo nel caos.
Parte Terza
Il ritorno
Jarrod
Lei mi fa promettere che mai, in nessun caso, leggerò i suoi pensieri.
Comunque non vorrei mai farlo, perciò non è una promessa difficile da
mantenere. Avremmo un bel problema di privacy, altrimenti. Questo ac-
cordo rende tutto più semplice.
Torniamo nello stesso punto da cui siamo partiti, presso il ruscello. Jil-
lian è ancora lì dove l'abbiamo lasciata, silenziosa vedetta nella foresta
pluviale, a vigilare sul cerchio di fuoco. Ci dice che siamo stati via solo
poche ore, anche se a Thorntyne Keep è passato più di un mese. Mi resti-
tuisce orologio e occhiali. La ringrazio, sono felice di riaverli.
Fa buio subito quando le candele si spengono, ma non ci faccio quasi ca-
so. Siamo entrambi esausti, il viaggio di ritorno ci ha esaurito. Soprattutto
Kate, che non si è ancora ripresa dagli effetti delle droghe di Rhauk. Jillian
e io dobbiamo aiutarla a camminare.
A casa, Jillian ci fa sedere al tavolo di cucina e prepara per Kate un infu-
so di erbe che ha un profumo vagamente familiare. Dopo essersi assicurata
che Kate ne abbia bevuto più di metà, comincia a tempestarci di domande.
Ore dopo stiamo ancora raccontando. Jillian vuole sapere tutto. Le diciamo
il più possibile, senza necessariamente scendere in dettagli, tipo la camera
da letto. I suoi occhi non ci lasciano mai. Assapora ogni parola, e ride
quando Kate le dice della 'cotta' di Emmeline per me e di come sia quasi
riuscita a venire via con noi, arrivando di soppiatto proprio mentre stava-
mo per pronunciare la formula in latino.
«Per fortuna ho potuto confondere la sua mente abbastanza a lungo da
permetterci di andarcene» spiego.
Jillian conviene che sarebbe stato un disastro se Emmeline avesse lascia-
to il suo mondo. «Il libro di tuo padre è molto chiaro sul suo destino» ci
dice. «Viene mandata a vivere a corte, dove diventa l'amante del conte di
Drysdon e gli dà tre figli illegittimi. Ma non sarà mai felice, perché la mo-
glie del conte le renderà la vita impossibile».
L'informazione ci lascia attoniti. All'improvviso mi dispiace per mia,
ehm, 'cugina'.
Kate comincia a raccontare a Jillian della battaglia con Rhauk, e subito
Jillian vuole vedere le mie ferite. «La sutura è ben fatta, domani ti medi-
cherò di nuovo».
Presto la testa di Kate comincia a ciondolare dal sonno e Jillian la manda
a letto. Quando Kate se ne va, cerco di ringraziare Jillian per tutto quello
che ha fatto, ma so che le parole non bastano. Le do i miei vestiti, e lei
impazzisce di gioia. Non sono quelli che aveva cucito per noi, ma valgono
ancora di più perché sono originali.
Alla fine mi addormento su un materasso che lei mi prepara in soggior-
no, e dormo per due giorni interi. Ci svegliamo tutti e due venerdì mattina.
I due giorni di scuola saltati non ci preoccupano più di tanto, Jillian ci ha
coperto con i professori e con i miei. Sono loro che mi preoccupano, inve-
ce, è ora che li chiami.
Uso il telefono del negozio di Jillian. La voce di mia madre è incredibi-
le, sembra davvero felice, e non la si sente spesso così. Mi dice che nelle
ultime quarantotto ore mio padre è migliorato in modo notevole, sia men-
talmente che fisicamente. La gamba non gli fa quasi più male, e ora cam-
mina solo con un bastone. «È un miracolo, Jarrod» dice, fra le lacrime.
«Voglio vederti, quando torni?»
«Prestissimo, mamma» la rassicuro. Lei continua a raccontarmi di come
lo stato d'animo di mio padre sia molto migliore, forse perché non deve più
sopportare il dolore. Pare che gli psichiatri siano strabiliati, e che parlino
addirittura di dimetterlo presto. Riattacco con un groppo in gola grosso
come un'anguria.
È il primo segno che la nostra sorte sta cambiando, in meglio.
«Buone notizie, eh?»
Annuisco, incapace di parlare senza scoppiare in lacrime. Attiro Kate a
me e chino la testa sulla sua spalla. Dopo un paio di minuti lei si tira indie-
tro, vedendo Jillian in paziente attesa sulla soglia. Racconto a entrambe le
novità sulla salute di mio padre.
«È meraviglioso, Jarrod» commenta Jillian, asciugandosi rapidamente
una lacrima. Mi abbraccia e io la ringrazio ancora.
«Oh, no» dice lei, agitando una mano. «Hai fatto tutto da solo».
Poi va in cucina a farsi un tè e Kate torna fra le mie braccia. «Sono così
felice per te» dice. Ma nella sua voce c'è una nota triste.
«Che c'è?» domando.
Lei scrolla le spalle. «Niente, è solo... La mia magia. Non è ancora tor-
nata».
«Probabilmente ha solo bisogno di una spintarella per liberarsi dalla pre-
sa di Rhauk».
Lei stringe gli occhi. «E come faccio a darle la spintarella se non ho più
poteri?»
«Hmm, hai ragione. Ma non ti preoccupare, Kate, io ho magia a suffi-
cienza per tutti e due».
«Io sono felice per te ma, senza offesa, non mi va di vivere con l'idea
che tu sarai sempre più forte di me. Rivoglio i miei poteri, così potremo
essere alla pari. Jarrod, io ho vissuto tutta la vita così, e ora mi sembra di
aver perso un braccio o, peggio ancora, una parte della mia anima».
Vedo chiaramente che le viene un'idea. «Certo, i tuoi poteri ora sono tali
che ci dev'essere qualcosa che puoi fare. Hai battuto Rhauk una volta, for-
se puoi farlo di nuovo, visto che è colpa della sua droga se sto così».
«Pensi che io possa riportarti la tua magia?»
«Perché no? Vale la pena di provare».
Usciamo fuori e camminiamo per qualche minuto mentre pensiamo a
come fare.
«Un incantesimo?» suggerisce lei.
«No, la mia magia non funziona in quel modo».
«Ah».
All'improvviso mi viene un'idea e le poso una mano sulla spalla, in mo-
do che si volti verso di me. «Quanto potere vuoi, Kate? Cosa ti renderebbe
felice?»
Lei ci pensa su, e per stavolta ignoro il nostro patto sulla lettura della
mente. Lei pensa al clima, e a come ha sempre desiderato di poterlo in-
fluenzare. Ma non me lo dice, si limita a scrollare le spalle.
Comincia a piovere, nevischio gelido. Rabbrividisco. Non sono ancora
abituato a questo clima di montagna, ma mi rendo conto che questa piog-
gia è anche più fredda del dovuto. Kate alza le mani, con le palme in su.
«Jarrod, è nevischio». Anche lei rabbrividisce. «Ci congeliamo qua fuori,
torniamo dentro».
Fa per muoversi, ma io la fermo. «Solo un minuto».
«Per fare cosa?»
«Chiudi gli occhi e pensa al caldo».
Lei ride appena, come se la stessi prendendo in giro.
«Concentrati» le dico, e inizio a sondare i suoi pensieri, in cerca dei resti
della magia di Rhauk.
«Che stai facendo?» squittisce lei. «Fa il solletico».
«Tieni gli occhi chiusi e concentrati su una cosa che desideri davvero.
Segui il cuore, Kate» dico dolcemente.
Lei smette di ridacchiare e pensa al calore.
«Di più, più convinta».
All'improvviso smette di piovere e l'aria si fa più calda. Talmente calda
che penso quasi di togliermi il maglione.
Kate si guarda intorno, a bocca aperta e occhi sgranati. «Che succede?»
Seguo il suo sguardo sbalordito. Nevica ovunque tranne qui, sopra di
noi, come se fossimo protetti da una specie di cupola invisibile. «Grazie,
Kate. È fantastico».
«Perché ringrazi me?»
Sorrido, senza dire una parola.
«Che c'è?»
«Non l'ho fatto io, questo» dico.
«Non fare lo scemo, Jarrod». C'è un lampo nei suoi occhi, poi la sento
sondare la mia mente. Le dico, col pensiero, che è stata lei a fermare la
neve e a riscaldare l'aria.
In un lampo di comprensione esce dalla mia testa. «Oh, dio!» sussurra.
«Sei stato tu» mi dice, «tu mi hai fatto qualcosa, mi hai dato il potere».
Alzo le spalle. «Non ti ho dato nulla che già non avessi fin dalla nascita.
Ti ho solo messo in contatto con la tua vera natura».
Lei ride e fa una piroetta. «Uau! È stupendo! Ho riscaldato l'aria!»
Si ferma di botto al suono di una macchina che sale lungo la strada. «E
adesso?» chiede, preoccupata.
«L'hai fatto tu» dico. «Ora rimetti tutto a posto».
Lei annuisce e chiude gli occhi. In un secondo il nevischio ricomincia a
cadere anche su di noi. Ritorniamo in fretta nel negozio di Jillian, al cal-
duccio.
Poco dopo la porta si apre col solito scampanellio. E fra tutte le persone
possibili, ecco entrare Tasha Daniels, Jessica Palmer, e i fedeli Ryan e Bi-
cipite.
«Ciao, bello». Bicipite mi molla una sonora pacca sulla spalla. «Come
sta tuo padre? Ho sentito che è all'ospedale».
«Meglio, grazie».
Tasha mi sfiora il gomito con le lunghe dita. Jillian non si vede da nes-
suna parte e Kate fa per ritirarsi, istintivamente alla ricerca di un angolo in
disparte. Cerco di incrociare i suoi occhi, ma lei mi evita. E anche senza
invadere la sua mente so cosa sta pensando. Siamo tornati, e rieccoci alla
solita routine. Tutto quello che abbiamo condiviso in quell'altra epoca sarà
dimenticato, come un sogno. Tasha e gli altri torneranno nella mia vita e
come al solito avranno la priorità su di lei.
«Hai saltato due giorni di scuola» gorgheggia Tasha. «Stavo comincian-
do a preoccuparmi».
«Ehm, no, sto bene, grazie».
«Allora, che ci fai di nuovo qui?» Lancia un'occhiata di sfuggita a Kate,
ma poi la cancella subito dai suoi pensieri. «Cerchi un costume?»
Per un secondo mi spiazza. Ma che dice? Poi ricordo. La festa d'inizio
inverno di Ryan, l'evento dell'anno. Ed è domani. «No, ce l'ho già».
Kate si allontana ancora, visto che nessuno dei quattro mostra di aver re-
gistrato la sua presenza. Eppure devono averla vista, entrando.
«A che ora mi vieni a prendere?» ordina Tasha.
Mi libero dalla sua presa, faccio un passo indietro e afferro la mano di
Kate, tirandola verso di me. Con riluttanza, lei avanza al centro del nostro
circolo. «Io non ti vengo a prendere, Tasha».
Tasha guarda per una frazione di secondo Kate, poi i suoi occhi tornano
su di me, duri e spalancati. «Cosa? E perché no?»
Attiro Kate davanti a me e le circondo la vita con le braccia.
Molto possessivo, lo so.
«Be', è ovvio. Vedi, ci porto Kate».
FINE