Introduzione
Introduzione
Per capire la spiritualità cristiana è necessario fare un breve excursus nei suoi antecedenti ebraici,
per necessità di concisione parlerò solo dell'Ebraismo precedente o contemporaneo al sorgere
dell'era cristiana ed in particolare delle scuole Profetiche e Rabbiniche trascurando la Cabala che
pur essendo essenziale per la spiritualità ebraica ha avuto il suo massimo sviluppo, come
approfondimento, dopo la distruzione di Gerusalemme e nel Medioevo. Sicuramente qualcuno
(Nebo od altri) potrà completare le mie riflessioni oppure, volendo è possibile, in tal senso, attingere
al materiale già presente in Comunità.
Causa l'ampiezza dell'argomento e la complessità dei temi trattati vi prego, in anticipo, di scusare le
necessarie generalizzazioni alle quali sarò costretto a ricorrere.
Fondamentale, per l'Ebraismo è innanzi tutto il concetto di santità "Qedusàh"
L'aggettivo "qados" inizialmente con il significato di: "separato, lontano", riferito al Dio di Israele
designa tutto ciò che in Dio c'è di elevato e perfetto.
Gli Ebrei sono chiamati, tramite un complesso sistema di regole, ad essere "santi perché Io, il
Signore vostro Dio, sono santo" (Levitico 19,2) ed in tal modo viene stabilito un particolare
rapporto di complementarità tra ogni singolo individuo e Dio: "Dio è dappertutto, non già per le
qualità proprie….ma, perché noi, i portatori della sua santità, lo trasportiamo ovunque si esercita la
nostra penetrazione…….attraverso le mille prospettive della Toràh (insegnamento) che comunica
ovunque e sempre la conoscenza sotto l'aspetto religioso, essendo essa, nella sua totalità, la
religione, il legame per eccellenza" (A. Mandel, La via del Chassidismo).
Questo ideale sempre presente dall'inizio della storia ebraica in poi, tanto che una delle possibili
etimologie del nome Yahwè è Yahù = "il mio" per indicare la propria divinità personale e di clan, fu
presto contraddetto dai vari tradimenti e dalle varie infedeltà di cui fu protagonista, per debolezza
umana, il popolo ebraico e, anche senza mai contraddire il sogno-principio di un popolo dedicato
completamente a Dio, portò i sapienti a sentenziare "l'ignorante non teme il peccato ed il popolo
non può essere pio" (Avòth 2.).
Si formarono allora delle vere scuole di interpreti della Parola di Dio. Seguendo le usanze dei
popoli vicini, si distinguono soprattutto:
1. i Nebi'ìm (profeti che con danze, canti, grida, movimenti violenti invocavano l'ispirazione della
divinità) ed
2. i Nhazir (consacrati a Dio che, per tutta la vita o per il periodo di un voto, si astenevano dalle
bevande inebrianti, si lasciavano crescere i capelli e non potevano avvicinarsi ai morti, neanche
della loro famiglia).
Tali gruppi erano però, a differenza di scuole misteriche successive, integrati nell'ottica religiosa del
tempo ed agivano all'interno del popolo come testimonianza della presenza di Dio e dalle loro file
uscivano giudici (Sansone, Samuele e Deborah) o profeti, sacerdoti, condottieri e persino re
(Davide) che facendosi servi della Parola operavano, grazie al rapporto privilegiato con Dio, per il
bene del Popolo.
In tal senso manca nelle scuole antiche quel pessimismo verso la materia e soprattutto verso gli
uomini che invece diventò dominante con l'influsso della filosofia platonica in seguito.
L'Iniziazione non aveva uno scopo autonomo o rivolto ad una cerchia ristretta ma era orientata al
servizio di Dio e del popolo. Questo primo punto è importante, come precedente, perché in ambito
Cristiano le scuole di spiritualità non sono mai state considerate avulse dalla dinamica ecclesiale
ma, anche nelle esperienze estreme più dedicate alla contemplazione ed alla solitudine, sono sempre
stati considerati un "segno" per il popolo di Dio.
Abbiamo detto che profeti e consacrati a Dio sono al servizio della Parola.
Ma cos'è per gli Ebrei la Parola?
Per gli Ebrei la Parola è soprattutto la Torah e cioè quello che i Cristiani chiamano il Pentateuco
(Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) che costituisce da solo la pienezza della
rivelazione.
"Se Israele fosse stato degno della Torah, la rivelazione contenuta nei Profeti e negli Agiografi
sarebbe stata inutile" (Qo Rab. 1,13) dicono i Maestri ed il Talmud riferendosi alle altre parti della
Bibbia che considerano "parole della tradizione" anche se ispirata dallo "spirito santo" (be-ruah ha-
qodes). La Torah è stata rivelata completamente sul Sinai a Mosè ma non per questo è fissata
completamente nello scritto. Esiste una Torah scritta (Torah-she-biketav) ed una Torah orale (Torah-
she-be-alpè) che ha la stessa importanza di quella scritta e che viene tramandata da maestro a
discepolo. È un messaggio che viene trasmesso da orecchio ad orecchio, una dialettica misteriosa
alla quale sono gradualmente iniziati coloro che si pongono all'ascolto di Dio. La Mishna
("ripetizione" della Torah) ed i Talmud non possono essere percepiti che nella bocca di un maestro
che "parla queste voci" e così le scuole spirituali sopra menzionate quasi "migrano" all'inizio
dell'era cristiana nella scuola rabbinica "Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè;
Giosuè agli anziani e gli anziani ai profeti; e i profeti la trasmisero ai membri della Grande
Congregazione………….Josè figlio di Jo'zer, di Zeredà, e Josè figlio di Jochanan, di Gerusalemme
ricevettero la tradizione dai precedenti" ecc. ecc. recita la Mishna facendo della trasmissione quasi
un fatto di "famiglia".
Allora non si può quasi più parlare di interpretazione ma di "ascolto-parola-azione" che per lungo
tempo non viene codificato. Solo nel 1291 Bachjah ben Asher di Saragozza afferma che esistono
quattro tipi di interpretazione ebraica:
1. il peshat (esegesi letterale)
2. il remez (interpretazione allegorica)
3. il derash (interpretazione omiletica-sapienziale)
4. il sod (la spiegazione mistica)
Guarda caso questa quadri partizione ricalca quasi completamente il metodo cristiano delle grandi
scuole di spiritualità delle quali parleremo dora in avanti che, al di là delle differenze religiose
conservano un legame profondo con l'esperienza ebraica dell'ascolto.
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Prima di introdurci nelle scuole è però necessario fare almeno un breve accenno al Nuovo
Testamento ed alla spiritualità ad esso inerente. L'argomento anche qui potrebbe essere interessante
e sviluppato soprattutto cercando di capire il modo nel quale Gesù viveva la sua spiritualità, ma per
il nostro scopo mi limito ad osservare quello che, secondo san Paolo è il carattere distintivo del
cristiano: "In Cristo Gesù non è la circoncisione o la non circoncisione che conta ma la fede che
opera per mezzo della carità" (Galati 5,6) e parallelamente: "Non è la circoncisione che conta ,…
….., ma l'essere nuova creatura" (Gal. 6,15). L'essere in Cristo Gesù una creatura nuova
presuppone l'acquisizione, per dono divino, di una identità personale segnata da Gesù Cristo.
L'iniziativa è di Dio: "Noi abbiamo conosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto" (1
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lettera di Giovanni 4,16) ed a questa iniziativa la risposta corretta è l'abbandono delle proprie
"ricchezze". Di colui che ha pregato: "O Dio, abbi pietà di me peccatore" (Luca cap. 18) si dice che
"tornò a casa giustificato" che nell'ottica della comunità cristiana vuol dire "fatto giusto" in modo
stabile secondo un'esistenza vissuta come accoglienza del dono e riconoscimento della grazia.
In cosa consiste il dono di Dio? Nella partecipazione alla Vita attraverso lo "Spirito di Dio"
"Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?" (1 Corinti 3,16). Infatti il
figlio della parabola dopo aver sperperato tutta l'eredità "rientra in se stesso" e ritorna dal padre.
Per non parlare del vecchio Nicodemo al quale viene chiesto di tornare bambino e di "nascere dallo
Spirito".
C'è nel Vangelo (ma anche nell'Antico Testamento), quest'ottica del fuori - dentro - fuori (VITRIOL
allora non basta), perché la "pietra nascosta" è "stata posta" dentro di noi dalla mano dell'Altro per
eccellenza e, quindi, ogni forma di controllo su "tutto" il reale diventa impossibile, se non
addirittura risibile e blasfema.
Ciò mi sembra un patrimonio originale che "Le religioni del Libro" hanno portato all'umanità: la
percezione dell'imprevedibilità del reale o, in altre parole, la coscienza che è si possibile avere la
percezione del Tutto (illuminazione?) ma non di tutto il Tutto che resta sempre al di là della nostra
portata, pronto a sorprenderci.
Come vedete mi sono messo a fare "filo - sofia" invece di limitarmi all'analisi storica, spero di
essere perdonato perché di fronte al Vangelo non riesco a rimanere indifferente. Vi invio comunque
questo contributo sperando di riscattarmi la prossima volta.
Un abbraccio
Ruah
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Devo ammettere che l'argomento delle "scuole di spiritualità cristiane" è vastissimo e proprio tale
ampiezza è quella che mi trattiene spesso dall'inviarvi materiale, rileggendo i padri mi perdo nella
profondità e nella vastità degli argomenti, non so come sintetizzarli, sarebbero tutti importanti ma
devo fare una scelta, userò allora articoli scritti da altri ed anche questi dovrò sintetizzarli.
Inizio dicendo che dividerò le "scuole" tra oriente ed occidente cristiano e mentre in oriente potrò
fare un discorso unico basandomi principalmente su uno splendido e completo articolo del padre
Thomas Spidlìk dal "Nuovo dizionario di spiritualità" edizioni Paoline ed utilizzando suggerimenti
tratti dai "Racconti di un pellegrino russo" edito da Rusconi, in occidente dovrò distinguere invece
le diverse correnti rappresentate dagli Ordini religiosi e dai loro fondatori.
Teniamo però presente che non sto parlando della spiritualità del monaco se non marginalmente
perché, come abbiamo visto nell'Antico Testamento le scuole iniziatico - religiose sono rivolte al
popolo di Dio ed i monaci o i religiosi sono posti in mezzo al popolo come segno di una presenza (e
ciò avviene anche quando si ritirano nel deserto).
L'Oriente cristiano è tutto impregnato dell'esperienza viva dei Padri Apostolici, in particolare le
opere di Ireneo di Lione, Origene, la "Vita di s. Antonio di Attanasio, le Regole di s. Basilio, gli
Apoftegmi dei padri, le Centurie sulla carità di s. Massimo Confessore, la Scala del Paradiso di s.
Giovanni Climaco, le Catechesi di Teodoro Studita. Il legame resta però vivo con la Parola, dice
Origene parlando del cammino verso Dio: "Che cos'è la conversione? Se noi voltiamo le spalle a
tutte le cose del mondo e, attraverso il nostro studio, i nostri atti, il nostro spirito, il nostro sforzo, ci
consacriamo alla parola di Dio, se meditiamo la sua legge giorno e notte, se, dimenticando tutto il
resto, siamo disponibili a Dio e prendiamo a cuore le sue testimonianze, è proprio tutto questo che
significa essere convertiti al Signore"
Allora l'ideale mistico di ogni credente è ancora, e con più forza, sintetizzato dall'inizio del primo
Salmo (a proposito sarebbe interessante vedere l'unico itinerario mistico nascosto dietro i 150 salmi)
"Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede
in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la Sua legge medita giorno e
notte".
Voltare le spalle a tutte le cose del mondo come dice Origene non vuol dire in quest'ottica, quindi
abbandonare la natura ma il male perché anzi la natura (in greco physis, da phyein = crescere) è
tutto ciò che Dio ha piantato e che noi siamo obbligati a coltivare. Il Cristiano è "spirituale" in
quanto lo Spirito Santo fa parte della sua vita "L'uomo perfetto è composto da tre elementi: la
carne, l'anima e lo Spirito" dice Ireneo di Lione e quindi tutti e tre questi elementi devono essere
visti come "immagine" di Dio. Per gli orientali l'archetipo è il Padre e Gesù Cristo è la sua unica,
vera immagine, gli uomini sono stati fatti "a immagine" e cioè per essere come Gesù Cristo,
indirizzati verso di Lui come Egli lo è verso il Padre. L'immagine è però il dato iniziale, visibile, a
volte solo nella contemplazione, la "somiglianza" è invece il cammino (ed anche la meta) che
l'uomo deve compiere per raggiungere la perfezione. la vita spirituale allora può essere sintetizzata
nel passare dall'immagine ideale all'effettiva rassomiglianza con Dio.
Tale cammino sarà compiuto partendo dal conseguimento dell'umiltà interiore e sotto la guida di
uno Staretz (maestro spirituale, alcuni dei quali travestono la loro umiltà divenendo "folli per Dio")
e leggendo le opere dei Santi Padri)
Quattro sono i gradi (o gradini? eheheheh) della preghiera:
1. Preghiera corporale o vocale
2. Preghiera mentale (sforzo dell'intelligenza)
3. Preghiera del cuore
4. Preghiera spirituale (estasi)
Inseriti in quattro gradi di Contemplazione (1 Naturale, 2 Delle cose invisibili, 3 della Provvidenza,
4 Theologia o contemplazione della Trinità) che non sono come per i Neo - Platonici orientati solo
verso l'acquisizione del bello come vestigia di Dio ma divengono vera esperienza religiosa che
scopre il Logos theoteles, il senso iniziale e finale delle cose.
Questi aspetti sono portati avanti da un "viandante" alla ricerca della preghiera continua (stato di
preghiera, in greco katastasis proseuches, per obbedire al comando: "Pregate senza interruzione" 1
Tessalonicesi 5,17), del contatto continuo con Dio attraverso varie pratiche che vanno dalla
prolungata durata della Liturgia alla recita continua del mantra: "Signore Gesù Cristo, figlio del Dio
vivente, abbi pietà di me peccatore, all'orazione interiore attraverso le "tre chiavi" usate in modo
successivo e cioè:
1. La frequenza nell'invocare il Nome di Cristo.
2. La concentrazione durante l'invocazione.
3. La discesa in se stessi, l'ingresso della mente nel cuore attraverso il respiro per trovarvi il Regno
di Dio dentro di noi.
Il cuore, per l'oriente cristiano è il centro dell'attività spirituale dell'uomo e la purificazione del
cuore coincide con il raggiungimento dell'Aphateia non intesa come insensibilità ma come forza
dello Spirito che permette di resistere alle passioni e di mantenere costantemente l'anima aperta e
disponibile all'ascolto della voce di Dio.
La sintesi che ho provato a fare della spiritualità dell'Oriente cristiano, è molto parziale, esclude, per
esempio, un aspetto fondamentale della spiritualità ortodossa come il culto delle Icone, per meglio
approfondire questo aspetto rimando ad un testo fondamentale quale "La Teologia della bellezza" di
Pavel Evdokimov, ricordando solo che nelle Icone gli autori orientali cercano di dipingere
l'invisibile, ogni colore ha un significato teologico e così pure ogni proporzione. Nella famosa
"Trinità" di Rublev, ad esempio, le figure dei tre angeli tratteggiano (racchiudono con le linee dei
propri corpi) il Calice dell'ultima cena, il movimento trinitario è discendente dal Padre al Figlio e
viceversa è ascendente il movimento salvifico dal cubo che rappresenta il mondo ecc. ecc. I monaci,
ancora oggi, quando dipingono un'Icona osservano il digiuno e restano in preghiera proprio per
invocare l'aiuto divino sulla loro opera. Comunque, se dovessi considerare tutti gli aspetti non
finirei più, spero di avervi solo incuriositi perché vogliate approfondire autonomamente i temi
trattati mentre io vorrei continuare sulla linea direttiva Parola - cuore - preghiera parlando di un
monaco del IV secolo che segna una tappa fondamentale nel passaggio tra Oriente ed Occidente e
cioè di Giovanni Cassiano che "annuncio" con un brano tratto da una sua opera:
"Sforzatevi di applicarvi assiduamente, che dico, costantemente alla lettura sacra, finché questa
meditazione continua non impregni infine la vostra anima e la conformi, per così dire, a sua
immagine. Ne farà in qualche modo l'arca dell'Alleanza che racchiude in sé le due tavole di pietra,
cioè l'eterna saldezza dell'uno e dell'altro Testamento; l'urna d'oro, simbolo di una memoria pura e
senza macchia che conserva per sempre il tesoro nascosto della manna, a ben comprendere l'eterna
e celeste dolcezza dei sensi spirituali e del pane degli Angeli (………). Così la vostra anima,
innalzata fino a diventare non solo l'atto del divino Testamento, ma anche il Regno sacerdotale,
assorbita in qualche modo nelle conoscenze spirituali, per il suo inseparabile amore della purezza,
compirà i comandamenti dati dal Legislatore al sommo sacerdote, non uscirà dal santuario per non
profanare il santuario di Dio, cioè il suo cuore, dove il Signore promette di porre la sua perenne
dimora - Abiterò tra di loro e camminerò in mezzo a loro -".
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Giovanni Cassiano non è il fondatore di una grande scuola di spiritualità e quindi non ne dovremmo
parlare, ma il suo ruolo di ponte tra oriente ed occidente e l'influenza che ha avuto sul monachesimo
benedettino lo rende importante per il discorso che stiamo facendo. Quindi, invertendo un po' la
storia, per iniziare a trattare le scuole occidentali parlerò prima di lui che del grande protagonista di
questo periodo (per l'occidente), Agostino di Ippona, la cui opera spirituale tratteremo in seguito.
Cassiano è un viandante, la sua vita è alla ricerca delle fonti della sua fede, dalla Gallia alla
Palestina, al deserto egiziano e di Scito dove si ferma alcuni anni e conosce monaci celebri, a
Costantinopoli dove conosce s. Giovanni Crisostomo che lo ordina Diacono, a Roma dove diventa
amico del Papa s. Leone Magno (quello che ferma Attila), a Marsiglia dove fonda due conventi
(maschile e femminile) e scrive gran parte delle sue opere. Le opere principali di Cassiano sono le
"Institutiones" rivolte alla prassi, all'homo exterior e le "Conlationes" rivolte all'homo interior
incentrate però tutte e due le raccolte intorno all'ideale monastico orientale.
Si può descrivere Cassiano come il fedele traduttore dell'esperienza dei Padri del deserto che ci
sintetizza elaborandola.
Per lui il fine da raggiungere è la preghiera "Questo è il termine della perfezione: che a questo punto
l'anima sia alleggerita dai pesi della carne (….) che tutta la vita, ogni movimento del cuore, diventi
un'unica, ininterrotta preghiera" e ciò per giungere alla "Théoria", la contemplazione di Dio in una
preghiera ininterrotta che, a volte, diventa "uno sguardo su Dio solo, un grande fuoco d'amore"
(Conferenza 9,18). Quando però descrive la contemplazione, Cassiano la descrive nei termini
dell'esegesi scritturale, la Scrittura è presentata quale oggetto di contemplazione e suo luogo. Per
lui, come per tutti gli anziani, chi sostiene, nutre, mantiene la vita di preghiera e l'unione con Dio è
proprio la scrittura. Scienza spirituale, scienza delle scritture, esperienza di Dio e contemplazione,
per lui costituiscono un tutto unico ed inscindibile.
La theoretikè (contemplazione) deve però essere preceduta dalla pratiké (ascesi di purificazione del
cuore) che consiste nello zelo costante nell'imparare a memoria le sacre Scritture e nel rimuginarle e
ripeterle senza sosta nella memoria, nella convinzione che l'animo umano sia un contenitore la cui
qualità dipende dal contenuto: "Le macine di un mulino sono azionate dalle acque di un canale che
vi cadono sopra. Esse non possono smettere il loro lavoro, costrette come sono a girare, sotto la
spinta delle acque. Tuttavia è in potere del padrone del mulino far macinare a suo piacimento grano,
orzo o zizzania" (Conf. 1,8). Dipende dunque, in gran parte, da noi, da cosa gettiamo nel mulino, se
i nostri pensieri sono santi o carnali; se però vi gettiamo la Parola "attraverso questa applicazione il
nostro spirito si rinnova, anche le Scritture cominciano a cambiare volto. ci è data una
comprensione misteriosa, la cui bellezza aumenta insieme ai nostri progressi" (Conf. 14,11)
Fin dagli inizi della vita spirituale la meditazione assidua dei testi sacri, appare a Cassiano, un
efficace fattore di purificazione interiore, e nello stesso tempo il mezzo sicuro ed efficace per
ricondurre e fissare in Dio i pensieri e gli affetti. Man mano che il cuore diventa più trasparente
gusta maggiormente e penetra più profondamente il mistero delle scritture. poco a poco la Parola di
Dio lo trasforma a sua immagine, diventa il luogo in cui l'uomo fa "L'esperienza del dio vivente".
Passando attraverso il suo cuore, i testi biblici, soprattutto i Salmi (non dimentichiamo che sono
stati i Salmi l'ultima preghiera di Gesù sulla croce), diventano, spontaneamente, l'espressione della
sua più personale ed intima preghiera "come se egli stesso ne fosse l'autore".
Alcuni brani di quest'ultimo intervento li ho presi da "Pregare la Bibbia nella vita religiosa" edizioni
Quiqaion, non li ho spesso messi tra virgolette perché ho preferito non spezzare troppo il discorso,
concedetemi tale licenza aspettando Agostino d'Ippona.
AGOSTINO
"la prima età, come fosse il primo giorno, si estende da Adamo al diluvio; la seconda dal diluvio ad
Abrahamo (non ha la stessa durata di tempo, ma ha lo stesso numero di generazioni: si constata
infatti che ognuna ne conta dieci). Da Abrahamo fino a Gesù Cristo - come riferisce l'evangelista
Matteo - si hanno tre età, ognuna delle quali comprende quattordici generazioni (………): totale
cinque età. La sesta sta trascorrendo ora, ma non deve essere misurata da nessun numero di
generazioni poiché è detto: Non sta a voi conoscere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato in
suo potere. Dopo questa sesta età, come in un settimo giorno, il Signore si riposerà e farà riposare in
lui questo settimo giorno che saremo noi stessi. Sarebbe troppo lungo trattare ora in particolare di
ciascuna di queste età. Dirò tuttavia che la settima età sarà il nostro sabato; che questo sabato non
avrà tramonto ma sarà il giorno del Signore, e per così dire, un ottavo giorno eterno, poiché la
domenica, consacrata dalla resurrezione di Cristo, prefigura il riposo eterno dello spirito e del
corpo. Là riposeremo e vedremo; vedremo ed ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà
alla fine senza fine".
Con questo brano Agostino conclude "La Città di Dio" e questo mi è sembrato un brano adatto a
presentare il "dottor angelicum", la persona che forse, dopo s. Paolo, ha contribuito di più al
cammino spirituale della Chiesa.
Per comprendere la spiritualità agostiniana bisogna tenere presenti tre aspetti: a) La Chiesa dopo
Costantino uscì dal periodo delle persecuzioni ed il cristiano dovette, necessariamente, ridurre
l'esaltazione della testimonianza (martirio); dovette entrare nel quotidiano dell'esistenza con l'umiltà
connaturale al ripetersi del quotidiano, dove manca la possibilità di compiere grandi gesti ed invece
viene richiesta una fedeltà al Signore a livello personale e familiare b) Agostino seppe riunire le
istanze positive provenienti da s. Basilio che aveva creato monasteri dentro le città con quelle
provenienti da s. Ambrogio che esortava i cristiani ad un maggior impegno civile. I monasteri
fondati da Agostino divennero punti di aggregazione e di impulso per la società civile, recuperando
con ciò la funzione delle congregazioni di "giusti" dell'Antico Testamento con in più il segno
peculiare della spiritualità agostiniana (o del Nuovo Testamento?), l'accentuazione sull'amore di Dio
e del prossimo. c) La storia personale di Agostino nella quale coesistono l'acuta sensazione del
proprio peccato con una incessante tensione Dio: "Tu che hai fatto l'uomo a tua immagine e
somiglianza, per cui conosce Te chi conosce se stesso, ascoltami (………). Comanda, ti prego ed
ordina ciò che vuoi, ma prima guarisci ed apri il mio udito perché possa ascoltare la Tua voce.
Guarisci ed apri i miei occhi affinché possa vedere i tuoi cenni di comando… Riaccogli ti prego
il tuo fuggitivo….sento che devo tornare a te" (Soliloqui 1). L'elezione a Presbitero (è inutile dire ai
più, ma forse qualcuno non sa che la parola "Prete" è la contrazione della parola Presbitero e cioè
anziano, il "saggio" della comunità) e poi a Vescovo portarono ad Agostino la conferma dello
slancio verso la costruzione di questa comunione d'amore non solo per se ma per tutta la Chiesa,
cercando di coinvolgere in questo fervore tutti però secondo le capacità (spirituali) di ciascuno.
Agostino infatti è convinto che esistano diversi livelli di "ratio":
1. Carnale
2. Spirituale
L'uomo "spirituale" compie un cammino che partendo da uno stadio normale di comprensione della
realtà, passa per "l'homo credens" per arrivare a "l'homo intelligens".
La fede per Agostino ha dunque il ruolo di "iniziare" alla ricerca della verità, di punto di partenza
per la conoscenza che non si deve arrendere di fronte ai misteri, in un continuo slancio verso una
comprensione sempre più profonda, perché: " Nella vecchiaia del mondo, quando ogni cosa cadeva
in pezzi, Dio ha inviato il Cristo per rifarlo. Quando ogni cosa invecchia, Cristo viene per
rendere nuovo anche te. Il mondo è come l'uomo: nasce, cresce, invecchia…non restare
attaccato a questo vegliardo che è il mondo. Non rifiutare di ringiovanirti in Cristo, che ti
dice: il mondo perisce, invecchia, scompare, esso è travagliato dal tarlo della vecchiaia. Non
avere paura: la tua giovinezza si rinnovellerà come quella dell'aquila" (Serm. 81,8) e
"L'intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell'uomo, come si
canta nel Salmo ispirato (Sal. 13,2), per vedere se c'è chi ha intelligenza, chi cerca Dio. Dunque per
questo l'uomo deve essere intelligente, per cercare Dio" (De Trinitate 15. 2, 2).
In cosa consiste il progredire dell'intelligenza spirituale? In questo: "Cercate di perfezionarvi
sempre più nel discernimento del bene dal male, e state sempre più uniti al Mediatore che vi
libererà dal male, liberazione che non si compirà tanto con una separazione esteriore, quanto
con una guarigione interiore." (In Ioann. 28,7) "Quando dunque dice il Signore: avrei molte cose
da dirvi ma adesso non siete in grado di portarle, significa che doveva essere aumentata la loro
conoscenza (……..). Ma ogni uomo governato dallo spirito può insegnare agli altri uomini quanto
sa, se lo Spirito Santo lo ha fatto avanzare sulla via della perfezione tanto da ricevere quella
maggiore illuminazione che farà si che il dottore ed il discepolo siano entrambi ammaestrati da Dio"
(In Ioann. 28,8).
Lo studio delle Scritture opera, infatti, il passaggio dalla "pietas" alla "scientia", cioè all'intelligenza
della fede. "La scrittura era un libro chiuso, nessuno lo comprendeva. È stato crocifisso il Signore
ed essa si è sciolta come cera perché tutti i deboli la comprendessero" (En. in ps. 21,15) e indica le
condizioni per percepire il significato delle Scritture:
1. Una "ricerca pia" disposta cioè ad ascoltare.
2. La preghiera come fondamento (soprattutto per gli studiosi) della conoscenza
Il fine poi resta la Carità: "In esse non ricercate altro; nessuno vi comandi altro. Quando in esse vi
sono oscurità, la carità vi è nascosta; quando tutto è facile è essa che vi appare manifesta" (En. in
ps. 140,27). Infatti Agostino capì che l'amore è il "motus" del muoversi stesso dell'uomo, tanto che
questi può definirsi da ciò che ama, intuì inoltre che tale amore che lo spinge, al di la della sua
consapevolezza, è Dio stesso, la sua "quies" e la sua beatitudine.
La virtù perciò è l'amore "ordinato" nel senso di amore che sa individuare il fine. L'uomo virtuoso è
poi colui che, trasceso l'egoismo, ricerca e preferisce le cose che si possono godere insieme, il bene
comune con una empatia molto simile a quella prescritta dal Buddismo.
Al contrario l'amore egoistico è il fondamento del peccato, anche di quello degli Angeli. Non si può
sfuggire all'amore.
L'uomo è, per Agostino, poi, un'immagine "impari" di Dio (come del resto lo è tutto il creato),
l'uomo sente in se di essere "capace" di Dio ma, essendo impari, cioè non uguale, avverte l'enorme
distanza che lo separa da Dio, l'esistenza è perciò avvertita come un paradosso. L'essenza del
Cristianesimo, inteso come vita, è attingere, tramite Cristo, alla "misericordia" ed all'amicizia di
Dio, attingere all'immagine della Trinità che è in noi. Immagine ricostituita e divenuta "pari",
attraverso la fede, la speranza e l'amore (anche se questo cammino avrà compimento solo
nell'eternità). L'unione delle tre divine Persone diventa pertanto punto di partenza (e di arrivo) di
ogni ascensione spirituale.
La preghiera è quindi sentita come esperienza umana dell'amore e della vicinanza di Dio che si
rende presente al più intimo di noi stessi, un'esperienza che pur partendo dalla Parola deve giungere
al silenzio o, meglio all'unica parola detta una volta per sempre: "Parlando di Te un sapiente, nel suo
libro chiamato Ecclesiastico (Siracide 43,29), ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla
meta, Lui è tutto, al di là delle parole. Quando, dunque, arriveremo alla Tua presenza,
cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; tu resterai, solo, tutto in tutti
(1 Cor. 15,28), e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti
anche noi una sola cosa in Te" (De Trinitate 15,28,51).
Condensare la profondità di Agostino in poche parole, in un percorso limitato, è impossibile ed,
ovviamente rimando alla lettura delle sue opere per maggiori approfondimenti. Voglio però
ricordare ancora una distinzione che (me l'ha fatta ricordare una recente discussione con Omar) può
essere utile per capire meglio la diversità tra essoterico ed esoterico: Agostino distingue nella
volontà l'"uti" (usare) dal "frui" (fruire, godere) e nel "De Trinitate" egli definisce l'atto del fruire
come un riposare da parte della volontà in cose di cui prova piacere per quel che esse sono in se.
L'uti è. invece, un riferire le cose ad altre realtà. Nella Città di Dio Agostino riprende la stessa
contrapposizione ed aggiunge che bisogna usare le realtà temporali (tutte e quindi anche le
Scritture, le leggi, i riti ecc.) al fine di fruire di quelle eterne, la stessa ragione umana deve "usarsi"
per poter giungere alla fruizione di Dio, commenta Guglielmo di Saint-Thierry sei secoli dopo:
"Fino a quando formulerò propositi nell'anima mia? (……) Ed ecco che mi risponde nel profondo
del cuore la verità della tua consolazione e la consolazione della tua verità: mi dice che esiste un
amore di desiderio ed un amore di godimento. L'amore di desiderio merita alla fine la visione,
la visione merita il godimento, il godimento merita il compimento dell'amore".
L’influsso di questo grande padre è stato costante, infatti, nella Chiesa, soprattutto in quella
d’occidente. Per fare dei nomi sono derivati direttamente da lui e lo considerano come padre, oltre
ai diversi ordini religiosi agostiniani anche i Domenicani, i Servi di Maria, i Premostratensi e
risentono moltissimo della sua teologia la Regola di s. Benedetto (di cui parleremo tra poco), gli
Esercizi spirituali di s. Ignazio di Lodola (il fondatore dei Gesuiti), s. Teresa d’Avila e s. Giovanni
della Croce in ambito Cattolico (per Nebo, che ama le distinzioni, Apostolico Romano eheheh), in
ambito Protestante basti ricordare i Valdesi e la loro lettura della Parola, il fatto che Lutero era
Agostiniano e l'influsso che la teologia di Agostino ebbe su Calvino. Mi fermo però qui per parlare
di:
S. BENEDETTO
Devo innanzitutto ammettere che non sono un esperto di spiritualità benedettina e quindi ciò che
scriverò sarà solo la raccolta di opinioni altrui e di sensazioni "essoteriche", spero comunque di
fornire alcuni spunti di riflessione. Leggendo i testi e scavando nella memoria ricavo dalla
spiritualità benedettina una sensazione strana e contrastante fatta dalla percezione di una profondità
nascosta dietro un apparente e rituale semplicità/semplicismo (un po' come per il grembiule dei
Massoni eheheheh). S. Benedetto stesso è come se avesse voluto stendere un velo di umiltà sulla
sua Regola dicendo "Perciò, chiunque tu sia che ti affretti verso la patria celeste, metti in pratica,
con l'aiuto di Cristo, questa minima regola per principianti " (S. Regola 73,8) e nella Regola sono
poi mescolate raccomandazioni per la vita concreta di tutti i giorni con piccoli spiragli che fanno
solo intuire l'esistenza di un itinerario mistico verso la contemplazione di Dio. A questa apparente
semplicità non corrispondono però la profondità e le vette contemplative raggiunte da coloro che
attraverso questa regola sono stati formati, lasciando il "pubblico" con la sensazione di un segreto
non detto che è possibile scoprire solo "partecipando" attivamente e percorrendo il cammino: "Col
progredire poi nella vita monastica e nello spirito di fede, il cuore si dilata ed allora con
inesprimibile dolcezza d'amore si corre la via dei precetti divini; così che, non allontanandoci
mai dal suo magistero, perseverando sino alla morte nel suo insegnamento in monastero,
parteciperemo con la sofferenza ai patimenti di Cristo, per meritare di essere, anche, partecipi del
suo regno. Così sia" (prologo S. R.).
Vediamo però di analizzare in particolare alcune tematiche affrontate dalla Regola:
1. l'ascolto
2. la preghiera
3. l'umiltà
4. l'abate (maestro)
1. "Ascolta o figlio, gli insegnamenti del maestro; apri l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri
le esortazioni del padre che ti ama ed eseguile efficacemente" (prol. 1). Così inizia la Regola di
s. Benedetto, riprendendo l'autore del libro dei Proverbi e, in questo modo, fissa la metodologia
fondamentale con la quale intende procedere. Richiamando la tematica biblica dell'ascolto ne
ripropone la pedagogia di base; come colui che leggeva i Proverbi doveva essere stimolato a
giungere sino alla maturità spirituale che richiedeva la lettura del Cantico dei Cantici, così la
stessa dinamica spirituale veniva proposta al monaco con la Regola che aveva solo la funzione
di educare alla libertà dello Spirito, il primato della Parola e dell'ascolto significavano quindi la
completa provvisorietà di tutto per arrivare al primato della carità. Se è vero che tale ascolto, in
questo momento iniziale, si riferisce immediatamente all'abate, chiamato maestro e padre pieno
di amore è perché nella Regola (ma forse anche in ogni cammino) l'ascolto del maestro è
considerato il momento privilegiato nel quale si può verificare ed insieme costruire l'ascolto di
se stessi, dei fratelli e, soprattutto, di Dio.
È ascolto di se stessi perché il primo diritto/dovere del monaco è quello di intraprendere un
cammino di purificazione dai movimenti disordinati e possessivi del cuore che riducono l'uomo a
schiavo della voluntas propria, la philautìa (amore di se) condannata dai padri.
È ascolto dei fratelli perché "spesso il Signore rivela il parere migliore su un importante
problema proprio al più giovane" (RB 3,1.3) e quindi ascoltare i fratelli significa stimarli come
un dono di Dio che si accetta con gratitudine e l'ascolto reciproco diventa obbedienza reciproca
come strada che conduce a Dio attraverso la carità.
È ascolto di Dio, prima di tutto attraverso l'ascolto dell'abate/maestro, il monaco è, infatti, quasi
per definizione colui che ubbidisce e tutto converge verso l'obbedienza all'abate nel quale si
riconosce Cristo (RB 2,2 e 63,13), "Il più alto grado dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio.
Essa è propria di coloro che non amano nulla e nessuno al di sopra di Cristo" (RB 5,1-2) e tale
obbedienza conduce alla liberazione "al culmine dell'umiltà giungono a quell'amore perfetto di
Dio che scaccia ogni paura. Ardenti di questo amore, cominciano ad adempiere senza sforzo
alcuno tutte quelle prescrizioni che prima osservavano non senza fatica. Ora tutto va da sé, come
un fatto abituale: la vita non è più oppressa dal timore dell'inferno, bensì è alleggerita dall'amore
di Cristo. Il bene è divenuto quasi un'abitudine, la virtù è fonte di gioia" (7, 67-69).
Sensibilizzato da questa triplice apertura all'esperienza di Dio, il monaco sente la necessità di
porsi in ascolto diretto della parola di Dio che, attraverso la lectio Divina, viene fatta propria ed a
chiusura del cerchio riconduce all'ascolto di se, di Dio presente nel proprio cuore come racconta
questo bellissimo passo di un monaco anonimo dell'XI secolo che "legge/prega" il Vangelo di
Giovanni (20,15-17):
"Donna, perché piangi? Chi cerchi? Sei già in possesso di colui che cerchi e non te ne accorgi?
Hai con te la gioia vera ed eterna e piangi ancora? Hai già in te colui che stai cercando fuori di
te. Veramente stai presso il sepolcro, di fuori, e piangi. Il tuo cuore è il mio sepolcro: lì riposo,
non già morto, ma vivente per l'eternità. Il tuo cuore è il mio giardino. Hai giudicato bene
chiamandomi custode del giardino. Il tuo pianto, la tua pietà, il tuo desiderio è opera mia: mi
possiedi dentro di te e non te ne accorgi, perciò mi cerchi al di fuori. Ecco dunque che mi mostro
a te di fuori per ricondurti dentro, ed allora troverai in te colui che cerchi fuori. "Maria", ti
conosco per nome: impara ormai a conoscermi per fede. "Rabbunì! che significa: Maestro".
Come se dicesse: Insegnami a cercarti, insegnami a toccarti e a cospargerti d'unguento. Gesù le
dice: "Non mi toccare" come uomo, come mi toccasti e mi ungesti quando ero ancora mortale.
"Non sono ancora salito al padre mio"; non hai ancora creduto pienamente. (………). Con la tua
fede mi tocchi, come quella donna che toccò il lembo del mio mantello ed all'istante fu guarita. E
perché? Perché mi toccò con la sua fede. Con questa mano toccami, con questi piedi affrettati a
correre verso di me: non sono infatti lontano da te. Io sono un Dio che si avvicina, sono la Parola
che è "vicina a te, nella tua bocca e nel tuo cuore" (Romani 10,8). Che cosa è più vicino all'uomo
del suo cuore? Lì dentro mi troverà, chiunque potrà trovarmi: le cose esteriori hanno solo
apparenza. È vero, sono opere mie, ma sono transitorie, caduche: io invece, che sono il loro
artefice, risiedo nella parte più segreta dei cuori, senza macchia".
2. Ascoltare Dio è quindi un atteggiamento profondo di preghiera ma non esaurisce l'ambito della
preghiera del monaco. Benedetto insiste soprattutto sulla recita dei salmi (sette volte al giorno +
una di notte) e sulla preghiera d'intercessione reciproca che esprime la necessità dell'amore
vicendevole. La preghiera individuale sarà silenziosa, accompagnata da lacrime ed espressa con
moti silenziosi del cuore (52, 3-5) (per il modo Benedetto rimanda ai padri). Necessario è che
chi prega lasci penetrare nel suo intimo il fuoco dello Spirito nella cui forza il monaco riesce
anche a ricuperare uno slancio sempre rinnovato affinché "Il nostro cuore sia in perfetta sintonia
con la Parola di Dio pronunciata con le labbra" (19,7).
3. Benedetto dedica tutto il capitolo settimo della Regola al cammino dell'umiltà che, secondo lui,
conduce il monaco alla pienezza dell'amore perfetto e, in parte, coincide con la pienezza della
verità e della libertà dei figli di Dio. La coscienza della propria povertà è infatti la premessa
indispensabile per accogliere la ricchezza di Dio e l'accoglienza del dono di Dio fa percepire in
modo ancora più profondo e realistico il proprio limite.
4.
"L'abate fa le veci di Cristo" (2,2 e 63,13), maestro della comunità, la familiarità con la Parola
di Dio (2,4 e 64, 9) lo rende sapiente (64,2) e capace di insegnare con le parole e l'esempio
(2,11-12) "sappia l'abate che la sua missione è estremamente difficile ed ardua: dirigere le anime
e mettersi a servizio di temperamenti tanto differenti l'uno dall'altro" (2,30)
Concludendo, mi sembra che il grande sforzo di Benedetto, sforzo riuscito e che continua da
quindici secoli, sia stato quello di rendere concreta, possibile, la realtà di una vita quotidiana vissuta
in Dio e "verso" Dio, nella convinzione che, da una base di comune povertà (che lui sperimenta in
un'Europa reduce ed ancora scottata dal crollo dell'Impero romano), si possa ascendere alle alte
vette della contemplazione e dell'Amore.
IL MESSAGGIO CONTEMPLATIVO DELLA CERTOSA
Come spero possiate notare da questa piantina della Certosa di Pavia, le celle dei monaci sono tutte
intorno al Chiostro, la cella è un vero eremitaggio, è costituita da più vani con annesso un
giardinetto ed il monaco non ne esce mai se non per la celebrazione dell'Ufficio Divino e per la
messa. Normalmente i monaci mangiano da soli nella propria cella, non si nutrono di carne e
durante l'Avvento e la Quaresima evitano anche latte, formaggio e burro. Un giorno a settimana (il
venerdì) fanno penitenza a pane ed acqua. Pregano tre ore durante la notte. Come vedete è una vita
dura costruita per formare atleti del Signore dediti alla Contemplazione. L'ordine fu fondato da s.
Bruno nel 1091 in Calabria ma la regola fu messa per iscritto da Guigo, quinto priore della Certosa
nel 1127. Voglio solo ricordare un brano di Guigo che parla della Lectio Divina:
"La lectio porta alla bocca il cibo solido, la meditatio lo mastica, l'orazio ne viene a conoscere il
sapore, la contemplatio è la dolcezza stessa".
Per quanto indegnamente, sono d’accordo con Guigo e sento spesso la "nostalgia del silenzio",
silenzio (prima interiore che esteriore) che è estatica contemplazione dell'amore del Signore.
Contraddicendomi (e con l'età sono migliorato, un tempo ero una contraddizione vivente!) vi invio
due brani tratti "Dal silenzio della certosa" di Ermanno Ancilli (egli stesso certosino) edito da Città
Nuova 1977 perché mi sembrano chiarificatori dello spirito certosino (o cartusiano che dir si voglia)
ed attinenti ad un argomento che abbiamo spesso discusso: "Il silenzio".
"Il cartusianesimo riposa su di un fondo di silenzio scrive A. Guillerand (morto nel 1945), priore
della Certosa di Vedana. È in questo fondo che nasce per ciascuno di noi Colui che è la Parola
eterna. Tutta la nostra vocazione è là: ascoltare Colui che genera questa parola, e viverne. La Parola
procede dal Silenzio (mio commento: per Silenzio, l'autore, intende, qui, il Padre), e noi ci
sforziamo di coglierla nel suo Principio. Il Silenzio, di cui si tratta, non è il vuoto od il nulla; è al
contrario, l'Essere nella sua plenitudine feconda. Ecco perché esso genera, ecco perché noi
tacciamo. Questo silenzio sono le profondità dell'anima, che le parole non possono tradurre, perché
sono più grandi di queste: ed è quanto v'è d'immenso, di eterno, di divino in noi. Ecco il vero
tempio, il santuario riservato che noi portiamo sempre con noi e dove possiamo continuamente
restare, o immediatamente rientrarvi quando ne siamo usciti".
"In seno alla pace contemplativa della solitudine, animato da tale spirito, il certosino aiuta tutti gli
uomini, suoi fratelli, nelle profondità nascoste del corpo mistico, a trovare l'equilibrio, la pace e la
vita che non ha fine. L'efficacia della missione di supplica, di espiazione, di domanda, di
irradiamento spirituale, scaturisce, senza che egli abbia a darsene pensiero, dal fine ultimo della sua
vita: l'unione con Dio sempre più profonda nel silenzio e nella solitudine".
I CANONICI REGOLARI
ATTI DEGLI APOSTOLI 2,42
Questo brano degli Atti, riferito alla comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste, ha ispirato da
sempre ogni scelta di vita comune cristiana. Agostino ispirandosi ad esso aveva creato la sua
"Regola" di vita dei sacerdoti che insieme al Vescovo sceglievano di coabitare per ricreare lo spirito
di questa comunità ideale. Il Papa Gregorio VII in un Concilio che si svolse a Roma nel 1074
promulgò una Regula canonica per dare nuovo impulso alla spiritualità del clero rifacendosi agli
ideali del Vangelo e di s. Agostino. I "Canonici" (dal greco kanon = regola) erano (e sono) Sacerdoti
e Chierici che dovevano risiedere presso una chiesa di una certa importanza, badando al suo
mantenimento, e dovevano recitare a determinate ore i Salmi, e dire messa, insieme agli altri
canonici ed ai fedeli. S. Norberto (1085/1134) ideò una comunità di canonici che adottando l'Ordo
monasterii agostiniano diventasse una vera Comunità di tipo monastico ma volta non, come i
monaci, alla semplice santificazione personale ma finalizzata al servizio pastorale per il bene della
Diocesi e di tutta la Chiesa. Per distinguerli dagli altri canonici i seguaci di s. Norberto vennero
chiamati Canonici Regolari come se avessero (nel nome) 2 regole. Mentre le precedenti comunità di
chierici restarono fatti isolati (anche quella di s. Agostino), i Canonici regolari divennero un vero e
proprio ordine che sviluppò attraverso anche filiazioni successive (come i Vittorini) una propria
spiritualità. Tutta la loro cultura era centrata sulla ruminazione della Sacra Scrittura, Adamo Scoto
(morto nel 1210) descrive il canonico come un uomo che "In claustro dulcem ruminas cibum
psalmorum" nel chiostro rumini il dolce cibo dei salmi. Riporto qui come esempio alcuni brani tratti
dal canonico Riccardo di san Vittore (morto nel 1173) per far notare la profondità pedagogica e
contemplativa da loro raggiunta:
"Chi non ignora quanto sia difficile, per non dire impossibile, ad uno spirito ancora carnale, ad un
principiante negli studi spirituali, elevarsi all'intelligenza delle realtà invisibili e fissare su di loro lo
sguardo della contemplazione? Non conosce ancora che il solo corporale; la riflessione non può
presentargli che ciò di cui ha l'abitudine, il mondo visibile. Cerca di vedere l'invisibile, e non afferra
che forme di realtà visibili. Desidera l'intuizione dell'incorporale, e non gli vengono che immagini
di realtà corporali. Che fare dunque? A che cosa rassegnarsi? Dopo tutto, non è meglio pensare alle
cose spirituali in modo imperfetto, piuttosto che dimenticarle totalmente? Ma un'anima che ama
realmente, non dimentica facilmente le cose divine, per essere elevata alla contemplazione, incontra
senz'altro parecchie difficoltà. Fa allora ciò che può; contempla secondo le sue capacità. Si
rappresenta con l'immaginazione ciò che può ancora afferrare nella purezza dell'intelligenza... Le
pare dolce conservare per lo meno con l'immaginazione il ricordo delle realtà di cui non può
afferrare la rappresentazione con l'intelligenza... L'intelligenza consiglia a buon diritto di
rappresentarsi, pur imperfettamente, i veri beni e d'infiammare l'anima a desiderarli nella loro
bellezza immaginata piuttosto che a indugiare nel considerare beni puramente fallaci e illusori...
Che cosa sia il primo passo della contemplazione delle realtà invisibili, nessuno lo ignora, ad
eccezione di quanti sono totalmente sprovveduti di esperienza in merito".
Questo stupendo testo indica il grado di spiritualità raggiunto dai pensatori più acuti fra i canonici
regolari; è anche segno della vitalità della loro spiritualità. Un'altra pagina dello stesso Riccardo
illustra il tema della visione di Dio.
"Lo specchio notevole e principale per vedere Dio, l'anima ragionevole lo trova in se stessa, senza
dubbio. Se le realtà invisibili di Dio si scoprono all'intelligenza con le opere da lui create, dove,
chiedo, si troverà la sua traccia più chiaramente impressa se non nell'anima, immagine della
conoscenza divina? Leggiamo e crediamo che l'anima umana è stata creata a somiglianza di Dio. E
pertanto, finché camminiamo nella fede e non nella visione, finché non vediamo Dio che in uno
specchio e in enigma, non possiamo trovare migliore specchio di Dio se non la nostra anima, dotata
di ragione. Ancora bisogna asciugare lo specchio, purificarsi lo spirito, quando vi si vuole vedere
Dio. Il vero contemplativo non si stanca di tenere in mano lo specchio, di asciugarlo, di fissarlo con
attenzione. Tenerlo in mano: cadrebbe per terra, se si è attaccato alle cose terrestri; asciugarlo: la
polvere dei pensieri inutili finirebbe per renderlo opaco; fissarlo: le distrazioni condurrebbero a
curiosità vane. Allora un po' della chiarezza della luce divina arriva a filtrare, poi l'immenso
irradiamento della nuova visione s'impone allo sguardo. Lì sta la luce che irradiava gli occhi del
salmista: "La luce del vostro volto si è alzata su di noi come uno stendardo; avete messo la gioia nei
nostri cuori" (salmo 4, 7-8). Questa visione di luce accende in lei, in modo straordinario, il desiderio
di vedere Dio che ammira in se, ed è animata per vedere la luce che le sta sopra. Da questa visione,
dico, l'anima vede la fiamma del desiderio di vedere Dio, e prende fiducia. L'anima, dunque, che già
brucia dal desiderio di questa visione, che spera già la realizzazione di quanto desidera, ha già
concepito la contemplazione. La speranza, infatti, l'ha fatta concepire, il desiderio, la farà generare.
E più il desiderio cresce, più la grazia della contemplazione è vicina".
Il dono della contemplazione dipende dalla limpidezza del cuore più che dalla speculazione: "A mio
parere, per raggiungere questa contemplazione, occorre più compunzione del cuore che profonde
investigazioni dello spirito, più sospiri dell'anima che ragionamenti, più gemiti che dimostrazioni.
Sappiamo, infatti, che niente purifica maggiormente il cuore, niente rende l'anima così pura, niente
caccia più efficacemente le nubi dell'errore, niente dona più calma alla mente che il vero pentimento
e la compunzione.
Che cosa dice, infatti, la Scrittura? "Beati i cuori puri, perché vedranno Dio" (Mat 5, 8). Si sforzi
dunque di purificare il suo cuore colui che desidera vedere Dio e arrivare alla contemplazione delle
cose divine!".
La serietà dello sforzo spirituale è espressa con commozione dallo stesso Riccardo, con accenti
troppo poco noti nella storia della spiritualità medievale. "L'amore intenso produce l'estasi, quando
l'anima è talmente infiammata dal fuoco dei desideri celesti che la fiamma dell'amore divino,
crescendo in essa in modo straordinario, la liquefa come cera, la rende leggera come il fumo, la fa
salire nelle regioni celesti. L'ammirazione è statica quando l'anima, penetrata dai raggi della luce
divina e colpita di sorpresa alla vista delle celesti bellezze, è talmente stupefatta che è totalmente
buttata fuori da sé. La vista delle bellezze che considera le fa concepire, per contrasto, un grande
disprezzo di se stessa e la porta prima ad abbassarsi.
Ma subito il desiderio dei beni di lassù la fa rimbalzare, la eleva al di sopra di sé e la trasporta nelle
regioni sublimi. Infine, la gioia intensa immette nell'estasi, quando il cuore dell'uomo, sazio di
intime soavità, inebriato da esse, dimentica totalmente ciò che è e ciò che è stato, è rapito fuori di se
stesso per la pienezza della sua ebbrezza, e si trova bruscamente riempito d'amore divino, mentre
prova un'ineffabile felicità". (Ricc. di S. Vittore Beniamin minor e maior).
CONTEMPLARI ET CONTEMPLATA ALIIS TRADERE
Cioè contemplare e portare agli altri le cose contemplate, questa frase di s. Tommaso (Summa
theologiae, II-II, q. 188, a. 6.) condensa in breve la spiritualità dei frati predicatori, i Domenicani.
Nati per combattere efficacemente i Catari che poveri e capaci di parlare con la gente non erano
"pane per i denti" di Benedettini abituati più al chiuso dei chiostri che alle sfide polemiche, furono
essi stessi accusati di eresia dai maestri dell'università di Parigi ma la valenza dei loro teologi e
l'appoggio dei Papi li salvò sempre. Il primo monastero femminile di Benedettine fu costituito da un
gruppo di "Perfette" catare a Prouille, ma approfondire le relazioni (nemici reali o apparenti?) tra i
Domenicani ed i Catari non mi compete, altri ne sanno certamente di più. Ciò che vorrei in questo
intervento delineare è la spiritualità dei Domenicani. L'idea che riempie tutta la vita di Domenico è
la "caritas veritatis" intesa come amore non tanto della verità espressa nei concetti ma come ricerca
amorosa della verità che viene da Dio. La vita del frate predicatore è tutta consacrata al culto della
verità, cercata, studiata, approfondita, contemplata, vissuta, predicata e difesa.
La contemplazione (conquista della verità) e la predicazione (dono della stessa) sono le azioni
principali della caritas veritatis. Domenico non parlava altro che con Dio e di Dio e questo prescrive
nelle Costituzioni ai suoi frati (la Regola, ancora una volta, è quella di Agostino); egli ha
l'intuizione che contemplazione e predicazione siano unite indissolubilmente come riporta un
domenicano, il beato Umberto di Romans: "Il frate predicatore attinge alla contemplazione ciò che
poi dispensa nella predicazione…..Perciò quanto più uno è contemplativo, tanto è più adatto alla
predicazione". Domenico fonda quindi un ordine contemplativo i cui membri seguono tutte le
prescrizioni dei monaci, ma fonda un ordine contemplativo aperto alla predicazione, senza la
stabilitas richiesta da Benedetto ma, anzi, con l'obbligo ai suoi frati di essere imitatori del Signore
che andava verso i peccatori ed "offrì se stesso per la nostra salvezza". Nelle Costituzioni (n.1, VI)
si afferma: "La vita propria dell'Ordine è l'autentica vita apostolica , una vita in cui la predicazione e
l'insegnamento sgorgano dall'abbondanza della contemplazione"
Continua
Alla contemplazione (che ha 4 gradi, 3 + 1, conoscenza intellettiva, conoscenza affettiva,
conoscenza intuitiva + contemplazione infusa dono dello Spirito Santo) si arriva praticando le
"osservanze regolari" che oltre ai consigli evangelici (povertà, castità ed ubbidienza) praticati da
tutti gli Ordini religiosi danno particolare importanza a:
•
La vita comunitaria
•
La celebrazione della liturgia
•
L'orazione personale
•
Lo studio della verità
•
Il ministero apostolico
•
Le austerità monastiche
Domenico poneva due condizioni ai novizi per accoglierli nell'Ordine: 1) ubbidienza 2) Impegno
nella vita comunitaria. I suoi frati dovevano prendere come modello ideale la prima comunità
cristiana sia per la comunione fraterna che per lo stimolo ad accrescere il numero di coloro che
aderivano al messaggio evangelico. Anche la regola di S. Agostino, adottata da Domenico ricorda:
"poiché vivono nella medesima casa e hanno il medesimo ideale, i frati devono avere un'anima sola
ed un cuore solo". L'apostolato, poi, inizia per D. ai piedi dell'altare nel Sacrificio eucaristico come
dice il Signore a S. Caterina da Siena ( che era domenicana): "Consumato l'accidente del pane,
rimane la grazia. Io lascio l'impronta della Mia grazia come suggello che si pone sopra la cera
calda…….Così rimane la virtù di questo sacramento, vi rimane il caldo della divina carità, rimane il
lume della sapienza; rimane forte, partecipando della fortezza mia e potenza" (Libro della divina
Dottrina, c. 12). Dopo la preghiera liturgica comunitaria, il frate predicatore si raccoglie nella
preghiera personale "oratio secreta" che è meditazione ed esame di coscienza e spesso termina con
l'atto penitenziale della "disciplina" (che per chi non lo sapesse è auto fustigazione e non sembra
tanto fuori tempo se si pensa che è stata praticata anche recentemente da Madre Teresa di Calcutta e
dalle sue suore). La preghiera domenicana è rivolta soprattutto al Salvatore perché D. vuole che i
suoi frati siano "uomini evangelici, che seguono le orme del Salvatore". Lo studio è poi considerato
uno strumento necessario alla formazione del contemplativo e dell'apostolo come dice S. Tommaso
d'Aquino: "Lo studio delle verità divine aiuta la vita contemplativa direttamente, in quanto le offre
l'oggetto proprio della contemplazione: le verità divine, e indirettamente, perché le offre il controllo
della fede, onde evitare pericolose deviazioni" (Summa theologiae, II-II, q. 188, a. 5).
Del ministero apostolico abbiamo già parlato, oltre a sottolineare che Domenico vede la povertà (ed
in tal senso la prescrive) come condizione per la libertà di parola e di movimento dei suoi
predicatori, bisogna infine notare che dal sistema di vita monastico eredita l'astinenza perpetua, il
frequente digiuno e soprattutto (strano in un predicatore) l'amore per il silenzio. Le prime
costituzioni riportano una regola di silenzio molto rigida , i frati sono tenuti ad osservare sempre il
silenzio e quando è proprio necessario dire qualcosa, devono parlare sempre sotto voce "silenter".
CHI SE' TU, O DOLCISSIMO IDDIO MIO?
Egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in
orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito sì
dicea: «Chi se' tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e
disutile servo tuo?».
E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa. Per la
qual cosa frate Leone, forte maravigliandosi di ciò, levò gli occhi e guatò in
cielo; e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e
splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco; e
della detta fiamma udiva uscire voce, la quale parlava con santo Francesco; ma
esso frate Lione non intendea le parole. Vedendo questo e riputando si indegno
di stare così presso a quello luogo santo dov'era quella mirabile apparizione e
temendo ancora di offendere santo Francesco o di turbarlo dalla sua
considerazione, s'egli da lui fossi sentito, sì si tirò pianamente addietro e,
stando da lunge, aspettava di vedere il fine.
E guardando fiso, vide santo Francesco stendere tre volte le mani alla fiamma e
finalmente dopo grande ispazio, e' vide la fiamma ritornarsi in cielo.
Di che egli si muove sicuro e allegro della visione e tornavasi alla cella sua.Ed
andandosen egli sicuramente, santo Francesco sì lo ebbe sentito allo stropiccìo
de' piedi di sopra le foglie e comandogli che lo aspettasse e non si movesse.
Allora frate Lione obbidiente si stette fermo e aspettollo con tanta paura, che,
secondo eh' egli poscia recitò alii compagni, in quel punto egli arebbe piuttosto
voluto che la terra il tranghiottisse, che aspettare santo Francesco, il quale egli
pensava essere contro a lui turbato; imperò che con somma diligenza egli si
guardava d'offendere la sua paternità, acciò che per la sua colpa santo
Francesco non lo privasse della sua compagnia.
Giugnendo a lui dunque santo Francesco, domandollo: «Chi se' tu?». E frate
Lione tutto tremando rispuose: «Io sono frate Lione, padre mio». E santo
Francesco: «Perché venisti tu qua, frate pecorella? Non t'ho io detto che tu non
mi vada osservando? Dimmi per santa obbidienza se tu vedesti o udisti nulla».
Rispose frate Lione: «Padre, io t' udii parlare e dire più volte: Chi se' tu, o
dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vermine vilissimo e disutile servo tuo? ». E
allora inginocchiandosi frate Lione dinanzi a santo Francesco, si rendette in
colpa della sua disobbedienza ch'gli avea fatto contra al suo comandamento e
chiesegli perdonanza con molte lagrime. E appresso lo pregò umilemente gli
sponesse le parole ch'avea udite e dicessegli quelle ch'egli non aveva intese.
Allora, veggendo santo Francesco che Dio all'umile frate Lione per la sua
semplicità e purità Iddio avea rivelato ovvero conceduto d'udire e di vedere
alcune cose, sì gli condiscese a rivelargli e isporgli quello eh' egli gli
domandava, e disse così: « Sappi, frate pecorella di Gesù Cristo, che quando io
dicea quelle parole che tu udisti, allora mi erano mostrati ali' anima mia due
lumi, 1' uno della notizia e conoscimento di me medesimo, 1' altro della notizia
e conoscimento del Creatore. Quando io dicea: "Chi se' tu, o dolcissimo Iddio
mio?", allora ero io in un lume di contemplazione, nel quale io vedea 1' abisso
della infinita bontà e sapienza e potenza di Dio; e quando io dicea: "Che sono
io?", io ero in lume di contemplazione, nel quale io vedea il profondo lagrimoso
della mia viltà e miseria, e però dicea: Chi se' tu, Signore d'infinita bontà e
sapienza e potenza, che degni di visitare me che sono un vile vermine e
abbominevole? E in quella fiamma che t.u vedesti era Iddio; il quale in quella
ispezie mi parlava, siccome avea anticamente parlato a Moisè.
Ho scelto il brano precedente dai "Fioretti di S. Francesco" perché rispecchia una mia esperienza
personale e, nel contempo, esprime in modo conciso quello che io considero la straordinarietà
dell'esperienza del Santo d'Assisi: l'assoluta semplicità e l'incredibile profondità raggiunta nel
contatto con Dio (e, di conseguenza, con la natura). Incredibile profondità che suscitava una santa
invidia nei suoi contemporanei (S: Domenico ne fu talmente colpito che voleva sciogliere il suo
Ordine per unirsi ai Francescani e l'avrebbe fatto se il Papa non glielo avesse proibito) e che anche
oggi stupisce al punto di indurci a chiedere quale fosse il segreto di questo contatto, perché per lui
era semplice, quasi naturale e per noi non è così? Da dove traeva S. Francesco quella spontaneità
nell'essere semplice, umile, povero? La capacità di parlare con gli animali e con le cose come a
fratelli (anche frate fuoco evita di bruciarlo se lui glielo chiede)?
Nessun santo, a mio parere, unisce insieme questo aspetto di una semplicità così vicina che quasi
sembra raggiungibile in uno slancio con quello di un cammino che lo ha portato alla soglia della
divinità come testimonia Dante che nel canto XI del Paradiso lo paragona a Cristo dicendo che la
terra e la povertà hanno dovuto aspettare più di mille e cento anni un altro sposo:
Intra Tupino e l'acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d'alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov'ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d'esso loco fa parole,
non dica Ascesi, che direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da l'orto,
ch'el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
che per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spiritai corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l'amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent'anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
e qui è proprio il dato caratteristico di Francesco, parla ai nostri cuori come la terra, quasi a dire:
"provateci, vi ho mostrato il cammino per seguire Cristo, se avrete il coraggio di chiedere a Dio:
"Chi sei tu dolcissimo Iddio mio" e : "Chi sono io, vilissimo verme e disutile servo tuo", Egli vi
verrà incontro e vi mostrerà che anche il verme è ripieno, trabocca dell'amore di Dio. Dico "il
coraggio" perché, lo dico per me, non è facile fare questa domanda aspettandosi davvero una
risposta, la risposta fa paura, costringe ad abbandonare le difese che il nostro ego costruisce giorno
per giorno e che ci consentono di non vedere la meraviglia dell'amore aperto al Tutto. È la paura
della morte perché è vero che "non si può vedere Dio senza morire".
Cercando di tratteggiare la spiritualità francescana penso di analizzarla attraverso i seguenti punti
tratti dal libro "Incontro a Dio amore" di fra Giocondo Pagliara, rimaneggiati ed integrati con brani
degli scritti di S. Francesco tratti dalle "Fonti francescane":
1. Il carisma francescano: vita evangelica
2. Metànoia e ascesi
3. La perfetta letizia
4. Madonna povertà e tradizione francescana.
5. La via dell'amore.
6. L'amore si è fatto carne.
7. Laudato sie…cum tucte le tue creature.
Vi dico subito che (come vi sarete accorti dall'introduzione) sarò un po' prolisso perché ho un
debole per S. Francesco e perché penso che ne valga la pena, se preferite che sia più sintetico vi
prego di farmelo sapere.
Il carisma francescano
"
E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che
cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo
vivere secondo la forma del santo Vangelo
". Scrive Francesco nel suo
Testamento.
Egli fa sue le istanze di ritorno al Vangelo propugnate dai Catari e dai Valdesi ma abbandona, anzi
quasi ignora, ogni polemica con l'autorità di una gerarchia ecclesiastica spesso infarcita di scandali
e corruzione. Non che non veda i difetti ed i tradimenti del clero ma è come se quelle azioni fossero
ininfluenti per lui che vive quasi in un altro mondo (il mondo degli uomini liberi) e come se
l'esercizio delle virtù (prime fra tutte l'obbedienza e la povertà) non si dovesse confrontare con gli
uomini ma direttamente con Dio. Il nome stesso di "Minori" che diede ai suoi contiene un'opzione
evangelica come ricorda la Leggenda perugina: "Aggiungeva quindi Francesco che il Signore ha
voluto che i frati si chiamassero "Minori", perché appunto questo è il popolo chiesto dal Figlio di
Dio al Padre suo, e di esso si dice nel Vangelo: Non vogliate temere, o piccolo gregge, perché è
piaciuto al Padre vostro di concedere a voi il regno; e ancora: Quello che avete fatto a uno dei miei
fratelli più piccoli (Minori), lo avete fatto a me." Più che meditazione sul Vangelo, quella di
Francesco, è determinazione ad incarnare il Vangelo, a viverlo fino all'estrema conseguenza, la
crocifissione. Per lui parlare è ri - parlare il Vangelo agire è ri - agirlo e quando, inizialmente, i frati
gli chiedono una regola, non sa dare altro che il Vangelo come testimonia la cosiddetta proto
Regola, la regola andata perduta nella sua singolarità ma conservata come introduzione e primo
capitolo della Regola non bollata:
"Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Amen.
Questa è la vita del Vangelo di Gesù Cristo che frate
Francesco chiese che dal signor papa Innocenzo gli fosse
concessa e confermata. E egli la concesse e la confermò a
lui e ai suoi frati presenti e futuri. Frate Francesco e
chiunque sarà a capo di questa Religione, prometta
obbedienza e reverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi
successori. E gli altri frati siano tenuti ad obbedire a frate
Francesco e ai suoi successori.
La regola e la vita dei frati è questa, cioè vivere in
obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la
dottrina e l'esempio del Signore nostro Gesù Cristo il quale
dice: Se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto quello che hai,
dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e poi vieni e
seguimi; e
:
Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi
se stesso, prenda la sua croce e mi segua; s e ancora: Se
qualcuno viene a me e non odia il padre, la madre, la
moglie e i figli, i fratelli e le sorelle e anche la sua vita
stessa non può essere mio discepolo. E
:
Chi avrà lasciato o
il padre, o la madre, o la moglie o i figli, la casa o i campi
per amore mio, riceverà il centuple e possederà la vita
eterna".
Metànoia e ascesi
L'argomento seguente è, per me, difficile da trattare. Siamo talmente abituati, attraverso i mass
media, ad un'uniformità di valori e di gusti da pensare che ciò che è amaro per uno lo debba essere
per tutti e, spesso, identifichiamo il male con il dolore ed il bene con il piacere. Devo dirvi che
anche per me è stato a lungo così e, forse, lo è tuttora. Francesco però su questo argomento non
lascia scampo ed è perfino un peccato tentare di edulcorarlo, a scopo consolatorio (per giustificare
la mia mediocrità) vi riporto un brano confortante che ho trovato su "Francesco d'Assisi" un libro di
Leonardo Boff, teologo della liberazione e francescano. Libro per tanti versi discutibile che però per
altri offre alcuni spunti interessanti:
Udii un vecchio confratello ragionevole e buono, perfetto e santo,
dire:
"Se sentirai la chiamata dello Spirito, ascoltala e cerca di
essere santo con tutta la tua anima, con tutto il tuo cuore e con
tutte le tue forze.
Se, però, per umana debolezza non riuscirai ad essere santo,
cerca allora di essere perfetto con tutta la tua anima, con tutto
il tuo cuore e con tutte le tue forze.
Se, tuttavia, non riuscirai ad essere perfetto a causa della
vanità della tua vita, cerca allora di essere buono con tutta la
tua anima, con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze.
Se, ancora, non riuscirai ad essere buono a causa delle insidie
del Maligno, cerca allora di essere ragionevole con tutta la tua
anima, con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze.
Se, infine, non riuscirai ad essere santo, ne perfetto, ne buono,
ne ragionevole a causa dei peso dei tuoi peccati, allora cerca di
portare questo peso di fronte a Dio e affida la tua vita alla
divina misericordia.
Se farai questo, senza amarezza, con tutta umiltà e con
giovialità di spirito a causa della tenerezza di Dio che ama gli
ingrati e i cattivi, allora comincerai a capire cosa sia
ragionevole, imparerai ciò che è buono, lentamente aspirerai ad
essere perfetto, e infine, anelerai ad essere santo.
Se farai tutto questo, ogni giorno, con tutta la tua anima, con
tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze, allora io ti
garantisco, fratello: sarai sulla strada di S. Francesco, non
sarai lontano dal Regno di Dio!".
Dopo esserci così consolati possiamo affrontare il modo nel quale Francesco, nel Testamento
racconta il momento cruciale, la svolta del suo cammino:
Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare
così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi
sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore
stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E
allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu
cambiato in dolcezza di anima e di corpo.
E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E Tommaso da Celano nella sua "Vita seconda":
Ma, mentre frequentava luoghi appartati, ritenendoli adatti
alla preghiera, il diavolo tentò di allontanarlo con una
astuzia maligna. Gli raffigurò nel cuore una donna, sua
concittadina, mostruosamente gibbosa: aveva un tale
aspetto, da suscitare orrore a tutti. E lo minacciò di
renderlo uguale, se non la piantava coi suoi propositi. Ma,
confortato dal Signore, ebbe la gioia di una risposta piena
di grazia e di salvezza: "Francesco, — gli disse Dio in spirito
— lascia ormai i piaceri mondani e vani per quelli spirituali,
preferisci. le cose amare alle dolci e disprezza tè stesso, se
vuoi conoscermi. Perché gusterai ciò che ti dico, anche se
l'ordine è capovolto". Subito, si sentì come indotto a
seguire il comando del Signore e spinto a farne la prova.
Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva
ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma, ecco, un giorno ne
incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di
Assisi. Ne provò grande fastidio e ribrezzo; ma per non
venire meno alla fedeltà promessa, come trasgredendo un
ordine ricevuto, balzò da cavallo e corse a baciarlo. E il
lebbroso, che gli aveva steso la mano, come per ricevere
qualcosa, ne ebbe contemporaneamente denaro e un
bacio. Subito risalì a cavallo, guardò qua e là — la
campagna era aperta e libera tutt'attorno da ostacoli —,
ma non vide più il lebbroso. Pieno di gioia e di
ammirazione, poco tempo dopo volle ripetere quel gesto:
andò al lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del
denaro, ne baciò la mano e la bocca. Così preferiva le cose
amare alle dolci, e si
preparava virilmente a mantenere gli
altri propositi.
Insomma Francesco, per conoscere Dio (tutta la sua vita sarà volta a questo fine) accetta e persegue
il rovesciamento dell'ordine delle cose, quello che per il mondo è stoltezza diventa sapienza, quello
che per il mondo è pazzia diventa santità come rivela questo brano tratto dalla "Leggenda
maggiore" scritta da S. Bonaventura:
A causa delle varie, insistenti, ininterrotte infermità, era
ridotto al punto che ormai la carne era consumata e
rimaneva quasi soltanto la pelle attaccata alle ossa.
Ma, per quanto strazianti fossero i suoi dolori, quelle sue
angosce non le chiamava sofferenze, ma sorelle.
Una volta, vedendolo pressato più del solito dai dolori
lancinanti, un frate molto semplice gli disse: "Fratello,
prega il Signore che ti tratti un po' meglio, perché sembra
che faccia pesare la sua mano su di tè più del dovuto".
A quelle parole, il Santo esclamò con un grido: "Se non
conoscessi la tua schiettezza e semplicità, da questo
momento io avrei in odio la tua compagnia, perché hai
osato ritenere discutibili i giudizi di Dio a mio riguardo".
E, benché stremato dalla lunga e grave infermità, si buttò
per terra, battendo le ossa indebolite nella cruda caduta.
Poi baciò la terra, dicendo: "Ti ringrazio, Signore Dio, per
tutti questi miei dolori e ti prego, o Signore mio, di darmene
cento volte di più, se così ti piace. Io sarò contentissimo, se
tu mi affliggerai e non mi risparmierai il dolore, perché
adempiere alla tua volontà è per me consolazione
sovrappiena".
Penitenza che però per Francesco non può dissociarsi dalla carità, è durezza verso se stesso come
accettazione della volontà di Dio ma dev'essere mitigata quando crea problemi ai fratelli:
Benché, poi, con tutte le sue forze stimolasse i frati ad una
vita austera, pure non amava quella severità intransigente
che non riveste viscere di pietà e non è condita con il sale
della discrezione.
Un frate, a causa dei digiuni eccessivi, una notte non
riusciva assolutamente a dormire, tormentato com'era
dalla fame. Comprendendo il pietoso pastore che la sua
pecorella si trovava in pericolo, chiamò il frate, gli mise
davanti un po' di pane e, per evitargli il rossore, incominciò
a mangiare lui per primo, mentre con dolcezza invitava
l'altro a mangiare.
Il frate scacciò la vergogna e prese il cibo con grandissima
gioia, giacché, con la sua vigilanza e la sua
accondiscendenza, il Padre gli aveva evitato il danno del
corpo e gli aveva offerto motivo di grande edificazione.
Al mattino, l'uomo di Dio radunò i frati e, riferendosi a
quanto era successo quella notte, aggiunse questo
provvido ammonimento: « A voi, fratelli, sia di esempio non
il cibo, ma la carità ».
Li ammaestrò, poi, a seguire sempre nella corsa alla virtù,
la discrezione che ne è l'auriga; non la discrezione
consigliata dalla prudenza umana, ma quella insegnata da
Cristo con la sua vita santissima, che certamente è il
modello dichiarato della perfezione.
Anzi sembra quasi che penitenza e carità estrema siano indissolubilmente unite, riporto qui, per far
meglio capire ciò che intendo dire una bellissima pagina della "Leggenda perugina":
Altra volta, essendo tornato un giorno Francesco alla
Porziuncola, vi incontrò frate Giacomo, il semplice, in
compagnia di un lebbroso sfigurato dalle ulceri, capitato
colà lo stesso giorno. Il Santo aveva raccomandato a frate
Giacomo con insistenza quel lebbroso e tutti quelli che
erano più corrosi dal male. A quei tempi, infatti, i frati
abitavano nei lazzaretti. Giacomo faceva da medico ai più
colpiti, e di buon grado toccava le loro piaghe, le curava, ne
mutava le bende.
Francesco si rivolse a frate Giacomo con tono di
rimprovero: « Non dovresti condurre qui i fratelli cristiani,
poiché non è conveniente per tè ne per loro ». Il Santo
chiamava « fratelli cristiani » i lebbrosi. Fece questa
osservazione perché, pur essendo felice che frate Giacomo
aiutasse e servisse i lebbrosi, non voleva però che facesse
uscire dal lazzaretto i più gravemente piagati. In più, frate
Giacomo era molto semplice, e spesso andava alla chiesa
di Santa Maria con qualche lebbroso. Oltre tutto, la gente
ha orrore dei lebbrosi sfatti dalle ulceri.
Non aveva finito di parlare, che subito Francesco si pentì di
quello che aveva detto e andò a confessare la sua colpa a
Pietro di Catanie, ministro generale in carica: aveva rimorso
di aver contristato il lebbroso, rimproverando frate
Giacomo. Per questo confessò la sua colpa, con l'idea di
rendere soddisfazione a Dio e a quello sventurato.
Disse quindi a frate Pietro: « Ti chiedo di approvare, senza
contraddirmi, la penitenza che voglio fare ». Rispose frate
Pietro: « Fratello, sia come ti piace ». Talmente egli
venerava e temeva Francesco, gli era così obbediente, che
non osava mutare i suoi ordini, benché in questa e in molte
altre circostanze ne restasse afflitto in cuore e anche
esteriormente.
Seguitò Francesco: « Sia questa la mia penitenza; mangiare
nello stesso piatto con il fratello cristiano ». E così fu.
Francesco sedette a mensa con il lebbroso e gli altri frati, e
fu posta una scodella tra loro due. Ora, il lebbroso era tutto
una piaga; le dita con le quali prendeva il cibo erano
contratte e sanguinolente, così che ogni volta che le
immergeva nella scodella, vi colava dentro il sangue.
Al vedere simile spettacolo, frate Pietro e gli altri frati
furono sgomenti, ma non osavano dir nulla, per timore del
padre santo.
Colui che ora scrive, ha visto quella scena e ne rende
testimonianza.
Sulle orme di Francesco i suoi seguaci, nella vita di ogni giorno devono tendere alle stesse vette
attraverso un lavoro costante su se stessi come scrive Giocondo Pagliara:
"Cosi la vita del francescano diviene offerta quotidiana d'amore nell'oblazione del proprio io
macerato sull'altare dell'espiazione, umile risposta all'imperativo evangelico:
"Se qualcuno vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi
segua".
Ogni giorno, sempre, senza rimpianti o ripensamenti, senza concessioni all'io animale in agguato.
Ogni giorno, anzi ogni ora, vivere di oblazione.
Non è necessario aspirare alle grandi penitenze che martirizzano la carne; basta operare nello spirito
che, d'altronde, ne riceve una contro spinta per una maggiore mietitura soprannaturale.
Ad ogni istante si può impegnare la volontà raccogliendo tutte le occasioni per mortificare la
sensibilità, per stanare se stessi dalla torre dell'egoismo, per bruciare l'effimero culto della propria
personalità - specialmente affettività, esperienza, cultura - nel turibolo d'oro dell'obbedienza.
Sempre c'è un fiore ad invitarci ad aspirare la sua fragranza e non è poi tanto difficile rinunziarvi.
Bisogna fare l'abitudine alla rinunzia, alla mortificazione, alla croce. Sempre potremo fare uno
sforzo per compiere - e sorridendo - la volontà di un altro; sempre potremo sostenere in pace la
lacerazione di una mormorazione ingiusta o la spina di una risposta irritata; sempre potremo
inarcare le spalle per sopportare un'umiliazione o l'apprezzamento ingeneroso di chi crede
conoscerci fino in fondo.
Le occasioni quotidiane sono un'infinità. Bisogna non sciuparle, non gettarle sbadatamente nella
pattumiera dei rifiuti. Sono tutte d'oro e vengono da Dio".
Un'ultima parola sull'ascesi francescana per indicarne il fine. Lo sforzo costante di "vivere" il
Vangelo non può che raggiungere un unico obiettivo: l'identificazione con Cristo crocifisso.
Questo chiedeva infatti Francesco prima di ricevere le stimmate:
"O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi
faccia innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io
senta nell'anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel
dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua
acerbissima passione; la seconda si è ch'io senta nel cuore
mio quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu
Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta
passione per noi peccatori".
(Fonti Francescane n°1919)
Dio allora gli concede le Stimmate che, al contrario di ciò che accadde nei casi successivi non erano
semplici ferite ma i segni materiali della passione di Gesù come riporta, tra gli altri, S. Bonaventura:
"Scomparendo, la visione gli lasciò nel cuore un ardore
mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi
nella sua carne.
Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi,
incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che
poco prima aveva osservato nell'immagine dell'uomo
crocifisso.
Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai
chiodi; le capocchie dei chiodi sporgevano nella parte
interna delle mani e nella parte superiore dei piedi, mentre
le punte sporgevano dalla parte opposta. Le capocchie
nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere; le punte,
invece, erano allungate, piegate all'indietro e come
ribattute, ed uscivano dalla carne stessa, sporgendo sul
resto della carne.
Il fianco destro era come trapassato da una lancia e
coperto da una cicatrice rossa, che spesso emanava sacro
sangue, imbevendo la tonaca e le mutande".
Lo scambio amoroso porta alla "fusione" di Francesco con l'oggetto del suo amore e, giustamente,
fra Giocondo Pagliara nel nostro libro commenta:
"L'unione trasformante segna il culmine della penetrazione di Dio nell'anima che ne resta
divinizzata. Santa Teresa d'Avila a 44 anni viene trasverberata da un serafino con un dardo infocato;
Francesco ne ha 42-43, ma ha già consumato la sua santità. Dopo la Verna non ci saranno più vette
da scalare; l'« ultimo sigillo » è il segno della pienezza di identità con Cristo.
A partire dalla Verna, tra il Poverello e Cristo si instaura una comunione verticale di beni: il suo
corpo con la finezza della sensibilità; la sua anima con le squisite facoltà, gli impulsi, la
volontarietà, la capacità di dilatarsi nell'amore, le illuminazioni incandescenti; i beni di natura e i
beni di grazia: tutto quello che è di Francesco appartiene a Cristo. Ma è vero anche il contrario:
quello che appartiene a Cristo viene trasmesso al suo umile servo: gli ultimi due anni della sua vita
diventano epifania della gloria di Dio, così che il prodigio non è più un'eccezione, ma quasi un fatto
ordinario nella sua esistenza; per questo la meditazione francescana ha potuto cantare:
"e non può dirsi — quando sei visto
se sei Francesco — oppur sei Cristo".
La perfetta letizia
Come abbiamo visto nel capitolo precedente Francesco, nel suo percorso in Dio e verso Dio, aveva
rovesciato i valori comuni e preso su di se sofferenze (fisiche e spirituali) tremende.
Noi siamo "comunemente" portati a considerare chi soffre (anche se per amore) una persona triste,
da consolare, ed i nostri cari sono spesso testimoni dello spettacolo indecoroso che diamo appena
siamo afflitti da una, qualsivoglia, malattia o subiamo la più piccola frustrazione (soprattutto se la
consideriamo ingiusta).
Francesco invece, sulla via del Vangelo, aveva capito che, come scrive G. Pagliara: "La dinamica
della letizia cristiana va di pari ppasso con la libertà interiore. Man mano che l'anima si scarcera
dalla schiavitù delle cose (povertà), dalla sete di potere (ubbidienza), dal flusso delle sensazioni
carnali (castità), acquista maggior docilità di fronte allo Spirito e, per ciò stesso, più possibilità di
trasformare in gioia qualunque avvenimento" (p. 329 o. c.) e, questa scoperta, Francesco l'aveva
condivisa con i suoi primi compagni. Infatti:
Andando verso la Marca (di Ancona), esultava
giocondamente nel Signore. Francesco, a voce alta e
chiara, cantava in francese le lodi del Signore benedicendo
e glorificando la bontà dell'Altissimo. Tanta era la loro gioia,
che pareva avessero scoperto un magnifico tesoro nel
podere evangelico della signora Povertà, per amore del
quale si erano generosamente sbarazzati di ogni avere
materiale, considerandolo alla stregua di rifiuti.
Anzi "prescrive" la gioia sia nella Regola:
E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all'esterno e oscuri in
faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e
giocondi e garbatamente allegri (cap. VII).
Sia quando incontra qualche frate troppo "serioso":
Dal momento della conversione al giorno della morte,
Francesco fu molto duro, sempre, con il suo corpo. Ma il suo
più alto e appassionato impegno fu quello di possedere e
conservare in se stesso la gioia spirituale.
Affermava: "Se il servo di Dio si preoccuperà di avere e
conservare abitualmente la gioia inferiore ed esteriore,
gioia che sgorga da un cuore puro, in nulla gli possono
nuocere i demoni, che diranno: - Dato che questo servo di
Dio si mantiene lieto nella tribolazione come nella
prosperità, non troviamo una breccia per entrare in lui e
fargli danno -".
Una volta il Santo rimproverò uno dei compagni che aveva
un'aria triste e una faccia mesta: "Perché mostri così la
tristezza e l'angoscia dei tuoi peccati? é una questione
privata tra tè e Dio. Pregalo che nella sua misericordia ti
doni la gioia della salvezza. Ma alla presenza mia e degli
altri procura di mantenerti lieto. Non conviene che il servo
di Dio si mostri depresso e con la faccia dolente al suo
fratello o ad altra persona".
Diceva altresì: " So che i demoni mi sono invidiosi per i
benefici concessimi dal Signore per sua bontà. E siccome
non possono danneggiare me, si sforzano di insidiarmi e
nuocermi attraverso i miei compagni. Se poi non riescono a
colpire ne me ne i compagni, allora si ritirano scornati.
Quando mi trovo in un momento di tentazione e di
avvilimento, mi basta guardare la gioia del mio compagno
per riavermi dalla crisi di abbattimento e riconquistare la
gioia interiore".
(Leggenda perugina FF n° 1653)
Come vedete la gioia e la letizia, nella libertà dello spirito, sono per Francesco addirittura strumenti
di difesa contro il male. Strumenti tanto più potenti quanto più sono collaudati dalle difficoltà.
La lettera di Giacomo (1,2) infatti ammoniva: "Considerate
perfetta letizia
, miei fratelli, quando
subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza
completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti ed integri, senza mancare di nulla". Francesco
comprende la lezione spirituale sottostante a questo brano riscoprendolo come itinerario di
iniziazione concreto e quotidiano:
DELLA VERA E PERFETTA LETIZIA
Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli
Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: " Frate Leone, scrivi
". Questi rispose: " Eccomi, sono pronto ". " Scrivi - disse -
cosa è la vera letizia ".
" Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono
entrati nell'Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che
sono entrati nell'Ordine tutti i prelati d'oltralpe, arcivescovi
e vescovi, non solo, ma perfino il Rè di Francia e il Rè
d'Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora
notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno
convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da
Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da
far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui è vera
letizia ".
" Ma cosa è la vera letizia? ": " Ecco, tornando io da Perugia
nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso
e così rigido che, all'estremità della tonaca, si formano dei
ghiaccinoli d'acqua congelata, che mi percuotono
continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da
siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio,
giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato,
viene un frate e chiede: " Chi sei? ". Io rispondo: " Frate
Francesco ". E quegli dice: " Vattene, non è ora decente
questa di arrivare, non entrerai ". E mentre io insisto, l'altro
risponde: " Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non
ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo
bisogno di tè ". E io sempre resto davanti alla porta e dico:
" Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte ". E quegli
risponde: " Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là ".
Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò
conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera
virtù e la salvezza dell'anima"
(FF n° 278).
Madonna povertà e la tradizione francescana
Giocondo Pagliara dice (p. 134 o. c.) che lo sposalizio di Francesco con madonna povertà non è uno
sposalizio ascetico ma mistico con Gesù povero, "elemento di conformità tra il santo ed il suo
Signore". Io, sebbene indegnamente, penso che una cosa non escluda l'altra se, beninteso, non
intendiamo con la parola "ascetico" il semplice sforzo auto limitante ed auto lesionistico ma,
piuttosto l'ascesi (salita) verso il proprio destino di libertà in Cristo.
Madonna povertà è vista da Francesco, e dai primi francescani, con tutto l'ardore con il quale i
cavalieri medioevali vedevano la propria dama, Dante vede Beatrice e Don Chisciotte vedrà la sua
Dulcinea. Francesco ha in più il vantaggio di una coincidenza totale della sua dama con il suo ideale
ed il suo amore per Cristo. Una piccola opera scritta verso il 1260 (prima della Leggenda maggiore
di S. Bonaventura), intitolata "Sacrum commercium sancti Francisci cum domina paupertate",
sintetizza le ragioni di questo amore. Ve ne riporto qui il prologo (FF n°
!959-1962):
1. Fra le altre insigni e preclare virtù, che nell'uomo
preparano un luogo adatto all'abitazione di Dio e mostrano
una via migliore e più rapida per camminare e giungere
fino a Lui, la santa Povertà per sua natura si innalza su
tutte e precede per grazia singolare i meriti delle altre,
perché è fondamento e custode di ogni virtù e a buon
diritto il nome di lei occupa il primo posto fra le virtù
evangeliche. Le altre, infatti, non avranno da temere ne
caduta di pioggia, ne irrompere di fiumi, ne soffiare
minaccioso e rovinoso di venti, quando siano saldamente
fissate sul fondamento della povertà.
2. E ben a ragione, perché il Figlio di Dio, .Signore delle
virtù e Re della gloria, operando la salvezza sulla terra,
andò in cerca della Povertà, la trovò, l'amò con amore di
predilezione. Agli esordi della sua predicazione proprio la
Povertà egli pose come fiaccola in mano a coloro
che stavano per varcare la soglia della fede e collocò come
prima pietra nel fondamento della casa, e mentre le altre
virtù ricevono da lui il Regno dei cieli solo come promessa,
la Povertà ne ottiene l'investitura senza alcuna dilazione;
Beati, egli dice, i poveri in ispirito, perché di essi è il regno
dei cieli.
3. A buon diritto il regno dei cieli appartiene a coloro che di
propria volontà, con intenzione pura e per desiderio dei
beni eterni, rinunciano del tutto a possedere beni terreni. é
necessario che viva di cose celesti chi non si cura delle
terrene, che degusti felice nel presente esilio le dolci
briciole che cadono dalla mensa degli angeli santi chi
considera come stereo ogni cosa e rinuncia a tutti i beni del
mondo, meritando così di gustare quanto è dolce e soave il
Signore. Questa è la vera investitura del regno dei cieli, è
sicurezza di eredità eterna nel regno e quasi un pregustare
santamente la felicità futura.
4. Perciò il beato Francesco, come vero imitatore e
discepolo del Salvatore, agli inizi della sua conversione si
diede con grande amore alla ricerca della santa Povertà,
desideroso di trovarla e del tutto deliberato a farla sua,
senza temere ne avversità ne pericoli, non ricusando
fatiche ne schivando disagi corporali, nella speranza di
poter finalmente giungere fino a colei, alla quale il Signore
ha consegnato le chiavi del Regno dei cieli.
Nella stessa opera, quando la povertà, dopo un poverissimo convito chiede ai frati di mostrarle il
chiostro (luogo di svago e meditazione), così i frati le rispondono:
La condussero su di
un colle e le mostrarono tutt'intorno la terra fin dove
giungeva lo sguardo, dicendo: "Questo, signora, è il nostro
chiostro".
Come possiamo vedere l'aspetto mistico di unione con Cristo e con l'assoluto è il punto di arrivo di
un cammino ascetico di purificazione. La povertà diventa allora inizio - motore - termine di questo
cammino come testimoniano tre momenti della vita di Francesco:
L'inizio
Quel padre carnale cercava, poi, di indurre quel figlio della
grazia, ormai spogliato del denaro, a presentarsi davanti al
vescovo della città, per fargli rinunciare, nelle mani di lui,
all'eredità paterna e restituire tutto ciò che aveva.. Il vero
amatore della povertà accettò prontamente questa
proposta . Giunto alla presenza del vescovo, non sopporta
indugi o esitazioni; non aspetta ne fa parole; ma,
immediatamente, depone tutti i vestiti e li restituisce al
padre. Si scoprì allora che l'uomo di Dio, sotto le vesti
delicate, portava sulle carni un cilicio. Poi, inebriato da un
ammirabile fervore di spirito, depose anche le mutande e si
denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: "
Finora ho chiamato tè, mio padre sulla terra; d'ora in poi
posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro, che sei nei
deli, perché in Lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato
tutta la mia fiducia e la mia speranza ". Il vescovo, vedendo
questo e ammirando l'uomo di Dio nel suo fervore senza
limiti, subito si alzò, lo prese piangendo fra le sue braccia e,
pietoso e buono com'era, lo ricoprì con il suo stesso pallio.
Comandò, poi, ai suoi di darestici di dare qualcosa al
giovane per ricoprirsi. Gli offrirono, appunto, il mantello
povero e vile di un contadino, servo del vescovo. Egli,
ricevendolo con gratitudine, di propria mano gli tracciò
sopra il segno della croce, con un mattone che gli capitò
sottomano e formò con esso una veste adatta a ricoprire un
uomo crocifisso e seminudo.
Così, dunque, il servitore del Rè altissimo, fu lasciato nudo,
perché seguisse il nudo Signore crocifisso, oggetto del suo
amore; così fu munito di una croce, perché affidasse la sua
anima al legno della salvezza, salvandosi con la croce dal
naufragio del mondo.
(Leggenda maggiore)
Il momento della scelta di un stile di vita
Ma un giorno in cui in questa chiesa si leggeva il brano del
Vangelo relativo al mandato affidato agli Apostoli di
predicare, il Santo, che ne aveva intuito solo il senso
generale, dopo la Messa, pregò il sacerdote di spiegargli il
passo. Il sacerdote glielo commentò punto per punto, e
Francesco, udendo che i discepoli di Cristo non devono
possedere ne oro, ne argento, ne denaro, ne portare
bisaccia, ne pane, ne bastone per ria, ne avere calzari, ne
due tonache, ma soltanto predicare il Regno di Dio e la
penitenza, subito, esultante di Spirito Santo, esclamò:
"Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con
tutto il cuore!".S'affretta allora il padre santo, tutto pieno di
gioia, a realizzare il salutare ammonimento; non sopporta
indugio alcuno a mettere in pratica fedelmente quanto ha
sentito: si scioglie dai piedi i calzari, abbandona il suo
bastone, si accontenta di una sola tunica, sostituisce la sua
cintura con una corda. Da quell'istante confeziona per sé
una veste che riproduce l'immagine della croce, per tener
lontane tutte le seduzioni del demonio; la fa ruvidissima,
per crocifiggere la carne e tutti i suoi vizi e peccati, e
talmente povera e grossolana da rendere impossibile al
mondo invidiargliela! Con altrettanta cura e devozione si
impegnava a compiere gli altri insegnamenti uditi. Egli
infatti non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo,
ma, affidando ad una encomiabile memoria tutto quello
che ascoltava, cercava con ogni diligenza di eseguirlo alla
lettera.
(Vita prima di Tommaso da Celano)
Il termine
Piangevano, i compagni del Santo, colpiti e feriti da
mirabile compassione. E uno di loro, che l'uomo di Dio
chiamava suo guardiano, conoscendo per divina ispirazione
il suo desiderio, si levò su in fretta, prese la tonaca, la
corda e le mutande e le porse al poverello di
Cristo,dicendo: " Io tè le do in prestito, come a un povero, e
tu prendile con il mandato della santa obbedienza ". Ne
gode il Santo e giubila per la letizia del cuore,perché vede
che ha serbato fede a madonna Povertà fino alla fine; e,
levando le mani al cielo, magnifica il suo Cristo,perché,
alleggerito di tutto, libero se ne va a Lui. Tutto questo egli
aveva compiuto per lo zelo della povertà, che lo spingeva a
non avere neppure l'abito, se non a prestito da un altro.
Volle, di certo, essere conforme in tutto a Cristo crocifisso,
che, povero e dolente e nudo rimase appeso sulla croce.
Per questo motivo, all'inizio della sua conversione, rimase
nudo davanti al vescovo; per questo motivo, alla fine della
vita, volle uscire nudo dal mondo e ai frati che gli stavano
intorno ingiunse per obbedienza e carità
che, dopo morto, lo lasciassero nudo là sulla terra per il
tratto di tempo necessario a percorrere comodamente un
miglio. Uomo veramente cristianissimo, che, con imitazione
perfetta, si studiò di essere conforme, da vivo, al Cristo
vivente; in morte, al Cristo morente e, morto, al Cristo
morto,e meritò l'onore di portare nel proprio corpo
l'immagine di Cristo visibilmente!
(Leggenda maggiore).
E la prescrizione della "Regola bollata" (cioè approvata dal Papa nel 1223):
I frati non si approprino di nulla, ne casa, ne luogo, ne
alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo
mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano
per l'elemosina con fiducia. "Ne devono vergognarsi,
perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo.
Questa è, fratelli miei carissimi, l'eccellenza dell'altissima
povertà, che vi costituisce eredi e re del regno dei cieli,
facendovi poveri di cose e ricchi di virtù. " Questa sia la
vostra porzione che vi conduce alla terra dei viventi. E a
questa povertà, fratelli carissimi, totalmente uniti, non
vogliate aver altro sotto il cielo, per sempre, nel nome del
Signore nostro Gesù Cristo.
La via dell'Amore
Siamo così arrivati, visti i pre - requisiti che fino ad ora abbiamo analizzato, alla mistica, al rapporto
con Dio, di Francesco e dei suoi seguaci. Quello dei Francescani con Dio è un rapporto particolare
che attraverso l'interpretazione letterale e vissuta del Vangelo, la lotta contro l'amore di se, la gioia e
la povertà nello Spirito giunge ad una particolare intimità, quasi ad una fusione con l'Assoluto.
Scrive Pagliara (p. 25-26 o. c.) che "Francesco scopri intuitivamente la scorciatoia della
purificazione interiore, necessaria per l'accensione contemplativa: l'umiltà del cuore.
Aveva compreso che ogni discesa nei gradini della propria verità, la quale coincide con
l'umiltà autentica, fa abbassare le braccia misericordiose della divina bontà, così come
ogni innalzarsi sull'onda dell'orgoglio le fa allontanare.
E tutto il suo essere si riempiva di compunzione fino a tremarne in ogni fibra.
"Un giorno
- attesta il Celano -
pieno di ammirazione per la
misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti [...] si
ritirò, come spesso faceva, in un luogo adatto per la
preghiera. Vi rimase a lungo invocando con timore e
tremore il Dominatore di tutta la terra, ripensando con
amarezza gli anni passati malamente e ripetendo: "O Dio,
sii propizio a me peccatore". A poco a poco si senti
inondare nell'intimo del cuore da ineffabile letizia e
immensa dolcezza. Comincio come ad uscire da sé:
l'angoscia e le tenebre, che gli si erano addensate
nell'animo per timore del peccato, scomparvero, ed ebbe la
certezza di essere perdonato di tutte le sue colpe e di
vivere nello stato di grazia"
(FF 363)".
Francesco preoccupato di non poter congiungersi al suo Amore perfetto, perché si vede pieno di
difetti e di peccati, non rinuncia ma chiede, proprio a colui che vede perfetto il superamento di
queste barriere e lo chiede con il fervore di un'innamorato.
Tutto il cuore aveva offerto a Dio suo Creatore, e dal
profondo lo amava con tutta la sua anima e con tutte le sue
viscere. Portava Dio nel cuore, lo lodava con la bocca, lo
glorificava con le azioni. E se alcuno nominava Dio,
commentava: "Cielo e terra dovrebbero inchinarsi a questo
nome".
(FF n° 1532) Così l'Anonimo perugino.
E Tommaso da Celano (FF n° 784):
Fra le altre parole, che ricorrevano
spesso nel parlare, non poteva udire l'espressione " amore
di Dio " senza provare una certa commozione. Subito
infatti, al suono di questa espressione " amore di Dio " si
eccitava, si commoveva e si infiammava, come se venisse
toccata col plettro della voce la corda interiore del cuore.
é una prodigalità da nobili, ripeteva, offrire questa
ricchezza in cambio dell'elemosina e sono quanto mai stolti
quelli che l'apprezzano meno del denaro.
Da parte sua, osservò infallibilmente sino alla morte il
proposito, che aveva fatto quando era ancora nel mondo, di
non respingere alcun povero che gli chiedesse per amore di
Dio.
Una volta un povero gli chiese la carità per amore di Dio.
Siccome non aveva nulla, il Santo prese di nascosto le
forbici e si preparò a spartire la sua misera tonaca. E
l'avrebbe certamente tatto se non fosse stato scoperto dai
frati, ai quali però ordinò di provvedere con altro compenso
al povero.
Diceva: " Dobbiamo amare molto l'amore di Colui che ci ha
amati molto ".
Questo amore incontenibile scandisce le sue "Lodi di Dio Altissimo" dove "Ogni parola è una
annotazione mistica, impregnata della plenitudine della bellezza divina" (G. Pagliara o. c. p.
30). Le riporto integralmente:
LODI DI DIO ALTISSIMO
1 Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende.
2 Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei l'Altissimo.
3 Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre santo, Re del cielo
e della terra.
4 Tu sei trino e uno, Signore Iddio degli dei.
5 Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio
vivo e vero,
6 Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà.
7 Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la
pace.
8 Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza.
9 Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra
ricchezza.
10 Tu sei bellezza. Tu sei mitezza.
11 Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il difensore nostro.
Tu sei fortezza. Tu sei rifugio.
12 Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la
nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza.
13 Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile
Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore.
Questa unione estatica che portava Francesco a sollevarsi da terra mentre pregava, che da questo
scritto possiamo solo intuire, più che descriverla con parole mie, preferisco "raccontarla" con due
brani scritti da sante francescane e riportati anch'essi dal libro di Pagliara.
Il primo è di Angela da Foligno (1248-1309):
"Dio le dice: "Guardami". E l'anima si accorge che è
penetrato in lei, e lo vede
in modo più chiaro di quanto un uomo non riesca a vedere
un altro uomo, poiché
gli occhi dell'anima vedono una pienezza spirituale che io
non riesco a
descrivere, una pienezza spirituale, non corporea, di cui è
impossibile dir
qualcosa. E in questo vedere l'anima è felice, ed è segno
sicuro e manifesto che
Dio è in lei". L'inabitazione divina le porta due doni: "II
primo è un'unzione
particolare che subito fa nuova l'anima e rende docili tutte
le membra del corpo
e concordi con l'anima: essa non potrebbe essere sfiorata o
ferita da alcuna
cosa che possa turbarla ne poco ne molto; e sente e
comprende che Dio le parla.
[...] Questa è un'esperienza ineffabile". Il secondo dono è
"l'abbraccio che Dio
fa all'anima. Mai sulla terra una madre ha abbracciato un
figlio, ne altra
creatura umana è stata capace di abbracciare con un
amore che si avvicini
all'immenso amore con cui Dio abbraccia l'anima. La
stringe a sé con dolcezza e
con calore tali che penso non si possa intendere, se non lo
si prova".
Il secondo è di Veronica Giuliani (1660-1727) che il 24 giugno 1720 scrive:
"Questa mattina, [...] subito venuto in me
(ricevuta la Comunione)
Dio Sacramentato, ha fatto un accordo con quest'anima...:
l'anima stava nel mare immenso ed infinito di Dio.
Comunicandole Iddio i suoi divini attributi, mi pareva che
nel tempo di questa comunicazione...l'attributo della divina
misericordia la stringesse a sé in sé, cosi il divino amore
uniformandosi alla misericordia, si comunicava all'anima, e
faceva che ella fosse una cosa medesima con Dio.
Qui vi furono quei legami indissolubili fra Dio e l'anima; e la
carità immensa di Dio, in un istante, si è stesa più avanti, e
di tutti i divini attributi fece un dono all'anima.
Iddio poi aveva tirato l'anima a Sé in Sé, le faceva capire
tutto per via di unione, di amore e di carità, e tutto faceva
a pro di lei; sicché da tutte queste cose era obbligata a
spogliarsi di tutto quello che non è secondo il volere di Dio,
ed in quel punto, si astringeva non solo a tutto il più
perfetto, ma si accordava col modo di Dio, e nel modo col
quale Iddio voleva l'accordo assoluto, capiva tutto.
E nell'atto in cui capiva tutto, Iddio, con la sua operazione e
con la cooperazione di lei, operava in lei cose grandi, e per
far tutto, e per arricchirla, le donava tutto Se medesimo.
Infatti, vi è stato un accordo fra essa e Dio, che non ho
modo da poter dichiarare; ed ho appreso che, avendo dato
un si, l'anima è restata come divinizzata in Dio, con Dio
[...].
Qui, in un tratto, vi è stata la trasformazione di Dio
coll'anima, e dell'anima con Dio; e fatto questo, l'anima è
restata, con legami, tutta uniforme a Dio, cioè divinizzata e
deificata, per aver fatto una rinunzia di tutto, solo in Dio,
per Dio e con Dio".
L'Amore si è fatto carne
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell'esultanza!
Per l'occasione sono qui convocati molti frati da varie parti;
uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione,
portando ciascuno secondo le sue possibilità ceri e fiaccole
per illuminare quella notte, nella quale s'accese splendida
nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva
alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il
suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la
greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e
l'asinello. In quella scena commovente risplende la
semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda
l'umiltà.
Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli
uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un
gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La
selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori
festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte
sembra tutta un sussulto di gioia.
II Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante
di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote
celebra solennemente l'Eucaristia sul presepio e lui stesso
assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era
diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella
voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri
di cielo.
Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il
neonato Re povero e la piccola città di Betlemme.
Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di
amore celeste lo chiamava "il Bambino di Betlemme", e
quel nome "Betlemme" lo pronunciava riempiendosi la
bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un
suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva
"Bambino di Betlemme" o "Gesù", passava la lingua
sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la
dolcezza di quelle parole.
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell'Onnipotente,
e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione.
Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita
nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo
desta da quella specie di sonno profondo. Né la
visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti
del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori
di molti, che l'avevano dimenticato, e il ricordo di lui
rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua
pieno di ineffabile gioia.
(F. F. n. 469/470)
Così Tommaso da Celano racconta la celebrazione del Natale, voluta da Francesco a Greccio (Rieti)
il 25 dicembre 1223. Questo racconto mi sembra atto ad esprimere il senso che aveva per il santo il
Natale perché
Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con
ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava
festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante,
aveva succhiato ad un seno umano.
(F. F. n. 787).
È, se ciò che abbiamo detto sin ora non è già servito ad illustrarlo, l'ennesimo esempio rivelatore del
segreto di Francesco.
Gesù
è per lui non il nome di un Messia da seguire, non il rivelatore di misteri ed arcani
nascosti, non il messaggero di una divinità lontana ma
Dio
che,
fatto piccolo
infante, aveva succhiato ad un seno umano.
Francesco ci regala questa estrema concretezza, fatta quasi di pannolini e di lacrime ma anche di
frustrazioni e di piaghe di lebbra, che diventa la via regale per incontrare Dio.
Francesco contempla l'amore di dio ed è come se il suo sguardo seguisse (in senso letterale e
concreto) questo amore sin nel rapporto che lega la madre che allatta al suo bimbo. In quel latte
Dio è presente e così Francesco.
Finisco questo capitolo riportando un bellissimo brano dei Fioretti (cap. XXV, F. F. n. 1857) nel
quale Francesco (dopo aver pregato e quindi stabilito il contatto con l'Amore di Dio) dimostra
questa sensibilità "materna" lavando con erbe aromatiche le piaghe di un lebbroso reso acido e
cattivo dal dolore e dalla puzza generata dalla propria infezione:
Addivenne una volta, in uno luogo presso a quello dove
dimorava allora santo Francesco, li frati servivano in uno
ispedale a' lebbrosi infermi; nel quale era uno lebbroso sì
impaziente e sì insopportabile e protervo, ch'ogni uno
credeva di certo, e così era, che fusse invasato del dimonio,
imperò ch'egli isvillaneggiava di parole e di battiture sì
sconciamente chiunque lo serviva, e, ch'è peggio, ch'egli
vituperosamente bestemmiava Cristo benedetto e la sua
santissima madre Vergine Maria, che per nessuno modo si
trovava chi lo potesse o volesse servire. E avvegna che le
ingiurie e villanie proprie i frati studiassono di portare
pazientemente per accrescere il merito della pazienza;
nientedimeno quelle di Cristo e della sua Madre non
potendo sostenere le coscienze loro, al tutto diterminarono
d'abbandonare il detto lebbroso: ma non lo vollono fare
insino a tanto ch'eglino il significarono ordinatamente a
santo Francesco, il quale dimorava allora in uno luogo quivi
presso.
E significato che gliel'ebbono, e santo Francesco se ne
viene a questo lebbroso perverso; e giugnendo a lui, sì lo
saluta dicendo: « Iddio ti dia pace, fratello mio carissimo ».
Risponde il lebbroso: «Che pace posso io avere da Dio, che
m'ha tolto pace e ogni bene, e hammi fatto tutto fracido e
putente?». E santo Francesco disse: «Figliuolo, abbi
pazienza, imperò che le infermità de'corpi ci sono date da
Dio in questo mondo per salute dell'anima, però ch'elle
sono di grande merito, quand'elle sono portate
pazientemente», Risponde lo infermo: «E come poss'io
portare paziememente la pena continua che m'affligge il dì
e la notte?
E non solamente io sono afflitto dalla infermità mia, ma
peggio mi fanno i frati che tu mi desti perché mi
servissono, e non mi servono come debbono ». Allora santo
Francesco, conoscendo per rivelazione che questo lebbroso
era posseduto da maligno spirito, andò e posesi in orazione
e pregò Iddio divotamente per lui.
E fatta 1' orazione, ritorna a lui e dice così: «Figliuolo, io ti
voglio servire io, da poi che tu non ti contenti degli altri».
«Piacemi, dice lo infermo; ma che mi potrai tu fare più che
gli altri?». Risponde santo Francesco: «Ciò che tu vorrai, io
farò». Dice il lebbroso: «Io voglio che tu mi lavi tutto
quanto, imperò ch'io puto sì fortemente, ch'io
medesimo non mi posso patire». Allora santo
Francesco di subito fece iscaldare dell'acqua con
molte erbe odorifere, poi sì spoglia costui e comincia a
lavarlo colle sue mani, e un altro frate metteva su 1' acqua.
E per divino miracolo, dove santo Francesco toccava con le
sue sante mani, si partiva la lebbra e rimaneva la carne
perfettamente sanata. E come s'incominciò la carne a
sanicare, così s'incominciò a sanicare l'anima; onde
veggendosi il lebbroso cominciare a guarire, cominciò ad
avere grande compunzione e pentimento de' suoi peccati,
e cominciò a piagnere amarissimamente; sicché mentre
che 'l corpo si mondava di fuori della lebbra per lo
lavamento dell' acqua, l'anima si mondava dentro del
peccato per contrizione e per le lagrime. Ed essendo
compiutamente sanato quanto al corpo e quanto all'anima,
umilmente si rendette in colpa e dicea piagnendo ad alta
voce: «Guai e me, eh' io sono degno dello inferno per le
villanie e ingiurie eh' io ho fatte e dette a' frati, e per la
impazienza e bestemmie ch'io ho avute contro a Dio».
Onde per quindici dì perseverò in amaro pianto de' suoi
peccati e in chiedere misericordia a Dio, confessandosi al
prete interamente. E santo Francesco veggendo così
espresso miracolo, il quale Iddio avea adoperato per le sue
mani, ringraziò Iddio e partissi indi, andando in paesi assai
di lunge; imperò che per umiltà volea fuggire ogni gloria e
in tutte le sue operazioni, solo cercava l'onore e la gloria di
Dio e non la propria.
Poi, com'a Dio piacque, il detto lebbroso sanato del corpo e
dell'anima, dopo quindici dì della sua penitenza, infermo
d'altra infermità; e armato delli Sacramenti ecclesiastici sì
si morì santamente. E la sua anima, andando in paradiso,
apparve in aria a santo Francesco che si stava in una selva
in orazione, e dissegli: « Riconoscimi tu? ». « Qual se' tu? »
disse santo Francesco. « Io sono il lebbroso il quale Cristo
benedetto sanò per li tuoi meriti, e oggi me ne vo a vita
eterna; di che io rendo grazie a Dio e a te.Benedetta sia
l'anima e 'l corpo tuo, e benedette le tue sante parole e
operazioni; imperò che per tè molte anime si salveranno
nel mondo. E sappi che non è dì nel mondo, nel quale li
santi Agnoli e gli altri santi non ringraziilo Iddio de' santi
frutti che tu e l'Ordine tuo fate in diverse parti del mondo; e
però confortati e ringrazia Iddio, e sta' con la sua
benedizione ». E dette queste parole, se n'andò in cielo; e
santo Francesco rimase molto consolato.
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.
Laudato sie, mi Signore, cum tucte le tue creature.
Conseguenza del suo seguire lo sguardo, creatore e vivificatore, di Dio era poi, per Francesco, il
non fermarsi all'uomo ma abbracciare in modo materno tutto il creato anche nella convinzione
(espressa nella V ammonizione F. F. 153 - 154) che tutte le creature lodano il Signore meglio di noi
Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto
Dio che ti creò e ti fece a immagine del suo diletto Figlio
secondo il corpo, e a sua similitudine secondo lo spirito. E
tutte le creature, che sono sotto il cielo, ciascuna secondo
la sua natura, servono e conoscono e obbediscono al loro
creatore meglio di te
e tale affermazione non è fatta da Francesco intellettualmente o
filosoficamente ma, piuttosto, deriva da un'unione con tutte cose simile a quella raggiunta, o cercata
di raggiungere, dai bodhisattwa orientali come testimonia questi brani di Tommaso da Celano (F. F.
460 - 461 e 751 - 752)
Sarebbe troppo lungo, o addirittura impossibile narrare
tutto quello che il glorioso padre Francesco compì e
insegnò mentre era in vita. Come descrivere il suo
ineffabile amore per le creature di Dio e con quanta
dolcezza contemplava in esse la sapienza, la potenza e la
bontà del Creatore?- Proprio per questo motivo, quando
mirava il sole, la luna, le stelle del firmamento, il suo animo
si inondava di gaudio. O pietà semplice e semplicità pia!
Perfino per i vermi sentiva grandissimo affetto,
perché la Scrittura ha detto del Signore: Io sono
verme e non uomo; perciò si preoccupava di toglierli
dalla strada, perché non fossero schiacciati dai
passanti. E che dire delle altre creature inferiori, quando
sappiamo che, durante l'inverno, si preoccupava addirittura
di far preparare per le api miele e vino perché non
morissero di freddo? Magnificava con splendida lode la
laboriosità e la finezza d'istinto che Dio aveva loro elargito,
gli accadeva di trascorrere un giorno intero a lodarle, quelle
e tutte le altre creature. Come un tempo i tre fanciulli
gettati nella fornace ardente invitavano tutti gli elementi a
glorificare e benedire il Creatore del l'universo, così
quest'uomo, ripieno dello spirito di Dio, non si stancava mai
di glorificare, lodare e benedire, in tutti gli elementi e in
tutte le creature, il Creatore e governatore di tutte le cose.
E quale estasi gli procurava la bellezza dei fiori, quando
ammirava le loro forme o ne aspirava la delicata fragranza!
Subito ricordava la bellezza di quell'altro Fiore il quale,
spuntando luminoso nel cuore dell'inverno dalla radice di
lesse, col suo profumo ritornò alla vita migliaia e migliaia di
morti. Se vedeva distese di fiori, si fermava a
predicare loro e li invitava a lodare e amare Iddio,
come esseri dotati di ragione; allo stesso modo le messi e
le vigne, le pietre e le selve e le belle campagne, le acque
correnti e i giardini verdeggianti, la terra e il fuoco, l'aria e
il vento con semplicità e purità di cuore invitava ad amare
e a lodare il Signore. E finalmente chiamava tutte le
creature col nome di fratello e sorella, intuendone i
segreti in modo mirabile e noto a nessun altro,
perché aveva conquistato la libertà della gloria
riservata ai figli di Dio. Ed ora in cielo ti loda con gli
angeli, o Signore, colui che sulla terra ti predicava degno di
infinito amore a tutte le creature.
Tutte le creature da parte loro si sforzano di
contraccambiare l'amore del Santo e di ripagarlo con
la loro gratitudine. Sorridono quando le accarezza,
danno segni di consenso quando le interroga,
obbediscono quando comanda. Sia sufficiente qualche
esempio. Al tempo della sua malattia d'occhi, trovandosi
costretto a permettere che lo si curasse, viene chiamato un
chirurgo, che giunge portando con sé il ferro per
cauterizzare. Ordina che sia messo nel fuoco, sino a che sia
tutto arroventato. Il Padre, per confortare il corpo già
scosso dal terrore, così parla al fuoco: «Frate mio fuoco,
di bellezza invidiabile fra tutte le creature,
l'Altissimo ti ha creato vigoroso, bello e utile. Sii
propizio a me in quest'ora, sii cortese perché da
gran tempo ti ho amato nel Signore. Prego il Signore
grande che li ha creato di temperare ora il tuo calore
in modo che io possa sopportare, se mi bruci con
dolcezza ».Terminata la preghiera, traccia un segno di
croce sul fuoco e poi aspetta intrepido. Il medico prende in
mano il ferro incandescente e torrido, mentre i frati
fuggono vinti dalla compassione. Il Santo invece si offre
pronto e sorridente al ferro. Il cantere affonda
crepitando nella carne viva, e la bruciatura si estende a
poco a poco dall'orecchio al sopracciglio. Quanto dolore gli
abbia procurato il fuoco, ce lo testimoniano le parole del
Santo, che lo sapeva meglio di tutti. Infatti, quando
ritornarono i frati che erano fuggiti, il Padre disse
sorridendo: «Pusillanimi e di poco coraggio, perché siete
fuggiti? In verità vi dico, non ho provato ne l'ardore del
fuoco ne alcun dolore della carne». E rivolto al
medico: «Se la carne non è bene cauterizzata, brucia
di nuovo», gli disse. Il medico, che conosceva ben diverse
reazioni in casi simili, magnificò il fatto come un miracolo di
Dio: «Vi dico, frati, che oggi ho visto cose mirabili». A mio
giudizio, il Santo era ritornato alla innocenza primitiva, e
quando lo voleva, diventavano con lui miti anche gli
elementi crudeli.
Tutte le creature le riportava poi a Dio in un circolo d'amore:
Per trarre da ogni cosa
incitamento ad amare Dio, esultava per tutte quante le
opere delle mani del Signore e, da quello spettacolo di
gioia, risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere.
Contemplava, nelle cose belle, il Bellissimo e, seguendo le
orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il
Diletto. Di tutte le cose si faceva una scala per salire ad
afferrare Colui che è tutto desiderabile. Con il fervore di
una devozione inaudita, in ciascuna delle creature, come in
un ruscello, delibava quella Bontà fontale, e le esortava
dolcemente, al modo di Davide profeta, alla lode di Dio,
perché avvertiva come un concento celeste nella
consonanza delle varie doti e attitudini che Dio ha loro
conferito.
(Leggenda maggiore IX F. F. 1162)
Alla luce di questi brani bisogna rileggere allora il "Cantico delle creature" con il quale voglio
terminare la parte dedicata a S. Francesco
IL CANTICO DELLE CREATURE
1 Altissimo, onnipotente, bon Signore
tue so le laude, la gloria e l'onore e onne benedizione.
2 A tè solo, Altissimo, se confano
e nullo orno è digno tè mentovare.
3 Laudato sie, mi Signore, cun tutte le tue creature,
spezialmente messer lo frate Sole,
lo quale è iorno, e allumini noi per lui.
4 Ed ello è bello e radiante cun grande splendore:
de te, Altissimo, porta significazione.
5 Laudato si, mi Signore, per sora Luna e le Stelle:
in cielo l'hai formate clarite e preziose e belle.
6 Laudato si, mi Signore, per frate Vento,
e per Aere e Nubile e Sereno e onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sustentamento.
7 Laudato si, mi Signore, per sora Aqua,
la quale è molto utile e umile e preziosa e casta.
8 Laudato si, mi Signore, per frate Foco,
per lo quale enn'allumini la nocte:
ed ello è bello e iocondo e robustoso e forte.
9 Laudato si, mi Signore, per sora nostra madre Terra,
la quale ne sostenta e governa,
e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba.
10 Laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano
per lo tuo amore
e sostengo' infirmitate e tribulazione.
11 Beati quelli che '1 sosterrano in pace,
ca da tè, Altissimo, strano incoronati.
12 Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullo omo vivente po' scampare.
13 Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali!
14 Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati,
ca la morte seconda no li farrà male.
15 Laudate e benedicite mi Signore,
e rengraziate e serviteli cum grande umiliate.
Scusatemi se mi sono dilungato troppo, verso metà settembre riprenderò con le "Scuole". Resterò
ancora a Roma fino alla fine della settimana ma, intanto, auguro un agosto proficuo per il cammino
spirituale di ciascuno di noi
Ruah