Banana Yoshimoto Tsugumi


BANANA YOSHIMOTO,
TSUGUMI.

Avvertenza.

Per la trascrizione dei nomi giapponesi Š stato adot-
tato il sistema Hepburn secondo il quale le vocali sono
pronunciate come in italiano e le consonanti come in
inglese. Si noti inoltre che:
ch Š un'affricata come la c nell'italiano cesto (p.e.
"Pochi" va letto "Poci");
g e sempre velare come in gatto;
h Š sempre aspirata;
j Š un'affricata come la g nell'italiano gioco;
s Š sorda come in sasso;
sh Š una fricativa come sc nell'italiano scelta;
w va pronunciata come una u molto rapida;
y Š consonantico e si pronuncia come la i italiana
(p.e. "Kyoichi" va letto "Chioici").;
Il segno diacritico sulle vocali indica l'allungamen-
to delle stesse.;
Seguendo l'uso giapponese, il cognome precede
sempre il nome (fa qui eccezione il nome dell'autrice).

La posta degli spiriti.

Senza dubbio Tsugumi era una ragazza impossibile.
Ho lasciato il mio tranquillo paesino, in cui si vive
di pesca e di turismo, e sono venuta a Tokyo per fre-
quentare l'universit. Anche le giornate che trascorro
qui sono molto divertenti.
Mi chiamo Shirakawa Maria. Maria, proprio come
la Madonna.
Per• non mi sento affatto una santa. Ma nonostante
questo, chiss perch‚, quando i miei nuovi amici parla-
no di me, non ce n'Š uno che non dica che sono "gene-
rosa, o "serena".
Se proprio devo dire come mi vedo io, credo di es-
sere una semplice ragazza in carne e ossa, per di pi
con poca pazienza. Comunque, mi sono accorta di un
fatto abbastanza strano. Le persone, qui a Tokyo, se
per caso si mette a piovere, se salta una lezione all'uni-
versit, o se un cane fa la pipć, insomma, qualsiasi co-
sa succeda, si arrabbiano subito. Io, invece, sono un
po' diversa. Mi arrabbio, sć, ma un istante dopo, un'on-
da mi travolge e la mia collera si disperde nella sab-
bia... Ormai mi ero quasi convinta di essere una "tran-
quilla ragazza di provincia", quando l'altro giorno, do-
po che un odioso professore non mi aveva accettato
una relazione per un ritardo di un minuto, sulla via
del ritorno ero pazza dalla rabbia: fissavo il tramonto
e all'improvviso me ne resi conto.
"E colpa di Tsugumi, anzi, Š merito suo."
Tutti, pi o meno una volta al giorno, ci arrabbia-
mo. Mi ero accorta che in quei momenti, senza farlo
apposta, era come se recitassi una preghiera nel pro-
fondo del mio cuore: "Questa rabbia non Š niente ri-
spetto a quella che Š capace di provare Tsugumi". Men-
tre ero con lei, avevo capito perfettamente che, anche
se si va su tutte le furie, non Š che alla fine la realt
dei fatti cambi. Il cielo volgeva al tramonto brillando
di arancio, e mi veniva da piangere.
Non so perch‚, ma avevo la sensazione che l'amore
per quanto lo si doni, per quanto si lasci aperto il rubi-
netto del proprio cuore, non si esaurisce mai, proprio
come l'acqua degli acquedotti di tutto il Giappone.
Questo racconto Š il ricordo dell'estate in cui sono
tornata per l'ultima volta nel paesino di mare in cui ho
vissuto da bambina. Le persone della pensione Yama-
moto che entrano in scena ormai hanno traslocato in
un'altra terra. E molto probabilmente non avr• pi
un'altra opportunit di vivere con loro. Pertanto il luo-
go verso il quale il mio cuore torna Š quello dei giorni
trascorsi con Tsugumi, e soltanto quello.
Sin dalla nascita, Tsugumi era molto debole, qua e
l le si erano "inceppate" le funzioni fisiche. I medici
le avevano pronosticato vita breve e la famiglia era
preparata al peggio. Per questo motivo, tutti intorno a
lei, cominciando da sua madre che l'aveva assistita in-
cessantemente durante i ricoveri negli ospedali di tutto
il Giappone, la coccolavano e facevano del loro meglio
per cercare di allungare, anche se di poco, la sua vita.
Cosć, piano piano, aveva cominciato a camminare con
le sue gambe, ed era cresciuta poco alla volta, svilup-
pando un carattere estremamente ribelle. Il fatto che
fosse riuscita a irrobustirsi, quel tanto da riuscire a
condurre una vita normale al cinquanta per cento, le si
era rivoltato contro. Tsugumi era cattiva, maleducata,
sboccata, capricciosa, viziata e sleale. Godeva nel dire
alle persone, senza mezzi termini, con dovizia di parti-
colari e con un tempismo perfetto, quello che li faceva
arrabbiare di pi. Era proprio una serpe.
Io e la mamma abitavamo in una d‚pendance della
pensione Yamamoto, che era anche la casa di Tsugumi.
Mio padre lavorava a Tokyo, e si stava dando da fa-
re per potersi sposare formalmente con la mamma do-
po aver ufficializzato il divorzio dalla precedente mo-
glie con cui non viveva pi gi da molto tempo. Per
questo motivo non faceva altro che andare avanti e in-
dietro per venire a trovarci. Sognavamo il giorno in cui
avremmo potuto vivere tutti e tre insieme senza na-
sconderci dalla gente, e quindi, anche se dall'esterno la
situazione poteva sembrare molto dura, per loro due,
invece, non lo era pi di tanto. Dunque, io ero cresciu-
ta come la tranquilla figlia di una normalissima coppia
che si amava, ma all'apparenza un po' confusa.
La pensione Yamamoto era di propriet della fami-
glia del marito di zia Masako, la sorella minore della
mamma, e lć la mamma viveva aiutando in cucina. La
loro famiglia era cosć composta: zio Tadashi e zia
Masako che gestivano la pensione, e due figlie, Tsugu-
mi e la sorella maggiore, Yoko.
Le persone che avevano subito pi di tutti le con-
seguenze dell'incredibile carattere di Tsugumi erano,
nell'ordine: zia Masako, Yoko e la sottoscritta. Zio
Tadashi, infatti, le stava parecchio alla larga. So che
pu• sembrare irriverente che abbia messo il mio nome
nell'elenco, visto che le prime due della lista l'avevano
cresciuta, ed erano diventate talmente pazienti da en-
trare a far parte della categoria degli angeli.
Per quanto riguarda l'et, tra Yoko e me, e tra me e
Tsugumi, c'era un anno di differenza. Per• che Tsugu-
mi fosse pi piccola di me non l'ho mai avvertito. Vele-
nosa sin da quando era bambina, era cresciuta senza
cambiare nemmeno un po'.
Nei periodi in cui le sue condizioni di salute peggio-
ravano, e aumentava 'la frequenza con cui si sentiva
male, la sua furia si faceva sempre pi impetuosa. Le
era stata data una graziosa stanza doppia al terzo pia-
no della pensione, tutta per s‚, perch‚ potesse riposare
in pace. Dalle sue finestre si godeva la vista pi bella e
si vedeva il mare: uno splendido mare sfolgorante nei
giorni di sole, terribilmente offuscato in quelli di piog-
gia e sfavillante durante la notte per le mille lampare
dei pescatori di seppie.
Io ho sempre goduto di buona salute, e quindi pro-
prio non riesco a immaginare l'angoscia che si deve
provare nell'ambiguit di quelle giornate in cui capita
di sentirsi morire. Comunque ho la sensazione che se
avessi avuto la possibilit di dormire per un po' di
tempo in quella stanza, poi non sarei pi riuscita a fa-
re a meno di quella vista sul mare e di quell'odore di
salsedine. Per Tsugumi, invece, non era cosć: faceva a
brandelli le tende, teneva le imposte perennemente
chiuse, ogni tanto faceva cadere per terra il vassoio
del pranzo, rovesciava sui tatami tutti i libri della li-
breria, insomma, teneva per tutto l'anno quella stanza
come una scena del film L'esorcista, solo per far di-
spiacere a quelle brave persone della sua famiglia. Una
volta poi si era appassionata alla magia nera, cosć che
si era messa ad allevare in camera lumaconi, rane e
granchi (del posto, immagino) convinta che fossero
"servi del demonio". Ne aveva nascosti anche nelle ca-
mere degli ospiti, tanto che i clienti si erano lamentati.
Zia Masako, Yoko, e perfino zio Tadashi avevano pian-
to lacrime amare per quella sua bravata.
Ma anche in quella circostanza, Tsugumi, con un
sorriso sprezzante, li aveva liquidati dicendo:
"Smettetela di piangere! Se stanotte crepo, poi ci ri-
manete male, vero?".
E strano, ma quel suo viso sorridente assomigliava
a Miroku.
Eh sć, Tsugumi era bella.
Aveva i capelli lunghi e neri, la pelle bianca e tra-
sparente. Vicino ai grandi, grandissimi occhi a man-
dorla, spuntavano lunghe e folte ciglia. Quando abbas-
sava lo sguardo, un'ombra chiara scendeva sulle sue
guance. Le vene sembravano fluttuare in quelle brac-
cia sottili e in quelle gambe affusolate. Minuta fisica-
mente, all'apparenza era elegante come una bambola
creata a opera d'arte dagli dei.
Fin dai tempi della scuola media, Tsugumi aveva la
brutta abitudine di prendersi gioco dei ragazzi, e di
portarseli sulla spiaggia a passeggiare, fianco a fianco.
La frequenza con cui li cambiava, per•, era altissima,
tanto che se non fosse stato per il fatto che la gente
era convinta che i ragazzi non potessero evitare di ri-
manere attratti dalla sua bellezza e dalla sua affabili-
t, in paese sarebbero sicuramente girate brutte voci
sul suo conto. Questo perch‚, quando era con estranei,
diventava gentilissima, praticamente un'altra persona.
Perlomeno non provocava i clienti della pensione. Se
cosć non fosse stato, lo Yamamoto sarebbe ben presto
diventato una casa di tolleranza.
Una volta, mentre osservavo la baia volgere al tra-
monto dall'alto di un argine che dava sulla spiaggia, vidi
Tsugumi che camminava con un ragazzo. Gli uccelli vo-
lavano bassi danzando nel cielo della sera, e il rumore
delle onde scintillanti si faceva sempre pi vicino, in si-
lenzio. La spiaggia bianca, su cui era rimasto soltanto un
cane a scorrazzare, si estendeva all'infinito come un de-
serto, e al largo le barche si facevano guidare dal vento.
In lontananza s'intravedevano le sagome delle isole del
golfo, mentre le nubi, leggermente splendenti di rosso,
andavano a naufragare al di l del mare.
Tsugumi camminava piano, pianissimo.
Il ragazzo, preoccupato, le tese la mano. Lei, sem-
pre con lo sguardo abbassato, l'afferr•, poi sollev• il
capo e gli sorrise con le guance infiammate dal sole
del crepuscolo e con un sorriso fugace come il bagliore
del cielo che andava cambiando colore a ogni istante. I
suoi denti candidi, il collo sottile, i grandi occhi che
fissavano il ragazzo, tutto quanto era sul punto di dis-
solversi nella sabbia, nel vento, nel rumore delle onde.
Sarebbe davvero potuto succedere in qualsiasi momen-
to e non sarebbe stato,per niente strano.
Accarezzata dalla brezza marina, la sua gonna bian-
ca sventolava con vivacit.
Ogni volta che la vedevo in una situazione del gene-
re, pensavo con una punta di rabbia: "Per•, certo che
riesce proprio bene a spacciarsi per un'altra persona",
e mi veniva voglia di piangere. Questo perch‚ quella vi-
sta cosć triste entrava dentro di me e mi scuoteva nel
profondo. Eppure sapevo benissimo di che pasta fosse
fatta.
Io e Tsugumi siamo diventate amiche nel vero sen-
so della parola, a causa di un "incidente". Anche se
avevamo giocato insieme sin da bambine. Se riuscivi a
sopportare la sua straordinaria cattiveria e la sua ma-
lalingua, giocare con lei era davvero divertente. Nella
sua fantasia, quel piccolo paesino di pescatori era un
mondo senza confini dove ogni granello di sabbia pote-
va nascondere un frammento di mistero. Tsugumi era
intelligente e diligente nello studio. Nonostante le nu-
merose assenze per motivi di salute, quanto a voti era
quasi sempre tra i primi della classe. Andava a caccia
dei libri pi svariati, in modo da essere ben preparata
in ogni materia. Forse, se non avesse fatto lavorare co-
sć tanto il cervello, non le sarebbero mai potute venire
in mente tutte quelle cattiverie.
I primi anni delle elementari, io e lei giocavamo
spesso alla "Posta degli spiriti". Ai piedi della monta-
gna, nel giardino dietro la scuola, c'era una capannina
meteorologica in rovina. Avevamo deciso che quel po-
sto era in collegamento con il mondo degli spiriti e che
lć venivano recapitate le lettere dall'aldil. Di giorno
andavamo a metterci fotografie spaventose o articoli
su storie di fantasmi, presi da alcune riviste, e di notte
tornavamo a riprenderli. Quel giardino, che di giorno
non aveva niente di particolare, di notte, quando ci an-
davamo di nascosto nel buio pesto. faceva davvero
paura, e per qualche istante andavamo in visibilio. Pe-
r• col passare del tempo anche quel gioco finć col con-
fondersi tra gli innumerevoli divertimenti di quel pe-
riodo, e ce ne dimenticammo. Io cominciai le medie e
decisi di entrare nella squadra di basket. Gli allena-
menti erano talmente duri che quando tornavo a casa
la sera, facevo i compiti e andavo subito a letto. Di
Tsugumi me ne importava sempre meno, tanto che era
diventata la "cugina della porta accanto". L'"inciden-
te" accadde in quel periodo, durante le vacanze prima-
verili della seconda media, se non ricordo male.
Quella sera stava piovigginando e io ero chiusa in
camera mia. Nelle citt di mare la pioggia ha l'odore
della salsedine. In quella notte di pioggia, nel profondo
del mio cuore mi sentivo avvilita. Era appena morto
mio nonno. Dal momento che ero cresciuta in casa sua
fino all'et di cinque anni, ero sempre stata indiscuti-
bilmente la sua cocca. Anche dopo essermi trasferita
con la mamma dagli Yamamoto, andavo a trovarlo re-
golarmente e ci tenevamo in contatto anche per lette-
ra. Avevo saltato l'allenamento ed ero distesa sul letto
con gli occhi gonfi per il pianto, senza riuscire a con-
centrarmi su niente. Mia madre, dall'altra parte del fu-
suma, mi disse che c'era Tsugumi al telefono e io la
pregai di dirle che ero fuori. Non ero proprio nelle
condizioni di parlarle. Mia mamma conosceva benissi-
mo Tsugumi e cosć mi rispose: "Va bene", e se ne and•.
Tornai a sedere per terra e presi a sfogliare distratta-
mente una rivista. Stavo quasi per assopirmi, quando
dal corridoio sentii avvicinarsi un rumore di ciabatte.
Nell'istante in cui alzai la testa, il fusuma si aprć di
scatto: Tsugumi era lć in piedi bagnata fradicia. Dal
cappuccio del suo impermeabile cadevano sui tatami
delle gocce trasparenti, una dopo l'altra. Tutta ansi-
mante e con gli occhi spalancati, mi chiam• con un fil
di voce: "Maria!".
"Cosa Š successo?"
Per met ancora nel mondo dei sogni, osservai l'e-
spressione del suo viso: sembrava in ansia, come spa-
ventata. Poi mi disse con tono prepotente:
"Ohi, sveglia, c'Š poco da dormire! Leggi qua!" e mi
porse un foglio che aveva tirato fuori dalla tasca con
una cura estrema. Confusa da tutta quella attenzione,
lo presi e, non appena lo guardai, mi sembr• di venir
spinta sotto il fascio di luce di un riflettore.
Non c'erano dubbi: quella era la calligrafia del
mio caro nonno, con quei tratti in semicorsivo traccia-
ti energicamente con il pennello. L'attacco era il suo
solito, quello con cui aveva sempre iniziato le lettere
che mi aveva scritto.
Al mio tesoro, Maria,
Addio.
Abbi cura di nonna, pap e mamma. Mi raccoman-
do, vedi di diventare una donna rispettabile degna
del nome che porta.
Ryuso.
Rimasi senza parole. Per un attimo rividi la figura
di spalle del nonno alla scrivania e provai una fitta al
cuore. Poi chiesi a Tsugumi con un'irruenza incredibi-
le: "Dove l'hai trovata?".
Lei mi fiss• e con un tono serissimo, da preghiera,
mosse le sue labbra vermiglie e mi rispose:
"Ci credi? Era nella cassetta degli spiriti".
"Cosa?"
In un istante il ricordo di quella capannina meteo-
rologica, che ormai vevo dimenticato del tutto, riaf-
fior• nella mia mente..Tsugumi abbass• la voce e sus-
surr•:
"Sai benissimo che io sono pi vicina alla morte di
tutti voi messi insieme. Prima, stavo dormendo quando
ho sognato il nonno. Ho provato ad aprire gli occhi,
ma non se ne voleva andare. Era come se cercasse di
dire qualcosa. Io gli sono molto riconoscente. Sai,
quando ero piccola mi ha comperato cosć tante cose.
Poi a un certo punto del sogno sei saltata fuori anche
tu e il nonno sembrava volerti parlare. Ti voleva bene,
eh? D'un tratto, ecco che mi Š venuta l'illuminazione e
sono andata a vedere nella cassetta. Ma tu gli avevi
parlato del nostro gioco mentre era in vita?".
"No," risposi io scuotendo il capo, "non gliene ho
mai parlato, credo."
"Cosa? Maria, che paura!" url• e poi aggiunse con
un tono grave: "Ma allora questa Š veramente una let-
tera di uno spirito!".
Tsugumi congiunse le mani con forza davanti al se-
no e chiuse gli occhi per rivedere se stessa mentre cor-
reva verso la capannina. Intanto la pioggia continuava
a cadere nel buio. Anche il mio animo si allontan• in
un baleno dalla realt per venire attratto verso la not-
te di Tsugumi. Era una quiete leggermente angosciante
in cui tutto quanto era accaduto fino a quel momento,
anche la vita e la morte stesse formava un vortice di
misteri che, lento, si spostava verso un altro luogo al-
trettanto reale.
Tsugumi si era fatta pallida in volto quando final-
mente, guardandomi negli occhi, riuscć a dirmi con un
fil di voce:
"E adesso cosa facciamo?".
"Per ora," cominciai io con decisione. In quel mo-
mento stranamente faceva tenerezza, come se fosse
stata sconfitta dall'enormit degli eventi. "Non devi
dirlo a nessuno! Torna subito a casa, mettiti a letto e
copriti per bene, che anche se siamo in primavera ti
pu• benissimo venire la febbre, bagnata come sei. Mi
raccomando di cambiarti al pi presto! Di questa fac-
cenda ne riparliamo un altro giorno con calma."
"Va bene, ho capito," rispose Tsugumi; si alz• di
scatto e disse: "Torno a casa!".
Mentre usciva dalla mia stanza le dissi: "Tsugumi,
grazie".
"Di niente!" mi rispose lei e, senza neppure voltarsi
a salutare, se ne and• lasciando il fusuma aperto.
Per un po' rimasi seduta per terra a rileggere, chiss
quante volte, quella lettera. Le mie lacrime cadevano co-
piose sul tappeto. Il mio cuore era pieno della tenera sa-
cralit del mattino in cui ero stata svegliata dal nonno
che mi diceva che era arrivato Babbo Natale, del mo-
mento in cui mi ero accorta dei regali di fianco al cusci-
no. Pi la leggevo e pi le mie lacrime si facevano ab-
bondanti, mi ci sdraiai sopra e piansi all'infinito.
Certo che c'ero cascata proprio in pieno...
Per un istante avevo dubitato che si trattasse di un
imbroglio, visto che c'era di mezzo Tsugumi.
Per•, quella calligrafia, quel tratto, quell'inizio di
lettera: "Al mio tesoro", di cui soltanto io e il nonno
eravamo a conoscenza, erano al di l di qualsiasi so-
spetto. Lo sguardo deciso, penetrante di Tsugumi ba-
gnata dalla pioggia, quel suo tono di voce... quella sua
solita frase detta sempre per scherzo, l'aveva pronun-
ciata seria in viso: "Sono pi vicina alla morte io di
tutti voi messi insieme!... aah, avevo abboccato alla
perfezione.
Il trucco lo scoprii il giorno successivo.
A mezzogiorno decisi di andare da Tsugumi per sa-
pere qualcosa di pi preciso riguardo alla lettera, ma
lei era fuori. Salii in camera sua ad aspettarla. Sua so-
rella Yoko venne a portarmi il tŠ e con un tono un po'
triste mi disse:
"Tsugumi Š all'ospedale".
Yoko Š piccola di statura e grassottella. E sempre se-
rena, la sua voce Š come un canto. Qualsiasi dispetto le
possa fare Tsugumi, non si scompone e non si arrabbia
mai. Al massimo si rattrista un poco. Quando sono con
lei mi vedo davvero piccina piccina. Tsugumi dice sem-
pre, prendendosi gioco di lei, che una persona cosć spen-
ta non pu• essere sua sorella. A me invece piace molto,
anzi provo una grande stima per lei. Pu• sembrare im-
possibile che non pensi mai a qualcosa di male, dal mo-
mento che vive con Tsugumi, comunque quando s'illu-
mina di un sorriso sembra davvero un angelo.
"Perch‚, non sta bene?" domandai io preoccupata.
Credetti che le avesse fatto male uscire sotto la pioggia.
"Sai, ultimamente si Š buttata a capofitto nello stu-
dio della calligrafia e cosć la febbre le Š..."
"Cosa?" dissi io. Davanti agli occhi sbarrati per lo stu-
pore di Yoko, guardai con attenzione sullo scaffale appe-
so sopra la scrivania di Tsugumi e vidi un libro dal titolo:
Esercizi di semicorsivo
E poi c'erano un sacco di fogli, di pennelli, di baston-
cini d'inchiostro di China, una vaschetta per stemperar-
lo ecc. e anche una lettera del nonno che--ci posso giu-
rare--aveva fregato dalla mia camera.
Al momento non mi arrabbiai, rimasi senza parole.
Mi chiesi per quale motivo fosse arrivata a fare una
cosa del genere. Non riuscivo assolutamente a immagi-
nare lo scopo e da cosa fosse potuta scaturire l'ossessio-
ne che l'aveva spinta ad architettare una cattiveria del
genere, lei che non aveva mai preso in mano un pennello
in vita sua. Mi voltai verso la finestra, ancora confusa, e
guardai il mare risplendere in lontananza. Nel momento
in cui Yoko aprć la bocca per chiedermi di che cosa si
trattasse, torn• Tsugumi.
Arsa dalla febbre, camminava con un'andatura mol-
to pesante, appoggiandosi a zia Masako. Non appena en-
tr• nella stanza, vide l'espressione del mio volto e sog-
ghignando disse:
"Mi ha scoperta?".
In quell'istante mi infuocai di rabbia e di vergogna.
Mi alzai di scatto e le diedi una spinta con tutta me
stessa.
"Ma... Maria!" disse Yoko stupita.
Tsugumi, cadendo a terra, butt• gi il fusuma e
sbatt‚ con violenza contro la parete. "Maria! Tsugumi
adesso ha..." cerc• di dire la zia, ma io, ormai in lacri-
me, scossi il capo e continuando a fissare Tsugumi con
lo sguardo pieno d'odio, la interruppi:
"Sta' zitta, per favore!".
Ero davvero furiosa, tanto che persino Tsugumi
non os• aprir bocca. Nessuno l'aveva mai aggredita in
quel modo.
"Se sei cosć cattiva e non hai niente di meglio da fa-
re, puoi anche morire subito!" dissi e gettai per terra
l'eserciziario di calligrafia.
Lei in quel momento capć che se non l'avesse fatto,
la nostra amicizia sarebbe stata compromessa per
sempre. E infatti era proprio cosć. Ancora nella posi-
zćone in cui era caduta, fiss• i miei occhi con uno
sguardo trasparente. Poi pronunci•, quasi bisbiglian-
do, una frase che non aveva mai detto in vita sua. In
nessuna circostanza, qualsiasi cosa fosse accaduta, an-
che se le avessero squarciato la bocca.
"Maria, scusa."
La zia, Yoko e, pi di chiunque altro, io, restammo
senza parole, in silenzio e con il fiato sospeso. Tsugu-
mi che chiede scusa? I raggi di sole che riempivano la
stanza ci rendevano brillanti in quello spazio immobi-
le. In lontananza si sentiva soltanto il rumore del ven-
to che quel pomeriggio soffiava sulla citt.
"Ah! Ah! Ah!". Il silenzio venne rotto da Tsugumi
che d'improvviso scoppi• a ridere. "Certo che anche tu
che ci sei cascata... eh, Maria?" disse, ormai ridendo a
crepapelle. "Prova a ragionare con un briciolo di buon
senso! Uno morto non pu• certo scrivere una lettera,
no? Sei proprio stupida! Ah! Ah! Ah!"
Non riusciva pi. a contenersi: comprimendosi lo
stomaco con le braccia, si contorceva dalle risa.
Di riflesso anche a me venne da ridere, arrossii e
dissi:
"Hai vinto tu".
Ancora oggi, quando ricordiamo le frasi di quella
notte di pioggia davanti agli occhi stupiti della zia e di
Yoko, c'Š da sbellicarsi dalle risate per ore e ore.
Sć, quella fu la ragione per cui io e Tsugumi finim-
mo col diventare amiche per la pelle, nel bene e nel
male.




La primavera e le sorelle Yamamoto.

Era il principio della primavera quando pap, dopo
aver ufficialmente divorziato dalla moglie precedente,
chiese a me e alla mamma di trasferirci a Tokyo. Io
avevo appena sostenuto gli esami d'ammissione in
un'universit della capitale, cosć che la notizia del tra-
sferimento venne a coincidere con quella del buon esi-
to delle prove. Ormai sia io che la mamma eravamo di-
ventate estremamente sensibili allo squillo del telefo-
no. Neanche a farlo apposta, Tsugumi in quel periodo,
e soltanto in quello, ci chiamava un'infinit di volte al
giorno per delle cose da far saltare i nervi: "Volevo so-
lo sapere se stavate bene", oppure "Bocciata!". Anche
se ogni volta ci precipitavamo a rispondere con il cuo-
re in gola, stavamo in qualche modo allo scherzo per
poi salutarla in quattro e quattr'otto: "Ah, Tsugumi?
Va bene, va bene, ci sentiamo un'altra volta. Ciao!".
In quel periodo sia io che la mamma sentivamo che
alla fine saremmo riuscite a trasferirci a Tokyo e cosć
eravamo al settimo cielo. Ormai la tensione si stava
sciogliendo come neve al sole.
La mamma aveva aspettato quel momento per molti
anni. Quando lavorava alla pensione Yamamoto, aveva
sempre il sorriso sulle labbra, tanto.che non sembrava
affatto che facesse fatica a tirare avanti. In effetti riu-
sciva a ridurre al minimo lo stress della situazione
proprio perch‚ reagiva cosć. Credo che il motivo per
cui pap non si stnc• di lei e, anzi, prese l'abitudine
di venire a trovarci regolarmente, fosse proprio perch‚
la mamma era sempre allegra, come se non ci fosse al-
cun problema. Non che fosse particolarmente forte, Š
che involontariamente riusciva a non pensare alle diffi-
colt che l'affliggevano. Quelle poche volte che l'avevo
sentita piangere con sua sorella, andava sempre a fini-
re che la zia si metteva a ridere e, assecondandola, le
diceva di non sapere cosa rispondere. Questo perch‚,
anche se il contenuto dei suoi pianti non lo era affatto,
quella sua espressione del volto, sempre sorridente,
era un po' comica. Comunque, per quanto le persone
che le erano attorno fossero gentili con lei, per- la gen-
te, lei rimaneva una "mantenuta senza futuro". Di sicu-
ro in fondo al suo cuore ci saranno stati anche momen-
ti di ansia in cui le sar venuta voglia di piangere per
la stanchezza, o quasi. Io in un certo senso riuscivo a
capire quello che stava provando, tanto che ero diven-
tata grande senza attraversare alcun periodo di ribel-
lione adolescenziale.
Cosć, quel paesino di mare in cui ero cresciuta con
la mamma nell'attesa del pap, senza che me ne accor-
gessi mi aveva fatto conoscere un'infinit di cose.
Con l'avvicinarsi della primavera, le giornate si fa-
cevano pi calde. Quando pensavo che prima o poi ce
ne saremmo dovute andare, tutte quelle scene, ormai
familiari, quelle piccole cose di tutti i giorni, puntava-
no dritte al mio cuore avvolte da una luce sfocata. Il
vecchio corridoio della pensione Yamamoto, il neon
dell'insegna su cui di notte si assembrava una moltitu-
dine d'insetti, la vista delle montagne, lo stenditoio in
cui i ragni tessevano la loro tela alla velocit della
luce...
Nell'ultimo periodo, andavo tutti i giorni a fare due
passi sulla spiaggia con Pochi, un cane di razza Akita
dal nome banalissimo, di propriet dei nostri vicini di
casa, i signori Tanaka.
Nelle mattine di bel tempo, il mare sembrava splen-
dere in modo particolare. Le onde s'infrangevano sulla
spiaggia in miliardi di sfavillii; nel ripetersi di quell'a-
zione, nel susseguirsi di quei freddi flutti, c'era qualco-
sa di sacro a cui era difficile accostarsi. Guardavo il ma-
re seduta in cima all'argine, mentre Pochi correva libe-
ro sulla battigia facendosi coccolare qua e l dai pesca-
tori.
Da un certo periodo in poi anche Tsugumi cominci•
a prender parte a quelle passeggiate mattutine e io ne
ero molto felice.
Quando Pochi era ancora un cucciolo, lei non lo la-
sciava in pace un momento, tanto che un bel giorno si
trov• con una mano morsa in modo molto grave. Quella
volta eravamo sul punto di cominciare a pranzare io, zia
Masako, Yoko e la mamma. Ricordo ancora la scena: la
zia non fece in tempo a chiedersi dove fosse finita Tsu-
gumi, che lei entr• nella stanza pallida da morire e con
la mano tutta insanguinata. La zia si precipit• verso di
lei domandandole che cosa avesse fatto. Lei mantenen-
do una calma incredibile rispose: "Can che non abbaia,
morde", e, senza volerlo, scoppiammo tutti a ridere per
la battuta. Da Quel momento, si odiarono a vicenda, e
ogni volta che Tsugumi entrava o usciva dalla porta di
servizio, Pochi abbaiava come un forsennato disturban-
do i clienti, insomma un vero problema per tutti. In un
certo qual modo mi dispiaceva che non andassero d'ac-
cordo, anche perch‚ a me piacevano entrambi. Cosć, fui
felice di vedere che avevano fatto pace proprio quando
stavo per andarmene da quella terra.
A meno che non piovesse, anche Tsugumi veniva a fa-
re la passeggiata con noi. Ogni mattino Pochi, non appe-
na mi sentiva aprire le persiane, si precipitava fuori dal-
la cuccia tutto speranzoso. Io mi lavavo la faccia in fret-
ta e furia, mi vestivo e uscivo di casa. Aprivo senza far
rumore la porta di legno che dava sul giardino dei Ta-
naka, tenevo fermo Pochi che continuava ad agitarsi fa-
cendo un gran fracasso con la catena e gli mettevo il
guinzaglio. Un giorno stavo per passare dalla porta di
legno, quando mi accorsi che Tsugumi era lć ad aspet-
tarci. La prima volta fu abbastanza complicata perch‚
a Pochi la sua presenza dava fastidio e lei non riusciva
a vincere la paura. Dopo qualche tempo, per•, le cose
cambiarono e anche lei cominci• a tenerlo per il guin-
zaglio. Faceva tenerezza vederla nel ,bagliore del matti-
no mentre, trascinata da Pochi, gli diceva tutta felice:
"Non correre!". Era sicuramente da parecchio tempo
che voleva fare la pace con lui. Comunque non potevo
perderli di vista neanche un attimo, perch‚ se per caso
Pochi l'avesse trascinata un po' troppo in avanti, lei
avrebbe tirato con tutte le sue forze il guinzaglio tanto
da costringerlo ad alzarsi sulle zampe posteriori. Sa-
rebbero stati guai seri se avesse ucciso il cane dei no-
stri vicini.
Quel genere di moto sembrava far bene a TsugÅmi,
cosć che decisi di agevolarla, dimezzando la lunghezza
del percorso. Ma ci• nonostante continuavo a essere
preoccupata. Soltanto quando vidi che il colorito del
suo viso era migliorato e che non le veniva pi la feb-
bre, mi tranquillizzai.
Fu durante una passeggiata mattutina.
Quel giorno, il tempo era bellissimo: nemmeno una
nuvola. Nel blu del mare e del cielo c'era un non so che
di dolce. Il sole emanava raggi dorati che creavano un
alone accecante attorno alle cose. Nel centro della
spiaggia c'era una torretta di controllo in legno simile a
un'impalcatura. Io e Tsugumi, con l'aiuto di una scala,
ci arrampicammo fino alla postazione su cui d'estate
stavano i bagnini. All'inizio Pochi scorrazzava tutto in-
vidioso intorno al basamento, poi, una volta capito che
non sarebbe mai potuto salire, si rassegn• e corse fino
alla fine della spiaggia. D'un tratto Tsugumi gli url•:
"Ti sta bene!" con tutta la cattiveria che aveva, e lui le
rispose abbaiando.
"Perch‚ gli hai detto una cosa del genere?" le chie-
si stupita.
"Cosa vuoi che capisca quella merda di un cane!"
fece lei ridendo, intenta a osservare il mare. I capelli
le svolazzarono sulla fronte con un lievissimo fruscio.
Nel suo volto accaldato per la corsa, s'intravedevano le
vene e i suoi occhi, riflettendo il mare, brillavano di lu-
ce viva.
Anch'io lo guardai.
Che strano: quando sono rivolta verso il mare in
compagnia di qualcuno, chiss perch‚, ma va a finire
che non m'importa se si parla o se si tace, mi vanno
bene entrambe le cose. Non mi stanco mai di osservar-
lo, e anche quando Š in burrasca, non c'Š pericolo che
il rumore dei suoi cavalloni possa darmi fastidio.
Non potevo credere di dover traslocare in un posto
dove non ci fosse il mare. Proprio non riuscivo a ren-
dermene conto; era una cosa talmente impensabile che
quasi mi veniva l'angoscia. Nei momenti belli e in quel-
li brutti, quando d'estate faceva caldo e c'era molta
gente o in inverno sotto il cielo stellato, o quando an-
davo al tempio shintoista per accogliere il nuovo anno,
se mi voltavo a guardare, il mare era sempre lć. Sia
che fossi piccola o che diventassi grande, sia che mo-
risse la nonnina della porta accanto o che nascesse un
bambino nella casa del dottore, sia al mio primo ap-
puntamento galante che alla mia prima delusione, sem-
pre, in qualsiasi situazione, il mare circondava con le
sue acque il nostro paese, ora gonfiandosi, ora ritiran-
dosi a seconda delle maree.
Nei giorni di buona visibilit si vedeva chiaramente
la costa opposta del golfo. E poi il mare, anche se non
ci si mette pi di tanto sentimento, Š come se insegni
qualcosa di preciso a chi lo osserva. Sino a ora non
avevo mai avuto bisogno di pensare a quella presenza,
al rumore delle onde che ininterrottamente si infrange-
vano sulla riva. Nelle citt senza mare, chiss a cosa si
rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio? For-
se alla luna. Per• se la si confronta con il mare, risulta
talmente lontana e piccola, da sembrare, in un certo
qual modo, indifesa.
"Tsugumi, credi che sia possibile vivere in un posto
dove non c'Š il mare?" mi uscć di bocca senza volerlo.
Dare voce a quel mio interrogativo, mi rese ancor pi
ansiosa. La luce del mattino aumentava in forza e ba-
gliore secondo dopo secondo e, in lontananza si sentiva-
no i rumori del paese in cui riprendeva la vita.
"Quanto sei stupida!" disse all'improvviso Tsugumi,
quasi arrabbiata e senza neppure degnarmi di uno
sguardo. "E inevitabile perdere qualcosa, quando se ne
ottiene un'altra. E tu ti lamenti proprio adesso che fi-
nalmente potrai vivere con i tuoi sotto lo stesso tetto?
Dopo tutta la fatica che tuo padre ha fatto per sbaraz-
zarsi della prima moglie? Cosa vuoi che sia il mare al
confronto! Sei proprio una bambina!"
"Beh, sć, hai ragione."
Rimasi di stucco, mai mi sarei aspettata una risposta
tanto seria. Lo stupore fu cosć grande che per qualche
istante le mie preoccupazioni si dissiparono. Forse an-
che a Tsugumi accadeva spesso di raggiungere, e quindi
di perdere, qualcosa. La sua personalit era cosć forte e
definita, che non era proprio possibile immaginare che
dentro di lei avvenissero dei mutamenti del genere. Mi
accorsi di averla messa a fuoco tutt'a un tratto, e fui col-
ta da uno strano stato d'animo, come di tristezza.
Probabilmente Tsugumi aveva vissuto fino a quel
momento senza raccontare a nessuno quelle sensazioni.
Cosć facendo, cercai di accantonare a uno a uno i
miei rimpianti, incominciando i preparativi della par-
tenza. Mi vidi con degli amici delle medie che non vede-
vo da secoli e addirittura con un ragazzo con cui ero
stata ai tempi delle superiori e a tutti annunciai l'immi-
nente trasloco. Credo proprio d'avere ereditato da mia
madre tutta questa sincerit. Forse perch‚ si sentiva
nella posizione di "amante", lei curava in particolar mo-
do i rapporti con gli altri. E cosć fu anche per il traslo-
co: fece il giro del vicinato per salutare tutti in manie-
ra solenne, quasi le fosse dispiaciuto andar via. A dire
il vero, avevo pensato di darmi un tocco di classe, e di
andarmene senza dir niente a nessuno, ma viste le di-
mensioni del paese, immaginai che ormai fosse di do-
minio pubblico, cosć, cambiai strategia e incontrai tut-
te le persone che.mi andava di vedere, una dopo l'al-
tra. Poi, un po' alla volta cominciai a mettere le mie
cose negli scatoloni.
Era un lavoro eccitante, ma che faceva male al cuo-
re. Una separazione naturale, per nulla infelice, ma im-
possibile da evitare. Assomigliava molto a un'onda.
Ovunque mi trovassi, se per caso mi fermavo un atti-
mo, sentivo avvicinarsi inesorabile dentro di me una
triste sensazione, pi forte del dolore, che mi faceva
battere forte il cuore.
Io e Yoko lavoravamo part-time in una pasticceria
che dava sulla strada principale del paese. Era un ne-
gozio famoso, anche perch‚ era l'unico della zona in
cui si vendessero soltanto dolci occidentali (non ho
nessuna intenzione di darmi delle arie...).
Dovevo ancora andare a ritirare l'ultimo stipendio,
cosć quella sera feci in modo di arrivare al locale in
coincidenza con la fine del turno di Yoko. Come previ-
sto, il proprietario ci regal• le torte che erano avanza-
te. Ne facemmo due parti uguali e tornammo a casa in-
sieme. Yoko le mise per bene nel cestello in modo che
non si schiacciassero per poi incamminarsi spingendo
la bicicletta. Io ero al suo fianco e camminavo molto
lentamente. La strada di ghiaia che portava alla pen-
sione costeggiava un fiume. Si camminava per un po',
fino a imbattersi in un grande ponte. Dall'altra parte si
stendeva il mare verso il quale il fiume scorreva in si-
lenzio. La luna e i lampioni illuminavano la superficie
dell'acqua e la ringhiera di protezione.
Ci avvicinammo al ponte e, all'improvviso, Yoko
disse:
"Guarda quanti fiori l sotto!".
Sugli argini di cemento alle estremit del ponte c'e-
rano delle piccole strisce di terra su cui, esposta alla
dolce brezza notturna, era fiorita una moltitudine di
fiori bianchi.
"E vero!" esclamai. Bianchi, galleggiavano nell'oscu-
rit. Ogni volta che, flessi dal vento, ondeggiavano tutti
insieme, per qualche istante restava un'immagine bian-
ca, proprio come succede nei sogni. Al loro fianco il fiu-
me scorreva mormorando. Illuminato dalla luce della
luna, serpeggiava nel buio verso la sua lontana meta,
descrivendo una lunghissima scia di scintille.
Ci fermammo per un attimo.
"Non trovi che sia bellissimo?" domandai io.
E Yoko annuć sorridendo.
Sulle sue spalle, i lunghi capelli si mossero legger-
mente. Rispetto a Tsugumi, non era per niente appari-
scente, ma aveva i lineamenti del viso molto fini. E poi
tutt'e due, nonostante fossero cresciute in un posto di
mare, avevano la carnagione chiarissima. Sotto il chia-
ro di luna di quella sera, Yoko sembrava ancora pi
bianca.
Subito dopo, riprendemmo a camminare rivolte ver-
so casa. Di lć a dieci minuti avremmo mangiato, noi
quattro donne, le torte che stavano traballando nel ce-
stino della bicicletta. Avevo la scena davanti agli occhi.
Il rumore della televisione e il profumo dei tatami.
"Ciao!" e saremmo entrate nel soggiorno illuminato, in
cui c'erano la mamma e zia Masako. Tsugumi ci avreb-
be accolte con una cattiveria del tipo: "Mi sono gi rot-
ta di mangiare gli avanzi che portate a casa voi", e se ne
sarebbe andata in camera sua, ma non senza essersene
presa almeno tre fette delle preferite. Non sopportava
le riunioni di famiglia, la facevano vomitare, diceva.
Anche se imboccavamo delle stradine da cui non si
vedeva il mare, l'impressione era che il rumore delle
onde continuasse a seguirci. Cosć la luna. Al di l dei
vecchi tetti, in continuazione.
Nonostante quei momenti felici fossero davanti ai
nostri occhi, chiss perch‚ continuavamo a cammina-
re mogie mogie, sprofondate nel nostro silenzio. For-
se perch‚ con quel giorno avevo concluso il lavoro
alla pasticceria. Tra di noi scorreva la tristezza di
quei lunghi anni trascorsi da buone cugine, come
una lieve melodia. Credo che stessi ripensando al ca-
rattere di Yoko: la sua gentilezza era paragonabile a
petali resi trasparenti dal sole. No, non pensavo a
niente. Era perch‚ camminavamo ridendo e parlando
di cose da nulla. Per quanta fosse la voglia di diver-
tirsi di quei momenti, se cercassi di rievocarli ora,
vedrei soltanto il buio di quella notte e le ombre
scure dei pali della luce e dei cestini della spazzatu-
ra. A pensarci adesso, quella sera era davvero cosć.
"Speravo proprio che ci regalasse le torte avanza-
te, il proprietario. Sai, gli avevo detto che saresti ve-
nuta un po' prima della chiusura. C'Š andata bene,"
disse Yoko.
"E vero, se pensi che ci sono state volte in cui an-
che se ne sono avanzate una marea, non ce ne ha da-
ta neanche una, o altre, invece, dove non Š rimasto
un bel niente. Siamo state proprio fortunate," ri-
sposi.
"Appena a casa, le mangiamo tutti insieme," disse
Yoko e il suo gentile profilo dagli occhiali rotondi
s'illumin• di un sorriso.
"Ah, prima che me la freghi Tsugumi, devo fare
in modo di mettere al sicuro la crostata di mele. So
che le piace da morire," mi vergogno, ma credo pro-
prio di averlo detto con tutta me stessa.
"Va bene, allora dobbiamo nasconderle questa sca-
tola. Qui c'Š dentro solo la crostata," rispose Yoko e si
mise a ridere ancora una volta.
E una ragazza molto in gamba: riesce ad assecon-
dare qualsiasi genere di capriccio, con la stessa veloci-
t con cui l'acqua penetra nella sabbia. In lei c'era
tutta la calma solare che quell'ambiente riusciva a
creare.
Lasciando perdere Tsugumi, che con il carattere
che aveva, non faceva testo, a scuola avevo un sacco di
amiche che come Yoko erano figlie di albergatori. Eb-
bene, per quanto differenti fossero tra,di loro, avevano
tutte una cosa in comune. Si trattava soltanto di una
sensazione, ma era come se sapessero calibrare alla
perfezione la distanza da tenere nei confronti degli al-
tri. Forse perch‚ sin da piccole erano abituate a guar-
dare con distacco tutta quella gente che andava e veni-
va dalla loro pensione. Erano tutte allenate agli addii,
eludevano senza sforzo quelle sensazioni che si prova-
no quando ci si separa da qualcuno. Riuscivano a con-
trollarsi, arrivando a ignorare persino quello che acca-
deva dentro di loro. Io non rientravo proprio nella ca-
tegoria, ma ci andavo molto vicino, tanto che anche a
me sembrava di esser cosć. Credo di essere brava a
sfuggire la crudezza delle emozioni, come se niente
fosse.
Nel momento della separazione, Yoko era diversa
dalle altre.
Quando ero piccola, mentre mi davo da fare duran-
te l'ora delle pulizie, capitava che qualche cliente fosse
gentile con me e che mi chiedesse se ero la figlia dei
proprietari o qualcosa del genere. Anche se ci si cono-
sceva soltanto di vista, era bello scambiarsi un saluto.
E evidente che cosć come c'erano clienti gentili, ce n'e-
rano anche di antipaticissimi. I migliori, sia uomini
che donne, erano persone che con la loro presenza riu-
scivano a illuminare la stanza in cui si trovavano. Tra
di noi, erano famosi al punto da diventare uno degli
argomenti preferiti in cucina o tra i colleghi della pa-
sticceria. Quando se ne andavano, dopo aver caricato
in macchina i bagagli ed essere partiti salutandoci con
la mano, il vuoto della loro stanza veniva colmato dal-
la luce pomeridiana, tanto da renderla abbagliante.
Fra sei mesi torneranno di certo, ma quei sei mesi
sembravano un'eternit. E poi arrivava un altro cliente
e cosć via; avevamo visto ripetersi quella scena tante,
tantissime volte.
La stagione finiva, arrivava l'inizio dell'autunno e i
clienti diminuivano di colpo. Io cercavo di superare il
buio di quei momenti, costringendomi a essere felice,
ma poi vedevo Yoko guardare sconsolata quei giocatto-
li dimenticati da alcuni nostri amici, e mi veniva da
piangere. Tutti quanti facevano in modo di non pensa-
re a quelle tristi sensazioni che occupavano soltanto
una piccola parte del nostro cuore. Se non avessimo
fatto cosć, avremmo corso il rischio di diventare trop-
po sensibili e perennemente depresse. Occasioni di
quel genere erano talmente numerose, che si finiva per
imparare la tecnica antitristezza. Yoko, invece, sem-
brava essere cresciuta con una cura particolare per
quel genere di emozioni. Al contrario di tutti noi, pro-
prio non voleva perderle.
Girato l'angolo, si vedeva il neon dell'insegna "Pen-
sione Yamamoto" risplendere tra i cespugli. Ogni volta
che scorgevo la fila delle finestre dei clienti, tiravo un
sospiro di sollievo. Sia che fossero tutte illuminate con
la pensione al completo, sia che fossero quasi tutte
spente, mi sembrava di venire accolta da qualcosa di
enorme. Passammo per il retro, aprimmo la porta e
Yoko disse: "Siamo noi!". A quell'ora di solito la mam-
ma o era ancora in pensione oppure stava prendendo il
tŠ nel soggiorno di casa Yamamoto. Mangiavamo tutti
insieme una fetta di torta e poi io e lei ce ne tornava-
mo nella d‚pendance. Abbiamo fatto cosć per anni.
"Ah, gi," ricordai mentre mi toglievo le scarpe,
"quei dischi che mi avevi chiesto di registrarti, te li re-
galo. Vuoi che te li dia subito, prima che me ne dimen-
tichi ?"
"Cosa? No, di, mi dispiace. Sono due, no? Va be-
nissimo anche se me li registri soltanto," disse Yoko
incredula.
"Figurati, mi faresti un piacere ad accettarli, anche
perch‚ pensavo di lasciarli qui..." capii di aver fatto
una figura terribile. Non ero riuscita a fermarmi in
tempo. "Consideralo un regalo d'addio. Un regalo d'ad-
dio? Chissa se lo si pu• chiamare cosć anche quando lo
fa chi parte e non chi resta?"
Osservai Yoko che nel buio dell'ingresso stava co-
prendo la bicicletta: aveva la testa abbassata e stava
piangendo.
Mi bloccai per un istante, tale era la spontaneit di
quelle lacrime; poi, facendo finta di non essermene ac-
corta, entrai in casa e dandole le spalle le dissi
"Su, svelta, che mangiamo la torta!".
"Va bene," rispose con una voce nasale, asciugando-
Si in fretta le lacrime. Nella sua innocenza forse pensa-
va che non Si sapesse che era una dalle lacrime facili.
Per dieci anni avevo vissuto come protetta sotto un
grande velo tessuto con un unico filo intrecciato di pi
materiali. Finch‚ non si provava a toglierselo, non era
possibile capire il caldo che teneva. Finch‚ non ci si
trovava nelle condizioni di non potervi pi far ritornO,
non Ci Si rendeva conto di esserci sotto. Un velo dalla
temperatura ideale. In quel periodo, tutto quanto: il
mare, il paese nel suo insieme, la famiglia Yamamoto,
la mamma e il pap dalla lontana Tokyo mi protegge-
vano avvolgendomi con cura. Qui a Tokyo trascorro
delle giornate molto divertenti e sono felice, ma a volte
mi assale una nostalgia incredibile per quel periodo. E
le immagini che pi mi vengono in mente sono quelle
di Tsugumi che gioca sulla spiaggia con il cane e il sor-
riso di Yoko che di notte cammina per la strada spin-
gendo la bicicletta.




Vita.

Ogni sera, da quando abitavamo con il pap, io e
la mamma sprizzavamo felicit da tutti i pori, quando
lui tornava a casa dal lavoro. Insieme eravamo cosć
felici da sembrare ridicoli. Che fossero torte o sushi,
arrivava sempre con qualcosa sotto il braccio. Quando
lo vedevo aprire la porta e salutare con il sorriso sul-
le labbra e il volto rilassato, mi chiedevo un po
preoccupata se in ufficio lavorasse seriamente o me-
no. Al sabato, poi, ci portava fuori a mangiare nei mi-
gliori ristoranti della citt, oppure ci preparava qual-
cosa con le sue mani. Una volta si era addirittura tra-
sformato nel "falegname della domenica" e mi aveva
attaccato degli scaffali sulla scrivania, anche se gli
avevo detto che non mi sarebbero serviti pi di tanto.
Era una sorta di "paparino tuttofare arrivato in ritar-
do. A ogni modo, il suo entusiasmo era riuscito a
sciogliere quel piccolo residuo di ansia che aveva
messo radici fra di noi. Una volta eliminato anche
quell'elemento di distrazione nato col passare degli
anni, la famiglia cominci• ad andare a gonfie vele.
Una sera, pap telefon• tutto triste, dicendo che
sarebbe dovuto rimanere in ufficio fino a tardi. Quan-
do arriv• a casa, la mamma si era gi addormentata
da un bel po', e io stavo lavorando a una relazione
per l'universit, sul tavolo del soggiorno, con la Tv
accesa. Non appena mi vide, mi chiese, raggiante in
viso: "Sei ancora sveglia? E la mamma, Š gi a letto?".
"Sć," risposi. "Mangi qualcosa? C'Š del pesce e del
brodo di miso."
"Ah, benissimo," disse lui. Poi scost• una sedia dal
tavolo, si tolse la giacca e si sedette. Io accesi il fuoco
sotto il tegame del brodo e misi il pesce nel forno. Sul
far della notte, la cucina si era accesa di una calda lu-
ce. La voce della Tv risonava leggermente. D'un tratto
il pap mi chiese:
"Maria, mangi un senbei?".
"Cosa?" Mi voltai e vidi che stava tirando fuori dal-
la borsa, con una cura estrema, due senbei avvolti in
un foglio di carta, e che li appoggiava sul tavolo.
"Uno Š per la mamma!"
"Come mai proprio dei senbei? E poi perch‚ soltan-
to due?" chiesi stupita.
"Ce li ha portati oggi a mezzogiorno un cliente.
Quando li ho assaggiati, erano talmente buoni che ne
ho presi due anche per voi. Sono veramente speciali,"
spieg• come se fosse stata la cosa pi normale del
mondo.
"Sei sicuro che non ti abbiano preso per un ragazzi-
no che ruba la pappa per il cane che tiene di nasco-
sto?" dissi ridendo. Mi sembrava incredibile che un uo-
mo grande e grosso come lui avesse potuto mettere
nella borsa due--dico: due!--senbei per portarseli a
casa in gran segreto.
"Sai, qui a Tokyo la verdura non Š un gran che e il
pesce Š cattivo. Soltanto i senbei sono di una bont che
puoi decantare con chi non Š del posto," spieg• lui,
mentre mandava gi senza lamentarsi il brodo e il riso
che gli avevo preparato. Tolsi il pesce dal forno, glielo
misi sul tavolo e gli chiesi quale dei due senbei fos-
se per me. Mi sembrava di essere una straniera che ne
prendeva in mano uno per la prima volta. Lo assaggiai:
la salsa di soia era leggermente bruciacchiata, tanto
da renderlo di un sapore forte. Insomma, era davvero
molto buono. Lo dissi a pap e lui annuć tutto soddi-
sfatto.
Eravamo arrivati a Tokyo da poco tempo, quando
un giorno mi era capitato di vederlo per strada, men-
tre stava tornando a casa dall'ufficio. Ero appena stata
al cinema, ed ero ferma al semaforo di un incrocio in
un quartiere d'affari della citt. Il cielo, splendente per
il sole pomeridiano, si rifletteva come in uno specchio,
brillante e chiaro, sull'infinita distesa di vetrate dei pa-
lazzi. Gli uffici avevano chiuso da qualche minuto, e al
semaforo si era accumulata una marea di gente: uomi-
ni in giacca e cravatta e donne in abiti sgargianti dopo
una giornata trascorsa indossando l'abito da lavoro,
tutti in attesa che diventasse verde. Nei volti delle per-
sone e nell'aria di quella sera, si percepiva una vaga
stanchezza, quegli ambigui sorrisi tra le chiacchiere
erano pieni, e allo stesso tempo vuoti, di speranze. L'e-
spressione di quanti tacevano era, invece, un po' tirata.
D'un tratto mi accorsi che il mio sguardo si stava
concentrando in maniera eccessiva sulla figura di un
uomo che camminava sul lato opposto della strada. In-
credibile a dirsi: era mio padre. Mi fece uno strano ef-
fetto perch‚ anche lui camminava tutto scuro in viso.
Era un'espressione che in casa aveva giusto qualche
istante prima di addormentarsi davanti alla televisio-
ne. Fissavo quell"'altra faccia" del pap con grande in-
teresse. Quand'ecco che dall'ingresso del palazzo in cui
lavorava, uscć di corsa una sua--presumo--collega
che lo chiam• a voce alta. Io, stando dall'altro lato del-
la strada, riuscii a vedere perfettamente quella scena,
dall'inizio alla fine. Quella donna aveva sotto il braccio
una busta che credo contenesse dei documenti. Il pap,
che si era sentito chiamare per nome, si guard• un po'
intorno, la vide e dopo aver mosso le labbra per dire
qualcosa come: "Oh, scusa, mi dispiace," le sorrise.
Lei, tutta ansimante, contraccambi• il sorriso, gli die-
de la busta, lo salut• e se ne torn• indietro. Pap prese
la busta, le disse "Ciao" e si mise a camminare di buon
passo diretto verso la stazione. In quel momento scat-
t• il semaforo e la marea di gente cominci• ad attra-
versare. Per qualche, istante esitai: lo seguo o no?
Quando mi decisi, ormai era troppo tardi. La citt
volgeva al tramonto e io mi ritrovai a pensare.
Nei brevi secondi in cui si era svolto quel banale
episodio, il pap, senza farlo apposta, aveva fatto sć
che lo potessi "spiare" nella sua veste naturale, nella
vita che aveva condotto fino a quel giorno. Per tutta
la sua lunga, lunghissima vita. Per lo stesso numero
di mesi e di anni che io e la mamma avevamo passa-
to in quel paesino in riva al mare, lui aveva continua-
to a respirare in quel posto. Litigando con la prece-
dente moglie, andando al lavoro, ottenendo delle pro-
mozioni, andando a mangiare fuori, dimenticando in
continuazione le sue cose, proprio come faceva ora, e
a volte ricordandosi di me e della mamma che vive-
vamo lontane. Quel paese che per noi rappresentava
il palcoscenico delle nostre giornate, per lui era sol-
tanto un luogo tranquillo da visitare durante i week-
end. Forse aveva anche pensato di abbandonarci. Sć,
l'aveva pensato di certo. Mai e poi mai ce l'avrebbe
detto, ma in fondo al suo cuore c'era stato sicura-
mente un momento in cui aveva pensato che tutta
quanta la situazione fosse divenuta troppo complica-
ta. Era una storia talmente strana che per reazione
ci aveva resi cosć buoni da sembrare i personaggi di
un film su una "felice famigliola esemplare". La vita
Š una recita, pensai. Anche se il significato Š esatta-
mente lo stesso, rispetto alla parola illusione mi sem-
brava che fosse pi vicina. Quello fu l'istante in cui
me ne resi conto, e restai stregata in mezzo alla folla
di quella sera. Gli esseri umani accolgono ogni cam-
biamento del proprio animo in una confusione di co-
se buone e cattive, e da soli portano quel peso per
tutta la vita. Pregando, sempre da soli, di essere il
pi gentili possibile con le persone a cui vogliono be-
ne e a cui sono vicini.
"Pap, guarda che se esageri, va a finire che fondi il
motore!" esclamai. Pap alz• la testa dal piatto e con
un'espressione stupita mi chiese:
"In che senso 'esagerare'?".
"Per esempio quando torni difilato a casa dal lavo-
ro, sempre con qualche regalino, oppure quando esage-
ri nel comprarmi i vestiti, insomma: il troppo stroppia,
no?"
"Vestiti? Ma se non te ne ho mai regalati!" fece lui
sorridendo.
"Era soltanto un messaggio..." e risi anch'io.
"E con 'fondere il motore', cosa vuoi dire?"
"Stancarsi della vita di famiglia da un giorno all'al-
tro, darsi all'alcol e alle donne, prendersela in conti-
nuazione con i propri cari, cose di questo tipo."
"Ah, pu• darsi benissimo che prima o poi succeda,"
e si mise a ridere ancora una volta. "Sai, adesso ce la
sto mettendo tutta per recuperare il tempo perduto
lontano da voi. Sapessi com'Š bello, dopo tanti anni di
attesa, riuscire a fare la vita che hai sempre sognato.
Con questo non voglio dire che a questo mondo non sia
possibile stare bene anche da soli, io, per•, sono sem-
pre stato il tipo che sente il bisogno di vivere in fami-
glia e di starsene tranquillo tra le quattro mura dome-
stiche. Ed Š per questo che con la prima moglie Š an-
data a finire male. Lei odiava i bambini e pensava sol-
tanto ad andare in giro. E poi era negata per le faccen-
de di casa. E normale che ci siano anche delle persone
cosć, ma io volevo una famiglia in cui sentirmi a mio
agio, con la quale poter guardare la televisione la sera
e uscire la domenica, anche se controvoglia. E stato un
errore innamorarsi. Se penso ai momenti tristi che ho
passato lontano da voi, riesco a capire quanto impor-
tante sia avere qualcuno che ti stia vicino. Forse un
giorno cambier• idea, e magari comincer• a trattarvi
con durezza, ma anche quello farebbe parte della vita.
Forse potrebbe anche sparire l'intesa che si Š creata
tra di noi. Ed Š proprio per riuscire ad affrontare dei
momenti come quelli che dobbiamo fare in modo di
crearci il maggior nmero possibile di bei ricordi."
Pap aveva smesSo di mangiare e aveva parlato
molto serenamente. Pensai davvero che avesse detto
delle parole molto belle, piene di significato, e per la
prima volta da quando abitavamo lć, ebbi l'impressione
che una certa intimit si stesse effondendo dentro di
me.
"La mamma, per esempio, sono sicuro che ha un
sacco di pensieri per la testa, soltanto che non ne par-
la. Sai, quando lasci la terra dove sei sempre vissuto..."
disse con una punta di commozione.
"Cosa succede?"
"Guarda!" e infilz• il suarello con i bastoncini.
"Non hai notato che nell'ultimo periodo, ogni sera, c'Š
il pesce per cena?" ...Era vero. Mi apparve l'immagine
della mamma ferma davanti alla pescheria, e rimasi in
silenzio.
"Tu adesso vai all'universit, no? E allora perch‚ di
sera sei sempre in casa? Non esci mai con i tuoi nuovi
amici? Non hai nessun lavoro part-time?Å» mi chiese al-
l'improvviso.
"Sai, se non entri in qualche circolo non esci tutte
le sere. E poi, al momento, non sto facendo nessun la-
voro. Come mai tutt'a un tratto mi dici cose che sem-
bri aver sentito alla televisione?" gli chiesi ridendo.
"Perch‚ vorrei poterti dire almeno una volta: 'Torni
tardi ogni sera!' " e si mise a ridere anche lui.
Sul tavolo, il senbei che avevamo lasciato per la
mamma era lć a testimoniare la felicit della nostra fa-
miglia.
A volte, per•, ho nostalgia del mare, al punto da
non riuscire a dormire di notte. Non ci posso fare
niente.
A Ginza, a seconda della direzione in cui soffia il
vento, capita di sentire l'odore della salsedine. Non sto
mentendo e nemmeno esagerando, ma in quell'istante
mi viene voglia di gridare. Il mio corpo via via s'im-
pregna di quell'odore e una tristezza profonda s'im-
possessa di me, tanto che non riesco pi a muovermi.
Poi vengono le lacrime. Il pi delle volte, il tempo Š
bello e il cielo si estende limpido fino in lontananza;
ogni volta muoio dalla voglia di mollare i sacchetti
che tengo in mano, che siano del negozio di strumenti
musicali Yamano o dei grandi magazzini Printemps,
di correre verso quell'argine sporco che trasuda di
salsedine e di respirare l'odore del mare fino a sazie-
t. Penso che persino la triste certezza che anche que-
sta reazione cosć violenta prima o poi andr sceman-
do sia una forma di nostalgia.
Anche ieri, mentre ero a passeggio con la mamma,
l'ho sentito. Era il mezzogiorno di un giorno feriale e
noi, dopo essere state a fare delle compere, stavamo
camminando per un grande viale semideserto, quando
a un tratto siamo state travolte da una folata di ven-
to. Capimmo immediatamente di che odore si trat-
tava.
"Ah, l'odore del mare," fece la mamma.
"E perch‚ in quella direzione c'Š il... come si chia-
ma? Ah, il molo di Harumi!" dissi indicando con il di-
to. Mi sentivo uno di quelli che studiano le direzioni
del vento.
"Ah, Š vero," conferm• la mamma e sorrise.
Poi disse che voleva comprare dei fiori dal fiorista
all'entrata del parco e cosć ci incamminammo in quel-
la direzione. Da lontano il verde del prato imbevuto
d'acqua sembrava abbagliante. Rifletteva il cielo az-
zurro di quella preziosa schiarita della stagione delle
piogge. Poi pass• un autobus che, guarda caso, anda-
va a Harumi, e lasci• nelle nostre orecchie il rumore
assordante del suo motore.
"Ti va di prendere un tŠ prima di tornare a casa?"
chiesi alla mamma.
"No, dobbiamo fare in fretta. Nel pomeriggio ho le-
zione di ikebana e il pap da domani Š fuori citt per
lavoro, no? Se stasera non preparo qualcosa di buono
e se non mangiamo tutti insieme ci rimane ancora ma-
le, sai, Š come un bambino," disse la mamma e sul
suo profilo si disegn• un sorriso.
"Ancora per poco! Sai, prima o poi si abituer, ne
sono sicura," dissi. Da quando Š diventata una casalin-
ga, le si Š arrotondato anche il sorriso. Illuminato da
quel sole delicato, sembrava ampliarsi pian piano nei
contorni, come un cerchio nell'acqua.
"Maria, ti sei fatta dei nuovi amici? Sć, vero? Con
tutte le telefonate che ricevi! E dimmi, ti trovi bene
all'universit ? "
"Certo che mi trovo bene, ma perch‚ me lo
chiedi ?"
"Sai, l eri sempre con Yoko e Tsugumi, unite co-
me sorelle, cosć mi chiedevo se non fossi triste. E poi
perch‚ adesso in casa c'Š sempre un tale silenzio..."
"E vero, si sentono pochissimi rumori," dissi.
Quei passi veloci che andavano su e gi per il cor-
ridoio. I rumori della cucina, il frastuono degli enormi
aspirapolvere, gli squilli del telefono alla reception. La
confusione di tutte quelle persone sotto uno stesso tet-
to, l'avviso delle cinque e delle nove che veniva diffu-
so dagli altoparlanti in tutti i quartieri del paese e che
invitava i bambini a tornare a casa. Il rumore delle
onde, le sirene, il cinguettio degli uccellini.
"Tu, piuttosto, sarai sicuramente un po' triste," le
dissi.
"Eh, sć, eppure sapevo che non saremmo potute re-
stare in quella casa per sempre. E chiaro che sono fe-
lice di potere finalmente vivere con il pap, ma la ma-
gia della vita in quella grande famiglia, cosć come il
mugghio del mare, proprio non riesco a cancellarla
dal mio cuore," poi si coprć la bocca con la mano e,
ah ah ah, si mise a ridere:
"Siamo delle poetesse noi due, eh?"
A pensarci adesso mi viene da ridere: Š un ricordo
sfumato di quando ero ancora molto piccola. Era estate
e avevo finito di cenare. Stremata dalla giornata tra-
scorsa a giocare, mi ero addormentata ai piedi del tavo-
lo, guardando la Tv, mentre pap e mamma parlavano
tra di loro. A un certo punto mi svegliai e mi misi ad
ascoltare i loro discorsi, fissando, sempre con gli occhi
socchiusi, l'impagliatura del tatami. Era una scena che
si ripeteva di frequente. Il pap era in vena di lamente-
le: "Quella di Tokyo non mi vuole concedere il divor-
zio", "Non vi posso lasciare in un posto cosć, per sem-
pre", e via dicendo. Quando era giovane, era sempre
molto serio, in perenne stato di ansia. Soltanto dopo
l'incontro con la mamma aveva cominciato ad addolcire
le asperit del suo carattere. Credo che sia cambiato
davvero molto. La mamma, invece, Š un'ottimista di na-
tura. Quella volta gli rispose con queste parole:
" 'In un posto cosć'? Ma non ti vergogni a dire certe
cose?".
"L'ho detto senza volere. So benissimo che Masako Š
tua sorella, per• non mi dirai che sei felice di lavorare
come una matta dalla mattina alla sera," disse e sembr•
che stesse di nuovo per imbastire un lungo discorso.
Che la mamma stesse dando in escandescenze, riuscivo
a percepirlo persino io che ero sdraiata per terra dan-
dole le spalle. Ho sempre odiato sentirla piangere.
"Hai gi parlato a sufficienza, taci!" gli disse la
mamma dopo aver tirato un respiro profondo. Ancora
adesso ricordo chiaramente quelle parole. Tanto che mi
vengono in mente ogni volta che mi sento con le spalle
al muro. "Dici sempre le stesse cose, come se ti mancas-
se qualcosa... finirai per dirle anche con un piede nella
fossa."
E poi ricordo anche quello che mi aveva detto Tsu-
gumi.
"Tuo padre Š proprio un ragazzino!" mi aveva detto
tutta seria, mentre ero in camera sua per duplicare
una cassetta. Era un pomeriggio coperto di nuvole. Le
creste delle onde sembravano fatte di un metallo affi-
lato. Quando il cielo si tingeva di quel grigio cosć sbia-
dito, lei diventava un po' pi affabile del solito. Zia
Masako diceva che forse era perch‚ da piccola aveva
rischiato di morire proprio in una giornata del genere.
" 'Ragazzino', nel senso che Š giovane di spirito?" le
chiesi.
"Stupida! Nel senso che Š un bambino, per come si
comporta, lo capisci o no?" e si mise a ridere. Sdraiata
sul futon, aveva le guance arrossate da qualche linea
di febbre e i capelli sparsi su una federa bianca di bu-
cato.
"Hai ragione, Š proprio cosć. Ma perch‚ lo pensi?"
"Perch‚ non ha spina dorsale e non fa che pensare
a delle assurdit. Fa lo spavaldo e invece Š timido da
morire, proprio come te, anche se tu non sei poi cosć
debole. Insomma Š uno che si fa schiacciare dagli
eventi, quello l," c'era un fondo di verit in quello che
diceva, e cosć replicai senza arrabbiarmi:
"E allora? E proprio per quello che va d'accordo
con una come la mamma".
"Beh, certo, in lei trova pi sicurezza di quanta ne
troverebbe in una come me che, inchiodata a letto, ho
dovuto imparare come gira il mondo da sotto le coper-
te... Oddio, che brutto argomento! Comunque, sai, per-
sino io gli faccio sempre dei super sorrisi quando lo
incontro in corridoio e mi dice: 'Se a Tokyo c'Š qualco-
sa che desideri, non devi far altro che dirmelo, che te
lo porto subito'!".
Tsugumi mi guard• e sorrise. Quel pomeriggio, nel-
la stanza era accesa una luce fortissima perch‚ potes-
simo leggere, mentre una tranquilla melodia scorreva
in sottofondo. Con le orecchie tese fino alla fine della
cassetta, leggevo una rivista senza parlare. In quella
quiete pomeridiana, si ripeteva soltanto il rumore del-
lo sfogliare delle pagine.
Tsugumi.
Da quando vivevamo separate, riuscivo a capirla fi-
no in fondo.i
Lei, per non farsi capire dagli altri, faceva di tutto
per comportarsi in modo scorretto (anche se in parte
le riusciva naturale). Io, che se soltanto l'avessi voluto
sarei potuta andare in qualsiasi parte del mondo e in-
contrare chiunque. avessi voluto, avevo la sensazione
che si stesse dimenticando di me, lei che invece non
poteva neppure muoversi da quel paesino microscopi-
co. Il motivo era che Tsugumi non guardava mai al
passato. Soltanto l'oggi' era nei suoi pensieri.
Una sera squill• il telefono. Andai a rispondere:
"Pronto?" e dall'altra parte sentii la voce di Tsugumi:
"Sono io!".
D'un tratto, come se le luci e le ombre di quel pae-
se si fossero proiettate davanti ai miei occhi, tutto si
fece bianco. Poi, quasi urlando, le dissi:
"Ciaaao! Come stai? Oddio che bello sentirti! State
tutti bene?".
"Certo che non cambi mai, eh Maria? Come al soli-
to mi sembri una deficiente. Ma all'universit, studi o
no?" e si mise a ridere. Incominciammo a parlare e in
un attimo la distanza tra di noi si azzer•, cosć che tor-
nammo a essere le cuginette che eravamo state fino a
qualche tempo prima.
"Sć, certo che sto studiando."
"E tuo padre sta gi tradendo la zia? Sai, non c'Š
due senza tre!"
"Assolutamente no!"
"Ascolta, dopo credo che la mia vecchia racconter
a tua mamma la versione ufficiale, comunque volevo
dirti che la primavera del prossimo anno chiudiamo la
pensione."
"Cosa? Chiudete la pensione?" le chiesi stupita.
"Sć, mio padre non so cosa diavolo stia pensando,
sai, parla di 'albergo', di 'gestione in societ', con un
suo amico che ci metterebbe il terreno. Dice che Š sem-
pre stato il suo sogno... ridicolo, no? Come nelle favo-
le. E poi dice che lo vorrebbe lasciare a Yoko."
"Ci andrai anche tu?
"Sai, morire al mare o in montagna, per me Š lo
stesso." Lo disse davvero come se non le fosse importa-
to affatto.
"Che tristezza, la pensione Yama,moto chiude..." feci
io tutta scoraggiata. Dentro di me pensavo che sareb-
bero vissuti in quel paesino per l'eternit, senza mai
cambiare.
"Comunque, senti, tu sei libera per le vacanze esti-
ve, no? Allora devi venire da noi. Puoi stare in una
stanza degli ospiti e poi la mia vecchia dice che ti far
mangiare di quel sashimi!"
"Sć, vengo di sicuro!"
Sulle mie palpebre, come se stessi proiettando una
vecchia otto millimetri a colori, avevo l'impressione di
vedere scorrere l'interno della pensione Yamamoto e
la veduta del paese. Vedevo anche il sottile braccio di
Tsugumi che in quella piccola stanza reggeva la cor-
netta stando sdraiata.
"Allora Š deciso, eh? Ti aspetto, ahh, Š arrivata la
vecchia che dice di voler parlare con tua mamma,
ciao!" parl• cosć in fretta che feci in tempo soltanto a
dirle:
"Va bene, te la passo," e chiamai la mamma.
Cosć, mi accingevo a trascorrere la mia ultima esta-
te presso la pensione Yamamoto.




Straniera.

Chiss perch‚.
Da sempre, non appena la nave entrava nel porto, mi
sentivo un po' straniera.
Mi succedeva soprattutto nel periodo in cui abitavo
ancora l: se anche andavo a fare una breve gita in bar-
ca, durante il viaggio di ritorno mi prendeva sempre
quella strana sensazione. Forse perch‚ ero arrivata in
quel paese da un altro luogo e sentivo con certezza che
prima o poi l'avrei dovuto lasciare.
Gli esseri umani, ovunque si trovino, quando vedono
in lontananza, avvolto nella foschia, il porto verso cui
sono diretti, capiscono cosa significhi essere uno stra-
niero solo.
Ormai era gi sera.
Al di l delle onde abbagliate dal sole raggiante del
crepuscolo e oltre l'arancio del cielo, si cominciava a ve-
dere la banchina del porto, piccola e indefinita come un
miraggio. Dai vecchi altoparlanti diffusero la musica del-
l'arrivo e il capitano annunci• il nome della destinazione
ormai prossima. Fuori doveva fare ancora caldo. All'in-
terno della cabina passeggeri, invece, faceva addirittura
freddo, talmente alto era il livello dell'aria condizionata.
Ero stata felice, praticamente elettrizzata, fino al
momento in cui dallo Shinkansen ero salita sulla nave,
poi, cullata dal movimento delle onde, mi ero appisola-
ta per un poco, Šd ero caduta in un profondo silenzio.
Con la sensazione di quando ci si sveglia stanchi morti,
allungai un po' il collo e mi misi a osservare la costa
lontana che, attraverso gli obl• appannati dalla salsedi-
ne, si avvicinava sempre pi velocemente in una succes-
sione di immagini accelerate.
La sirena suon• e la nave giro intorno alla punta del
molo descrivendo una grande curva. Appoggiata con le
braccia incrociate a un'insegna del porto su cui c'era
scritto Welcome, vidi Tsugumi che indossava un abito
bianco.
La nave avanz• lentamente per poi fermarsi con un
fragoroso cozzo. I marinai gettarono la cima per l'or-
meggio e prepararono la passerella per lo sbarco. Sul
far della sera, i passeggeri cominciarono a scendere
uno dopo l'altro sotto quei deboli raggi di sole, Mi alzai
anch'io, aspettai il mio bagaglio e mi unii alla fila.
Quando uscii all'aperto, mi accorsi che il caldo era
davvero soffocante. Tsugumi mi si avvicin• a gran-
di passi con un'espressione imbronciatissima e, senza
nemmeno salutarmi o chiedermi come stessi, mi accus•:
"Sei in ritardo!".
"Non cambi mai, eh?" dissi io.
"Ero sul punto di morire disidratata," mi rispose
senza nemmeno accennare un sorriso e prese a cam-
minare spedita. Io rimasi senza parole e risi tra me.
Era stata un'accoglienza talmente strana, cosć tipica di
Tsugumi, che provai una gioia incredibile.
La pensione Yamamoto era nella posizione di sem-
pre, con una precisione tale che nell'istante in cui la vidi
mi fece un certo effetto. Come se mi fossi trovata tutt'a
un tratto di fronte a una vecchia casa sognata in passato.
Comunque,
nell'istante in cui Tsugumi grid• verso la porta spa-
lancata dell'ingresso: "Ohi, la brutta scroccona Š arriva-
ta!", la scena riacquist• i colori.
Dal retro della casa, Pochi si mise ad abbaiare. Zia
Masako venne ad accogliermi tutta sorridente, rimpro-
verando Tsugumi per quanto aveva detto. Mi venne in-
contro anche Yoko e, con un volto raggiante, mi salu-
t• dicendomi: "Ciao, Maria! Quanto tempo...". Tornare
indietro cosć, tutto in una volta, in un certo senso mi
commosse.
La lunga fila di sandali da spiaggia allineati all'in-
gresso dava l'idea del gran numero di clienti che, per
l'ultima volta, stava.trascorrendo l'estate dagli Yama-
moto. Nell'istante in cui respirai gli odori di quella ca-
sa, mi ricordai dei suoi ritmi di vita.
"Zia, posso rendermi utile in qualche modo?" le
chiesi, ma lei:
"Figurati! Vai pure di l a prendere il tŠ con Yo-
ko," e si precipit• di nuovo verso la cucina da cui ar-
rivavano rumori di ogni tipo.
Gi, nella tabella di marcia della pensione Yama-
moto, quello era l'orario in cui di solito Yoko manda-
va gi qualcosa prima di andare al lavoro. La zia e lo
zio, invece, erano occupatissimi con i preparativi della
cena. Insomma, erano i momenti in cui erano pi im-
pegnati in tutto l'arco della giornata. In quelle ore, il
tempo scorreva sempre scandito nello stesso modo,
ogni giorno uguale all'altro.
Nel retro, Yoko, che guarda caso stava facendo
uno spuntino con degli o-nigiri, tir• fuori la tazza che
usavo quando stavo ancora da loro, la mise sul tavoli-
no, vi vers• il tŠ e, indicandomelo con uno sguardo
brillante, mi disse: "Ecco il tŠ!". Mi sorrise e aggiunse:
"Vuoi anche tu un o-nigiri?".
"Brava scema! Ma sai che fra pochissimo sar
pronta una cena coi fiocchi? Poi non riesce pi a man-
giare, no?" disse Tsugumi dall'angolo della stanza do-
ve era seduta con la schiena appoggiata al muro e le
gambe allungate, senza nemmeno alzare lo sguardo
dal giornale che stava sfogliando.
"Ah, Š vero! Beh, se mi aspetti, stasera ti porto a
casa le fette di torta, eh Maria?" disse Yoko.
"Lavori sempre nella stessa pasticceria?"
"Sć. Adesso Š aumentata la variet delle torte. Te ne
porto delle nuove."
"Che bello!" le dissi. Dalle finestre spalancate, al di
l delle zanzariere, si vedevano passare i clienti che
tornavano dalla spiaggia. Le loro risate risuonavano
allegre. Quando negli alberghi si avvicinava l'orario
della cena, il paese si riempiva di,vigore. Il cielo era
ancora chiaro e dai televisori si sentivano le notizie
dei telegiornali della sera. La brezza marina soffiava
rasente i tatami. Nei corridoi si incrociavano i passi
veloci delle cameriere e quelli lenti delle persone che
uscivano schiamazzando dalla stanza da bagno. Lon-
tano, verso il mare, si sentivano i garriti dei gabbia-
ni. Guardai fuori: tra i fili della luce si vedeva il cie-
lo risplendere di un rosa robbia cosć intenso da far
paura. Quella era la sera di sempre, in tutto e per
tutto.
Tuttavia sapevo che non c'era niente che si perpe-
tuasse all'infinito.
Sentii una voce dire: "E' arrivata Maria?", e poi dei
passi avvicinarsi. Lo zio sbuc• da dietro le tende della
porta, mi disse tutto sorridente: "Ciao, benarrivata! Mi
raccomando: mettiti a tuo agio, va bene?" e se ne and•.
Tsugumi si alz•, si diresse verso il frigorifero, si
vers• del tŠ d'orzo nel bicchiere di Topolino che da
piccola aveva avuto in regalo in un bar, e lo bevve tut-
to d'un fiato. Poi, toc, mise il bicchiere vuoto nel lavan-
dino pulito e disse:
"E con quella faccia, vuole aprire un albergo! Pro-
prio non si rende conto dei problemi che ci crea!".
"E sempre stato il sogno di pap," disse Yoko ab-
bassando leggermente lo sguardo.
Di quel luogo, in quel momento cosć certo, cosć con-
creto, l'estate successiva non sarebbe restata neanche
l'ombra. Una cosa del genere, certo non era facile da
realizzare. Forse non lo era neppure per loro due.
In quel piccolo villaggio di pescatori non succedeva
niente di particolare, mai. Si dormiva, ci si alzava, si
mangiava, si viveva. Ci si poteva sentire bene o male, si
guardava la Tv, ci si innamorava, si andava a scuola,
ma poi si tornava sempre in quella casa. Ripensai alla
monotonia di quella routine, e in un istante sentii che,
dentro di me, era rimasto qualcosa di tiepido, come del-
la sabbia bianca e asciutta.
Percepii quel debole tepore nella sua totalit. Stan-
ca per il viaggio, e.anche leggermente assonnata, assa-
porai quella triste sensazione di felicit in uno stato di
trance.
Arriva l'estate! Sć, inizia l'estate!
Una stagione che sarebbe passata una volta per tut-
te, senza tornare mai pi. Sapendo questa cosa, il tem-
po, che sarebbe dovuto trascorrere nella maniera di
sempre, era un po' pi teso del solito, un po' pi triste.
Sul far della sera, sedute in quella stanza, sapevamo
benissimo come sarebbe andata a finire. Ma, nonostan-
te tutto, eravamo in uno stato d'animo di grande feli-
cit.
Dopo cena, quando tirai fuori i bagagli, sentii Pochi
abbaiare. Dalla finestra della mia camera, se ci si spor-
geva un po', si riusciva a vedere il giardino retrostante
la pensione. Guardai gi, e nel buio vidi Tsugumi che
metteva il guinzaglio da passeggio al cane. Lei si accor-
se di me e guardando verso l'alto mi chiese:
"Vieni anche tu a fare un giro?".
"Sć, vengo," le risposi e mi precipitai gi dalle scale.
Fuori il cielo era ancora leggermente chiaro e su
quello sfondo le luci della citt spiccavano con tutto il
loro bagliore. Tsugumi, che come al solito veniva tra-
scinata da Pochi, si mise a parlargli:
"oggi sono stanca, quindi andiamo soltanto fino al-
l'ingresso della spiaggia".
"Tutte le sere lo porti a fare la passeggiata?" le chie-
si stupita. Non aveva certo la salute per poterselo per-
mettere.
"Sei stata proprio tu a dargli questo vizio. Dopo che
te ne sei andata, tutte le mattine all'ora in cui lo porta-
vi a fare il giro, questo qui attaccava ad abbaiare. Sai
che io ho il sonno leggero e cosć mi svegliavo ogni vol-
ta. Adesso abbiamo raggiunto un compromesso e dalla
mattina si Š passati alla sera. Lo portiamo fuori io e
Yoko.Å»
"Che brave che siete!"
"POi sai, col passare dei giorni, facendomi tirare da
Pochi, ho riacquistato un po' di forze. Lo faccio volen-
tieri," disse e sul suo minuto profilo si accese un sor-
riso.
Tsugumi era cresciuta con dei gravissimi problemi
di salute, ma mai, nemmeno per scherzo, aveva detto
dove o quanto male provasse. Scaricava la propria rab-
bia chiudendosi in un silenzio assoluto oppure offen-
dendo le persone. Diceva quello che doveva dire, se ne
andava da sola in camera sua e si addormentava. Mai e
poi mai si sarebbe data per sconfitta.
Nel suo modo di comportarsi c'era qualcosa di eroi-
co, ma anche di esasperatamente irritante.
La sera era imminente, il caldo soffocante e il cielo
blu; qua e l sulla bianca spiaggia, alcuni bambini gio-
cavano con i fuochi d'artificio. Imboccammo la strada
di ghiaia diretta alla spiaggia. Attraversammo il ponte
salimmo sull'argine che si estendeva fino al mare e li-
berammo Pochi. Lui corse verso la sabbia e io e Tsugu-
mi ci sedemmo sui blocchi frangiflutti. Appoggiate a
quei tetrapodi, bevemmo delle lattine di succo di frut-
ta ghiacciato.
Soffiava una piacevole brezza. Negli intervalli tra le
nuvole grigie che veleggiavano leggere nel cielo, s'in-
travedevano le ultime tracce di luce del crepuscolo
mentre venivano travolte dal buio.
Pochi sembrava essere sparito dall'orizzonte, quan-
d'eccolo tornare da noi con fare preoccupato. Rivolto
verso Tsugumi, che dall'alto del tetrapode era irrag-
giungibile, prese ad abbaiare a pi non posso. Lei, sor-
ridendo, allung• la mano per accarezzarlo e sculacciar-
lo al tempo stesso.
"Siete diventati buoni amici, eh?" dissi, commossa
dall'enorme progresso che avevo notato nel loro livello
di intimit. Tsugumi non mi rispose. Cosć, in silenzio,
sembrava proprio la "cuginetta giovane". Per•, dopo
poco, con un'espressione del viso che sembrava quasi
una smorfia e con un filo di voce, disse:
"Ma nemmeno per sogno! Siamo pessimi amici! Mi
sento come un maniaco omicida che, sopraffatto dal-
l'affetto di una vergine, finisce per sposarla".
"Cosa c'entra col fatto che vai d'accordo con
Pochi ?"
Avevo gi capito, ma volevo sentirla parlare ancora
n po', cosć replicai di proposito.
"C'entra sć! Sono sconvolta al pensiero di essere di-
ventata amica di un cane. Se ci penso seriamente, mi
sento male," rispose
"Ma cosa dici? Non te ne starai forse vergognan-
do?" domandai ridendo.
"Non scherzare! Certo che tu proprio non capisci
niente di quello che dico o che faccio, eh? Con tutti gli
anni che ci conosciamo, potresti anche usare un po'
quella zucca che hai!" disse Tsugumi con un sorriso
sarcastico.
"Capisco, capisco. Ti ho soltanto presa un po' in gi-
ro," dissi. "So benissimo che non Š che non ti piaccia
Pochi."
"Infatti, mi piace. Mi piace molto."
Nel frattempo i colori del crepuscolo si sovrappose-
ro l'uno all'altro e ogni cosa, come in un sogno, comin-
ci• ad apparire sfumata nei contorni. Di quando in
quando, sulle forme irregolari dei frangiflutti, gli
schizzi delle onde creavano delle danze. Nel cielo, pro-
prio come una piccola lampadina bianca, la prima stel-
la della sera splendeva luminosa.
"Per•, sai, una cosa a cui mi ribello Š che i cattivi
debbano vivere rispettando la 'filosofia del cattivo',"
aggiunse Tsugumi. "I cattivi che si confidano soltanto
con i cani, non trovi che siano troppo banali?"
"I cattivi ?" le dissi ridendo.
Era riuscita a raccontare quello che aveva dentro,
quelle frasi, cosć 'da Tsugumi', le aveva tenute dentro
di s‚ per molto tempo. Quell'argomento riguardava
soltanto me e lei. Dopo l'episodio ,della posta degli spi-
riti, io, che ero cresciuta ricoprendo il ruolo di colei
che la capiva, riuscivo sempre ad afferrare il senso di
quanto diceva, anche se si trattava di cose che nulla
avevano a che vedere con il mio modo di vivere.
"Per esempio, se sulla terra dovesse venire una ca-
restia."
"Una carestia? ...Š una cosa talmente strana che
non riesco nemmeno a immaginarmela."
"Puoi fare silenzio per un po'? Dicevo, se non ci do-
vesse essere pi niente da mangiare, vorrei diventare
una capace di uccidere Pochi cosć, senza tanti proble-
mi, e poi mangiarmelo. Certo, non una di quelle che
dopo si mettono a piangere o che gli scavano la fossa
ringraziandolo o chiedendogli perdono da parte di tut-
ti, insomma non una di quelle che fanno le cose a me-
t. Senza pentimenti o tanti rimorsi di coscienza, vor-
rei poter dire col sorriso sulle labbra, come se niente
fosse stato: 'Che buono che era Pochi!' ...mah, Š chiaro
che si tratta soltanto di un esempio."
Il divario tra l'immagine di Tsugumi con le ginoc-
chia strette al petto e la testa chinata, come in trance,
e le cose che stava dicendo, era enorme. Ebbi una stra-
na sensazione: come se stessi osservando qualcosa che
non apparteneva a questo mondo.
"Pi che cattiva, per me saresti soltanto una folle,"
dissi.
"Proprio cosć, una tipa assurda. Mi piacerebbe esse-
re una di quelle che non riesce ad adattarsi all'ambien-
te che la circonda, che non ce la fa a contenere la par-
te oscura della propria personalit, e che non si sa fino
a che punto possa spingersi, ma che, qualunque cosa
succeda, Š sicura di essere nel giusto."
Quello di Tsugumi non Š narcisismo. E nemmeno
una forma di estetismo. Nel suo cuore c'Š uno spec-
chio perfettamente te'rso e lei si fida solo di quanto vi
si riflette. Non si sforza neanche di pensare.
E qualcosa del genere.
Comunque, sia a me che a Pochi, e forse anche a
tutte le persone che le stavano intorno, Tsugumi piace-
va molto. Ognuno di noi era in perenne balia del suo
fascino. Qualunque cosa succedesse, lei cercava di co-
municare qualcosa con il suo modo di essere. Anche a
Pochi che, forse, prima o poi avrebbe ucciso per man-
giarselo. A sostegno delle sue incoerenze, dal suo inter-
no irradiava un fascio di luce, qualcosa di molto pi
profondo delle sue parole o del suo animo. Quella luce
triste rifulgeva in continuazione, generata da un mec-
canismo eterno, in un punto che nemmeno lei cono-
sceva.
"Quando scende la sera, fa freddo, eh? Torniamo a
casa?" domand• Tsugumi e si alz• di scatto.
"Tsugumi! Sei la solita svergognata, ti si vedono le
mutande! "
"Quante storie per un paio di mutande! Cerca di es-
sere un po' pi larga di vedute!"
"Certo, quanto te Š impossibile!"
"Qualcosa in contrario?" disse Tsugumi ridendo e
chiam• Pochi ad alta voce. Lui corse lungo tutto l'argi-
ne e, quando ci raggiunse, si mise a farci le feste e ad
abbaiare come per comunicarci tutta una serie di cose.
"Bravo, bravo," gli fece lei.
Ci incamminammo. Pochi, a tratti correndoci davan-
ti, a tratti fermandosi, d'improvviso alz• il muso come
se si fosse accorto di qualcosa e come un lampo si pre-
cipit• gi dalla sponda opposta dell'argine. Non facem-
mo in tempo a renderci conto di quanto stava accaden-
do che lo sentimmo abbaiare come un forsennato.
"Cosa succede?"
Corremmo a vedere: Pochi stava ringhiando a un
volpino di Pomerania legato ai piedi di una statua
bianca posta all'ingresso di un piccolo parco che da lć
si estendeva verso l'interno della pineta. All'inizio do-
veva avere agitato la coda soltanto per giocare, ma l'al-
tro, vedendosi saltare addosso un cane grande e grosso
come quello, si era messo sulle difensive e, tra acuti
guaiti, l'aveva azzannato. Pochi fece un balzo all'indie-
tro e inizi• a fare sul serio. In un batter d'occhio tra i
due scoppi• la guerra.
"Dobbiamo fermarli!" non feci a tempo a dire, che
la voce di Tsugumi si sovrappose alla mia:
"Vai, uccidilo!".
In quell'istante si capć perfettamente la differenza
tra i nostri due caratteri.
Proprio non riuscii a stare lć a guardare, cosć da so-
la corsi vicino ai due e con tutta la forza che avevo
presi Pochi tra le mie braccia. Nel frattempo il volpino
mi morsic• il piede.
"Aaahi, che stai facendo?" urlai io e Tsugumi:
"Vai cosć! In tre!".
Mi voltai a guardarla: stava ridendo con un'espres-
sione del viso davvero divertita.
In quel momento arriv• un giovane che disse:
"Ehi, Gongoro! Lasciala!".
Quello fu l'incontro con Kyoichi, un ragazzo che
presto sarebbe diventato dei nostri, e con cui avremmo
trascorso quelle ultime vacanze al mare. Sul fare di
quella pallida notte, all'inizio dell'estate, in quella
spiaggia sulla quale sovrastava una luna talmente az-
zurra da sembrare disegnata.
Era senza dubbio un personaggio che lasciava una
strana impressione nella gente. Aveva pi o meno la
nostra et e un fisico asciutto e slanciato. Il collo ro-
busto e le spalle ben piazzate trasmettevano l'idea di
una forza glaciale. A prima vista, i capelli corti, le so-
pracciglia ben marcate e la polo bianca che gli stava
alla perfezione, lo facevano sembrare un giovane spen-
sierato, i suoi occhi, no. Nel suo sguardo profondo,
c'era una strana lucentezza, come se fosse stato a co-
noscenza di qualcosa di molto serio. Potrei dire che di
adulto aveva soltanto gli occhi.
Lui venne subćto verso di me, e si gett• nella mi-
schia dei due cani, che nel frattempo avevano ricomin-
ciato ad abbaiarsi. Un istante dopo aveva gi in brac-
cio quel Gongoro, e mi chiese, dritto in piedi:
"Ti sei fatta male?".
Io finalmente potei ritirare la mano con cui tenevo
fermo Pochi, mi alzai e gli risposi:
"No, grazie. E stato il nostro cane a importunare il
tuo, mi dispiace".
"Figurati, questo qui oltre ad avere il sangue che
gli bolle nelle vene, non ha paura di niente," disse e si
mise a ridere. Poi guard• Tsugumi e le chiese:
"E tu stai bene?".
Lei in un istante cambi• il canale del carattere e
sorridendo gli rispose:
"Sć, grazie".
"Bene, ci vediamo," disse lui e se ne and• verso la
spiaggia continuando a tenere Gongoro in braccio.
Nel frattempo era scesa la notte. Ebbi l'impressio-
ne che si fosse fatto buio tutt'a un tratto in quei brevi
momenti. Pochi ci guardava dal basso, mugolando co-
me se avesse voluto sfogarsi con noi per quanto era
appena successo.
"Andiamo!" fece Tsugumi e ci incamminammo con
calma.
Qua e l nel buio della strada si nascondevano le
ombre dell'estate. L'aria della sera colorava la notte
con la sua energia straripante e il suo dolce profumo
trasportato dal vento. Tutte le persone che incrocia-
vamo sembravano piene di forza, di brio e di alle-
gria.
"Quando arriviamo a casa, ci saranno gi le torte
di Yoko," dissi, dimenticandomi completamente di
quanto era appena successo.
"Voi siete libere di fare quello che volete! Io so be-
nissimo per quale motivo porta a casa quelle schifez-
ze," disse Tsugumi.,Sembrava un po' assente, cosć per
- scherzo le dissi:
"Hai messo gli occhi addosso a quel ragazzo, eh?".
Lei mantenne la calma e, con un filo di voce, mi ri-
spose:
"Il tipo di prima non Š certo uno qualsiasi".
Forse si era trattato di un presentimento.
"In che senso?"
Io, invece, non avevo trovato niente di speciale in
lui, cosć glielo chiesi e richiesi mille volte. Tsugumi,
per•, non mi rispose e in silenzio continu• a cammi-
nare con Pochi nel buio della notte.




Per colpa della notte.

A volte ci sono delle strane notti.
Notti in cui lo scorrere del tempo subisce dei legge-
ri sfasamenti o in cui riesco a vedere le cose che mi
stanno intorno tutte in una volta sola. Il ticchettio del
pendolo che continuo ad ascoltare senza prendere son-
no e i raggi della luna che illuminano il soffitto domi-
nano le tenebre, proprio come quando ero piccola.
Eterne sono le notti. E mi sembra che in passato lo
fossero ancora di pi. Con quel loro lieve odore di
chiss che cosa. Talmente leggero da sembrare dolce,
quello era l'odore degli addii.
Mai e poi mai dimenticher• quanto successe in una
di quelle notti.
Facevo gli ultimi anni delle elementari; io, Tsugumi
e Yoko ci eravamo appassionate a un programma televi-
sivo, tanto da cadere in uno stato febbrile. Era la storia
di un ragazzo che viveva mille avventure prima di riu-
scire a trovare la sua vera sorella. Persino Tsugumi, che
di solito non si faceva incastrare da quella "roba per
bambini", l'aveva visto con noi senza perdersi una pun-
tata. Che strano, adesso riesco a ricordare solo le no-
stre figure piene di commozione, mentre di quel pro-
gramma non ho che delle sbiadite reminiscenze. La luce
della stanza in cui guardavamo la Tv, il sapore del Cal-
pis che bevevamo in quelle occasioni, l'aria calda che
arrivava dal ventilatore... questi sono gli unici ricordi
che mi tornano alla mente vividi. Ogni settimana
aspettavamo con ansia il giorno della trasmissione, fi-
no a che una sera ven,ne trasmessa l'ultima puntata.
A cena nessuna di noi aprć bocca. Cosć, zia Masako
ci disse ridendo:
"Allora il vostro programma preferito, Š proprio fi-
nito, eh?".
"Smettila di parlare a vanvera! le ribatt‚ Tsugu-
mi, con il solito tono ribelle. Io e Yoko, che non stava-
mo attraversando nessuna fase di ribellione, quella
volta, e solo quella, per una qualche ragione ci sentim-
mo dalla parte di Tsugumi, talmente vissuto era il no-
stro abbattimento. Certo che ci eravamo proprio ap-
passionate a quel programma...
Di notte, da sola, m'infilai sotto le coperte, e subito
mi prese una triste sensazione. Anche se ero ancora
piccola, capivo di essermi separata da qualcosa. Fissa-
vo il soffitto da sotto le lenzuola ruvide: quello era il
principio di una separazione. Paragonata a quelle che
avrei conosciuto negli anni a venire, aveva dei contor-
ni splendenti, era il germoglio delle separazioni. Non
riuscivo a prendere sonno e cosć, senza un motivo par-
ticolare, uscii dalla stanza. Nel silenzio del corridoio
si sentiva un rumore forte, identico a quello che si
sente tuttora: il ticchettio dell'orologio a pendolo. Il
bianco pallido dei fusuma emergeva nel buio e io mi
sentivo piccola piccola. Continuavano a tornarmi in
mente le immagini del programma da cui mi ero fatta
rapire per qualche tempo, dimenticando qualsiasi al-
tra cosa. In quella notte cosć tranquilla ormai era
troppo tardi per tornare indietro e cosć, a piedi nudi,
scesi le scale e andai al piano di sotto. Pensando che
avrei potuto prendere una boccata d'aria, uscii in
giardino. Illuminati dalla luce della luna, gli alberi si
ergevano con la loro figura longilinea, trattenendo il
respiro.
"Maria!" mi chiam• all'improvviso Yoko. Chiss
perch‚ ma non mi stupii nemmeno un po'. Era lć in
piedi con indosso il pigiama. In quel pallido chiarore,
mi chiese sottovoce:
"Non riesci a dormire?".
"No," le risposi.
"Neanch'io," continu• lei. Rannicchiata a terra, con
i capelli raccolti in una lunga treccia, giocava attorci-
gliando il fusto di una ipomea.
"Andiamo a fare un giro?" le domandai. "Se ci sco-
prono, mi sa che ci prendiamo una bella sgridata. Tu
sei uscita di nascosto?"
"Sć, non ti preoccupare."
Nell'istante in cui aprii la porta di legno, ebbi l'im-
pressione che nel buio l'odore di sale fosse pi intenso.
"Finalmente possiamo parlare ad alta voce!"
"Sć, come si sta bene all'aperto."
Lei era in pigiama e io in yukata. Con i sandali infi-
lati senza calze, ci dirigemmo verso il mare. La luna
era altissima nel cielo. Lungo la strada che portava al
promontorio, c'era una fila di pescherecci abbandonati
che dormivano. Non era il solito paese. Avevo la strana
sensazione che fossimo arrivate in un luogo isolato
dalla quotidianit. Yoko d'un tratto disse:
"Ah, ho trovato la mia vera sorellina".
Mi venne da ridere pensando che quello poteva es-
sere una sorta di seguito del programma. Tsugumi era
seduta sul bagnasciuga a osservare il mare.
"Ah, siete voi!" fece lei, insolitamente tranquilla e
come se niente fosse stato. Sembrava quasi che ci fos-
simo date un appuntamento. Poi si alz• in piedi nel
buio.
"Tsugumi, ma sei a piedi nudi?" disse Yoko e subito
si sfil• entrambe le calze e gliele porse. Lei, non capen-
do se fossero al dritto o al rovescio, cominci• a infilar-
vi le mani, ma visto che n‚ io n‚ Yoko la prendevamo
in considerazione, se le mise di scatto e prese a cam-
minare.
Sotto il chiaro di luna.
"Facciamo il giro del porto e poi torniamo a casa!"
disse Yoko.
"Va bene. Possiamo prenderci una Coca, eh?" ag-
giunsi io; e Tsugumi:
"Voi fate pure quello che volete!".
"Perch‚, tu cosa vuoi fare?" le chiesi e lei, non de-
gnandomi nemmeno di uno sguardo:.
"A me va di camminare," rispose senza tanti giri di
parole.
"Fino a dove?"
"Fino all'altra spiaggia. Dall'altra parte della mon-
tagna."
"Non sar pericoloso?" fece Yoko. "Per•, piacereb-
be anche a me."
Non c'era anima viva sul sentiero di montagna. Ai
piedi dello strapiombo, era buio come se fosse stato
l'interno di una grotta. Nemmeno la luce della luna ar-
rivava, tanto che non si sapeva dove mettere i piedi. Io
e Yoko-ci tenevamo per mano e camminavamo a tento-
ni, Tsugumi dietro di noi. Ricordo che non sembrava
affatto che stesse camminando al buio, talmente sicuri
erano i suoi passi. Quello era un buio che faceva
paura.
Nonostante in origine fossimo uscite a farci un giro
perch‚ tristi per la fine del nostro programma preferi-
to, ce ne eravamo completamente dimenticate e cam-
minavamo emozionate da qualche cosa, lungo quel pro-
montorio, nel pieno della notte, con il vento che scuo-
teva gli alberi. Scendemmo per una stradina scoscesa e
ci imbattemmo nel villaggio di pescatori avvolto dalle
tenebre. Alla fine riuscimmo a vedere la spiaggia.
In quella insenatura coperta di sassi c'erano delle
case fantasma con porte e finestre sbarrate. Al largo,
una bandiera sventolava in compagnia delle onde. Una
brezza fresca soffiava, rinfrescando le nostre guance
accaldate. Tutte e tre insieme ci comperammo la Coca-
cola. Il rumore del distributore automatico fece sus-
sultare l'intera spiaggia. Il mare scuro si agitava in-
distinto davanti ai nostri occhi. E le fioche luci del
paese risplendevano in lontananza come un miraggio.
"Sembra di essere in un altro mondo," disse Tsugu-
mi e noi confermammo con un cenno d'assenso.
Alla fine ripercorremmo al contrario il sentiero di
montagna, arrivammo alla pensione ormai sfinite, ci
ritirammo nelle nostre stanze scambiandoci la buona-
notte e ci addormentammo come sassi.
Il mattino dopo eravamo a pezzi. Io e Yoko erava-
mo talmente stanche che a colazione non riuscimmo
ad aprire bocca. Mangiammo in silenzio, stropiccian-
doci gli occhi assonnati. Non sembravamo pi quelle
della notte precedente, cosć stranamente piene di ener-
gia. Tsugumi, invece, proprio non ce l'aveva fatta ad
alzarsi.
Io lo sapevo.
Quella sera lei aveva raccolto una pietra bianca sul-
la spiaggia, pietra che ancora oggi conserva in un an-
golo della libreria. In che stato d'animo si trovasse, pe-
r•, non lo so. Come pure non so che tipo di sensazioni
avesse rinchiuso in quella pietra. Forse si era trattato
solo di una cosa fatta cosć, tanto per fare. Per•, quan-
do mi tornavano in mente quella notte, la pietra e la fi-
gura di Tsugumi che, ancora piccola, usciva di casa a
piedi nudi sentendo la necessit di camminare, arriva-
vo quasi a scordarmi del fatto che lei fosse un "essere
vivente" sotto tutti i punti di vista, e in certo qual sen-
so mi assaliva una tristezza sconsolata.
Chiss perch‚ avevo ricordato quell'episodio. Guar-
dai l'orologio: erano quasi le due. I pensieri che si
fanno durante le notti insonni sono un po' strani. Va-
gano nel buio e fanno giungere a tante, tantissime
conclusioni inconsistenti quanto la schiuma. D'un
tratto mi ricordai che nel frattempo ero cresciuta, che
non vivevo pi in quella terra e che frequentavo l'uni-
versit a Tokyo. Era davvero incredibile. La mia ma-
no abbandonata nel buio sembrava un oggetto scono-
sciuto.
In quell'istante il fusuma si aprć all'improvviso.
"oh, svegliati!" disse Tsugumi. Presi uno spavento
tale che non riuscii pi a controllare i battiti del mio
cuore. Dopo un po', finalmente, risposi:
"Cosa c'Š?"
Lei entr• nŠlla stanza senza fare tanti complimenti
e si mise in ginocchio di fianco al mio cuscino.
"Non riesco a dormire."
Forse mi sarei dovuta rallegrare al solo pensiero
che, pur dormendo nella stanza accanto alla sua, una
cosa del genere non era mai successa. Nera dalla rab-
bia, mi alzai e le dissi:
"E allora? Non Š certo colpa mia!".
"Non essere cosć dura, se pensi che anche questa Š
una specie di coincidenza, dobbiamo cercare di ap-
profittarne!" e si mise a ridere. Tsugumi non sapeva
come comportarsi con le persone soltanto in qÅelle
circostanze. Tutt'a un tratto ricordai le volte in cui
mi aveva svegliata a scossoni, quando mi era saltata
sulle mani e sui piedi mentre dormivo e quando mi
aveva preso il dizionario da sotto il banco durante
l'ora di ginnastica perch‚ non le andava di portarselo
a scuola (soltanto perch‚ era pesante, solo per quel-
lo!). Quella sensazione d'irrazionalit mi procur• un
flashback cosć improvviso che me ne sorpresi. Ah,
gi! Me ne ero completamente dimenticata. Certo, il
rapporto con Tsugumi non era solo qualcosa di "di-
vertente".
"Io, ho sonno," le dissi. Provai a resisterle per un
po', esattamente come facevo un tempo. Tsugumi, pe-
r•, che era diventata quella che era proprio perch‚ non
ascoltava ci• che le dicevano le persone, con un'eccita-
zione che le si leggeva negli occhi, esclam•:
"Proprio come quella volta!".
"Quale?"
"Quella in cui, come delle cretine, abbiamo cammi-
nato fino al villaggio dall'altra parte della montagna.
Era proprio in questi giorni, eh? Che dipendano dalla
stagione queste notti in cui per qualche motivo non si
riesce a dormire? Yoko sta dormendo come un ghiro.
Sai, lei non ha una sensibilit molto acuta""
"Beh, anch'io stavo per addormentarmi!"
"La colpa Š sempre del vicino di casa."
"Sembra proprio di sć," tirai un lungo sospiro e mi
sentii molto meglio. Mi faceva una strana impressione.
Sorpassando i confini della notte, Tsugumi e io aveva-
mo pensato le stesse cose, attraverso una vera e pro-
pria forma di telepatia. Capita, a volte, che la notte uti-
lizzi questo tipo di tecniche. L'aria si diffonde lenta-
mente nelle tenebre e le emozioni arenate nei luoghi
pi remoti precipitano nelle mani delle persone come
stelle cadenti, e le svegliano. E i sogni che fanno, sono
gli stessi. Nell'arco della notte, tutto accade e tutto si
esaurisce. E il mattino seguente, persino le cose con-
crete si fanno incerte, per poi dileguarsi nella luce.
Quelle notti sono lunghe, infinitamente lunghe. E
splendenti come pietre preziose.
"Andiamo a farci un giro?" le chiesi.
"No, non ce la farei..."
"Beh, allora cosa vuoi fare?"
"Non lo so."
"Potevi pensarci prima di svegliarmi, eh?"
"Dunque... possiamo prendere qualcosa da bere dal
tuo frigo e andare a bercelo sullo stenditoio sul tetto.
Fino a lć ce la posso fare," disse Tsugumi. Mi alzai e
andai verso il frigo, pieno zeppo di roba da bere. Tutto
sommato, la mia camera era una stanza per gli ospiti a
tutti gli effetti. Io presi una birra e a Tsugumi passai
un succo d'arancia. Lei non pu• assolutamente bere al-
colici. Nessuno cercava di farla bere, perch‚ si mette-
va a vomitare subito, e dove capitava, capitava. Cam-
minammo per il corridoio trattenendo il respiro, poi
aprimmo pian piano la porta e uscimmo sullo stendi-
toio, proprio come quella volta. Di giorno, era pieno di
panni in fila ad asciugare al vento come in una pubbli-
cit di detersivi, di notte, invece, in fila c'erano soltan-
to le grandi canne per stendere. E negli spazi tra l'una
e l'altra, si vedevano le stelle. Lo stenditoio dava sul
lato della montagna: il suo grande profilo verde ci
sembrava a un palmo dal naso.
Bevvi la mia birra. E sentii il fresco scendere fino
in fondo allo stomaco. Un fresco che si sommava a
quello della notte.
Anche Tsugumi bevve il suo succo, poi, quasi sus-
surrando, disse:
"Chiss perch‚ le bevande che si bevono di notte al-
l'aperto sono cosć buone?".
"Tu dai molta importanza a queste cose, eh?" non
feci in tempo a dire che lei, senza neppure ascoltare le
mie ragioni, mi replic•:
"Neanche per sogno!".
Non ne facevo una questione di emotivit. Ma un
problema di sensibilit. Tsugumi tacque per un poco,
come se pensasse a qualcosa, poi disse:
"Io sono una che perde la pazienza e che strappa
anche l'ultima foglia di un albero, ma che, comunque,
ne sa apprezzare la bellezza. Era questo che inten-
devi ?".
Sorpresissima, le risposi:
"Finalmente hai imparato a esprimerti come un es-
sere umano, eh Tsugumi?".
"Forse sto per morire," fece lei e si mise a ridere.
No, la colpa Š della notte.
In una notte con un'aria cosć pulita, le persone fini-
scono col raccontarsi. Senza accorgersene, aprono il
proprio cuore e, rivolte a chi gli sta accanto, comincia-
no a parlare come se stessero confessandosi con delle
stelle che splendono nello spazio. Nello schedario del
mio cervello, alla voce "Notti d'estate", ci sono un sac-
co di immagini di notti come questa. Credo proprio
che quella di oggi la catalogher• in una posizione mol-
to vicina a quella della volta in cui da piccola avevo
camminato per ore e ore con le mie cugine. Se penso
che in futuro, fintanto che sar• in vita, avr• ancora la
possibilit di vivere notti come queste, riesco a deside-
rarle intensamente. Delle notti cosć belle. E il vento
con il suo splendido profumo che, trasparente, pian
piano diffonde per tutto il paese la presenza delle mon-
tagne e del mare. Mi basta pensare che, in un'estate di
chiss quando, forse potr• ancora incontrare una notte
come questa, e gi mi sento su di giri.
Tsugumi finć di bere il succo d'arancia, si alz• di
scatto e and• vicino alla ringhiera per guardare la
strada di sotto.
"Non c'Š anima viva," disse lei.
"Ascolta, ma che cos'e quella costruzione?" le chie-
si. La mia attenzione si era fermata su un grande edifi-
cio ai piedi della montagna, con delle putrelle che
spuntavano dall'armatura di ferro. Risaltava tra le ca-
se del paese immerso nel buio.
"Cosa? Ah, quello? E un hotel," rispose voltandosi
verso di me.
"Cosć grande! Ma l'hanno costruito da zero?"
"Sć, e se chiudiamo la pensione Š anche per colpa
loro. A me non Š che interessi pi di tanto, ma, sai, per
la mia famiglia Š una questione di vita o di morte. Pe-
r•, non trovi che sia una bella cosa che pap abbia de-
ciso di fare qualcosa che aveva sempre voluto fare?
Certo che se il nostro albergo dovesse andare male, e
noi quattro ridurci sul lastrico, sarebbe molto triste.
Potremmo anche ucciderci tutti insieme, su in mon-
tagna."
"Andr benissimo! Tanto per cominciare, io vengo
tutti gli anni! E se poi mi sposo, il pranzo, lo faccio da
voi ! "
"Se hai un po' di tempo, potresti venire con qualche
tua compagna d'universit. Sai da queste parti non ce
ne sono proprio."
"Ma come? E Yoko?"
"Stai scherzando, vero? Magari un po' pi 'metro-
politane'! Sai, ragazze cosć le vedo solo alla televisio-
ne. Le osserverei da vicino per poi parlarne male alle
spalle," disse Tsugumi, facendo rumore con i sandali.
Quello era un so aspetto molto triste: a parte i perio-
di in cui era stata ricoverata in ospedale, era cresciuta
senza essere mai stata fuori da quel paese.
Mi alzai, le andai Vicino e, guardando di sotto, le
chiesi:
"Perch‚ non vieni un po' a Tokyo?".
La stradina su cui dava lo stenditoio era avvolta nel
silenzio e nell'ombra.
"Sarebbe bello! ...Sai, mi sembra di essere l'amica
paralizzata di Heidi, la ragazzina delle Alpi."
E rise a fior di labbra.
"Oggi Š la giornata dei ricordi, eh?" dissi e anch'io
mi misi a ridere. In quel momento mi accorsi che nella
strada davanti alla pensione c'era un cane che mi sem-
brava di conoscere. Mi venne da gridare:
"Ah, guarda! Il cane dell'altro giorno! Gonnosuke,
no, come si chiamava?".
Tsugumi si sporse e disse:
"Gongoro," e lo chiam• ad alta voce:
"Gongorooo! ".
Quel nome echeggi• nella notte. Poi, in lontananza,
si sentć il rumore della catena di Pochi che nel frattem-
po doveva essersi svegliato. Era da un po' di tempo
che non vedevo Tsugumi comportarsi cosć, fregandose-
ne di tutto e di tutti, tanto che me ne stupii.
Chiss se i miei pensieri arrivarono sino a quel mi-
nuscolo cagnolino?
Un po' titubante, Gongoro torn• sui suoi passi e si
guard• intorno per capire da dove arrivassero quelle
voci. Era talmente buffo che proprio non ce la facem-
mo a trattenerci dal ridere. Lo chiamammo di nuovo
ed ecco che sembr• accorgersi di noi, tanto che prese
ad abbaiare verso l'alto.
"Chi siete?" Per un istante, pensai che fosse stato il
cane a dirlo. Poi, all'improvviso, sotto la luce di un
lampione, come se fosse stato illuminato da un rifletto-
re, apparve il ragazzo di qualche giorno prima. Era
molto pi abbronzato, e la sua T-shirt nera si confon-
deva nel buio.
"Ah, siete voi!"
"Tsugumi, sarai felice di rivederlo, eh?" le dissi a
bassa voce. Mi liquid• con un velocissimo "sć" e poi,
rivolta al ragazzo, grid•:
"Ehi, tu! Come ti chiami?". Lui prese in braccio
Gongoro, alz• la testa e ci rispose.
"Io sono Kyoichi, e voi?"
"Io, Tsugumi, e lei Maria. E tu da dove salti
fuori ?"
"Per adesso non abito ancora in questo paese, ma
presto mi trasferir• laggi,"--e con il dito indic• la
montagna--"nel nuovo albergo."
"Cosa! ?! Sei figlio di una sguattera?" gli chiese e
scoppi• a ridere.
"No, no, sono il figlio del gestore. A mio padre pia-
ceva cosć tanto questo paese che ha deciso di venire a
viverci. Io faccio l'universit a M., e quindi, abitando
qui, posso andare avanti e indietro."
La notte riesce a rendere intime le persone, a una
velocit straordinaria. Kyoichi si rivolse a noi con un
viso sorridente, assolutamente genuino.
Gli chiesi:
"Esci tutte le notti a passeggiare?".
"No, Š che stasera, non so perch‚, non riuscivo a
prendere sonno. Cosć ho costretto Gongoro ad alzarsi
e a uscire a fare quattro passi," e si mise a ridere.
Sentivamo che saremmo diventati amici. Quando si
trovano le persone giuste, lo si capisce subito. Ci era
bastato parlare soltanto qualche minuto, per essere
tutti certi della medesima cosa. Da quell'incontro sa-
rebbe nata una lunga, lunghissima amicizia.
"Ehi tu, Kyoichi!" lo chiam• Tsugumi, con gli occhi
sbarrati che quasi le uscivano dalle orbite, "Era da
giorni che speravo di incontrarti. Ti va di rivederci?"
Io rimasi senza parole. Lui ancor pi di me, tanto
che per un po' non riuscć nemmeno a risponderle.
"Certo, io sto qui fino alla fine dell'estate. Di giorno
non ho niente da fare, tranne che andare in giro con
Gongoro. La mia pensione Š il Nakahama, sapete
dov'Š ?"
"Sć, lo sappiamo."
"Venite pure quando volete. Il mio cognome Š Take-
uchi."
"Ricevuto!" gli rispose Tsugumi.
"A presto, ciao!"
"Ciao! "
L'emozione di Tsugumi aveva reso tagliente l'oscu-
rit, ma non appena Kyoichi se ne fu andato, anche
quella tensione si dissolse in un baleno. Era stato un
incontro molto particolare. Lui, come era venuto dal
buio, cosć vi era tornato.
"Ti piace molto quel ragazzo, eh?" le chiesi ridendo
in quella notte sempre pi profonda e densa. Lei sospi-
r• e mi rispose:
"Per il momento, sć".
"Ti sei accorta che eri strana?"
"In che senso?"
"Nel senso che gli hai parlato con il tuo solito tono
irriverente."
L'avevo notato subito, ma non le avevo detto niente.
Quando era con i ragazzi era abituata a fare la parte
della "signorina di buona famiglia". Prima, invece, era
rimasta quella di sempre, tanto che ero stata a osser-
varla senza credere ai miei occhi.
"No!" fece Tsugumi, tutta sconsolata.
"No, cosa?"
"Non me ne sono neanche resa conto. L'ho fatto
proprio senza accorgermene. Nooo, gli sar• sembrata
una sbandata."
"Andavi benissimo cosć com'eri," le dissi. Tsugumi
esposta al fresco della brezza, aggrott• le sopracciglia
e, continuando a fissare il cielo, disse:
"Beh, ormai Š fatta. Sono sicura che la colpa Š della
notte".




La confessione.

Quel giorno pioveva ininterrottamente dalla matti-
na. D'estate la pioggia ha l'odore del sale.
Annoiata, ero rimasta in camera per ore a leggere.
Quale conseguenza della nostra follia notturna,
Tsugumi era a letto da quasi una settimana con la feb-
bre e un incessante mal di testa. Prima, quando le ave-
vo portato il pranzo, l'avevo trovata immersa nelle co-
perte a gemere. Era una scena che avevo visto tante
volte, tanto che mi sembrava di averne sentito nostal-
gia. Le avevo detto con un tono squillante:
"Ti ho portato da mangiare," e le avevo lasciato il
vassoio accanto al cuscino. Poi, mentre uscivo dalla
stanza, mi era scappato di dirle:
"Tsugumi, non avrai la malattia degli innamorati,
eh?". Lei, restando in silenzio, si era scoperta le gambe
e mi aveva tirato una brocca di plastica piena d'acqua.
Costasse quel che costasse, la salute per fare quel
genere di cose, l'aveva sempre.
La brocca sbatt‚ contro la colonna di fianco al fusu-
ma per poi cadere sui tatami. Mi si bagnarono soltanto
un po' i capelli, cosć che mi bast• tornare in camera e
starmene un po' tranquilla per terra a farli asciugare.
Fuori dalla finestra, lontano, il mare era di un gri-
gio intenso e agitato da far paura. Tutto, sia il cielo
che il mare, sembrava essere al di l di un filtro colorato,
velato da una leggera coltre di nebbia. Immaginavo che
anche Pochi, in una giornata cosć, fosse nella sua cuccia,
circondato dall'odore di terra bagnata, a guardare in si-
lenzio la pioggia che scendeva. Dal primo piano, invece,
arrivavano gli schiamazzi dei clienti che continuavano a
entrare e uscire dalle stanze, visto che non erano potuti
andare in spiaggia. Andava a finire sempre cosć. Nei
giorni di pioggia, proprio non si sapeva come ammazza-
re il tempo in quella grande casa che era la pensione. Na-
turalmente, intorno al grande televisore e ai vecchi vi-
deogiochi della reception si era riunita un sacco di gente.
Tra un pensiero e l'altro, peraltro sempre pi langui-
di, la lettura procedeva alla grande. L'immagine delle
gocce di pioggia che cadevano contro il vetro della fine-
stra come delle meteore continuava a passarmi per la
testa.
Poi, all'improvviso, pensai:
"E se Tsugumi dovesse peggiorare e addormentarsi
per sempre?".
Dentro di me portavo ancora il ricordo di quando, da
piccola, nel periodo in cui era davvero molto malata,
avevo capito per la prima volta il significato della morte.
E ogni tanto mi tornava alla mente come un fulmine a
ciel sereno. Soprattutto nei giorni di pioggia, quando
passato e futuro svaniscono lentamente nell'aria.
A un tratto, una lacrima cadde sulla pagina del li-
bro. E un istante dopo piangevo a dirotto.
Sentii il rumore della pioggia che cadeva sulla
grondaia ed ebbi un sussulto. Poi, chiedendomi perch‚
diavolo mi fossi messa a piangere, mi asciugai il viso e
continuai a leggere, dimenticandomi completamente
dell'accaduto.
Quando furono le tre di pomeriggio, rimasi a secco
di letture "frivole". Tsugumi era bloccata a letto, Yoko
era fuori, e alla Tv non davano niente di interessante,
tanto che, annoiata a morte, decisi di farmi un giro in
libreria. Tsugumi, che doveva avermi sentito uscire
dalla camera, mi chiam• dalla sua stanza con il fusu-
ma chiuso, e mi chiese:
"Dove vai ?".
"In libreria. Vuoi che ti prenda qualcosa?" le dissi,
e lei:
"Sć, comprami un succo di frutta alla mela. Di quel-
li naturali al 100%". Doveva avere la febbre molto alta,
a giudicare dalla raucedine della voce.
"Va bene."
"E poi... un melone, dei sushi, e anche..." Sentivo la
sua voce mentre proseguiva nell'elenco. Io, per•, feci
finta di niente e me ne andai al piano di sotto.
Nelle citt di mare, la pioggia scende particolar-
mente silenziosa. Che sia il mare stesso ad assorbirne
il rumore? Una delle cose di cui mi ero stupita vivendo
a Tokyo, era lo scroscio che si sentiva ogni volta che
pioveva.
Presi la strada che costeggiava la riva, ed ebbi la
strana sensazione che la spiaggia, tinta di nero, fosse
desolata come un cimitero. La pioggia che cadeva in
mare, invece, Si infrangeva contro le onde formando
mille e mille cerchi che subito si allargavano a dismi-
sura.
La libreria pi grande del paese era affollatissima.
D'altra parte, quando il tempo Š brutto, Š normale che
ai turisti venga voglia di leggere qualcosa. Entrai nel
negozio e, subito, diedi un'occhiata alla fila delle rivi-
ste. Come c'era da aspettarsi, di quelle che avrei volu-
to non ne era rimasta nemmeno una copia.
Rassegnata, mi diressi verso gli scaffali impolverati
delle edizioni economiche e--incredibile--vidi Kyo-
ichi che, in un angolo del negozio, era immerso nella
lettura di un libro. Mi avvicinai e gli chiesi:
"Come mai senza cane?".
"Ah, ciao!" disse lui tutto sorridente, poi aggiunse:
"Sai, oggi pioveva, cosć l'ho lasciato in albergo".
"Ma come, te lo fanno tenere in camera?"
"No, in camera non me l'hanno permesso, e allora
lo tengo legato in cortile. Sono lć da cosć tanto tempo,
che ho fatto amicizia con tutti. Pensa che quando sono
libero, aiuto anche a preparare i futon per la notte.
L'unica cosa strana Š che non posso rivelare la mia ve-
ra identit, e mi sento un po' una spia."
"Ah, Š vero," dissi facendo un cenno d'assenso col
capo. In effetti lui era il figlio del proprietario dell'e-
norme albergo che stavano costruendo ai piedi della
montagna, e tutti in paese, soprattutto i gestori di pic-
cole pensioni, erano pi o meno preoccupati per le sor-
ti delle loro attivit. Certo che, a ben pensarci, per lui
quell'estate non si preannunciava affatto felice.
"E Tsugumi, come mai non c'Š?" chies‚ lui.
Nell'istante in cui disse il suo nome, scandendolo
alla perfezione, sentii dentro di me che per una qual-
che ragione il futuro di quell'amore sarebbe stato ro-
seo. Vedevo le gocce di pioggia trasparente cadere una
dopo l'altra dal telo di plastica appeso alla tettoia da-
vanti al negozio, e gli risposi: "Tsugumi Š a letto mala-
ta. Sai, anche se non si direbbe, Š una ragazza molto
debole... se vuoi, puoi venire a trovarla. Penso che le
farebbe piacere".
"Se mi assicuri che Š in condizione di ricevere visi-
te, vengo volentieri," disse lui. "Adesso che me lo dici,
mi rendo conto che in effetti Š vero: ha un corpicino
cosć esile e un colorito cosć pallido... Per•, che ragazza
interessante che Š!"
A parole, proprio non saprei come spiegarlo. Ma in
quel momento, il paese si rinchiuse in se stesso, pro-
tetto dal rumore di quella pioggia cristallina, e io, una
volta per tutte, mi convinsi che loro due erano fatti l'u-
no per l'altra.
Nei mesi in cui avevo abitato a Tokyo, e soprattut-
to da quando ero entrata all'universit, avevo cono-
sciuto un sacco di coppie. (Mi rendo conto che quanto
sto per dire Š strano e un po' da provinciale, ma...)
Riuscivo sempre a capire il motivo per cui due si
mettevano,insieme. O perch‚ si assomigliavano fisica-
mente, o perch‚ erano attratti dallo stesso tenore di
vita, o perch‚ avevano gli stessi gusti nel vestire. E
anche quei ragazzi che a prima vista sembravano non
avere niente in comune, dopo qualche tempo, manife-
stavano qualcosa che mi permetteva di capire su che
cosa si fondasse la loro relazione. Tuttavia, l'improv-
visa sensazione che provai quel giorno per Tsugumi e
Kyoichi era molto pi forte delle solite. Sć, prima,
quando lui mi aveva chiesto sue notizie, per un istan-
te, dentro di me avevo visto le loro figure sovrapporsi
l'una all'altra. Avevo visto le masse dei loro interessi
attraversare quel pomeriggio uggioso, e fondersi in
un'intesa perfetta. Ero certa di quel mio presentimen-
to. Non saprei dire se quelle sensazioni fossero il
frutto di una fatalit o il presagio di una grande sto-
ria d'amore.
Ci incamminammo per una strada d'un intenso gri-
gio fumo e io, assorta in quei pensieri, presi a guarda-
re con una punta di commozione i colori dell'iride che
si riflettevano sull'asfalto bagnato.
"Un attimo! Se vengo a trovarla Š bene che le porti
qualcosa, no? Chiss cosa potrebbe farle piacere?"
A quella sua domanda, risposi senza nemmeno pen-
sarci:
"Qualsiasi cosa. Magari un succo di mela, un melo-
ne e dei sushi".
"Non mi sembra che l'accostamento sia dei miglio-
ri, comunque..." fece lui chinando il capo, e io, pen-
sando che in parte se l'era voluto lui, risi di nascosto.
"Tsugumi, hai ospiti!"
Cercavo di immaginare che faccia avrebbe fatto e
soprattutto che tecnica avrebbe escogitato per nascon-
dere la sorpresa che avrebbe provato. Aprii il fusuma
piano piano, ma
non c'era nessuno.
Nella sua stanza illuminata a giorno, le coperte del
futon erano nella stessa posizione in cui le doveva aver
lasciate prima di uscire. Rimasi senza parole. Per
quanto facesse sempre cose imprevedibili, era vero an-
che che aveva quasi trentanove di febbre.
"Non c'Š..." sussurrai.
"Ma come, non era incredibilmente ammalata?" dis-
se Kyoichi in uno strano giapponese, con le sopracci-
glia corrugate.
"Ti assicuro che lo era, per•..." risposi, non sapendo
pi a cosa pensare. "Aspetta un attimo qui, che vado a
vedere al piano di sotto."
Mi precipitai all'ingresso e, in ginocchio, controllai
se i sandali con i fiori bianchi che metteva sempre per
uscire erano nell'armadietto delle scarpe o meno.
Quando vidi che erano ordinati in fila tra quelli dei
clienti, tirai un sospiro di sollievo. Zia Masako pass•
per il corridoio e mi chiese:
"Cos'Š successo?".
"Tsugumi non Š in camera."
"Cosa?" fece la zia sbarrando gli occhi. "Ma sai che
ha una febbre da cavallo? Abbiamo anche chiamato il
dottore per farle fare l'iniezione... che le sia scesa im-
provvisamente e le siano tornate le forze?"
"Sć, non pu• essere altrimenti."
"Io, per•, sono sempre stata qui alla reception, e
non ho visto uscire nessuno dopo di te... deve essere
ancora in casa. Proviamo a cercarla!" disse la zia con
un'aria molto preoccupata.
"Chiss cosa diavolo star facendo?" mormorai, ti-
rando un sospiro profondo.
Chiesi a Kyoichi di andare a dare un'occhiata nei
dintorni della pensione, e io e la zia la cercammo per
tutte le stanze. Guardammo ovunque, persino nella d‚-
pendance e nello stanzino dei distributori automatici.
Io andai a vedere anche nella camera di Yoko. Non c'e-
ra... Di lei, nemmeno l'ombra. Continuando ad andare
avanti e indietro nel buio di quei corridoi, su cui dava-
no tutte quelle porte identiche, mi prese una strana
sensazione, come di essermi persa nella desolazione di
un labirinto. Camminando sotto quelle luci al neon, sia
io che zia Masako eravamo cadute in un inaspettato
scoramento. Ormai l'avevo dimenticato. Sempre, in
quelle situazioni, piuttosto che preoccuparci o, peggio
ancora, arrabbiarci, venivamo sorpresi dallo scora-
mento. E ci ricordavamo che quel vivace lumicino che
dava vita a quel suo impertinente corpo, facendolo ap-
parire cosć reale, in effetti era in una posizione molto
precaria.
Se andava un po' troppo in altalena,
se faceva il bagno in mare per mezza giornata,
se rinunciava a qualche ora di sonno per vedere un
film trasmesso a tarda serata
o se soltanto dimenticava a casa la giacca in un
giorno in cui l'aria era un po' fresca,
Tsugumi cadeva malata. E si indeboliva sempre pi.
La sua esistenza, a prima vista cosć concreta, non era
niente pi che una sorta di energia interna che oppone-
va una resistenza sfrenata alla debolezza del suo corpo.
...E inutile, nei giorni di pioggia, ci si perde nel vuoto
dei propri pensieri e i ricordi del passato escono dalla
memoria con una verosimiglianza incredibile. Il colore
dell'aria di quel periodo, cosć pieno di sentimentalismo,
sembrava specchiarsi nei vetri scuri della finestra... Il
peso del fusuma chiuso riflesso negli occhi di me bambi-
na. Le parole di mia madre che mi diceva: "La vita di tua
cugina Š in pericolo, vedi quindi di fare la brava", le lun-
ghe trecce di Yoko in lacrime. In quel periodo, scene di
quel genere erano all'ordine del giorno.
"Non c'Š proprio," ripetemmo sconsolate, davanti al-
la sua camera.
"E non Š nemmeno nei dintorni della pensione," dis-
se Kyoichi mentre saliva le scale di corsa. Doveva esse-
re uscito senza ombrello, a giudicare da come aveva i
capelli bagnati.
"Oddio, mi dispiace che ti sia bagnato cosć tanto,"
si scus• la zia, nonostante non sapesse nemmeno chi
fosse. Quello non era certo il momento adatto alle pre-
sentazioni.
"Che sia andata lontano?" dissi e subito pensai di
dare un'occhiata fuori dalla finestra. Mi diressi verso
una grande porta finestra in legno da cui si poteva an-
che andare sul tetto, e guardai.
Trovata!
"Eccola!" comunicai, ormai senza forze, alla zia e
aprii la finestra- Incredibile! Tsugumi si era intrufola-
ta nello spazio tra il pavimento dello stenditoio e il tet-
to del terzo piano. Lei alz• il capo, e guardandomi at-
traverso le fessure tra un'asse e l'altra, mi disse:
"Mi avete scoperta!".
"'Scoperta' che cosa? Cosa fai lć?" le chiesi, stupita
nel profondo del mio cuore. Ormai non ci capivo pi
niente.
"Oddio, sei a piedi nudi, con il freddo che fa sul tet-
to! Vieni qui immediatamente! Vedrai che febbre ti
viene adesso!" disse la zia con un'espressione del viso
gi pi rilassata Poi pian piano l'aiut• a rientrare: era
bagnata fradicia.
"Adesso tua mamma ti porta un asciugamanO. In-
tanto vai subito a letto! Hai capito?" dissi, dopo che la
zia era corsa al piano di sotto. "Perch‚ mai sei andata
a incastrarti in un posto cosć strano?"
Lei in effetti era sempre stata molto brava a intru-
folarsi lć quando da piccole giocavamo a nascondino.
Quello, per•,--inutile a dirsi--non era certo il mo-
mento di giocare a nascondino.
Tsugumi, forse per colpa della febbre alta, sembra-
va in estasi, e ridendo a crepapelle mi disse:
"Sai, ti ho vista dalla finestra quando sei arrivata
con Kyoichi" tutta trionfante e convinta di stupirmi,
per giunta, cosć ho voluto rovinarti la sorpresa".
"Tua mamma Š davvero buona," le disse Kyoichi.
Visto come erano andate le cose, aveva detto di dover
tornare a casa, ma sia la zia che Tsugumi avevano fat-
to di tutto per convincerlo a fermarsi. Alla fine aveva
accettato di andarsene dopo una tazza di tŠ.
"Non ti ha sgridata per niente."
"Sai, il suo amore nei miei confronti Š pi profondo
del mare," gli rispose Tsugumi. E io pensai che fosse
una grande bugiarda. In effetti, se la zia era diventata
il tipo calmo che era, lo si doveva soltanto al fatto che
si era abituata alle preoccupazioni che lei le procurava
in continuazione. Ero sicura che anche lui prima o poi
l'avrebbe capito, cosć non dissi niente e continuai a be-
re il mio tŠ. Inoltre, visto che il suo sguardo era pieno
di compassione, e che i suoi occhi sembravano guarda-
re un gattino morente, piuttosto che Tsugumi, non me
la sentii di turbarlo.
...Proprio mentre pensavo queste cose, le condizioni
di Tsugumi sembrarono peggiorare, tanto che comin-
ciai a sentirmi in apprensione. Aveva delle occhiaie
paurose, il respiro affannato e le labbra esangui. Sulla
fronte le si erano attaccate delle sottili ciocche di ca-
pelli bagnati. Gli occhi e le guance, invece, splendeva-
no luminosi.
"Signorine, tolgo il disturbo. Ci vediamo presto. E tu
finiscila di fare scherzi del genere! Adesso, da brava,
dormi, e vedi di guarire presto!" disse Kyoichi e si alz•.
"Aspetta!" disse lei. Poi, con una mano incandescen-
te, afferr• la mia maglia all'altezza del seno e con la
voce roca mi url•:
"Maria, fermalo!".
"Kyoichi, un attimo! Tsugumi ti vuole parlare," gli
dissi guardandolo in viso.
Lui torn• vicino al suo futon e le chiese: "Cosa
c'Š?".
"Raccontami una storia," gli chiese con ardore.
"Non riesco ad addormentarmi se qualcuno non mi
racconta una fiaba."
Bugiarda! Mi venne da pensare nuovamente. Per•,
che bella quella bugia! Avevo usato delle parole molto
carine, parole che avevano un buon profumo.
"Va bene, una storia. Dunque, purch‚ tu ti metta a
dormire, ti racconter• quella dell'asciugamano," le dis-
se Kyoichi.
"Dell'asciugamano?" feci io, stupita tanto quanto
Tsugumi.
Lui proseguć:
"Quando ero piccolo, ho avuto dei seri problemi di
cuore. Prima di poter essere operato, per•, ho dovuto
aspettare qualche anno, fintanto che ho avuto le forze
per affrontare l'intervento. Adesso sto benissimo e non
mi ricordo quasi pi niente di quel periodo, ma se mi
capita qualcosa di brutto o qualcosa di difficile da sop-
portare, mi viene sempre in mente l'asciugamano che
avevo da bambino. Sapete, ero costretto a letto, E per
di pi, anche se non vedevo l'ora di essere operato,
non era detto che con l'operazione le cose sarebbero
migliorate. Aspettare qualcosa di cosć improbabile, se
poteva essere tollerabile nei momenti normali, durante
gli attacchi di cuore mi faceva precipitare in uno stato
di angoscia e di depressione profonda. Era durissimo
tirare avanti, e non ci potevo fare niente".
Il rumore della pioggia sembr• sparire. Io e Tsugu-
mi ascoltavamo con attenzione quella sua storia im-
provvisa. Parlava con un certo distacco e in modo mol-
to chiaro; la sua voce risonava nel silenzio della
stanza.
"Quando avevo le crisi, mi mettevo sul letto e cerca-
vo di non pensare a niente. Se chiudevo gli occhi, fini-
vo col fare pensieri che non avrei dovuto fare, o con
l'avere paura del buio, e allora li tenevo aperti per tut-
to il tempo. E aspettavo che il dolore se ne andasse.
Esattamente come quelli che si trovano di fronte un
orso e fanno finta di essere morti. A dire il vero era
una situazione che odiavo. In quel periodo, avevo una
federa del tutto speciale: un asciugamano di ottima
qualit, di fabbricazione estera, che mia mamma aveva
ricevuto in regalo dalla nonna quando si era sposata.
L'aveva sempre usato con grande riguardo e, quando i
bordi avevano cominciato a sfilarsi, ne aveva fatto una
federa e me l'aveva regalata. La fantasia era bellissima:
su uno sfondo blu scuro, c'era una fila di bandiere colo-
rate degli stati del mondo. Dalla mia posizione sdraia-
ta, osservavo quella vivace combinazione di colori per
ore e ore. Facevo sempre cosć, per riuscire a superare
le crisi... Allora proprio non ci facevo caso, ma dopo,
per esempio prima dell'operazione, o nel terribile pe-
riodo che l'ha seguita, e pure quando ho dovuto affron-
tare molte altre cose spiacevoli, nella mia testa appari-
va sempre la fantasia di quell'asciugamano. Ormai Š da
un pezzo che non l'ho pi, eppure riesco a vederlo anco-
ra con una chiarezza incredibile, come se l'avessi da-
vanti agli occhi. Anche adesso, per esempio, mi sembra
di poterlo quasi prendere tra le mani. E ogni volta,
stranamente, mi sento un po' meglio. Per me Š una spe-
cie di fede. Non trovate che sia interessante? Fine della
storia. Soddisfatte?"
"Incredibile!" gli dissi.
Forse la sua calma, i tratti ben delineati di quel suo
aspetto maturo, e quello sguardo, trovavano origine
nelle esperienze vissute da bambino. Kyoichi aveva rea-
gito in una maniera completamente differente da quella
di Tsugumi, ma con lei aveva in comune il fatto di esse-
re cresciuto da solo percorrendo un cammino tutto
suo. Per quanto si potesse dire che non c'era niente da
fare, dal momento che era stata la natura a volere cosć,
il fatto che la mente di Tsugumi si fosse trovata ad al-
loggiare in un fisico ammalato era qualcosa di terribil-
mente triste. Proprio lei che, pi di chiunque altro, ave-
va un animo profondo e forte, tanto da raggiungere l'u-
niverso con il proprio ardore, era costretta a sopporta-
re le restrizioni dettate dal suo corpo. Quella sua ener-
gia inutilizzata era riuscita a cogliere al volo ci• che si
nascondeva dietro lo sguardo di Kyoichi.
Tsugumi lo guard• e gli chiese:
"Guardando qelle bandiere, pensavi a quei paesi
lontani? E anche al,posto dove saresti andato una vol-
ta morto ?". Rimasi di sasso. Kyoichi, invece, le ri-
spose:
"Sć, ci pensavo ogni volta".
"Beato te, adesso puoi andare dove ti pare," gli dis-
se lei.
"Presto anche tu lo potrai... Comunque, non devi
credere che il meglio stia nel potere andare dove si
vuole. Questo posto, per esempio, trovo che sia bellissi-
mo. Ci sono sia il mare che la montagna, si pu• uscire
in ciabatte e addirittura farsi una passeggiata in costu-
me. Tu hai un animo molto forte e una grande tenacia,
cosć che se anche dovessi rimanere qui per sempre,
riusciresti a vedere molte pi cose tu, di quelli che fan-
no il giro del mondo," le disse con molta calma.
"Magari fosse cosć!" gli rispose sorridendo. Gli oc-
chi le brillarono e, sotto le sue guance arrossate, si vi-
dero i denti bianchi. Il suo leggero rossore sembrava
riflettersi sul candore delle lenzuola. Senza renderme-
ne conto, abbassai lo sguardo e chiusi gli occhi per un
attimo, ormai sul punto di piangere. In quell'istante
Tsugumi guard• Kyoichi dritto in volto e gli disse:
"Mi sono innamorata di te".




Nuotando con pap.

Sulla storia di Tsugumi e Kyoichi, cominci• ad ac-
centrarsi l'interesse della gente. Quando andavano a
passeggiare sulla spiaggia, risaltavano in una maniera
incredibile. Non era affatto una novit che Tsugumi
uscisse con un ragazzo, eppure quando loro due cam-
minavano per il paese, chiss perch‚, sembrava che
emettessero una luce particolare, come due fidanzati
in giro per un paese straniero. Con i cani al seguito, li
trovavi sempre da qualche parte lungo la spiaggia. I lo-
ro sguardi, intenti a osservare l'orizzonte, facevano
provare una certa nostalgia alle persone che li guarda-
vano da lontano, come se si fosse trattato di un vec-
chio sogno.
In casa, Tsugumi se la prendeva come sempre con
quelli della famiglia, se anche prendeva a calci la sco-
della di Pochi non chiedeva scusa, si addormentava
mezza nuda ovunque le capitasse, ma quando era con
Kyoichi si faceva raggiante di gioia. Sembrava quasi
che avesse fretta di vivere. Una preoccupazione sottile,
come un raggio di luce fra le nuvole, nasceva nel pro-
fondo del cuore di noi che le stavamo intorno procu-
randoci un dolore pungente.
Il suo modo di vivere faceva sempre paura.
Era come se il suo corpo venisse trascinato a forza
dai sentimenti che, con il loro bagliore, riducevano di
momento in momento la durata della sua vita.
"Mariaaa! "
Pap url• il mio nome cosć forte che dalla vergogna
mi sentii sprofondare, poi mi salut• con la mano dal fi-
nestrino dell'autobus. Mi alzai e mi diressi verso la
banchina degli arrivi. Fissai quell'enorme mezzo men-
tre dalla strada faceva manovra per entrare nel par-
cheggio, emanando aria calda e un rumore assordante.
Sotto i raggi del sole, quella era una vista soffocante.
Le porte si aprirono e pap scese in mezzo a una fila
di turisti variopinti.
La mamma non era venuta. Al telefono mi aveva
detto che non le andava di venire al mare d'estate per-
ch‚ poi ne avrebbe sentito una nostalgia incredibile e
avrebbe pianto in continuazione. Sarebbe venuta con
pi calma all'inizio dell'autunno per il trasloco, forse
perch‚ voleva vedere con i suoi occhi la morte della
pensione Yamamoto. Pap, invece, voleva venire a tutti
i costi, anche da solo. Sognava di poter trascorrere le
vacanze con la sua "figliola cresciuta" e cosć era venu-
to con l'intenzione di fermarsi per la notte. Mi sembra-
va un po' strano che tutto fosse cambiato in quel mo-
do. Era trascorso talmente poco tempo da quando ogni
fine settimana veniva da Tokyo per vedere me e la
mamma. Gi, d'estate, quando ero piccola, mi piaceva
da morire stare seduta sotto il sole, su degli scalini di
cemento, con il cappello in testa e i sandali ai piedi, ad
aspettare l'autobus con cui sarebbe arrivato. Soffriva
il mal di mare e quindi non prendeva mai la nave.
Aspettavo con ansia la scena dell'incontro del padre
con la figlia che vivevano separati. Di solito la mamma
era impegnata con il lavoro, cosć che andavo sempre io
a prenderlo a mezzogiorno. Cercavo il suo viso ai fine-
strini degli enormi autobus che arrivavano uno dopo
l'altro.
Succedeva la stessa cosa anche in autunno e in in-
verno, ma se cerco di ricordarmene, mi sembra che
fosse sempre estate. Sotto i raggi abbaglianti del sole,
scendeva dall'autobus tutto sorridente.
Pap portava un paio di occhiali da sole da ragaz-
zino; quando lo vidi, provai uno shock tale che, d'im-
provviso, ripiombai nei miei diciannove anni. Mi alzai
e gli andai incontro. Faceva talmente caldo che tutto
quanto intorno sembrava un sogno. Ebbi un giramen-
to di testa e per qualche istante non riuscii ad aprire
bocca.
"Ah, l'odore del mare!" disse il pap, quasi con un
sospiro, mentre i capelli sulla fronte gli si scompiglia-
vano al vento.
"Benarrivato," gli dissi.
"Cosć nera, sembri di nuovo una del posto""
"E la mamma?"
"Ha detto che proprio non se la sentiva ed Š rima-
sta a casa a riposare. A proposito, ti manda i suoi sa-
luti."
"Ero sicura che non sarebbe venuta. Anche la zia ne
era certa. Era da un pezzo che non venivo a prenderti
alla stazione dei pullman, eh?"
"E vero," rispose pap, praticamente bisbigliando.
"Cosa vuoi fare? Adesso devi andare a mettere gi i
bagagli e a salutare la zia e gli altri, no? Dopo ti va di
andare a fare un giro in macchina?"
"No, ho voglia di nuotare," rispose. Lo disse con
una chiarezza e un'eccitazione tali che subito capii con
quanta ansia dovesse avere aspettato quella vacanza.
"Sono venuto soprattutto per farmi delle belle nuo-
tate."
In passato, pap non faceva mai il bagno.
Come se non avesse voluto che neppure il mare
s'intromettesse nei momenti che trascorreva con noi.
Come se avesse temuto che la nostra breve serenit fa-
miliare potesse dissolversi alla luce del sole, nell'andi-
rivieni della gente. Nonostante fosse l"'amante", la
mamma non aveva affatto paura di farsi vedere dalla
gente e cosć, la sera, quando finiva il lavoro in cucina,
si sistemava i capelli, si cambiava d'abito e usciva a
passeggio con lui portandosi dietro anche me. Per noi
tre, camminare sulla spiaggia nel buio della sera era
una felicit immensa. Guardavo le ombre delle libellu-
le che danzavano nel blu del cielo, mentre mangiavo il
gelato che mi facevo comprare. Il pi delle volte il ma-
re era calmo; il calore che si sprigionava dalla sabbia
aveva un odore molto forte di sale. Chiss perch‚, il
gelato aveva sempre un sapore indefinito. Il viso della
mamma, illuminato dalle ultime nuvole rimaste a occi-
dente, appariva leggermente sfumato e, al tempo stes-
so, bellissimo con i suoi lineamenti delicati. La presen-
za del pap, che camminava al suo fianco, era talmente
reale da rendere difficile pensare che fosse appena ar-
rivato da Tokyo.
Nelle insenature meno frequentate dalla gente, il
vento disegnava degli stemmi sulla sabbia e il mugghio
delle onde era talmente forte da dare quasi fastidio.
E molto triste che ci siano persone costrette a par-
tire in continuazione. Ogni volta che pap se ne anda-
va, in un certo senso, un'ombra sfumata, un presagio
di morte, mi faceva provare delle amare sensazioni.
I lunedć mattina, quando mi svegliavo, pap era gi
sparito senza lasciare alcuna traccia. In quei momenti,
uscire dal futon mi faceva una paura terribile. Non vo-
levo arrendermi all'evidenza dei fatti e cosć cercavo di
prendere tempo, chiedendo alla mamma dove fosse fi-
nito. Poi, non appena mi riaddormentavo, cadevo in un
sonno odioso e desolato, fintanto che la mamma veniva
a tirarmi via le coperte di dosso e, con un sorriso, mi
diceva:
"Su alzati, altrimenti farai tardi per la ginnastica!".
Il bagliore di quel viso sorridente mi richiamava
alla vita di ogni giorno e mi faceva sentire un po' pi
sollevata.
"E il pap?" chiesi una mattina alla mamma, con la
voce ancora mezzo addormentata. Il suo viso sembr•
rattristarsi un poco, ma, con il sorriso di sempre, mi
rispose:
"E gi tornato a Tokyo".
Con gli occhi pieni di sonno, mi persi per qualche
istante a fissare fuori dalla finestra, al di l delle zanza-
riere, e pensai al pap. A quando ero andata a prenderlo
alla stazione, al caldo che aveva patito la mia mano nel-
la sua, al suo sorriso innocente, al panorama delle sere
in cui eravamo usciti tutti e tre insieme.
In quel periodo, Yoko veniva a chiamarmi ogni gior-
no, e insieme, approfittando del fatto che non faceva an-
cora caldo, andavamo ai giardini per seguire il corso di
ginnastica che trasmettevano alla radio.
Guardavo il pap mentre spariva tra le onde al lar-
go, e d'improvviso mi ricordai di una mattina come
quella.
Arrivammo in spiaggia e lui proprio non ce la fece
ad aspettare: un attimo dopo essersi messo in costume,
corse verso la battigia e mi grid•:
"Maria, io intanto vado avanti!". Lo osservai entrare
in acqua e rimasi di stucco, accorgendomi che la forma
delle sue braccia, dai gomiti in gi, era identica alla
mia. Non c'erano dubbi: quell'uomo era mio padre, pen-
sai mentre mi spalmavo la crema protettiva.
Il sole era alto nel cielo e in spiaggia ogni cosa era
esposta ai suoi forti raggi. Pap era entrato in quel lago
senza onde, lamentandosi come un bambino per la tem-
peratura dell'acqua. Ormai la sua figura si era fatta pic-
cola piccola, ed era sul punto di sparire. Sembrava qua-
si che venisse trascinato al largo dalla corrente. Quell'e-
norme distesa blu senza fine finiva col divorare dentro
di s‚ coloro che vi si avventuravano da soli. Mi alzai e
anch'io entrai in acqua con l'intenzione di raggiungerlo.
Adoravo l'istante in cui la pelle si abituava all'acqua,
quella stessa che all'inizio sembrava talmente fredda da
farti battere i denti. Alzai lo sguardo verso il cielo: le
montagne che circondavano la baia sul fondo splende-
vano di un verde brillante. Mentre il mare era di un ver-
de molto pi intenso e chiaro al tempo stesso.
Pap si era spinto molto in avanti. Era ancora gio-
vane, ma abbastanza maturo per mettere su famiglia,
pensai. Scorsi la sua testa: era vicinissima, solo qual-
che metro pi in l. Sembrava che potesse sparire da
un momento all'altro tra gli spruzzi di un'onda e l'al-
tra, con il mare che abbagliava sullo sfondo. Mentre
nuotavo, il mio animo si riempć di una serie di preoc-
cupazioni del tutto inspiegabili. Forse la colpa era del-
l'acqua fredda o del fatto che non si toccava pi da un
bel pezzo. Forse le nubi che cambiavano forma a ogni
batter d'occhio, e l'intensit di quei raggi del sole, sti-
molavano il mio animo a quel tipo di pensieri. Di quel
passo l'avrei perso di vista; pap, trasportato al di l
delle onde, non ce l'avrebbe pi fatta a tornare indie-
tro e sarebbe annegato... No, assolutamente no. Non
poteva essere una cosa cosć automatica. A dire il vero
non avevo ancora capito fino in fondo il significato del-
la nostra nuova vita a tre. In mezzo al mare, immersa
in quella distesa d'acqua da cui spuntavano delle ban-
dierine rosse agitate dal vento, la nostra casa di Tokyo
sembrava soltanto un sogno. Tra una bracciata e l'al-
tra, trovai pap che mi nuotava davanti agli occhi. An-
che quella vista faceva parte di quel sogno. Forse non
mi rendevo ancora conto con esattezza dei cambiamen-
ti che c'erano stati, e dentro di me, con tutta probabili-
t, continuavo a essere la ragazzina che ogni fine setti-
mana aspettava l'arrivo di pap. Una volta che era ar-
rivato con la faccia stravolta per il troppo lavoro, la
mamma gli aveva detto sorridendo e con un tono di vo-
ce per niente ironico o preoccupato:
"Se anche ti dovesse venire un infarto, cosć come
siamo messi adesso, non potrei nemmeno venire a To-
kyo per assisterti, non parliamo se poi dovessi morire,
proprio mi risulterebbe impossibile venire al tuo fune-
rale. Quindi, mi raccomando, vedi di avere cura della
tua salute".
Anche se ero ancora una bambina, capii che quanto
gli aveva appena detto era vero. Sć, in quel periodo, pa-
p per me era una persona che sarebbe potuta sparire
in qualsiasi momento.
Nel frattempo lui si era voltato verso di me e, soc-
chiudendo gli occhi per la troppa luce, aveva smesso di
nuotare. L'avevo seguito con ogni sforzo, aprendomi
un varco tra le onde. Mi venne vicino e mi disse: "Ti
stavo aspettando".
Il sole sfolgorava in un cielo di scintille talmente
sfavillanti da far mancare il fiato. Nuotando fianco a
fianco, ci dirigemmo verso le boe.
L'indomani mattina avrebbe preso lo Schinkansen
con una montagna di stoccafissi e di molluschi sotto il
braccio, cosć tanti da non riuscire quasi a portarli. E
la sera, poi, in cucina, la mamma gli avrebbe chiesto
come stavamo io e tutti gli altri, mentre volgendogli le
spalle preparava la cena. Quelle immagini galleggia-
vano sull'acqua come un debole miraggio, e mi fece-
ro capire di essere una ragazza molto felice. Sć, an-
che se perdevo per sempre la casa in cui ero cresciuta,
ormai avevo gi un altro tetto sicuro sotto cui trovare
riparo.
Dopo il bagno, mi misi a riposare al sole, quando
all'improvviso sentii la pianta di un piede nudo pestar-
mi il palmo della mano. Aprii gli occhi e vidi Tsugumi
che mi guardava dall'alto. Controluce, la sua pelle
bianca e i suoi grandi occhi lucenti mi abbagliarono.
"Cosa ti salta in mente di pestarmi la mano cosć,
tutt'a un tratto?" le dissi e, rassegnata, mi tirai su.
Alla fine, lei si decise a togliere quel suo piede tie-
pido dal mio palmo e si rimise il sandalo.
"Dovresti ringraziarmi che non te l'ho pestata diret-
tamente con il sandalo."
Pap, che stava prendendo il sole al mio fianco, si
alz• e la salut•:
"Ciao, Tsugumi!".
"Ciao, zio! Come stai?"
Tsugumi gli fece un gran sorriso, e si mise a sede-
re accovacciata al nostro fianco. Era da un pezzo che
non la vedevo.pi salutare cosć educatamente qualcu-
no, dai tempi della scuola. Quella scena mi fece torna-
re alla mente la sua immagine con indosso l'uniforme
alla marinara. A scuola, il suo passatempo favorito
era quello di fingersi una ragazzina perbene. Per un
istante pensai che se per caso Kyoichi avesse frequen-
tato la nostra stessa scuola, forse si sarebbe subito ac-
corto di lei. Sć, sarebbe andata sicuramente cosć. Lui,
proprio come lei, aveva una sensibilit poco equilibra-
ta, tipica di chi nella vita finisce col concentrare tutte
le proprie forze in un'unica cosa. Persone di quel tipo
riuscirebbero a trovarsi tra di loro anche a occhi ben-
dati.
"Dove vai, Tsugumi?" le chiesi. Il vento soffiava for-
te e la sabbia intorno ai miei piedi si alzava nell'aria.
"Ho un appuntamento segreto con il mio amante.
Qualcosa in contrario?" disse con un sorriso raggiante.
"Sai, non mi trovo molto a mio agio in mezzo a un pa-
dre e a una figlia che poltriscono in riva al mare."
Io come al solito me ne stetti zitta, ma pap che, in-
vece, non era molto abituato al suo genere di battute,
le rispose un po' imbarazzato:
"Quando si vive cosć lontani, va a finire che la pro-
pria figlia, ormai cresciuta, diventa una sorta di fidan-
zata. Se hai ancora un po' di tempo, perch‚ non ti met-
ti a sedere qui a guardare il mare con noi?".
"Vedo che dici sempre le stesse battutacce, eh?
Beh, mi siedo un po'! Tanto sono in anticipo: ero tal-
mente impaziente che non ce la facevo pi a stare in
casa," disse lei, poi si sedette su un sacchetto di plasti-
ca e si mise a guardare il mare. Dietro di lei, agitati
dal vento, i bordi di un ombrellone che risaltava nel-
l'azzurro del cielo sventolavano impazziti. Era una vi-
sta talmente vivace che non riuscivo a distogliere lo
sguardo, come se ne fossi stata ipnotizzata. E il mio
cuore era sul punto di spiccare il volo.
"Cosć, Tsugumi, ti sei innamorata," disse il pap.
Lui era molto gentile. In passato, era stato c•stretto
dagli eventi della vita a contenere la sua gentilezza, ma
ora che aveva raggiunto la pace, sembrava sereno e al-
legro proprio come i monti che splendevano laggi,
esposti ai raggi del sole. Il fatto che riuscisse a mostra-
re il suo valore nel momento in cui c'era qualcosa da
risolvere, mi sembrava un'ottima, una sacrosanta cosa.
"Penso proprio di sć," rispose lei. Poi si sdrai• al
mio fianco e, senza farsi tanti problemi, appoggi• la te-
sta sulla mia borsa.
"Guarda che se prendi il sole, poi ti torna la feb-
bre," le feci notare.
"Le ragazze quando sono innamorate diventano ro-
bustissime," mi rispose ridendo, io presi il mio cappel-
lo e glielo appoggiai sul viso.
"Ah ah, se sono arrivata sana e salva fino a questa
et, se ho una pelle cosć chiara, e se ho potuto apprez-
zare la cucina di mia madre, Š per merito delle tue
premure, mia cara Maria," disse Tsugumi e si mise il
mio cappello.
"Adesso stai bene di salute, vero?" le chiese pap e
lei gli rispose:
"Sć, grazie al cielo".
C'era qualcosa di strano in noi tre, in fila a guarda-
re quel cielo in cui, di quando in quando, passavano
delle rare nuvole sottili.
"Sei proprio cosć innamorata?"
"Beh, certo, mai quanto te. Sai quando facevi anco-
ra il 'marito del fine settimana', mi chiedevo spesso co-
me sarebbe andata a finire la vostra storia, e invece
tutto si Š risolto nel migliore dei modi..""
Loro due andavano molto d'accordo. Il padre di
Tsugumi era una di quelle persone che mancano di ela-
sticit al punto da andare su tutte le furie alla minima
battuta. Mi era capitato pi di una volta di assistere a
scene in cui lo zio improvvisamente si alzava da tavola
e se ne andava senza dire una parola. Chiaramente
Tsugumi era cresciuta fregandósene completamente.
Pap, invece, non che fosse la persona pi risoluta di
questa terra, per• sapeva distinguere chiaramente il be-
ne dal male. Per cui capiva alla perfezione che in lei non
c'era nessun intento malevolo. Ascoltavo con un certo
affetto la loro tenera conversazione.
"Certo, c'Š anche chi proprio non riesce a piantare
tutto quando Š a met di una storia, per•, sai, credo che
molto dipenda dal livello della nuova persona che si Š
incontrata," disse il pap.
"Beh, senza dubbio, la zia ha un carattere molto for-
te, ed Š anche una donna molto bella. Io, per•, pensa-
vo davvero che sarebbe rimasta qui per sempre e che
tu ti saresti accontentato di venire a trovarla durante
i week-end. D'altra parte cosć vuole la legge degli aman-
ti, no?"
"Se avessimo visto la fine vicina, forse sarebbe anda-
ta come dici tu," le rispose seriamente pap. Non sem-
brava che stesse parlando a sua nipote, ma alla dea del-
la fortuna in persona.
"Per quanto uno possa invecchiare, l'amore Š qualco-
sa che nel momento in cui te ne rendi conto, ormai lo
stai gi vivendo. Ce ne sono di due tipi, quelli di cui si
riesce a vedere la fine e quelli di cui non Š possibile.
Siamo soltanto noi stessi che possiamo dire di quale dei
due si tratti. Il fatto che non si riesca a vedere la fine, Š
il segno che si tratta di qualcosa di enorme. Per esem-
pio, io, quando ho conosciuto la mia attuale moglie, tua
zia, all'improvviso ho sentito dentro di me che quella
con lei sarebbe potuta essere una storia dal futuro illi-
mitato. Quindi, forse, avrei fatto bene a non mettermici
insieme."
"E di me, cosa ne sarebbe stato?" dissi io, tanto per
scherzare.
"Poi sei nata tu e adesso siamo felici, no?" Pap si
stir• come un ragazzino, e in un solo sguardo abbracci•
mare, monti e cielo. "Insomma, Š quasi inutile che lo di-
ca: per me, questo Š il massimo della vita!"
,
"Sai zio, mi fa morire il tuo modo di concludere i
discorsi, cosć rozzo! Sei una delle rare persone che
riesce a farmi diventare dolce," gli disse Tsugumi con
aria serena. Pap sorrise e, tutto felice, le chiese:
"Immagino che tu abbia sempre avuto molto suc-
cesso con i ragazzi! Questa volta, senti di esserti inna-
morata come mai fino a ora, o no?".
Lei chin• leggermente la testa, e disse quasi bisbi-
gliando, sussurrando:
"Mah, questa storia mi sembra uguale alle altre,
ma anche un po' diversa. Sai, fino a ora qualunque
cosa succedesse, se anche il mio ragazzo mi scoppiava
a piangere davanti agli occhi, o se mi chiedeva di po-
termi prendere per mano o di toccarmi, per quanto
lui mi potesse piacere, mi sembrava di non prendere
parte a quanto stava succedendo. Come se mi fossi
trovata sulla riva di un fiume a osservare un incendio
scoppiato sulla sponda opposta. Stavo lć a guardare fi-
no a che non si spegneva il fuoco, cosć annoiata che
quasi mi addormentavo. E puntualmente quella era la
fine della storia. Mi chiedo che cosa mai mi aspettassi
da quel tipo di amori".
"E' normale che sia andata cosć! Se uno non riesce
a ricevere quello che ha dato, prima o poi se ne va di
certo," disse pap.
"Questa volta, invece, mi sembra di avere un ruolo
pi attivo all'interno del rapporto. Che sia merito dei
cani o del fatto che in autunno me ne andr• da que-
sto paese, proprio non so dirlo, comunque, con Kyo-
ichi Š diverso che con gli altri. Ogni volta che esco
con lui, non mi annoio mai; mi piace cosć tanto che
quando lo guardo negli occhi, mi viene voglia di
spiaccicargli un gelato in faccia, o di sporcargliela
con qualcos'altro."
"Non credo che gli farebbe piacere, sai," le dissi
con una punta di tristezza. Sotto la pianta dei piedi,
dei caldi granelli di sabbia giocavano a farmi solleti-
co. Stimolata da quella piacevole sensazione e dal ru-
more monotono delle onde, pregai perch‚ Tsugumi
potesse avere un• splendido futuro.
"Tsugumi, Tsugumi..." sospir• pap. "Prima o poi
me lo farai conoscere, il tuo ragazzo, vero?" E lei fece
di sć con la testa.
Il giorno seguente andai all stazione ad accompa-
gnare pap che tornava a Tokyo con un pullman di-
retto.
"Salutami la mamma," gli raccomandai e lui mi ri-
spose di sć. Come previsto, aveva comperato tutti i pro-
dotti del luogo possibili e immaginabili, in una quanti-
t tale da non riuscire a portarli nemmeno con en-
trambe le braccia, ma soprattutto da chiedersi chi mai
avrebbe mangiato tutta quella roba. Forse la mamma
si sarebbe presa la briga di distribuirne un po' al vici-
nato. E dentro di me quella scena si impresse in una
maniera molto distinta. Cosć come l'immagine delle
strade di Tokyo, della tranquilla cenetta che avrebbero
consumato i miei quella sera, e il rumore dei passi di
pap che tornava a casa.
Illuminato dal sole della sera, l'autobus rifletteva
dei raggi di un colore arancio accecante. Come per
l'andata, entr• nella stazione molto lentamente, si fer-
m• per far salire i passeggeri e altrettanto lentamente
se ne and• per la strada da cui era venuto. Pap conti-
nu• a salutarmi con la mano, all'infinito.
Nella luce del crepuscolo, camminavo da sola nella
direzione della pensione, ed ero un po' triste. Volevo
imprimere nel mio cuore la fatica che si provava an-
dando avanti e indietro per la strada che conduceva a
quel paese, paese che alla fine dell'estate avrei perduto
definitivamente. Proprio non volevo dimenticare nessu-
na delle separazioni che riempivano la mia vita, nume-
rose come le forme in cui, di momento in momento,
cambiava il cielo sul volgere della sera.




La festa dell'estate.

Nel periodo in cui il numero di turisti raggiungeva
la punta massima, nel paese si svolgeva la festa dell'e-
state. Si trattava principalmente di un avvenimento or-
ganizzato per la gioia degli abitanti del luogo. Nata in-
torno al grande tempio shintoista su in montagna, ave-
va delle diramazioni sulla piazza principale in cui si al-
lineavano decine di bancarelle e al cui centro veniva
allestito un palco per l'esecuzione delle musiche sacre
e delle danze tradizionali, e sulla spiaggia, dove, inve-
ce, aveva luogo un imponente spettacolo di fuochi d'ar-
tificio.
Proprio nei giorni in cui tutti si davano da fare per
i preparativi, i primi segnali dell'autunno cominciava-
no a farsi vedere. I raggi del sole continuavano a esse-
re forti, mentre il vento si faceva un po' pi moderato
e la sabbia diventava fredda. La pioggia intrisa dell'o-
dore di umido delle nuvole bagnava in silenzio le bar-
che ferme sulla riva. Cosć pian piano l'estate usciva di
scena.
Qualche giorno prima della festa, la verit Š che ero
uscita un po' troppo, mi venne improvvisamente la feb-
bre e caddi a letto malata. Tsugumi subito dopo di me.
La povera Yoko andava avanti e indietro dalle nostre
stanze per portarci, che so, la borsa del ghiaccio o il ri-
so in brodo, proprio come una vera infermiera. E ogni
volta mi diceva: "Mi raccomando, devi fare in modo di
guarire in tempo per la festa!".
Di solito non mi veniva mai la febbre, cosć che
quando seppi di avere superato i trentotto gradi, mi
presi una bella strizza. In quelle condizioni non mi ri-
maneva che cercare di riposare il pi possibile.
Un giorno, verso sera, Tsugumi aprć il fusuma della
mia camera ed entr• senza dire una parola, come sem-
pre, del resto. Stavo fissando l'infinita distesa del cielo
fuori dalla finestra, rosso da far paura. Mi sentivo
molto debole, e proprio non mi andava di starla a sen-
tire, cosć non la degnai nemmeno di uno sguardo e
continuai a contemplare il tramonto.
"Hai la febbre?" mi chiese dandomi un calcio nella
schiena. Rassegnata, mi girai e la guardai in faccia.
Aveva i capelli raccolti a coda di cavallo, un pigiama
azzurro indosso e sembrava in grande forma.
"Tu, piuttosto, ce l'hai ancora?" controbattei io.
"Sć, ma per me trentotto Š una temperatura norma-
le," rispose lei con un sorriso, poi mi afferr• la mano
che avevo fuori dalle coperte, e disse: "Ah, siamo pi o
meno calde uguali".
Di solito, quando aveva la febbre, le sue mani erano
sempre bollenti, in quel momento, per•, non mi sem-
brarono affatto tali.
"Certo che tu ormai sei abituata, eh?"
Al solo pensiero che lei normalmente se ne andasse
in giro in quelle condizioni, mi commossi. Quando ti
senti ardere dentro, il mondo fuori sembra fluttuare
nel vuoto. Il corpo si fa pesante, lo spirito prende il vo-
lo, e si continua a pensare con attenzione a cose che di
solito si trascurano.
"Sć, per•, non ho forze, e allora mi stanco subito,"
disse accovacciandosi di fianco al mio futon.
"Allora, Š tutta forza di volont quella che hai in ec-
cesso?" le chiesi ridendo e lei, facendosi trascinare dal-
la mia risata, mi rispose:
"Dovresti farmi i complimenti che riesco a vivere
anche soltanto grazie a quella!".
Quell'estate Tsugumi era pi bella che mai. Con la
sua bellezza, riusciva a dare la luce a un numero infi-
nito di istanti in cui chiunque ne sarebbe rimasto in-
cantato. Quella sua espressione di buon umore, per
esempio, aveva un che di prezioso e di immacolato si-
mile alla neve sottile che si trova sulle vette dei monti.
"Non trovi che quando si ha la febbre, tutto intorno
sembri strano? E una sensazione che adoro," disse soc-
chiudendo gli occhi con una certa grazia. Come una
piccola bestiola che gioisce per aver trovato un compa-
gno di giochi.
"E' vero, le cose sembrano pi vivaci," risposi.
"Le persone che soffrono di ipertermia come me, al-
ternano in continuazione i momenti di lucidit a quelli
di delirio, no? Alla fine non capisci pi quale dei due
sia il mondo reale, e cosć finisci col vivere la vita a una
velocit super."
"E per questo che allora tu sei sempre su di giri co-
me se fossi ubriaca?"
"Sć, Š cosć."
Tsugumi mi sorrise, si alz• e, all'improvviso, uscć
dalla stanza. E per qualche istante, la sua immagine di
spalle rimase impressa nel mio animo con grande chia-
rezza.
Prima della sera della festa, sia io che mia cugina
ci ristabilimmo completamente. Decidemmo di uscire
in quattro: Tsugumi, Kyoichi, io e Yoko. Tsugumi era
al settimo cielo, perch‚ avrebbe fatto da guida a Kyo-
ichi per tutto il paese.
Era passato un anno dall'ultima volta in cui ci era-
vamo aiutate a vicenda a indossare lo yukata. Sapeva-
mo come si annodava un obi, ma non riuscivamo a
mettercelo da sole. Spiegammo gli yukata sui tatami
del salone, e, circondate da quelle fantasie a fiori bian-
chi che risaltavano chiare sullo sfondo blu delle stoffe
vi abbinammo dei modesti obi dai colori vivaci. A Tsu-
gumi, ne annodai uno rosso. In quel momento mi resi
davvero conto di quanto esile fosse. Per quanto glielo
stringessi, rimaneva sempre dell'agio. Al punto che eb-
bi l'impressione che le mie mani stessero stringendo
soltanto aria.
Finimmo di cambiarci e scendemmo a vedere la Tv
nella reception, quando Kyoichi arriv• a prenderci. In-
dossava i vestiti di sempre, tanto che Tsugumi gli die-
de il benvenuto dicendogli: "Vedo che non hai capito
un bel niente dello spirito della serata, eh?" ma lui la
interruppe facendole notare che aveva i geta ai piedi.
In quei suoi grandi piedi nudi, c'era qualcosa di estivo.
Tsugumi lo prese per mano e, senza nessun riguardo
per lo yukata che indossava, lo tir• come una bambina,
dicendo:
"Di, veloce, andiamo, ch‚ voglio vedere le banca-
relle prima che incomincino i fuochi d'artificio!".
"Che cosa ti sei fatto, Kyoichi?" Prima che Yoko
glielo chiedesse, proprio non me n'ero accorta. Sotto la
debole luce dell'ingresso, vidi che aveva un livido sotto
l'occhio, ormai in fase di guarigione.
"Pap ha scoperto che se la faceva con me, e l'ha
preso a botte," disse Tsugumi e lui conferm• con un
sorriso amaro:
"Sć, Š vero!".
"Cosa! ?!" Non potei fare a meno di esclamare.
"Ma figurati! Io non ne so niente. E poi t'immagini
se mio pap Š capace di provare un sentimento cosć
forte!" Tsugumi disse quella triste verit con il sorriso
sulle labbra e noi uscimmo dalla pensione senza fare
ulteriori domande.
Passammo per la spiaggia, mentre la via lattea bril-
lava nella volta celeste. Per tutto il paese si sentiva la
musica della festa, diffusa dagli altoparlanti e traspor-
tata dal vento. Il mare sembrava pi scuro e agitato
del solito, forse perch‚ la spiaggia era illuminata dalle
lampade sistemate lungo tutta la costa. Nel buio, le
persone camminavano con una lentezza eccessiva, al
di l di qualunque necessit, quasi volessero godersi
l'estate fino all'ultimo istante. C'era gente ovunque,
anche nel pi stretto dei vicoli, tanto che ebbi l'im-
pressione che il paese intero fosse uscito di casa.
Quella sera incontrai molti amici di vecchia data.
Delle elementari, delle medie e delle superiori.
Tutti cambiati, ognuno in maniera differente, mi sem-
bravano i personaggi di una visione. Cercavo di ricol-
legare quei volti, ma era come se frugassi a vuoto nel-
la confusione della mia memoria. Ci si incrociava
scambiandosi sorrisi, saluti e brevi convenevoli. Il
suono del flauto, i ventagli e la brezza del mare flut-
tuavano nell'aria trascinati dalla corrente come dei to-
ro, e si riflettevano nel buio della notte.
Fintanto che non arrivava il giorno della festa, non
riuscivo a rievocare l'atmosfera di quella notte. Se
mancava anche soltanto qualche particolare insignifi-
cante, non era possibile ricordare "quella sensazione",
quell'immagine perfetta. Chiss se il prossimo anno di
questa stagione sar• di nuovo da queste parti? Oppu-
re se sar• sotto il cielo di Tokyo a sforzarmi inutil-
mente di ricordare questa festa tanto cara?
Pensai, mentre camminavamo tra le bancarelle.
Lungo la processione di visitatori diretti al padi-
glione principale del tempio, accadde un piccolo inci-
dente. Tsugumi non sopportava le file, e cosć ci propo-
se di saltare il momento di preghiera, ma sia io che
Yoko le rispondemmo, risolute pi che mai:
!Almeno per questa volta, non si accettano varia-
zioni nel programma!".
Non potendo fare altrimenti, si mise in fila con noi
e cominci• a dire tutta una serie di cose imperdonabi-
li del tipo:
"Ma voi credete ancora a Dio? Sul serio? Alla vostra
et? Qui si fa l'offerta, si congiungono le mani, e poi, co-
sa succede?". -
Kyoichi alternava momenti di riso ad altri di silen-
zio; quel suo modo di tacere era talmente autentico, che
riusciva ugualmente a testimoniare la sua presenza.
Tsugumi sapeva molto bene fino a che punto avrebbe
potuto fare e dire quello che le passava per la testa. Era
bravissima a conquistare le persone in quel modo, per
lei era una cosa assolutamente indispensabile.
All'interno del cortile del tempio, la confusione era
enorme: la coda di persone arrivava fino alla scalinata
principale. E tra l'incessante suono delle campanelle e
delle monetine gettate in offerta, la fila pian piano anda-
va accorciandosi. Aspettavamo che arrivasse il nostro
turno parlando del pi e del meno, quando d'un tratto
un gruppo di ragazzi pass• attraverso la gente, spezzan-
do la coda. Eravamo gi talmente schiacciati che pro-
prio quello non ci voleva. Senonch‚ uno di loro si fece
largo tra Tsugumi e Kyoichi con uno spintone. Era il
classico "teppista" da quattro soldi con al seguito altri
due o tre tipi come lui.
Noi per un istante restammo confusi: quello non era
certo il modo ideale per passare tra la folla. La reazione
di Kyoichi, per•, non fu affatto moderata. All'improvvi-
so si tolse un geta e, mentre quello era di spalle, lo colpć
sulla testa cosć forte che fece rumore.
Restai senza parole.
Il ragazzo grid•: "Ahiah!" e si coprć la testa con le
mani. Quando si gir• e vide Kyoichi, sbarr• gli occhi e
se la diede a gambe levate. Lui e il resto della banda cor-
sero verso la scalinata, spingendo a destra e a sinistra, e
sparirono in un batter d'occhio.
Negli istanti in cui si svolse quella scena, sino a
quando i teppisti se ne furono andati, il chiasso tutt'in-
torno si arrest•. Poi le persone ripresero a far rumore,
proseguendo il cammino.
Le uniche che continuavano a essere senza parole,
eravamo noi.
Fu Tsugumi a rompere il silenzio.
"Kyoichi! Va bene che ci sono venuti addosso, ma
guarda che... nemmeno io reagisco in quella maniera!"
Io e Yoko scoppiammo a ridere sentendo quelle pa-
role, lui, invece, le rispose:
"Ti sbagli".
Sotto il peso del nostro sguardo, il suo volto si fece
scuro e la sua voce seria. Subito dopo, per•, il tono tor-
n• chiaro e aggiunse:
"Sono stati loro a farmi questo!" e indic• il livido
che aveva sotto l'occhio. "Era buio quando mi sono sal-
tati addosso all'improvviso. Ce l'ho messa tutta per cer-
care di vedere le loro facce. Sono sicuro che quello di
prima era uno di loro."
"Ma per quale motivo?" gli chiesi io.
"Sai, mio padre non gode di un'ottima fama in que-
sto paese. Dopo tutto il nostro hotel ha fatto alzare il
costo della terra. E poi Š chiaro: Š arrivato qui un bel
giorno, senza conoscere nessuno e ha costruito un al-
bergo enorme che molto probabilmente porter via i
clienti a tutti gli altri. E inevitabile, per qualche tempo
saremo esposti a ogni tipo di critica. Era una cosa che
sapevamo benissimo sin dal principio, sia io che i miei.
Fra una decina di anni, sono sicuro che le acque si sa-
ranno calmate."
"Tu per• non c'entri proprio un bel niente!" gli dis-
si. Tuttavia, mentre glielo dicevo, ebbi la sensazione
che dentro di lui si nascondesse qualcosa che potesse
suscitare l'invidia delle persone. Andava in giro tutto il
giorno da solo con il cane a contemplare il panorama
del paese in cui avrebbe passato il resto della sua vita,
stava da mesi in albergo, e in quattro e quattr'otto era
riuscito ad accaparrarsi la ragazza pi bella del posto,
almeno secondo quanto si diceva in giro. E in futuro,
l'enorme hotel che di lć a poco avrebbero terminato, sa-
rebbe diventato suo. E inutile, il mondo Š pieno di gen-
te che odia questo tipo di persone. Doveva essere pro-
prio cosć.
"Non ti devi preoccupare!" gli disse Yoko. "Non
pensare che te lo dica perch‚ fra poco ce ne andremo
da qui, ma tu a mia mamma sei piaciuto molto. Pensa
che l'altro giorno l'ho sentita dire a pap che il turi-
smo di questo paese sarebbe andato a gonfie vele, se le
redini fossero state in mano a un ragazzo come te. E
poi, anche i signori della pen'sione dove stai adesso, il
Nakahama, ormai sanno benissimo di chi sei figlio, ep-
pure sono molto carini sia con te che con Gongoro, no?
Va bene che tu li aiuti parecchio. Se in un'estate sei
riuscito a farti cosć tanti amici, proprio non ti devi
preoccupare. Quando ti trasferirai qui una volta per
tutte, verrai accettato subito come uno del posto."
Yoko parl• con un fervore tale, che quasi ne ebbi
paura, quelle sue frasi contenevano un che di commo-
vente. Kyoichi disse soltanto: "Speriamo..." e io annuii
in silenzio. Guardai Tsugumi che era rimasta zitta dal-
l'inizio alla fine, e capii che lei, quella piccola spina
dorsale stretta in un obi rosso, aveva ascoltato con
grande attenzione.
Finalmente arriv• il nostro turno. Suonammo le
campanelle e congiungemmo le mani per pregare.
C'era ancora tempo prima che incominciassero i
fuochi d'artificio, cosć che decidemmo di passare dal-
l'albergo di Kyoichi, anche perch‚ Tsugumi voleva gio-
care un po' con il suo cagnolino. Il Nakahama era vici-
nissimo al mare e quindi ci saremmo potuti precipita-
re in spiaggia non appena lo spettacolo fosse comin-
ciato.
Gongoro, che era legato in giardino, quando vide il
suo padrone cominci• a saltare dalla gioia. Tsugumi
corse verso di lui e fregandosene completamente dello
yukata che con l'orlo toccava terra url•:
"Ciao, Gongoro!".
A quella vista, Yoko mi disse perplessa:
"Ma allora a Tsugumi, i cani, piacciono?".
"Sć, solo che non lo sapeva nessuno," le risposi ri-
dendo. Lei si gir• e, leggermente contrariata, ci fece:
"E' perch‚ i cani non tradiscono!".
"Verissimo! Capisco esattamente quello che vuoi di-
re," intervenne Kyoichi, "A volte lo penso mentre cocco-
lo Gongoro, soprattutto quando lo accarezzo sulla pan-
cia. E talmente piccolo che forse prender il cibo dalle
mie mani fino alla morte. E una creatura innocente. Vi-
vr al mio fianco per sempre, incredibile, no? Credo
proprio che sia qualcosa di impossibile per gli uomini."
"Che non tradiscano?" gli chiesi.
"Sai, gli esseri umani vengono a conoscenza in conti-
nuazione di cose nuove, e poco alla volta cambiano. E'
inevitabile, poi, che ne dimentichino o che ne eliminino
Qualcuna. E tutto perch‚ hanno troppe cose da fare."
"Ah, ho capito," risposi.
E Tsugumi, continuando ad accarezzare Gongoro,
disse:
"Ben detto, Kyoichi!".
Il giardino della pensione era pieno di fioriere molto
ben curate. Dalle finestre delle camere, si vedevano pa-
recchie luci accese, e dall'ingresso arrivava il rumore
dei geta della gente che andava e veniva dalla festa.
"oggi le stelle sono bellissime!"
Yoko era a faccia in su a guardare il cielo. Intorno
alla via lattea, la volta celeste era una distesa unica di
astri che emettevano una luce pallida, cosć vicini da
sembrare appiccicati l'uno all'altro.
"Kyoichi, sei tu in giardino?" Alzammo lo sguardo
verso la finestra da cui era uscita quella voce, la cuci-
na. Una signora, che probabilmente lavorava nell'alber-
go, aveva sporto la testa.
"Sć, sono iooo," rispose lui come un ragazzino.
"Ci sono anche dei tuoi amici, vero? Sento le loro
voci," disse la signora.
"Sć, siamo in quattro."
"Allora mangiate questa tutti insieme!" e allung• un
grande piatto di vetro su cui c'erano delle fette di an-
guria tagliate molto sottili.
"Grazie mille, ma non doveva disturbarsi," disse lui
prendendo il piatto.
"Non state lć al buio, andate a mangiarla nella
hall."
"No, grazie, non c'Š bisogno," disse Kyoichi riden-
do. Noi la ringraziammo e cominciammo a mangiare.
La signora sorrise e disse:
"Su, non fare i complimenti, Kyoichi! Sei sempre
cosć gentile ad aiutarci che ti perdono anche il fatto di
essere il figlio del padrone di quell'hotel! Dovete sape-
re, ragazze, che lui Š molto popolare tra di noi. Spero
proprio che quando aprirete ti ricorderai di mandare
clienti anche da noi, eh? Ogni due telefonate che rice-
verai, una la dovrai indirizzare qui. Puoi dire qualcosa
del tipo: 'Purtroppo noi siamo al completo, ma le pos-
so consigliare il Nakahama!"'.
"Va bene, va bene, ho capito," le disse Kyoichi; la
signora si mise a ridere e chiuse la finestra.
"Tu sei il tipo di ragazzo che ha successo anche con
le vecchie, eh?" disse Tsugumi, buttandosi sull'an-
guria.
"Non hai proprio niente di meglio da dire?" la rim-
prover• Yoko, ma lei fece finta di niente e continu• a
mangiare la sua anguria con il succo che le colava ad-
dosso.
"Ma li aiuti davvero tanto?" gli chiesi. Non avevo
mai sentito di un cliente che aiutava nei lavori di una
pensione.
"Sć, sai, non avendo nient'altro da fare, mi metto ad
aiutarli senza nemmeno accorgermene. Pare che siano
a corto di personale, e cosć sono presi fino al collo, so-
prattutto alla mattina e alla sera. In cambio per•, ho
ottenuto che mi facessero tenere il cane, e poi mi of-
frono roba da mangiare in continuazione," mi rispo-
se con un sorriso. Esattamente come aveva detto zia
Masako, se lui era la persona designata a rimanere in
quel paesŠ dopo che noi ce ne saremmo andati, poteva-
mo essere fiduciosi.
L'anguria era molto liquida, ma era dolce al punto
giusto. Accovacciati nel buio, ne mangiammo una fetta
dopo l'altra. Poi ci lavammo le mani con una canna, e
l'acqua gelida-che uscć form• un piccolo ruscello nel
buio della terra. All'inizio, Gongoro ci aveva guardati
con invidia, poi, per•, aveva adagiato sull'erba il suo
corpicino e si era addormentato.
Le cose ci passavano davanti agli occhi, e noi diven-
tavamo grandi. Cambiando in continuazione. E co-
scienti di questo fatto, procedevamo nel nostro cammi-
no. Se, comunque, ne avessimo voluto fermare a tutti i
costi almeno una, senza dubbio, sarebbe stata quella
serata. Straripante in ogni suo punto di una piccola e
serena felicit oltre alla quale non sarebbe servito
nient'altro.
"Quest'anno l'estate Š meravigliosa!" disse Kyoichi.
E Tsugumi, non so se con l'intento di rispondergli, o
meno, disse:
"E le angurie sono buonissime!".
Dopo poco, all'improvviso, botti assordanti rim-
bombarono nel cielo e le grida di gioia della gente si
levarono nell'aria.
"I fuochi!" disse Tsugumi e con gli occhi che le bril-
lavano di colori, si alz• in piedi. Alzammo lo sguardo e
vedemmo i fuochi d'artificio spuntare da dietro la pen-
sione e, tutt'a un tratto, fiorire. Volevamo raggiungere
quegli scoppi che si sentivano con qualche istante di
ritardo, e cosć ci precipitammo in spiaggia.
Niente ostruiva la vista dei fuochi che scoppiavano
sul mare, misteriosi come oggetti spaziali. In silenzio,
l'uno accanto all'altro, guardavamo incantati quella
magnifica sequenza di fiori di fuoco.




Collera.

Quando si arrabbiava sul serio, Tsugumi si faceva di
ghiaccio.
Le succedeva solo nei momenti in cui andava davve-
ro su tutte le furie. Non nei quotidiani attacchi d'ira,
quelli in cui andava in giro sbraitando a destra e a sini-
stra, ma quando fissava qualcosa dal profondo del cuo-
re con lo sguardo pieno d'odio, tanto da trasformarsi in
un'altra persona. Ogni volta che vedevo il suo corpo in-
teramente colorato dai pallidi raggi della collera, di-
menticavo tutto il resto e ricordavo questa frase: "Le
stelle ad alta temperatura emettono raggi azzurrognoli,
non rossi". Prima di quel giorno, nemmeno io, che le vi-
vevo assieme, l'avevo mai vista cosć arrabbiata.
Tsugumi aveva appena cominciato le scuole medie,
quando accadde quell'episodio. Yoko, io e Tsugumi,
avendo un anno di differenza l'una con l'altra, frequen-
tavamo tutt'e tre la stessa scuola.
Era l'intervallo per il pranzo. Pioveva ed era una gior-
nata in cui ogni cosa appariva buia. Non potendo uscire
all'aperto, giocavamo in classe. Gli scrosci improvvisi di
risate, le corse per i corridoi, le grida, la pioggia che ca-
deva a catinelle contro i vetri delle finestre... quei rumo-
ri cosć diversi, risonavano nell'isolamento della scuola
lontani, vicini come il fragore del mare.
A quelli, all'improvviso, se ne somm• uno affilato,
come di vetro andato in mille pezzi:
Craaash
Per un istante tutto tacque, e subito dopo scoppi•
un gran putiferio. Viene dalla terrazza! grid• qualcuno
che era uscito a dare un'occhiata in corridoio, e una
baraonda di studenti annoiati si precipit• fuori dall'au-
la. La terrazza era al secondo piano: dietro una porta
di vetro, c'erano le fioriere con le piante che coltivava-
mo per scienze, le conigliere, sedie avanzate eccetera.
Che si sia forse rotta la porta di vetro? pensai, e senza
rendermene conto mi unii al gruppo.
Tuttavia, quando riuscii a vedere tra quella folla
urlante, rimasi di stucco. Tsugumi era in piedi da sola
in mezzo alle schegge di vetro.
"Ti basta cosć o vuoi un'altra dimostrazione della
mia forza?" disse lei. La voce era praticamente senza
inflessioni, ma piena di determinazione. Cercai di se-
guire la linea del suo sguardo. E trovai una ragazza, in
piedi, con il volto sbiancato. Era una sua compagna di
classe, quella che detestava di pi.
Che cosa Š successo? chiesi a un ragazzo che era lć.
Lui mi disse che non sapeva con precisione, ma che
siccome quella ragazza era stata scelta come marato-
neta al posto di Tsugumi, dopo che lei aveva rinuncia-
to alla nomina, aveva chiamato Tsugumi in corridoio e
aveva fatto dell'ironia sul suo conto, talmente forte era
la rabbia che provava per essere stata nominata sol-
tanto dopo la sua rivale. Tsugumi, allora, senza dire
una parola, aveva preso una sedia in mano, e l'aveva
gettata contro la porta a vetri, mandandola in fran-
tumi.
"Prova a ripetere quello che hai detto prima, se hai
il coraggio!" disse Tsugumi. La ragazza non rispose e i
presenti trattennero il fiato. Nessuno os• andare a
chiamare il professore. Se si fosse leggermente tagliata
con il vetro che lei stessa aveva rotto, non lo so, co-
munque aveva del sangue su una caviglia. Lei, per•,
senza farci affatt• caso, continuava a guardare la sua
rivale dritta in faccia. Mi accorsi che il suo sguardo fa-
ceva davvero paura. Non quella che si prova alla vista
di un delinquente, ma a quella di un folle. I suoi occhi
brillavano sereni, fissando un punto senza confini.
A ben pensarci, da quel giorno in poi Tsugumi fece
in modo di non rivelare la sua'vera natura agli altri,
soprattutto quando era a scuola. Quello fu dunque l'ul-
timo episodio aperto al pubblico. Ero sicura che i ra-
gazzi presenti quella volta non l'avrebbero dimenticato
per tutta la vita. La luce emessa dal suo corpo e quello
sguardo talmente pieno d'odio da poter uccidere la sua
rivale, o addirittura se stessa.
Ruppi il cerchio di persone e le andai vicino. Lei mi
diede un'occhiata molto esplicita, di quelle che si lan-
ciano agli scocciatori da quattro soldi, e dentro di me,
esitai per un istante.
"Tsugumi, su, calmati!" dissi.
Ero sicura che avrebbe voluto essere fermata. Or-
mai non sapeva pi nemmeno lei quello che avrebbe
dovuto fare. Il pubblico si era agitato ulteriormente al-
la mia entrata in scena, tanto che mi sentivo come un
matador davanti al toro.
"Di, torniamo a casa!" La presi per un braccio e
trasalii. I suoi occhi mi fissavano freddi come il ghiac-
cio, mentre il suo braccio era incredibilmente caldo.
Mi stupii nel constatare che, per la collera, le era venu-
ta addirittura la febbre, ma non le dissi niente. D'un
tratto, con una mossa rapida e i nervi saldi, si liber•
della mia presa. Mentre cercavo di riafferrarla per il
braccio, l'altra ragazza alz• i tacchi in un baleno e se
la diede a gambe.
"Fermati!" le grid• Tsugumi mentre io la trattene-
vo. La battaglia stava ormai per cominciare di nuovo
quando Yoko fece la sua apparizione scendendo lenta-
mente le scale.
"Tsugumi, cosa stai facendo?" le chiese venendo
verso di noi. A quel punto capć di essere spacciata e si
arrese. D'improvviso si calm• e con una mano mi sco-
st• pian piano. Yoko vide nell'ordine: i frammenti di
vetro, le persone tutt'intorno, quella mia strana posi-
zione e, con un'espressione confusa, mi chiese:
"Che cosa Š successo?".
E io persi la parola. Avevo la sensazione che avrei
ferito Tsugumi, qualunque cosa avessi detto. Il motivo
del litigio dipendeva dalle sue condizioni fisiche, e io
sapevo benissimo quanto penosa fosse la cosa per lei.
"Dunque..." cominciai e Tsugumi mi interruppe di-
cendo a bassa voce:
"Ormai Š passata, e poi voi non c'entrate".
Era una vóce desolata. Come se non le fosse rima-
sta nemmeno una briciola di speranza. Poi con i piedi
prese a sparpagliare le schegge di vetro e quel rumore
di cocci rotti echeggi• nel corridoio.
"Tsugumi..." disse Yoko e lei, basta, non ne voglio
parlare, poi si mise le mani tra i capelli e cominci• a
tirarli come una furia. Lo fece con una forza tale che,
temendo che le potesse sanguinare il cuoio capelluto,
la fermammo. Quindi, rassegnata, and• in classe, prese
la borsa e uscć di nuovo. Dopodich‚ scese le scale e se
ne torn• a casa.
I curiosi si dispersero, i frantumi vennero raccolti,
e Yoko and• a chiedere scusa al professore di Tsugu-
mi. Anch'io tornai in classe e, al suono della campa-
nella, la lezione incominci• come se nulla fosse stato.
La mia mano, per•, era calda, quasi informicolita. Nel
momento in cui le avevo preso il braccio, vi era rima-
sta la sua febbre. Mi rimaneva un'immagine, come
uno strano riflesso chiaro che non si decideva a spari-
re. Fissai il mio palmo e pensai a lungo alla collera
che "le circolava attraverso il corpo, con una vita au-
tonoma".
"Gongoro Š sparito, credo proprio che sia stato ra-
pito," mi disse Kyoichi al telefono dopo che gli chiesi
cosa fosse successo, dato il tono triste della voce e la
fretta con cui mi aveva domandato se Tsugumi era in
casa. E per un istante vidi l'immagine sgradevole di
quei ragazzi che avevamo incontrato al tempio, quelli
che lo odiavano.
"Come fai a esserne sicuro?" Mentre glielo chiesi
mi resi conto che dentro di me morivo dalla voglia di
raggiungerlo.
"La corda Š stata tagliata di netto," rispose, fingen-
do di avere la situazione sotto controllo.
"Ho capito, vengo subito! Tsugumi Š fuori, Š andata
dal dottore, per• le lascio un messaggio. E tu adesso
da dove stai chiamando?" gli domandai.
"Dalla cabina di fianco all'entrata della spiaggia."
"Resta lć, arrivo subito!" feci io e riattaccai.
Chiesi alla zia di riferire il messaggio a Tsugumi,
svegliai Yoko, la tirai fuori dalla sua camera, e le spie-
gai l'accaduto mentre correvamo per strada. Kyoichi
era in piedi di fronte alla cabina telefonica. Quando ci
vide, la sua espressione del viso si allent• un poco, ma
gli occhi rimasero durissimi.
"Dividiamoci e andiamo a cercarlo!" disse Yoko.
Guardai Kyoichi e di colpo mi resi conto della gravit
della situazione.
"Va bene, io vado verso il centro, e voi cercate sulla
spiaggia. Se anche vedete i tipi che l'hanno portato via,
non dite niente. Io faccio il pi presto possibile," disse
lui. "Abbaiava cosć tanto che ho pensato, che strano, e
sono uscito a dare un'occhiata, ma non c'era gi pi,
cazzo! "
Poi si mise a correre verso l'imbocco del vicolo che
portava in centro.
Io e Yoko prendemmo come punto di riferimento
l'argine che da met della spiaggia si allungava verso
il mare, e ci dividemmo una a destra e l'altra a sinistra
per cercare Gongoro. Ormai stava per scendere la sera.
Nel cielo, le stelle cominciavano ad accendersi nuova-
mente, mentre nell'aria, momento dopo momento, sem-
brava che delle stoffe blu si stendessero una sopra l'al-
tra. In preda al panico, mi misi a chiamare Gongoro ad
alta voce. Correvo e correvo, dissi quel nome non so
quante volte, dal ponte del fiume, all'interno della pi-
neta, ma non ricevetti risposta. Mi venne addirittura
voglia di piangere. Ogni volta che mi fermavo con il
fiatone, la vista mi si oscurava e vedevo l'enorme mare
estendersi all'infinito. Se anche fosse annegato, con
quel buio non lo si sarebbe potuto trovare. Pensai, e il
panico aument•.
Tornai al punto di partenza e vi trovai Yoko, sudata
fradicia e ansimante come me. Dividiamoci e proviamo
a cercarlo ancora una volta, dicemmo, e dalla punta
dell'argine gridammo insieme il nome di Gongoro. Sia
la spiaggia che il mare, quando affondavano nel buio,
si trasformavano in un unico spazio da cui avevo l'im-
pressione che i nostri piccoli piedi e le nostre minusco-
le mani venissero coperte. La luce del faro illumin• la
zona dove eravamo, per poi spostarsi regolarmente
verso il mare.
"Dai, andiamo!" dissi, ma quando ci girammo verso
la spiaggia, ci accorgemmo che nel buio in cui era
sprofondata, si vedeva una luce forte, come di un ri-
flettore, che dal ponte veniva nella nostra direzione.
Poi pian piano, ma con passo deciso, quella luce prese
ad attraversare la spiaggia.
"Non sar Tsugumi, vero?" sussurrai coperta dal
rumore delle onde.
"Cosa?" Yoko si gir• verso di me e i suoi capelli
scompigliati dal vento, brillarono nel buio.
"Quella luce che viene verso di noi, Š Tsugumi, no?"
lei socchiuse gli occhi e fiss• quel puntino luminoso.
"E' troppo lontana, non riesco a vederla."
"E' lei, sono sicura." Il presentimento era molto for-
te. Procedeva verso di noi talmente decisa che non po-
teva essere altrimenti. Cosć senza esitazioni gridai:
"Tsugumiii! ".
E nell'oscurit le feci dei segnali con le braccia.
Ecco che, da lontano, la luce disegn• due cerchi
nell'aria. Era proprio lei. Poi gir• lentamente nella no-
stra direzione e arriv• ai piedi dell'argine, in quel
punto riuscii finalmente a identificare la sua piccola
figura.
Tsugumi si avvicin• senza dire una parola. Cammi-
nava con una determinazione tale che sembrava spez-
zare il buio. Illuminata dalla luce che portava, era pal-
lida in viso e si mordeva le labbra. Quando le vidi gli
occhi, capii che era arrabbiata. Con la mano sinistra
teneva la torcia, la pi grande della pensione, e con la
destra, Gongoro che si dimenava tutto e che era cosć
bagnato da sembrare di una taglia inferiore.
"L'hai trovato?" Le andai vicino cosć in fretta che
quasi presi il volo. Sul viso di Yoko si dipinse un sor-
riso.
"Dall'altro lato del ponte," disse Tsugumi. Mi pass•
la torcia, e strinse Gongoro tra le braccia. "Nuotava
tutto affannato."
"Vado a chiamare Kyoichi!" disse Yoko e corse ver-
so la spiaggia.
"Va' a prendere della legna che facciamo un fuoco
per farlo asciugare!" mi ordin• Tsugumi con il cane in
braccio.
"Un fal•? Ma sai che vengono subito a sgridarci.
Perch‚ invece non torniamo alla pensione e tiriamo
fuori una stufa?" le chiesi.
"Con tutta l'acqua che c'Š, non sar un problema,
vero? Se torno a casa conciata cosć, la mia vecchia me
le d di santa ragione," rispose lei. "Prova a illuminar-
mi un attimo!"
Feci come mi aveva detto, diressi il fascio di luce
su di lei, e inorridii. Dai fianchi in gi, era bagnata
fradicia. Tanto che, una goccia dopo l'altra, l'acqua
aveva bagnato l'asfalto.
"Ma in che punto del fiume era?" le chiesi con una
voce da miserabile.
"Basta guardarmi per capire quanto profondo era il
punto dove l'ho trovato, no? Scema," rispose.
"Ho capito, vado a prendere la legna," dissi e corsi
verso la pineta. .
All'inizio, Gongoro era molto spaventato e tremava,
tutto irrigidito; poi, pian piano si calm• e cominci• a
camminare intorno al fal•.
"Non ha paura del fuoco. L'ho sempre portato con me
quando andavo in campeggio con i miei, sin da quando
era un cucciolo. E abituato ai fal•," disse Kyoichi con lo
sguardo affettuoso e il volto illuminato dalle fiamme.
Sedute una di fianco all'altra, io e Yoko annuimmo.
Il fuoco che avevamo acceso non era molto grande, ma
sia per il vento forte che per la serata abbastanza fre-
sca, era perfetto. Il tepore che emanava andava a illu-
minare il buio tra un'onda e l'altra.
Tsugumi era in piedi in silenzio. La gonna le si era
asciugata un po', ma le restava appiccicata alle gambe.
Fissava il fal• continuando a gettarvi sopra i pezzi di
assi e di rami secchi che avevo raccolto. Aveva le pupil-
le dilatate al massimo, e la pelle cosć chiara che dalla
paura non riuscii a rivolgerle la parola.
"Beh, si Š gi asciugato parecchio," fece Yoko acca-
rezzando Gongoro.
"Lui dopodomani viene via con me!" disse Kyoichi.
"Ma come, torni a casa?" gli chiesi, e Tsugumi alz•
la testa di scatto.
"No, vado e torno in settimana, ma lui non lo porto
indietro. Dopo questa storia, non mi fido pi a lasciarlo
in albergo," rispose.
"Come mai proprio dopodomani?" chiese Yoko.
"Perch‚ fino a dopodomani i miei sono via, e a casa
non c'Š nessuno."
"Ascolta, se vuoi, posso chiedere ai miei vicini di te-
nerlo nella cuccia insieme a Pochi," disse Yoko. "Cosć
fino a dopodomani puoi stare tranquillo, no?"
"Ottima idea,'' approvai.
"Mi faresti davvero un grosso piacere," disse lui.
Seduti intorno al fuoco, i nostri animi si quietarono
e si riempirono di calore.
"Tsugumi, domani mattina vengo a chiamarti e an-
diamo a fare una passeggiata insieme. E cosć bello
quando i cani sono insieme, no?" le disse Kyoichi guar-
dandola in faccia.
"Va bene," gli rispose lei e accenn• un sorriso. E
per un istante, si videro i suoi denti bianchi illuminati
dalle fiamme. In piedi nell'oscurit, con l'ombra delle
lunghe ciglia che le cadeva sulle guance e le mani tese
verso il fuoco, sottili come quelle di una bambina. Tsu-
gumi Š ancora arrabbiata, pensai. Era la prima volta
che le succedeva per qualcosa che non fosse lei stessa.
La sua figura aveva un che di divino.
"Se ci provano un'altra volta," fece Tsugumi, "an-
che se non abito pi qui, torno indietro e li uccido."
Disse una cosa del genere, ma i suoi occhi rimasero
limpidi e l'espressione del viso serena. Lo disse con
una normalit tale che per qualche secondo non riu-
scimmo a spiccicare parola.
"Brava Tsugumi," disse Kyoichi dopo un po'. Tsugu-
mi, quel nome, rison• leggermente e si dissolse nelle
onde. A notte fonda si vedevano molte stelle. E noi,
senza nemmeno aver avvisato a casa, eravamo l, sulla
punta di quell'argine, con la voglia di andarcene nel
cuore. Volevamo tutti bene a Gongoro, tutti nello stes-
so modo. Lui per noi rappresentava qualcosa di prezio-
so. Chiss se l'aveva capito! In ogni caso, sembrava
che un po' alla volta cominciasse a dimenticare la di-
savventura che aveva vissuto. A turno, veniva ad ap-
poggiare le zampe sulle nostre ginocchia, e, tutto mu-
golante, ci leccava il viso. Il vento era forte, e il fal•,
vacillando come una furia, fu sul punto di spegnersi
pi di una volta, ma regolarmente Tsugumi riuscć a
ravvivarlo gettandovi sopra della legna, con una disin-
voltura tale che sembrava vi buttasse delle immondi-
zie. Il crepitio del fuoco si mischiava al rumore delle
onde e del vento, e veniva assorbito dal buio alle no-
stre spalle. Il mare era nero e con la sua superficie li-
scia arrivava fino alla spiaggia.
Yoko si alz• in piedi, e Gongoro, in equilibrio sulle
zampe posteriori, le si appoggi• sulle ginocchia. Lo
prese in braccio e mentre lui zampettava come un for-
sennato gli disse:
"Ti Š andata bene, eh?".
Poi, con i lunghi capelli agitati dal vento, fiss• il
mare al largo e aggiunse:
"Quando il vento Š cosć freddo, l'autunno Š ormai
alle porte".
L'estate stava per finire.
E per qualche minuto quel pensiero ci lasci• nel si-
lenzio. Che bello se i vestiti di Tsugumi non si fossero
mai pi asciugati e se quel fuoco fosse rimasto acceso
per sempre, pregai un istante dentro di me.
La mattina seguente, Kyoichi venne a dirci che in
centro aveva incontrato uno dei tipi che aveva rapito
Gongoro, che era riuscito a trascinarlo fino al tempio e
che gli aveva spaccato la faccia. Sebbene anche lui fos-
se pieno di lividi, Tsugumi, quando sentć quel raccon-
to, and• in visibilio, mentre io e Yoko gli medicammo
le ferite. Nel frattempo Pochi e Gongoro dormivano in
giardino da bravi cagnolini.
E il giorno dopo Kyoichi l'avrebbe portato via. Sa-
rebbe bastato ancora un giorno soltanto.
Ma quella notte, Gongoro venne rapito di nuovo.
Noi giovani eravamo fuori. Zia Masako l'aveva senti-
to abbaiare ed era uscita di corsa a controllare: la
porta di legno era aperta e Gongoro sparito. Pochi,
da solo, faceva rumore con la catena in preda al pa-
nico.
Questa volta perlustrammo la spiaggia con gli occhi
gonfi di lacrime. Camminammo tutta la notte, setac-
ciando ogni angolo della costa. Uscimmo anche al lar-
go con la barca e lo cercammo con dei fari. Degli ami-
ci, invece, andarono in giro per tutto il paese e lungo il
fiume.
Tuttavia la fortuna non ci arrise una seconda volta.
E Gongoro non torn• pi a casa.




La fossa.

"Tornerai mentre sar• ancora qui?" chiese Tsugumi
a Kyoichi con gli occhi sbarrati. L'espressione del vol-
to pi triste che ci sia sulla faccia della terra, per evi-
tare di piangere.
Lui sorrise e le rispose:
"Sto via solo due o tre giorni".
Senza l'appoggio di Gongoro, quando era in spiag-
gia, sembrava avere un equilibrio molto precario, co-
me se gli avessero tagliato un braccio o una gamba. In
effetti, in quella terra a lui poco familiare, aveva perso
qualcosa di molto simile a un braccio o a una gamba.
"Stai tranquillo, non ho nessuna intenzione di di-
ventare una di quelle ragazzine che non riescono ad al-
lontanarsi dal paese dove sono nate," disse Tsugumi.
Sul fare della sera, il mare accoglieva nelle sue ac-
que i raggi del sole, traboccando d'oro. Sul molo che
portava fino al porto, io e Yoko li guardavamo da die-
tro mentre loro, uno davanti all'altra, camminavano
parlandosi. Eravamo andate a salutare Kyoichi alla
partenza; Yoko aveva gi gli occhi gonfi di lacrime, e
io, invece, stranamente assente, sentivo il vento autun-
nale accarezzarmi le guance.
Anch'io sarei tornata a Tokyo la settimana successiva.
Quante volte, anche quell'anno, avevo visto il mare
oscurarsi senza esitazione, con gli ultimi bagliori del
tramonto che risplendevano all'orizzonte.
Il porto era animato di persone che aspettavano il
traghetto della sera che sarebbe arrivato di lć a qual-
che minuto. Kyoichi butt• la borsa a terra e ci si se-
dette sopra, poi chiam• Tsugumi e la fece accomodare
al suo fianco. Le loro figure di spalle, mentre osserva-
vano il mare, avevano qualcosa di desolato e al tempo
stesso di risoluto, come due cagno'lini in attesa del pro-
prio padrone.
Davanti a noi, le onde affilate annunciavano l'ineso-
rabile arrivo dell'autunno, con una miriade di lucci-
chii. Ogni volta che guardavo il mare di quella stagio-
ne, venivo presa da un sentimentalismo che mi faceva
stringere il cuore; quell'anno, invece, sentivo una fitta
vera e propria, pi forte di quanto potessi mai immagi-
nare. Persino io dovetti fare di tutto per trattenere le
lacrime: dal comprimermi le tempie con le mani, al
gettare in acqua delle esche che avevo trovato ai miei
piedi, e altro ancora.
Nel frattempo Tsugumi tormentava Kyoichi con
frasi innocenti, del tipo:
"Quando torni?".
"Se hai tempo, telefona! Prendi il treno, e torna un
giorno prima!" eccetera, eccetera.
Che strano, la sua voce trasparente, sovrapposta a
quella delle onde, dava vita a una splendida melodia.
"Anche se te ne vai, guai a te se ti dimentichi
qualcosa di me!" gli ripet‚ Tsugumi, quasi sussur-
rando.
Il traghetto arriv• da lontano, frangendo le onde
con la solita determinazione. Tsugumi si alz•, e Kyo-
ichi si mise la borsa sulle spalle.
"Ciao," disse rivolto verso di noi. "A proposito, an-
che tu, Maria, torni a casa, no? Credo proprio che non
far• in tempo a tornare qui prima che tu parta. Allora,
a presto! E quando l'hotel sar terminato, dovrai veni-
re a trovarmi!"
"Sć, se mi farai lo sconto", risposi e allungai la ma-
no, perch‚ mi salutasse.
"E' chiaro!" disse l'amico dell'estate e con la sua
calda mano rispose al mio invito.
"Quando saremo sposati, potremo riempire il giar-
dino dell'hotel di cani, tanto da farlo soprannominare
la Casa del Cane!" disse Tsugumi con una voce candi-
da e lui, con un sorriso amaro, le rispose:
"Ci penser• su...". Poi strinse la mano a Yoko, or-
mai per met in lacrime, e le disse:
"Grazie di tutto".
La passerella per l'imbarco venne sistemata, e i
passeggeri, in fila, cominciarono a salire uno dopo
l'altro. Kyoichi guard• Tsugumi e le disse:
"Ciao, a presto!".
"Se provi ad allungare la mano per salutarmi, ti
ammazzo!" e gli si gett• al collo.
Dur• un istante, poi lei, senza nemmeno asciugarsi
le lacrime che le scendevano copiose, lo spinse con
violenza verso la nave. Lui la fiss• in silenzio e, ulti-
mo della fila, s'imbarc•.
La sirena suon•, e lentamente il traghetto prese il
largo, diretto verso il punto in cui la linea tra cielo e
mare si faceva confusa. Kyoichi, in piedi sul ponte di
coperta, continuava a sventolare il fazzoletto. Tsugu-
mi, accovacciata sulle gambe, guardava la nave allon-
tanarsi senza preoccuparsi di rispondere a quel sa-
luto.
"Tsugumi ! " chiam• Yoko quando la nave sparć
completamente dall'orizzonte.
"Fine dello spettacolo!" disse lei, e si alz• con una
faccia come se niente fosse stato.
"Certo che tornare a casa per la morte di un cane!
Dite quello che volete, ma a me queste sembrano le
vacanze di bambini dell'asilo, piuttosto che di ragazzi
di diciannove anni, chi pi, chi meno."
Quelle parole pronunciate tra i denti e rivolte a
nessuno esprimevano esattamente quello che, in un
certo qual modo, ero andata pensando nell'ultimo pe-
riodo, cosć le dissi:
"Hai proprio ragione".
Poi, come nell'ultima scena di un film: noi tre, in
piedi sulla punta del molo, a guardare il mare al largo
e il colore del cielo in cui si specchiava un sole, ormai
tramontato.
Passarono cinque giorni, ma Kyoichi non torn•.
Anche se telefonava spesso, Tsugumi gli buttava gi
ogni volta la cornetta, sempre pi arrabbiata.
Una sera, ero in camera mia a scrivere una relazio-
ne per l'universit, quando sentii bussare alla porta:
era Yoko.
"Cosa c'Š?" chiesi.
"Ti sei accorta che nell'ultimo periodo, Tsugumi
esce tutte le sere?" fece lei. "Anche adesso, non c'Š!"
"Va a fare la passeggiata, no?" risposi. Da quando
Kyoichi se n'era andato, era sempre nervosa e di pes-
simo umore. Mi faceva pena, tanto che la lasciavo in
pace, anche quando se la prendeva con me senza mo-
tivo.
"Pochi, per•, Š nella sua cuccia," disse lei, preoccu-
pata.
"Ah..." sospirai chinando il capo. Di solito era im-
possibile riuscire a cogliere un senso nelle sue azioni,
quella volta, per•, riuscivo ad averne una vaga idea.
"Se mi si presenta l'occasione, glielo chiedo," dissi,
Yoko annuć e se ne and•.
Perch‚ nessuno riusciva a capire la sua vera natu-
ra? Sia Kyoichi che Yoko avevano preso per oro colato
quel suo presunto stato di abbattimento. Tsugumi era
riuscita a fargli credere che in lei avesse prevalso lo
scoramento piuttosto che l'odio. Eppure, non era possi-
bile che se ne stesse zitta dopo che le avevano fatto fuo-
ri il cane. La vendetta! Era per quello che usciva in con-
tinuazione, non c'erano dubbi. Debole com'era, era pro-
prio una stupida! Per un istante mi sentii disgustata,
ma non ebbi il coraggio di andare a dirlo a Yoko.
Dopo un po' avvertii dei rumori provenire dalla ca-
mera accanto, 'e immaginai che fosse tornata. Subito
dopo anche dei mugolii di cane.
Andai nella sua stanza, e mentre aprivo il fusuma
dissi:
"Cosa diavolo stai facendo? Se ti scopre la zia che
hai portato Pochi in camera, chiss quante te ne..." ar-
rivai a dire, poi tacqui per lo stupore. No, non era il
defunto Gongoro, ma un cane della stessa identica raz-
za che gli assomigliava cosć tanto che per qualche se-
condo rimasi di sasso.
"E quello, da dove salta fuori?" le chiesi.
"L'ho preso in prestito, questo qui," mi rispose e ag-
giunse, ridendo:
"Sai, quando si amano i cani!".
Riuscii a dirle soltanto:
"Che bugiarda che sei!" e mi sedetti vicino a lei.
Mentre accarezzavamo quel cane, presi a pensare con
tutta la forza che avevo. In quelle situazioni, se non ci
si metteva sulla sua stessa lunghezza d'onda, lei chiu-
deva la bocca e non diceva pi una parola.
"Di' la verit, lo vuoi fare vedere a quei ragazzi,
eh?" dissi.
"Risposta esatta! Ho sempre saputo che eri in gam-
ba," fece lei ridendo leggermente. "Da quando te ne sei
andata tu, non ne posso proprio pi di abitare con de-
gli idioti che non capiscono le persone."
"Guarda che non c'Š nessuno che riesca a capire co-
sa ti passa per il cervello," le dissi con un sorriso.
"Vuoi sapere cosa Š successo stasera?" mi chiese e
abbracci• il cane.
"Sć," e mi avvicinai a lei. In quei momenti, sarebbe-
ro potuti passare anche mille anni, che noi saremmo
sempre tornate a essere delle bambine che si confida-
vano i segreti. La notte si faceva densa in un baleno, e
noi morivamo di paura.
"Negli ultimi giorni, ho fatto delle indagini sulle
abitudini di quel gruppo di teppisti. Ero fuori tutte le
sere, no?"
"Sć, e allora?"
"Sembravano tanto grandi, e, invece, fanno soltanto
le superiori. Si ritrovano tutti in uno snack bar del
paese vicino."
"Non ci sarai andata, vero?"
"Certo che ci sono andata. Stasera. Non ci crederai
ma mi tremavano le mani," disse e mi mostr• i palmi
delle mani. Non tremavano, ma erano candidi e minu-
ti. Fissai quei palmi stranamente commossa e ascoltai
il seguito della storia.
"Ho preso in braccio il cane e sono salita al secon-
do piano. Il bar, infatti, non era a piano terra. Sono si-
cura che quei bastardi non hanno avuto il coraggio di
sporcarsi le mani per uccidere Gongoro. Lo devono
aver buttato in mare con qualche peso al collo, senza
nemmeno controllare se fosse morto davvero. Cosć al-
meno credo."
Ancora adesso, quando ripenso a Gongoro, prima
della collera, vedo il buio davanti ai miei occhi.
"Volevo soltanto che vedessero il cane. Per•, sai, se
fossero stati in tanti, mi avrebbero potuta seguire, e
per me sarebbe stata la fine, no? Quando ho aperto la
porta, me la facevo sotto. E invece, mi Š andata bene.
Ho avuto una fortuna sfacciata, perch‚ ce n'era soltan-
to uno seduto al bancone, uno di cui ricordavo la fac-
cia. Quando ci ha visti, prima me e poi il cane, ha
sbarrato gli occhi, e io l'ho fulminato con un'occhiata
piena d'odio. Dopodich‚, ho girato i tacchi, e me ne so-
no andata sbattendo la porta con tutta la forza che
avevo. Sapevo che se anche fossi scappata correndo a
pi non posso, mi avrebbe presa lo stesso, cosć mi so-
no nascosta dietro le scale. Per fortuna, per•, il ti-
po ha solo aperto la porta, e l'ha richiusa subito. Nel
frattempo, sentivo le gambe che mi tremavano per la
paura.
"Che avventura, ragazzi!"
"Sć, figurati che mi Š venuta la febbre," disse con
un sorriso di trionfo. "Se pensi che da bambina, peri-
coli del genere li correvo praticamente ogni giorno, mi
sa che sto deperendo."
"Ma che deperimento e deperimento! La verit Š
che sei debole di costituzione. Non puoi mettere sullo
stesso piano la salute con una prova di coraggio!" dis-
si. Mi sentivo un po' pi tranquilla adesso che Tsugu-
mi si era confidata.
"Mi Š venuto sonno," fece lei per met gi sotto le
coperte. "Mi faresti il favore di portare fuori il cane?
Legalo sotto la terrazza o da qualche altra parte, ma
non con Pochi, se no ce lo portano via di nuovo."
Sembrava molto stanca, cosć che le dissi di sć, presi
in braccio il cane, e mi alzai. Avvicinai il viso a quel
suo piccolo muso e mi lasciai scappare:
"Ha l'odore di Gongoro".
E Tsugumi con un fil di voce disse, Š vero.
Feci buio per bene nella mia stanza, e mi addor-
mentai come un sasso.
Da lontano, sentii muoversi qualcosa, un rumore
leggero, come in un sogno. Ummm, mi girai verso il fu-
suma e capii che si trattava di un pianto rotto da sin-
ghiozzi, di qualcuno che stava venendo su per le scale.
Quella terribile sensazione d'irrealt uscita dalle te-
nebre alla fine mi fece aprire gli occhi. Man mano che
prendevo coscienza, mi sembrava sempre pi che il ru-
more venisse nella mia direzione, anche se per un po'
non capii pi dove mi trovavo, come in un incubo. Do-
po poco gli occhi si abituarono, e dal buio emersero le
mie mani, i miei piedi e il bianco delle lenzuola.
Poi, il rumore di un fusuma che si apriva.
Viene dalla stanza di Tsugumi! E di colpo mi alzai,
questa volta completamente sveglia. Sentii una voce:
"Tsugumi! ".
Era Yoko. Uscii dalla mia camera e, dal buio del
corridoio, guardai dentro la sua stanza. Il fusuma era
aperto, e Yoko era lć, in piedi.
Di notte, in camera sua, entrava sempre la luce del-
la luna. Tsugumi era seduta sul futon con gli occhi
spalancati. Sembrava che brillassero nel buio. Davanti
a quello sguardo, c'era Yoko tutta sporca di fango e
tremante, che la fissava piangendo a singhiozzi. Tsugu-
mi era immobile, come di ghiaccio, con il terrore dise-
gnato in viso.
"Yoko, ma cosa Š successo?" chiesi. Che fosse stata
aggredita da quei ragazzi? Al solo pensiero, rabbrivi-
dii. Yoko, con una voce vellutata, le chiese:
"Tsugumi, hai capito da dove vengo, vero?".
E lei, senza aprir bocca, annuć lentamente.
"Come hai potuto fare una cosa del genere?" disse e
si asciug• il viso con quelle mani sporche, interrotta
da quel pianto inarrestabile. Poi aggiunse, mettendoce-
la tutta:
"In questo modo, non ce la farai a vivere a lungo".
Io proprio non capivo cosa fosse successo. Soltanto,
stavo lć a guardare le due sorelle, l'una di fronte all'al-
tra, nel buio della stanza. Di colpo, Tsugumi abbass•
lo sguardo e,--forse ce l'aveva messo dopo aver senti-
to quella storia di Kyoichi -con una mossa violenta,
tir• fuori un asciugamano da sotto il cuscino e lo al-
lung• a Yoko.
"Mi dispiace..."
Tsugumi che chiedeva scusa, non era certo una co-
sa di tutti i giorni, cosć trattenni il respiro. Yoko prese
la salvietta con un leggero cenno del capo e, asciugan-
dosi le lacrime, uscć dalla camera. Davanti ai miei oc-
chi, Tsugumi si immerse nelle coperte in un baleno, e
io, non avendo pi niente da fare lć, inseguii Yoko gi
per le scale. "Cosa Š successo?" le chiesi; la mia voce
rison• cosć forte nel buio del corridoio, che me ne stu-
pii. Abbassai il volume e aggiunsi:
"Tutto a posto?".
"Sć, grazie," mi rispose sorridendo, almeno credo.
Era talmente buio che non riuscivo a vederla bene, ma
percepii quel suo tratto delicato attraverso l'oscurit.
Poi mi domand•: -
"Hai idea di che cosa abbia fatto Tsugumi con quel
cagnolino ?".
"Quello che ho legato sulla terrazza?"
"Maria, si Š presa gioco di te!" disse e senza render-
sene conto si mise a ridere. "Sai che cosa ha fatto per
tutte queste notti?"
"Delle indagini, no?" Dopo quella risposta, fremetti.
A una come lei, sarebbe bastata una telefonata per ve-
nire a sapere di quello snack bar del paese vicino.
"Ha scavato una fossa," disse Yoko.
"Cosa?" urlai di nuovo, cosć che lei mi invit• a en-
trare in camera sua.
Finalmente un posto illuminato. Tutto ci• che ave-
vo visto fino a quel momento nell'oscurit mi era ap-
parso poco chiaro, come un sogno. Yoko era davvero
piena di fango. Va' a lavarti, di! le dissi, ma lei: no,
prima ti devo spiegare. Sapessi che avventura che ho
vissuto, e mi raccont• la storia della fossa.
"Era una fossa incredibile. Profondissima.
Chiss come avr fatto a scavarla! Dove avr porta-
to la terra? Sono sicura che ci ha lavorato tutte le sere
dopo che noi andavamo a letto, e quando si faceva
mattino ci metteva sopra un'asse molto resistente e na-
scondeva il tutto con della terra...
Dormivo profondamente, quando, tutt'a un tratto,
mi sono svegliata; mi sembrava di sentire una specie
di lamento e cosć mi sono messa ad ascoltare con at-
tenzione. Forse era soltanto un'impressione, ma mi
sembrava che venisse dal giardino. Avevo una paura
terribile, ma sono scesa lo stesso a dare un'occhiata. E
inutile, quando una cosa Š carica di suspense, ti viene
voglia di farla. Ho aperto la porta di legno sul retro, e
procedendo a tentoni sono uscita nel buio. Non mi
sembrava pi che venisse dal giardino. Ma dalla casa
dei vicini, quella di Pochi. Forse qualcuno era entrato
di nascosto, e l'aveva legato. Lui, per•, non abbaiava...
Comunque, ho aperto la porta per andare a vedere co-
me stava. Appena sono entrata nel giardino, -- sai,
quando c'Š buio si sentono moltissimo gli odori, no?--
ne ho sentito uno di terra fresca, molto pi intenso del
solito. E di colpo ho risentito quei lamenti. Mi sembra-
va impossibile, ma venivano da sotto terra! Ho appog-
giato l'orecchio al suolo per esserne certa e ne ho avu-
to la conferma. Nel frattempo gli occhi si erano abitua-
ti al buio. Quando ho visto che di fianco a Pochi c'era
Gongoro, mi Š preso un colpo. Per un istante ho pensa-
to di essermi persa in un luogo lontano dalla realt.
Poi ho guardato meglio e mi sono accorta che il colore
del pelo era un po' diverso e poi che, chiss perch‚,
avevano tutt'e due un bavaglio sul muso o qualcosa del
genere. Proprio non riuscivo a capire cosa stesse suc-
cedendo, e cosć ho deciso di andare a prendere una tor-
cia e di illuminare il terreno. Detto fatto, faccio luce e
vedo che proprio davanti alla cuccia dei cani la terra Š
un po' diversa. Tiro fuori una pala e mi metto a sca-
vare, praticamente in trance. Fino a quando non Š sbu-
cata un'asse molto spessa. Provo a bussare con il ma-
nico della pala, e mi sento rispondere con dei gemiti. Il
resto poi, Š successo tutto in un baleno. Ho spostato
l'asse con le mani mettendoci tutta me stessa, e ho il-
luminato l'interno di quella fossa strettissima e molto
profonda. Sul fondo, c'era un ragazzo. Riesci a imma-
ginare la paura che ho provato? Aveva del nastro ade-
sivo intorno alla bocca, la fronte insanguinata e le ma-
ni sporche di fango allungate verso l'alto. Quando ho
capito che era uno di quelli che avevano rapito Gon-
goro, ho visto la faccia di Tsugumi. Aveva fatto tutto
lei, riesci a crederci? E stato difficilissimo tirarlo fuo-
ri, sai ? Anche se riuscivo ad afferrarlo per le mani,
continuava a scivolare gi fino in fondo. Tanto per dir-
ti quanto profonda era. Guarda come mi sono ridotta
anch'io, comunque alla fine, in qualche modo, sono
riuscita a salvarlo. Gli ho tolto lo scotch dalla bocca, e
l'ho guardato bene in faccia: era ancora un bambino.
Avr fatto al massimo le superiori. Poi con gli occhi
pieni di lacrime, ci siamo seduti per terra a riposare.
Eravamo cosć stanchi che non siamo riusciti a dirci
nemmeno una parola. O meglio, non c'era niente che
potessimo dirci. Io pensavo a Tsugumi. A quando era
bambina. Mi Š presa una tristezza tale, in quel giardi-
no buio, che guardando la fossa che aveva scavato, non
riuscivo a fermare le lacrime. Poi mi sono distratta un
attimo, lui si Š alzato e, zoppicando fino alla porta, se
n'Š andato. Non potevo certo lasciare la fossa in quelle
condizioni, cosć ci ho rimesso sopra l'asse, l'ho coperta
con la terra... e sono tornata a casa."
Quando finć di raccontare, Yoko prese i vestiti di ri-
cambio e scese a farsi il bagno. Io tornai in camera
mia, confusa, con mille pensieri per la testa. Passai da-
vanti alla stanza di Tsugumi, ed esitai se entrare o me-
no, ma lasciai perdere.
Pensai che molto probabilmente stesse piangendo
per i dispiaceri provati in tutta quella faccenda.
Non faceva mai le cose tanto per fare. Se solo pen-
savo alla fatica che doveva avere impiegato per fare
quello che aveva fatto quella sera, mi sentivo girare la
testa.
Senza farsi scoprire da nessuno, aveva scavato
quella fossa giorno dopo giorno, nel cuore della notte.
Una fossa nel giardino dei vicini, portando via la terra
poco alla volta. E poi aveva girato tutta la citt per
cercare un cane che assomigliasse a Gongoro. Forse
l'aveva preso in prestito con una scusa qualsiasi, o ma-
gari l'aveva addirittura comperato. Infine, mi aveva
presa in giro raccontandomi la storia dello snack bar,
si era fatta legare il cane sulla terrazza, e aveva fatto
sć che mi tranquillizzassi. Proprio me, la pi sospetto-
sa e la pi perspicace di tutti. Poi era uscita in giardi-
no, aveva imbavagliato i due cani cosć che non abbaias-
sero all'aggressore, aveva rimosso l'asse dalla fossa
che aveva mimetizzato in modo che non ci cadesse den-
tro nessuno, e, mettendoci sopra un sottile cartone,
aveva preparato una vera e propria trappola. Per•, se
fossero venuti in gruppo, il suo piano sarebbe fallito.
O forse lei ne aveva preso di mira soltanto uno ed era
andata al bar in un momento in cui era sicura di tro-
varlo da solo. L'aveva aspettato per tutta la notte, sen-
za sapere se sarebbe venuto o meno, sempre all'erta.
Sarebbe anche potuto non venire quella sera. E invece,
era arrivato, e da solo. Soltanto per verificare se il ca-
ne che aveva ucciso una volta, era davvero ancora vivo.
Tsugumi, al momento opportuno, gli si era avvicinata
da dietro, e l'aveva colpito al capo con qualcosa. Poi,
intanto che era intontito, gli aveva messo lo scotch in-
torno alla bocca e l'aveva spinto nella fossa. Ci aveva
messo sopra l'asse, l'aveva coperta con della terra ed
era tornata in camera sua.
Non riuscivo a immaginare come fosse stato possi-
bile fare una cosa del genere. Eppure Tsugumi l'aveva
fatta. A parte il fatto che Yoko se ne fosse accorta, tut-
to era andato come aveva previsto. Da cosa nascesse
l'energia di quell'ossessione, architettata con minuzia,
e cosa sperasse di ottenere, proprio non lo capivo.
Sotto le coperte, non riuscivo a dormire e continua-
vo a pensare a quella vicenda. Verso l'alba, fuori dalla
finestra, se il sole stesse sorgendo o se si trattasse sol-
tanto di un'impressione non lo sapevo, ma il cielo si
era rischiarato. Alla fine mi alzai e mi misi a osservare
il mare ancora scuro. O meglio, avrei voluto, visto che
il mare che si sarebbe dovuto trovare lć per forza, era
ancora immerso in un'ombra blu, praticamente spro-
fondato nel vuoto. Quella vista penetr• nel mio cervel-
lo addormentato, e mi fece ricordare quella frase di
Yoko:
"Tsugumi ha buttato via la sua vita".
Lei aveva capito perfettamente la gravit della si-
tuazione, pensai e nello stesso istante trasalii. Anche a
costo di sacrificare Kyoichi, o il suo futuro, aveva vo-
luto realizzare quel suo progetto. Tentando addirittura
di uccidere una persona. E alla fine di quell'impresa,
dopo aver superato qualsiasi limite impostole dal suo
fisico, era ancora convinta che la morte di un ragazzo
fosse molto meno importante di quella del suo amato
cagnolino.
Pensai e ripensai alla sua aria felice di quando la
sera prima mi aveva raccontato la sua avventura. Tsu-
gumi proprio non cambiava mai. Niente riusciva a pro-
vocare in lei dei cambiamenti: n‚ il fatto che fosse in-
namorata di Kyoichi, n‚ gli anni che avevamo trascor-
so insieme, n‚ le nuove giornate che avrebbe vissuto
dopo il trasloco, n‚ Pochi. Sin da quando era bambina,
senza cambiare minimamente, aveva vissuto sola con i
suoi pensieri.
...ogni volta che mi veniva in mente, vedevo passare
davanti ai miei occhi il suo volto sorridente con in
braccio quel cagnolino identico a Gongoro, chiaro co-
me un tiepido raggio di sole. Ah, quell'immagine senza
macchie, era davvero abbagliante.




L'ombra.

"Non c'era assolutamente motivo perch‚ lo uccides-
si sul serio, no? Volevo soltanto fargliela pagare e far-
gli prendere una bella strizza, ma quel maledetto si Š
messo a strillare come un bambino. Quant'Š codarda
quella gente!" Cosć ci avrebbe detto Tsugumi con il suo
sorriso sprezzante e gli occhi di chi si Š appena preso
gioco di qualcuno.
Aspettavo quella sua espressione.
Invece, Tsugumi venne ricoverata d'urgenza. Acces-
so febbrile, disfunzione renale, diminuzione delle forze
vitali dovuta a eccesso di lavoro, insomma, dopo quel-
l'impresa, il suo corpo ebbe un crollo improvviso e lei
si trov• k.o.
A chiunque sarebbe successo dopo una fatica del
genere, pensai quando, incredula, andai a salutarla
mentre la caricavano, tutta dolente, su di un taxi.
...idiota! Proprio adesso che devo tornare a casa!
Non so perch‚, ma di fronte allo strazio del suo vol-
to addormentato, con le guance infocate e le sopracci-
glia corrugate, sentii nascere dentro di me un senti-
mento di odio.
Ci saremmo potute lasciare in riva al mare, durante
l'ennesima passeggiata di Pochi. Con tutto quello che
dovevamo ancora dirci!
A una a una, quelle piccole cose per cui non c'era
niente che si potesse fare mi resero triste in una stra-
na maniera. Mentre saliva sul taxi con lei, zia Masako
disse fra i denti:
"Che stupida, Tsugumi!".
Al momento rimasi di sasso, poi lei si mise sotto
braccio degli asciugamani e dei vestiti di ricambio, e
mi guard• negli occhi sorridendomi, come per dirmi:
"Che Dio ce la mandi buona!".
Le restit'uii il sorriso e la salutai con la mano. E il
taxi se ne and• sotto il sole d'autunno.
Kyoichi torn• il giorno dopo il ricovero di Tsugumi.
Mi telefon• e ci incontrammo in spiaggia, di notte.
"Sei andato a trovarla?" gli chiesi non sapendo da
dove iniziare. Mentre eravamo in piedi in quell'oscuri-
t nella quale risonava il rumore delle onde, si alz• un
forte vento misto a pioggia. In lontananza, le luci delle
navi apparivano sfuocate.
"Sć, ma stava cosć male che non sono potuto restare
a lungo. E poi non Š che sia riuscito a parlarle un gran
che," rispose. Parlava guardando il mare, seduto con i
piedi appoggiati a un tetrapode. Le sue bianche mani
congiunte intorno alle ginocchia sembravano enormi.
"Ne avr combinata una delle sue, immagino," fece
lui. "In ogni caso, non sarebbe stato possibile fermar-
la. E cosć brava a fare l'innocente, che ti fa sentire in
colpa se per caso dubiti di lei."
Io risi e gli raccontai la storia della fossa. E anche
delle inarrestabili lacrime di Yoko.
Kyoichi ascolt• in silenzio. La mia voce sovrappo-
sta a quella delle onde, il vento che soffiava nel buio e
le fredde gocce di pioggia che ci colpivano le guance,
fecero emergere l'ombra di Tsugumi. Come i fari delle
navi che qua e l segnavano i margini del mare, man
mano che parlavamo delle sue imprese, la sua luce vi-
tale cominci• a risplendere tra una parola e l'altra,
con un'intensit tale che sembrava di averla davanti
agli occhi.
Kyoichi finć di ascoltare il mio racconto e, sforzan-
dosi di non ridere, disse:
"Certo che di capolavori come Tsugumi non ce ne
sono molti in giro, eh? Una fossa! Ma come avr fatto
a venirle in mente?".
"Chi lo sa!" risposi e anch'io mi misi a ridere. Non
ci avevo pensato, uno: perche non sarebbe stato educa-
to nei confronti di Yoko, due: perch‚ ero molto emo-
zionata quando me l'aveva detto, ma quel piano cosć
immediato, e a tratti cinico, era talmente tipico di Tsu-
gumi da risultare davvero divertente.
"Quando penso a lei, senza accorgermene, mi viene
da riflettere su cose pi grandi di me," confess• Kyo-
ichi. "I miei pensieri vanno a impegolarsi in questioni
immense. Come, per esempio, la vita o la morte. Ma
non perch‚ lei Š debole fisicamente. Quando la guardo
negli occhi, quando osservo il suo modo di vivere, in
un certo senso vengo pervaso da una sensazione di ri-
gore."
Capivo perfettamente quello che intendeva. Il suo
sguardo mi raggiunse all'interno del mio corpo ghiac-
ciato, e subito il cuore mi si scald•.
Tsugumi, anche soltanto con la sua esistenza, riu-
sciva a creare un contatto con cose enormi.
Nell'oscurit, rivalutai le mie certezze e dissi:
"L'estate di quest'anno Š stata molto divertente, ma
per certi versi, anche strana: come se fosse durata un
secondo o tutta una vita. Sono felice che tu ci sia sta-
to. Non ho dubbi che per Tsugumi siano state vacanze
speciali".
"Credi che ce la far?" mi chiese e io annuii con de-
cisione. Ebbi l'impressione che il forte rumore delle
onde e del vento rendesse instabile il terreno sotto i
nostri piedi. Fissai le stelle luminose sparse per la vol-
ta celeste, come per contarle.
"Fino a ora, Š gi stata ricoverata cosć tante volte!"
dissi, e anche la mia voce si disperse nella notte. Kyo-
ichi guardava il mare con occhi pieni di sconforto, sul
punto di essere portato via dal vento. Occhi molto pi
preoccupati di quanto gli avessi mai visto.
Tsugumi se ne andava da quel paese. E quel giova-
ne amore si apprestava ad affrontare una nuova fase.
Tutto quello che non era stato capace di dire a pa-
role, Kyoichi lo portava dentro di s‚. Non riuscivo a
dimenticare che soltanto fino a qualche giorno prima,
un passato cosć vicino che sembrava di poterlo prende-
re tra le mani, loro due avevano passeggiato su quella
sabbia accompagnati dai loro cani. Quelle giornate era-
no state concepite e poi allevate dalla spiaggia stessa,
con estrema naturalezza.
Quel pensiero rimase nel mio cuore come una
splendida immagine.
Poi restammo lć, in piedi, senza scambiare parola,
cosć a lungo che i miei capelli si bagnarono completa-
mente. Guardando qualcosa al di l del mare, ci erava-
mo capiti fino in fondo.
Il giorno prima di tornare a Tokyo, andai a far visi-
ta a Tsugumi.
La zia si vergognava del suo comportamento mene-
freghista, e cosć l'aveva fatta mettere in una camera
privata. Bussai, ma non ricevetti risposta. In silenzio,
aprii la porta.
Stava dormendo.
La sua pelle chiara splendeva di una luce soffusa e
non era cambiata affatto, mentre lei era dimagrita visi-
bilmente. Con gli occhi chiusi, le lunghe ciglia, e i ca-
pelli sparsi sul cuscino, era di una bellezza candida,
tanto da sembrare la Bella Addormentata in carne e
ossa; a quella vista provai paura. Mi sembr• che la
Tsugumi che conoscevo fosse sparita.
"Sveglia!" dissi e le diedi uno schiaffetto sulla
guancia.
Ummm, mormor• lei e aprć gli occhi. Le sue pupil-
le, grandi come gioielli, mi fissarono.
"Cosa vuoi? Stavo dormendo!" disse con una voce
nasale, e si stropicci• gli occhi. Tirai un sospiro di sol-
lievo e, sorridendo, le dissi:
"Sono venuta a dirti addio, perch‚ parto. Ci vedia-
mo presto, e mi raccomando, vedi di guarire alla
svelta! ".
"Te ne vai? Sei proprio senza cuore!" disse. Final-
mente le usciva qualche parola, il tono della sua voce
mi fece provar compassione. Non aveva la forza di
mettersi a sedere nel letto, e cosć rest• sdraiata a fis-
sarmi con uno sguardo pieno di odio.
"Se tra noi due ci deve essere una cattiva, quella sei
tu. D'altra parte te lo sei voluto tu, no?" e risi.
"Sar..." fece lei e accenn• un sorriso. Poi aggiunse:
"Ascolta, lo dico solamente a te: penso di non farce-
la. Sono sicura di morire".
Io sbarrai gli occhi. Mi precipitai sulla s‚dia vicino
al suo letto, mi avvicinai e le dissi:
"Ma cosa stai dicendo? Guarda che i dottori dicono
che stai migliorando. Che cosa c'Š di diverso dalle al-
tre volte? E chiaro che quando uno Š ricoverato, cerca
di non affrettare i tempi, soprattutto quando Š in fase
di guarigione, no? E una questione psicologica. Il tuo
non Š certo un caso di vita o di morte. Quindi, vedi di
fare la brava!".
"Ti sbagli," disse lei con un volto molto serio. In
quel momento i suoi occhi si oscurarono di una tristez-
za che non le avevo mai visto fino ad allora.
"Lo sai benissimo anche tu. Quando uno sta per
morire, non Š come dici tu. Io ormai non ho pi nessu-
na voglia di lottare, proprio nessuna."
"Tsugumi!" dissi.
"E la prima volta che mi capita," bisbigli• con un
fil di voce.
"Non mi era mai successo di arrivare a fregarmene
di tutto come questa volta. E come se qualcosa se ne
fosse andato dal mio corpo. Fino a oggi non avevo mai
pensato alla morte. E adesso, invece, ho paura. Anche
se mi sforzo di reagire con tutta me stessa, non ne vie-
ne fuori niente, se non un gran nervoso. Ci penso tutta
la notte, sai. Se va avanti cosć, mi sa che muoio. In que-
sto momento, dentro di me non sento nessun impulso,
neppure uno. Una cosa del genere, Š la prima volta. Fi-
gurati che non provo pi odio verso niente. Sono diven-
tata una bambina piccola piccola, costretta a letto dalla
malattia. Capisco molto bene quelli che hanno paura di
morire, perdendo foglia dopo foglia. Poi, se penso che,
d'ora in poi, un'ombra sottile poco alla volta scender
su di me e tutti quanti cominceranno a prendersi gioco
di me, approfittando del fatto che divento sempre pi
debole, mi sembra di impazzire""
"Ahh..." non riuscii ad aggiungere altro. Aveva parla-
to cosć seriamente che ero rimasta senza parole. Inol-
tre, sentimenti di quel tipo non le avevano mai fatto vi-
sita prima di allora, perch‚ disgustati dalla sua arro-
ganza. Aveva forse paura di essere lasciata da Kyoichi?
O si trattava di una reazione a quanto le aveva detto
Yoko? Mi accorsi che la luce che emanava abitualmen-
te dal corpo, per quanto alta fosse la febbre che aveva,
stava sparendo.
"Con tutto quello che sei riuscita a dirmi, non ci sa-
ranno di certo problemi," affermai mentre fissavo il
cielo con apprensione.
"Magari." Mi guard• con degli occhi che le avevo vi-
sto sin da piccola, migliaia, milioni di volte, trasparenti
come biglie di vetro, come per dirmi che non c'era nem-
meno una menzogna in quanto aveva detto. Con un ba-
gliore profondo, eterno, sempre identico.
"Ne sono sicura." Ebbi paura nel vedere che per la
prima volta era tormentata da preoccupazioni che, di
solito, hanno tutte le persone. Capii che se avesse perso
la forza di volont, sarebbe morta sul serio. Non volevo
rendermene conto, e cosć mi alzai.
"Ciao, io vado."
"Non ci posso credere! Te ne vai veramente!" repli-
c• con un tono di voce piuttosto alto. Volevo che ci si
lasciasse senza tante storie, come tra ragazzi, cosć mi
diressi veloce verso la porta e mi girai solo un istante
prima di usciire.
"Ci vediamo!" E me ne andai. Stupida! Mi fai schi-
fo! Bugiarda! Ma lo sai che questo potrebbe essere il
nostro ultimo addio ? O per te Š pi importante la
scuola? Non Š possibile! Adesso capisco perch‚ i ragaz-
zi non ti considerano, Š perch‚ non hai cuore! ecc. ecc.
...camminavo per i corridoi dell'ospedale con gli insulti
che mi stava lanciando come sottofondo.
Quando uscii, era gi calata la sera.
Nel vento fresco, sentii un leggero odore di salsedi-
ne. In quella penisola, era come se il mare avvolgesse
interamente le citt. Mentre camminavo nel buio della
notte, mi venne una leggera voglia di piangere.
Il mattino seguente, il tempo era bellissimo e il sole
brillava splendente, come in una giornata di piena
estate. Eppure i suoi raggi erano talmente trasparenti
da far pensare all'autunno.
La tristezza che mi sentivo impressa nel cuore era
ovunque: nell'atmosfera che riusciva a creare la cola-
zione di zia Masako, nella mattinata stessa, sulla tavo-
lata dove venivano immancabilmente serviti i frutti di
mare freschi comperati al mercato, mentre noi man-
giavamo in allegria.
"Certo che Tsugumi ne combina sempre una, eh?
Chi l'avrebbe mai detto che non sarebbe potuta venire
a salutare Maria alla partenza!" disse la zia.
E con lo stesso identico tono allegro, sorrise e dis-
se: "Ne vuoi ancora, Yoko?" Cosć che, avvolta da quei
raggi mattutini, dovetti ricredermi e ripetendomi non
so quante volte che per Tsugumi non c'era proprio da
preoccuparsi, finii col convincermene.
Poi zia Masako mi disse:
"Questi sono per mia sorella". Osservai con affetto
le sue abili mani, mentre metteva dello tsukudani e de-
gli tsukemono in un contenitore di plastica, per poi av-
volgerlo ben stretto in un asciugamano bianco.
Quando partii, la zia e lo zio vennero fino all'ingres-
so a salutarmi, mentre Yoko disse che mi avrebbe ac-
compagnato alla fermata del pullman, e and• a prende-
re la bicicletta. Io dissi addio a Pochi, e poi ringraziai
gli zii:
"Grazie di tutto".
Lo zio mi rispose:
"Ti aspettiamo anche all'albergo, capito?".
Invece la zia mi sorrise e aggiunse:
"E stata proprio una bella estate!".
Lasciai la pensione alle spalle sotto quel sole cocen-
te, come se niente fosse stato. Uscii dalla porta d'in-
gresso con lo stesso spirito con cui sarei potuta uscire
a prendermi una coca, mi voltai solo una volta, e ormai
lo Yamamoto era gi lontano. Vidi solo per un istante
la figura di spalle degli zii che rientravano in casa.
Quindi presi a camminare al fianco di Yoko.
Sotto quei raggi di sole che ci abbagliavano dall'al-
to, lei che, piccola piccola, camminava al mio fianco
con gli occhi socchiusi per la troppa luce, e i capelli che
le svolazzavano sulle spalle a ogni passo, mi fece emo-
zionare proprio come la scena di un film. L'agglomera-
to di vecchie pensioni su quella strada secondaria che
portava alla stazione dei pullman. Il colore dei vilucchi
mezzi appassiti, piantati un po' dappertutto. In quel
secco mezzogiorno, cosć tipico delle citt di mare, la
mia memoria si chiuse.
Alla stazione, ci sedemmo sugli scalini di cemento
della biglietteria e mangiammo un gelato.
Con Yoko, d'estate, ne avevo mangiati un'infinit.
Ricordo che sin da bambine andavamo spesso a pren-
dercelo insieme con i nostri risparmi. E regolarmente
Tsugumi glielo rubava senza piet e se lo divorava in
un solo boccone, facendola piangere ogni volta.
Mi piomb• addosso con una violenza estrema una
sorta di sentimentalismo Una luce cosć forte che sia le
persone che mi circondavano, che tutto il paese, sem-
brarono sparire completamente.
Yoko guard• il cielo facendosi schermo con la ma-
no e disse:
"Mi sa che questo Š l'ultimo gelato dell'anno".
"Stai tranquilla che tirerai fuori una scusa qualsia-
si e ne mangerai ancora," dissi ridendo.
"Che depressione, il prossimo mese c'Š il trasloco..."
disse. "Proprio non riesco a rendermene conto. E mi sa
che non ci riuscir• fino a che non ce ne saremo andati
per davvero." Mi guard• e mi sorrise con un'aria molto
tranquilla. Come se avesse deciso di non piangere, al-
meno per quel giorno.
"Le cugine restano cugine per tutta la vita," feci io.
"In qualsiasi parte del mondo si trovino."
"E' vero, hai ragione. Anche le sorelle lo sono per
tutta la vita, vero?" E rise sommessamente.
"Non trovi che nell'ultimo periodo Tsugumi sia
strana? Che non le vada di traslocare? Oppure che si
sia esaurita completamente dopo la fatica dell'altro
giorno?" dissi. In effetti, volevo anche sondare il terre-
no. Yoko mi rispose:
"Mah... vallo a sapere... Che ci sia qualcosa di diver-
so, Š fuori discussione. Deve avere qualche pensiero
che la tormenta. Di fronte a Kyoichi Š stata quella di
sempre, invece per esempio quando sono andata a tro-
varla io, ho bussato alla porta, ma non mi ha risposto.
Allora l'ho aperta e sono entrata piano piano. Lei ha
fatto un salto dallo spavento e subito ha accartocciato
qualcosa nascondendolo sotto le lenzuola. L'ho sgridata
perch‚ non stava riposando e le ho chiesto che cosa
stesse facendo. Poi sono uscita un attimo per riempire
il thermos dell'acqua calda. Ed ecco che lei di nuovo
aveva tirato fuori quel foglio e si era messa a scrivere".
"A scrivere?" chiesi stupita.
"Sć, sta scrivendo qualcosa con tutte le sue forze.
Se va avanti cosć non guarir pi. Chiss cosa le sta
passando per la testa!"
"Ha ancora la febbre?"
"Sć, le si alza la sera, per poi scendere la mattina."
"Che cosa sar mai, delle poesie, o un racconto?"
Tsugumi e la "scrittura", erano due cose che proprio
non stavano bene insieme, cosć chinai il capo perplessa.
"Purtroppo non riesco a leggerle nel pensiero," disse
Yoko, sorridendo dolcemente.
Mai dimenticher• i suoi modi pieni di grazia, la sua
nobilt d'animo e quella sua tenera gentilezza. Nel mio
cuore, accanto a quella di Tsugumi, portavo con gioia
anche la sua pallida ombra. E avrei continuato a farlo
ovunque mi fossi trovata, e in qualunque maniera fossi
cresciuta.
"Che strano, oggi fa proprio caldo. Sembra estate!"
Osservai la forma rotonda del suo mento, mentre di
nuovo alzava lo sguardo verso il cielo. Sć, vedevo spesso
le cose in una strana maniera. Respiravo in quel tran-
quillo paese, guardando quel che avevo intorno con un
obiettivo grandangolare.
L'autobus entr• nella stazione molto lentamente.
Prima di salire a bordo, non riuscivo a togliermi di
dosso la triste sensazione di cui era pervaso quel mez-
zogiorno luminoso.
Se ci fosse stata Tsugumi con il suo bagliore, avreb-
be cancellato completamente quei forti raggi. Avrebbe
riso di noi, prendendosi gioco delle nostre facce tristi,
la mia e quella di Yoko.
Quello era ci• che desideravo, pensai, mentre dal fi-
nestrino del pullman vedevo Yoko che, salutandomi
con la mano, diventava sempre pi lontana.
A Tokyo stava piovendo.
Quando misi piede sulla banchina della stazione,--
se fosse per colpa del tempo diverso, del fresco che c'e-
ra nell'aria, o della marea di persone, non lo so--co-
munque, mi sembr• che ogni cosa si stagliasse in una
strana maniera.
Con tutta probabilit dipendeva dal mio stato d'a-
nimo.
Nonostante fossi tornata a casa, tutto era lontano
come in un'immagine vista in sogno. Il mio corpo, che
per un mese era stato in moto respirando aria di mare,
era in gran forma.
Fissai il grigio della citt che affumicava la pioggia
e, mentre convalidavo il biglietto, pensai, senza alcuna
ragione:-
"La mia vera vita comincer da qui in avanti!".
Scesi le scale barcollando sotto il peso dell'enorme
bagaglio, e vidi la mamma in piedi in mezzo alla folla.
"Eh? La mamma!" esclamai e, sorpresa, mi avvici-
nai di corsa. Lei appoggi• le borse della spesa e mi
sorrise:
"Sono uscita a fare compere e cosć sono passata a
prenderti. Ho immaginato che non avessi l'ombrello".
"Infatti."
"Andiamo! "
Quando cominciammo a camminare, mi resi conto
che lei con la sua presenza mi stava riportando alla
realt, passo dopo passo.
"Ti sei divertita?"
"sć."
"Come sei nera!"
"Sai, c'Š stato bel tempo ogni giorno."
"E' vero che Tsugumi ha il ragazzo? Il pap era cosć
sorpreso quand'Š tornato a Tokyo."
"Sć, sć, Š vero. E stato con noi per tutte le vacanze, e
siamo diventati buoni amici."
"Adesso lei Š di nuovo in ospedale, vero? E pensare
che era stata cosć bene negli ultimi tempi."
"Si Š ammalata per colpa degli strapazzi estivi."
Sotto l'ombrello, la voce della mamma era molto se-
rena. Dirette verso casa, passavamo davanti ai negozi
bagnati dalla pioggia, e io capii che nel mio cuore stava
emergendo, con una forza sempre maggiore, il calore
dell'estate.
Poi pensai con affetto a Tsugumi, come non avevo
mai fatto fino ad allora.
Al suo bel volto, cosć follemente innamorata.
"Il pap muore dalla voglia di vederti. Pensa che
oggi ha persino detto che sarebbe tornato a casa prima
dall'ufficio. Non ti dico quanto mi sono annoiata senza
di te. Stasera ti preparo tutti i tuoi piatti preferiti,"
disse lei sorridendo.
"Che bello, stasera si mangia la cucina della mam-
ma! Sapessi quante cose ho da raccontare!" esclamai,
ma dentro di me decisi che della fossa non avrei detto
una parola. E neppure di quanto Kyoichi, in piedĄ da-
vanti al mare di notte, fosse innamorato di Tsugumi.
Tanto meno della pena che avevo provato per le lacri-
me di Yoko. Quelli erano tesori del cuore che non pote-
vano essere trasmessi a nessuno.
Cosć facendo, la mia estate annunci• la sua fine.




La lettera di Tsugumi.

Tornata a Tokyo per un po' stetti senza far nulla.
All'universit era pieno di gente ancora intontita
dalle ferie proprio come me, tanto che a lezione, per
qualche giorno, tra compagni ci si diceva che sembra-
va stessimo giocando alla maestra. Comunque, ogni
volta che si parlava delle vacanze, avevo l'impressione
di averne trascorse di un po' diverse da quelle di tutti
gli altri.
In effetti ero stata in un altro mondo.
L'incredibile energia che emetteva Tsugumi, l'in-
tensit dei raggi di sole delle citt di mare in estate,
le nuove amicizie... ogni cosa si sovrapponeva dando
vita a uno spazio mai visto prima di allora. Animato
come il paese natale che vede in sogno un soldato pri-
ma di morire, un universo pi rassicurante di quello
vero. Immersa nella debole luce di settembre, tra le
mani non me ne restava nemmeno l'ombra, tanto che
se mi chiedevano dove avessi passato l'estate, riuscivo
a rispondere soltanto: "Sono andata al mio paese,
ospite nella pensione dei miei zii". Le vacanze che ave-
vo trascorso, erano per me un'essenza condensata di
tutte le nostalgie passate.
...Quando ci pensavo, me lo chiedevo ogni volta.
Chiss se anche Tsugumi provava quelle sensa-
zioni?
Un giorno il pap si ruppe una gamba.
Era salito sulla scala nell'archivio dell'ufficio, ed
era caduto dall'alto di uno scaffale con in braccio delle
cartelle molto pesanti. Io e la mamma ci precipitammo
all'ospedale ma quando arrivammo, lui ci accolse dal
suo letto con il sorriso sulle labbra e il viso rosso per
la vergogna. In effetti, sebbene non tollerasse affatto il
dolore psichico, riusciva a sopportare molto bene quel-
lo fisico.
Tirammo un sospiro di sollievo e tornammo a casa,
ma visto che si parlava di ricovero per due, tre giorni,
la mamma prese la biancheria di ricambio e si diresse
di nuovo verso l'ospedale. E io rimasi in casa sola.
Fu in quel momento che squill• il telefono.
Immediatamente percepii che si trattava di una
brutta telefonata. E per un istante vidi la faccia di pa-
p. Alzai molto lentamente il ricevitore, e:
"Pronto?".
Mi ero sbagliata: era Yoko.
"Sono in casa gli zii?"
"No, a dire il vero, pap si Š rotto una gamba, e
adesso Š all'ospedale! Sai, Š ancora un bambino," feci
io ridendo, ma lei non rise affatto. Poi disse:
"Le condizioni di Tsugumi sono preoccupanti".
Persi la parola. E mi venne in mente il suo candido
profilo, mentre insisteva nel dirmi che sarebbe morta.
Alla fine riuscii a chiederle:
"In che senso?".
"oggi a mezzogiorno il dottore ha detto che ce la
pu• fare, ma lei Š praticamente senza coscienza da ie-
ri. La febbre Š altissima, insomma, Š peggiorata tutt'a
un tratto..."
"Pu• ricevere visite?"
"No, adesso non Š permesso. Per•, io e la mamma
siamo qui da ieri." Il tono della sua voce era cosć tran-
quillo, che capii che non si era ancora resa conto di
quanto stava accadendo.
"Ho capito, arrivo domani mattina con il primo
pullman. Comunque sia la situazione, vengo a darvi il
cambio," dissi. Anche la mia voce era calma, al contra-
rio del mio cuore, e la sentii risonare forte, quasi aves-
si stretto un giuramento.
"E Kyoichi?"
"L'ho gi avvisato. Ha detto che sarebbe venuto su-
bito."
"Yoko!" la chiamai. "Se ci dovesse essere qualche
cambiamento, telefona immediatamente, anche in pie-
na notte."
"Va bene, ho capito."
E riattaccai. Quando la mamma torn•, le riferii
l'accaduto, e lei decise di lasciare il pap da solo e di
venire con me ad assistere Tsugumi. Cosć preparammo
i bagagli per il giorno dopo.
Portai il telefono in camera mia e lo misi vicino al
letto. In caso dovesse squillare... Il sonno in cui caddi
era molto leggero, di profondo c'era soltanto la notte.
In quell'ambiguo dormiveglia, continuavo a percepire
la presenza del telefono in un sogno che andava e veni-
va a intermittenza. Una sensazione terribile: lć di fian-
co per tutta la notte, freddo come un blocco di ferro
arrugginito.
In sogno continuai a vedere Yoko e Tsugumi. In
quelle immagini confuse e frammentarie, ogni volta
che vedevo Tsugumi percepivo qualcosa di sacro e mi
sembrava di provare compassione. Diceva cose imper-
tinenti con la solita faccia imbronciata, alla pensione e
in riva al mare, e io le ero vicina con un'espressione
preoccupata. Ero al suo fianco, come sempre ero stata.
Il sole del mattino mi arrivava dritto negli occhi an-
cora chiusi, cosć che, ummm, mi alzai. Il telefono non
aveva suonato. Chiss come star Tsugumi, pensai, e
aprii le tende.
Era una splendida mattinata.
L'autunno era arrivato davvero. Il cielo era una lim-
pida distesa verde acqua e gli alberi venivano scossi
lentamente dalla forza del vento. Il silenzio creava un
mondo trasparente senza suoni, intriso del profumo
dell'autunno. Era da tempo che non vedevo una matti-
na cosć abbagliante 'e per qualche minuto guardai quel-
la vista con la mente assente. Era talmente bella da far
male al cuore.
A colazione, mentre ci stavamo chiedendo come
avesse passato la notte, e dicendo che in ogni caso sa-
remmo andate a vedere come si erano messe le cose,
squill• il telefono.
Era zia Masako.
"Allora?" non feci in tempo a dire, che subito lei,
con un po' di vergogna, mi interruppe. "A proposito", e
si mise a ridere.
"Va tutto bene?" domandai nuovamente.
"Appunto, volevo dirvi che si Š ripresa come se
niente fosse stato. Mi sa che abbiamo proprio esagera-
to," disse.
"Cosa? Davvero?" E mi sentii le forze svanire dal
corpo.
"Era da cosć tanto tempo che non succedeva, che ie-
ri sera, quando Š peggiorata improvvisamente, abbia-
mo perso tutti la testa. Il dottore, dopo aver fatto tutto
quello che poteva, Š venuto a dirmi che le sue condizio-
ni erano gravissime, ma che era sorpreso dalla forza di
volont con cui stava lottando. Per qualche ora abbia-
mo temuto il peggio, ma stamattina--incredibile, ma
vero--la situazione si Š stabilizzata e lei adesso sta
dormendo come un angioletto. Con tutti i problemi di
salute che ha avuto finora, una cosa del genere era la
prima volta che le capitava. Adesso mi aspetto che fac-
cia qualcos'altro al di l di qualsiasi immaginazione,
ma staremo a vedere..." concluse la zia, rassegnata, ma
felice. "Mi dispiace di avervi fatte spaventare. Comun-
que, se succede qualcosa vi chiamo subito per chieder-
vi di venire ad aiutarmi. Per oggi non c'Š davvero pi
bisogno che veniate. Ancora scusa per avervi fatte
preoccupare."
, "Figurati, sono felice che sia andata cosć," dissi io.
Tirai un sospiro di sollievo e contemporaneamente
sentii nel mio cuore un flusso di calore, come se il
sangue avesse ripreso a scorrere. Passato il telefono
alla mamma, tornai in camera e mi infilai sotto le co-
perte. Chiusi gli occhi nella luce del mattino, e senten-
do da lontano quella voce parlare tutta felice, mi ad-
dormentai. Questa volta mi fece visita un sonno molto
pesante.
Un sonno profondo e sereno.
Qualche giorno dopo, a mezzogiorno, mi telefon•
Tsugumi.
"Sć?" risposi.
"Ohi, mostro!" La sua voce irruppe all'improvviso e
in quell'istante capii che proprio non ce l'avrei mai fat-
ta a sopportare la perdita di quelle sottili vibrazioni
cosć piene di nostalgia. Una conoscenza che non deriva-
va dai miei pensieri, ma dai miei sensi. Dall'altra parte
del ricevitore si sentiva un pasticcio incredibile: bam-
bini che piangevano e persone che venivano chiamate
all'altoparlante.
"Cosa succede? Stai chiamando dall'ospedale? Va
tutto bene? Stai meglio adesso?" le chiesi.
"Sć, sto meglio. Ti sto chiamando dall'ospedale. Non
sono ancora guarita del tutto, ma Š questione di giorni.
Non posso credere che mi abbia fatto una cosa del ge-
nere!" E cominci• a parlare di cose dal significato
oscuro.
"Sono sicura che quella deficiente dell'infermiera
l'ha spedita con l'indirizzo sbagliato. Quant'Š stupida!"
"Ma di cosa stai parlando?" le chiesi pensando che
la febbre le avesse danneggiato il cervello. Ma lei tac-
que senza rispondere alla mia domanda. Quel silenzio
dur• cosć a lungo che vidi la sua figura emergere da-
vanti ai miei occhi. Un'unica immagine in cui erano in-
corporate mille cose: il fruscio dei suoi capelli, il ba-
gliore dei suoi occhi incandescenti, il suo collo sottile.
Le linee delle caviglie mentre camminava a piedi nudi
sulla spiaggia, i denti bianchissimi dei momenti in cui
sorrideva. Il pr•filo imbronciato con le sopracciglia
corrugate... e lo sguardo rivolto al mare. Verso il sole
splendente e le onde che arrivavano sulla spiaggia...
"Sai, sarei dovuta morire,Å» disse tutt'a un tratto e
senza tanti giri di parole.
"Ma sei impazzita? Ti sembra il caso di andare a
spasso per i corridoi dell'ospedale tutta pimpante per
poi parlare di morte?" la ripresi ridendo.
"Che stronza che sei! Guarda che stavo davvero per
morire! Mentre ero in coma, ho visto una luce molto
intensa. Avevo una voglia incredibile di andare verso
la sua fonte e cosć mi ci sono avvicinata, quando al-
l'improvviso Š spuntata la mia cara mamma defunta
che mi ha detto: 'Non andare!'..."
"Sei una bugiarda! Di chi sarebbe la mamma defun-
ta?" Ero felice di sentire che era tornata quella di
sempre.
"Hai ragione, sono una bugiarda, per• me la sono
davvero vista brutta. Diventavo debole giorno dopo
giorno, ed ero proprio convinta di non farcela pi,"
disse Tsugumi. "E allora ti ho scritto una lettera."
"Una lettera? A me?" dissi, praticamente urlando
dalla sorpresa.
"Ebbene sć. Lo so che fa ridere, visto che alla fine
sono sopravvissuta. Purtroppo, l'infermiera a cui l'ave-
vo data mi ha detto che l'ha gi spedita. Volevo ripren-
dermela, ma non Š pi possibile. Anche se ti dico di
buttarla appena la ricevi, senza nemmeno aprire la bu-
sta, con lo schifo di carattere che ti ritrovi, sono sicura
che la leggeresti all'istante, cosć, chi se ne frega, leggi-
la pure!" disse.
"Insomma, la devo leggere o no?" Il fatto che Tsu-
gumi mi avesse scritto una lettera, mi faceva battere
forte il cuore.
"Sć, leggila, lŠggila," disse ridendo. "Sai, ho come
l'impressione di essere morta davvero l'altro giorno,
cosć che quella lettera non Š proprio sbagliata del tut-
to. Dopo questa esperienza, credo che cambier• poco
alla volta." Non capivo cosa intendesse. Eppure da
qualche parte, dentro di me, avevo la sensazione di riu-
scirci. Tacqui per un istante, e lei continu•:
"Ah, Š arrivato Kyoichi, te lo passo! Ciao!".
Tsugumi, la chiamai, ma ormai se ne era gi an-
data.
"Vai subito in camera!" url• Kyoichi e poi, senza
nemmeno sapere con chi avrebbe parlato, rispose al te-
lefono:
"Pronto?".
Come al solito, aveva vinto Tsugumi. Ormai lei sta-
va camminando a grandi passi nel corridoio, diretta
verso la sua camera. Con il suo esile corpo e il petto in
fuori, imponente come un re.
Mi venne da sorridere, un po' rassegnata, e poi ri-
sposi:
"Pronto?".
"Ah, Maria!" esclam• lui e si mise a ridere.
"Allora, Tsugumi mi ha detto che se l'Š vista brutta,
Š vero?" chiesi.
"Sć, per• adesso sembra che stia gi benissimo.
Pensa che per qualche ora i dottori non hanno permes-
so che entrasse nessuno nella stanza, era messa molto
male. Ci siamo presi un bello spavento," rispose lui.
"Salutala da parte mia. Ascolta... quando Tsugumi
traslocher, lascerai che la vostra storia finisca?" La
domanda mi uscć di bocca con grande disinvoltura.
"No, anche se finch‚ non proviamo a vivere lonta-
ni, non posso sapere cosa succeder. Sai, non penso che
in giro ci siano tante persone forti come lei. Tsugumi
Š una ragazza straordinaria, un capolavoro assoluto.
Credo proprio che non potr• mai dimenticare questa
estate. Anche se ci dovessimo lasciare, rimarr scolpita
per sempre dentro di me con tutta la sua forza. Ne so-
no sicuro," disse senza alcun accenno d'emozione. "E
poi, al posto della pensione Yamamoto, ci sar sempre
il mio hotel, no? Quindi potrete venire quando vor-
rete."
"Vorr dire che rimarremo legati per sempre, co-
me quest'estate, magari da qualche altra parte."
"Chiss!" disse lui ridendo. "Ah, in questo momen-
to Š entrata Yoko. Ha in mano dei gigli, "ah, all'ango-
lo del corridoio ha sbattuto contro un malato, gli sta
chiedendo scusa... Š arrivata, eccola, te la passo, ciao."
Pronto? Chi parla? Mentre-rispondevo alle doman-
de di Yoko, Š come una sfilata, pensai. Venivano fuori
uno dopo l'altro. Seduta su una sedia di casa, fissavo
il cielo al di l dei vetri, e le parlavo. Il sole del pome-
riggio riempiva di luce la stanza formando dei rettan-
goli sul pavimento e, dentro di me, sentii che stavo
prendendo una decisione, molto tranquillamente e sen-
za una ragione particolare, qualcosa dai tratti non an-
cora definiti. Quello, Tokyo, era il posto in cui avrei
vissuto il mio futuro.




A Maria,
E andata proprio come dicevo.
O forse, quando questa lettera arriver, tu starai
venendo qui per il mio funerale. Questa sć che Š
una vera "lettera di uno spirito".
I funerali d'autunno sono tristissimi, li odio.
Negli ultimi giorni ti ho scritto un sacco di lette-
re. Le scrivevo e le strappavo, per poi ricominciare
da capo. Chiss perch‚ proprio a te? La ragione Š
che tra le persone che ho intorno, tu sei l'unica che
riesce a valutare con esattezza, e quindi a compren-
dere, le mie parole.
In questo momento in cui mi trovo per davvero
di fronte alla morte, ho un unico desiderio nel mio
cuore: lasciare una lettera per te. Al solo pensiero
che gli altri si disfaceranno in pianti inutili e che
vorranno dare la loro buona interpretazione sulla
mia persona, mi viene la nausea. Kyoichi Š un ra-
gazzo in gamba, ma sai, l'amore Š una battaglia:
non si possono rivelare i propri punti deboli, nem-
meno alla fine.
Mi chiedo come sia possibile che tu, stupida co-
me sei, riesca a dare a ogni cosa il suo giusto peso.
Deve essere un mistero.
E poi ancora una cosa: subito dopo essere stata
ricoverata in ospedale, ho letto un romanzo dal ti-
tolo La zona morta. L'avevo iniziato cosć, tanto per
ingannare il tempo e, invece, con mia grande sor-
presa, l'ho trovato talmente interessante che l'ho
letto tutto d'un fiato. Nel frattempo le mie condizio-
ni continuavano a peggiorare, tanto che leggere era
diventato una fatica per me, ma quel libro, e il suo
giovane protagonista che si ammalava sempre pi,
erano diventati di vitale importanza per una perso-
na debole fisicamente come me.
La storia comincia con il protagonista in fin di
vita dopo essere stato coinvolto in un incidente
stradale. Gliene succedono di tutti i colori, della se-
rie "le disgrazie non arrivano mai da sole", e alla fi-
ne muore; l'ultimo capitolo Š composto dalle lettere
che lascia al padre e alla fidanzata. Quando ho let-
to quelle lettere scritte dalla "zona morta" non ci
crederai, ma mi sono messa a piangere. Ho provato
una forte invidia per quell'azione: scrivere e poi ri-
cevere una lettera, ed Š per questo che ti sto scri-
vendo.
Mentre scavavo la fossa per quello stupido ra-
gazzino, ho pensato a un sacco di cose. Tanto per
ammazzare il tempo durante il lavoro. E qualche
giorno dopo, mentre ascoltavo le lamentele piagnu-
colose di quella scema di mia sorella, che se va
avanti cosć finir per doversi prendere cura di me
per tutta la vita senza nemmeno riuscire a sposarsi,
ho avuto un'illuminazione improvvisa. Mi Š sem-
brato di vedere il profilo del mio volto, in una ma-
niera molto chiara. Niente pi di una pallida ragaz-
zina cresciuta seminando in giro capricci e crisi d'i-
sterismo, nonostante il suo debole corpo fosse sor-
retto a fatica dalle persone che le stavano intorno, e
che molto probabilmente sarebbe rimasta cosć per
sempre.
Di certo non ne sono pentita, anche perch‚, bene
o male, l'ho sempre saputo.
Eppure, rinchiusa negli spaventosi limiti del mio
corpo, Š stato molto bello perdersi in quel genere di
pensieri e mi ha anche fatto capire che uno di que-
sti giorni, morir•. A ogni modo, scavare una fossa
come quella non deve essere una cosa molto facile
nemmeno per quelli che godono di buona salute.
Quell'ultimo lavoro faceva proprio al caso mio: Š
stata un'impresa molto faticosa.
Sai, l'ho scavata nel giardino dei vicini, cosć che
non potevo assolutamente correre il rischio di veni-
re scoperta. Ho lavorato soltanto di notte. E ho con-
tinuato a scavare portando via la terra poco alla
volta.
Ogni giorno, verso la fine del lavoro, quando al-
zavo la testa dal fondo della fossa, si vedevano le
stelle. Osservavo la terra dura, le mie mani piene di
tagli e la notte in cui stava di nuovo per sorgere il
sole dell'estate.
Dal fondo della fossa.
Da quella stretta visuale, guardavo il cielo schia-
rirsi e le stelle sparire poco alla volta, e, stanca mor-
ta, cominciavo a pensare. Perch‚ la mamma non
scoprisse i miei vestiti sporchi, lavoravo sempre con
indosso un costume da bagno su cui ogni giorno
mettevo una giacca tutta infangata, sempre la stes-
sa. Cosć facendo, mi sono accorta di non avere pra-
ticamente memoria di essermi mai messa il costu-
me e di aver nuotato nel mare. Quando con la scuo-
la andavamo in piscina, io stavo sempre a guardare,
e adesso che ci penso, non so neanche nuotare a sti-
le libero. Mi sono anche ricordata che ogni giorno,
quando arrivavo sulla salita a met strada per anda-
re a scuola, mi veniva sempre a mancare il fiato, co-
sć che non sono mai riuscita a prendere parte alla
riunione del mattino sin dall'inizio. Non me n'ero
resa conto prima d'ora, perch‚, in quei momenti, al-
zavo sempre lo sguardo verso l'immenso azzurro del
cielo, mai verso la terra.
Respiro a stento e mi sento il corpo pesante co-
me se fosse schiacciato dal peso delle coperte.
E non riesco neppure a mangiare. Le unĄche cose
che riesco a mandare gi, sono gli tsukemono che
mi porta la mia vecchia. Faccio ridere, eh, hlaria?
Fino a ora, qualunque cosa mi succedesse, senti-
vo che una parte di me era sempre in forma, adesso,
invece, capisco che le risorse si sono esaurite. E a di-
re la verit, non faccio che lamentarmi!
Di notte, poi, Š un vero strazio.
Quando spengono le luci, questa stanza si tra-
sforma in un'ombra enorme, e io sprofondo nella
depressione. Tanto che mi viene da piangere. Se
piango, per•, mi stanco e riesco a sopportare meglio
il buio. E con una piccola luce continuo a scrivere
questa lettera. I sensi vanno e vengono, e le cose co-
minciano a girarmi intorno. Se peggioro ancora un
po, Š la fine. Diventer• un inutile cadavere, e voi,
gi a piangere come dei cretini.
Tutte le mattine viene un mostro di infermiera ad
aprire le tende.
Il risveglio Š terribile: con la gola arsa e un forte
mal di testa, mi sembra di essere una mummia sec-
cata dalla febbre. Se poi faccio qualcosa di sbagliato,
mi fa subito una flebo o qualche altra diavoleria. In-
somma, un inferno.
Per•, quando apre le finestre, insieme ai raggi di
sole entra anche l'odore del sale. Con gli occhi per
met ancora chiusi, continuo a dormicchiare sotto
le palpebre piene di luce, e sogno le mie passeggiate
con Pochi.
La mia vita Š stata proprio insignificante. Se do-
vessi dire quali sono state le cose pi belle, mi ven-
gono in mente soltanto quelle camminate.
Comunque, sono felice di poter morire in questo
paese.
Stammi bene.
TSUGUMI Y.



Postscriptum:

Ogni anno vado in vacanza con la mia famiglia sulla
costa occidentale della penisola di Izu. Andiamo sem-
pre nello stesso posto, nello stesso albergo, ormai da
pi di dieci anni, tanto che per me Š un po' come esse-
re a casa. Lć non succede mai niente di speciale, e io
trascorro le mie estati nella noia.
Ho scritto questo romanzo perch‚ volevo lasciare
impresse da qualche parte le sensazioni di quei giorni:
quel "non esserci niente", il ripetersi delle nuotate, delle
passeggiate e dei tramonti, con il mare sempre presen-
te. Cosć che, se per caso io o qualcuno della mia famiglia
dovessimo perdere la memoria, ci basterebbe leggere
questo libro per riuscire a ricordare quel luogo. E poi
ancora una cosa: Tsugumi sono io. Con il brutto caratte-
re che mi ritrovo, non poteva essere altrimenti.
Il periodo in cui l'ho scritto Š stato molto diverten-
te. Ringrazio tutti i responsabili della casa editrice
Chuo koron, la redazione di "Marie Claire" e in parti-
colar modo Yasuhara Ken.
Dedico Tsugumi a due Yoko: Kaneshima Yoko, a
cui mi sono ispirata per il personaggio di Yoko, e
Yamamoto Yoko, che ha firmato lo splendido disegno
della copertina dell'edizione giapponese.
Infine, grazie a voi per aver letto questo mio libro.
Banana Yoshimoto




Postscriptum per l'edizione italiana:

Venire in Italia lo scorso anno per ricevere il Premio
Scanno Š stata un'esperienza felicissima.
Inge Feltrinelli, la mia mamma italiana, mi ha rag-
giunta alla cerimonia di premiazione e, bagnandomi le
guance con dello champagne che si era rovesciato, mi ha
detto: "Un gesto magico che ti porter fortuna!". Poi mi
ha promesso che se per caso un giorno (non si sa mai!)
dovessi vincere il Premio Nobel, avrebbe chiesto a un fa-
moso stilista italiano di disegnarmi un vestito per l'oc-
casione.
E stato tutto stupendo.
Quei giorni trascorsi a ridere circondata dai miei
amati amici italiani, le parole del mio caro Dario Argen-
to: "Che bella mano che hai, me la vorrei portare a ca-
sa!". La bellezza al di l di qualsiasi immaginazione, del
Vaticano visitato di notte durante un giro in macchina.
Giornate cosć non capitano spesso nella vita. Giorna-
te di una felicit intensa, concentrata. Ed Š inseguendo
quel vivido miraggio che le persone riescono a tirare
avanti e a invecchiare... nella speranza che vacanze co-
me quelle possano ripetersi ogni anno.
Tsugumi Š un romanzo che parla di questo. Di un'in-
tensa estate di un gruppo di ragazzi che non torner mai
pi. Del mare e del primo amore. Mettendo da parte le
crudelt del mondo reale ho semplicemente raccontato
un pallido sogno.
Uno di quelli che tutti noi facciamo da piccoli.
Purtroppo in Giappone non sono molti i posti di cui
si possa andare fieri quanto a panorama, ma del mare,
invece, sć. Mi farebbe davvero piacere sapere di essere
riuscita a trasmettervi la delicatezza e il bagliore, con
quel non so che di triste, della sua vista.
Tutta la mia stima al talento e all'entusiasmo di
Alessandro che per tradurre questo mio libro ha rinun-
ciato alle vacanze estive. Grazie.
Sapere che voi italiani leggete le mie cose Š per me
una gioia immensa.
Con la preghiera che ci si possa ritrovare presto...
A Tokyo, con l'estate alle porte,
Banana Yoshimoto.


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