Banana Yoshimoto N P






BANANA YOSHIMOTO,
N P.

Titolo dell'opera originale: N P.
Traduzione dal giapponese di GIORGIO AMITRANO.


COPYRIGHT 1991 by Banana Yoshimoto.
Prima edizione ne "I Canguri" novembre 1992.
Prima edizione nell'"Universale Economica" maggio 1994.
Decima edizione marzo 1997.



Quello che sapevo era che Sarao Takase, oscuro scritto-
re, aveva vissuto in America, e durante la sua oscura esisten-
za aveva scritto una serie di racconti.
Che a quarantotto anni era morto suicida.
Che dalla moglie da cui era separato aveva avuto due figli.
Che i suoi racconti, raccolti in un volume, per breve
tempo erano stati un best-seller in America.
Il titolo del libro: N.P.
Comprende novantasette racconti. Forse per l'incostan-
za dell'autore, il libro non Š che il susseguirsi di storie bre-
vissime, poco pi di semplici bozzetti.
Queste cose le avevo sapute da Shoji, il mio ragazzo di
un tempo. Era stato lui a ritrovare il racconto n. 98, mai
pubblicato, e a tradurlo.
Nel gioco dei Centoracconti al termine della centesima
storia accadeva qualcosa. Ma il racconto n. 100 sono stata io
a viverlo durante l'estate. Ho la sensazione di averlo vissuto
in prima persona, sulla mia pelle. Di essere stata risucchiata
in un vortice d'aria nel cielo d'estate. Sć, tutto ci• che Š ac-
caduto durante quel breve periodo Š stato un racconto.
Si, a pensarci sono gi passati cinque anni da quando, al
tempo in cui ero ancora al liceo, incontrai per la prima volta
i figli di Sarao Takase.
Fu al party di una casa editrice dove mi aveva portato
Shoji. Nel vasto salone, su un grande tavolo, cibi di tutti i
colori erano disposti in vassoi d'argento, e sotto la luce di
tanti piccoli lampadari a forma di cattleya, una folla di gente
chiacchierava e rideva.
Di giovani non c'era quasi nessuno, perci• quando mi
accorsi di loro provai un lampo di gioia.
Mentre Shoji era tutto preso in una conversazione con
qualcuno, mi spostai in un angolo dal quale potevo osservar-
li meglio. Provai allora una sensazione curiosa. La sensazio-
ne di averli gi incontrati pi volte in sogno. Ma ritornando
subito alla realt mi dissi: ma sicuro, dev'essere l'effetto che
questi due fanno a chiunque.
C'era qualcosa in quella coppia che suscitava un'indefi-
nibile nostalgia.
Mentre li guardavo assorta, Scioji si avvicin• e disse:
"Quei due sonó quel che resta di Takase".
"Tutti e due?" chiesi io.
"Sono gemelli. "
"Mi piacerebbe conoscerli..."
"Vuoi che te li presenti?" fece lui esitante.
"Su, non fare il vigliacco! Tanto qui ufficialmente ho
vent'anni," dissi ridendo.
"Ah, Š questo che pensi? Su, vieni che te li presento," ri-
se Shoji.
"Aspetta un attimo. Voglio guardarli un altro po'."
Mi piaceva osservarli da quella distanza. Una volta inco-
minciato a parlare, non avrei pi potuto continuare a esami-
narli cosć attentamente.
Di loro sapevo solo che erano i figli nati da un matrimo-
nio di Sarao Takase fatto in giovane et. Che erano pi o
meno miei coetanei e che il padre se ne era andato da casa
quando erano ancora piccoli. Che dopo la morte di Takase,
insieme alla madre erano venuti a stare in Giappone con la
famiglia paterna.
Certo, chiss quante ne avranno viste questi due, pensa-
vo guardandoli.
Erano entrambi alti, e avevano i capelli castani. La ra-
gazza aveva un aspetto delicato ma allo stesso tempo florido
e una carnagione rosea. Aveva gambe affusolate e scarpe ne-
re dai tacchi alti, un vestito dall'ampia scollatura e un viso
pulito. C'era in lei una sensualit straordinariamente lumi-
nosa.
Anche il ragazzo aveva un viso piuttosto bello. A ecce-
zione degli occhi, che avevano qualcosa di cupo, tutto il suo
corpo emanava un tale vigore da comunicare quasi un senso
di ottimismo. Ma erano proprio gli occhi, con la luce selvag-
gia che nascondevano, a rivelare la sua discendenza.
Per qualche ragione tutti e due sorridevano spesso. Ave-
vano un modo dolce di sorridersi continuamente mentre
parlavano di qualche cosa tra loro.
Nel vedere questa scena, mi ricordai di una volta in cui
avevo avuto una sensazione molto simile.
Era stato molto tempo prima, una volta che ero andata a
passeggiare nel giardino botanico dalle parti di casa mia. A
un tratto notai, distesi su un prato, una mamma e un bambi-
no. Un prato verde colpito dai raggi dorati del tramonto nel
grande giardino semideserto. La giovane madre aveva steso
il bambino, che poteva avere pi o meno sei mesi, su un am-
pio asciugamano bianco aperto sull'erba e, senza moine e
sorrisi, si limitava a contemplarlo assorta. Poi ogni tanto,
come ritornando in s‚, alzava gli occhi a guardare il cielo.
I capelli soffici, un po' scompigliati, di madre e figlio
erano allo stesso modo dorati dai raggi del sole e mossi appe-
na dal vento. La scena, con le sue ombre dense, aveva l'im-
mobilit di un quadro di Wyeth.
Quando, dopo essere rimasta a guardarli, a un tratto di-
stolsi lo sguardo, era sera, una sera fuori dal tempo in cui fe-
licit e malinconia si erano fuse come in una visione divina.
E qualcosa di molto simile avvolgeva i figli di Takase. La
malinconia di un tramonto luminoso. Forse il riverbero del
genio che scorreva nel sangue e che n‚ giovinezza n‚ allegria
potevano spegnere.
Chiesi a Shoji: "Adesso comincerai a tradurre i racconti
di Takase?"
"Ebbene sć," disse Shoji con una certa fierezza guardan-
domi.
"Com'era il titolo? Mi sembrava una cosa tipo iniziali."
"Si chiama N.P. "
"Che vuol dire N.P.?"
"E' l'abbreviazione di North Point."
"Sarebbe?"
"C'Š una vecchia canzone che si chiama cosć."
"Che canzone?"
"Hmm... una canzone molto triste," disse Shoji.




Quel giorno, all'improvviso, lo squillo del telefono mi
catapult• fuori dal profondo del sonno.
Allungato il braccio e preso il ricevitore, riuscii a dire
"pronto?"
Subito mi risuon• nell'orecchio la voce dal tono basso di
mia sorella maggiore:
"Kazami? Sono io. Stai bene?"
Nel riconoscere il suono intermittente tipico delle tele-
fonate dall'estero mi svegliai del tutto.
"E... Š successo qualcosa?"
La stanza, ancora nella semioscurit, era completamente
silenziosa. Guardai l'orologio: erano le cinque del mattino.
Il cielo dell'alba, che traspariva da una fessura della tenda,
era di un grigio cupo.
"No, niente. Volevo solo sentirti," disse mia sorella.
"Ti sei dimenticata di nuovo della differenza di orario.
Qui sono le cinque del mattino," dissi.
"Scusa, scusa," fece lei ridendo.
Mia sorella Š sposata con uno straniero e vive a Londra.
"Da voi che ore sono?"
"Le otto di sera."
Penso sempre con meraviglia all'esistenza dei fusi orari.
E con ammirazione alla linea che permette un collegamento
cosć miracoloso.
"Novit?" chiesi.
"Niente, solo che ti ho sognata," disse mia sorella. "Nel
sogno ti vedevo per strada dalle parti di casa. Camminavi
sottobraccio a un uomo un bel po' pi grande di te."
"Dalle parti di casa ... a Londra vuoi dire?"
" Sć, vicino alla chiesa che sta dietro casa mia. "
"Magari sar un sogno premonitore," dissi subito ralle-
grata. I sogni di mia sorella si avveravano quasi sempre.
"Per• sai, sembravate tutti e due infelici. Tanto che non
ho avuto il coraggio di chiamarti. Lui era alto, e aveva l'aria
un po' nevrotica. Portava un pullover bianco. Tu invece
stranamente avevi la divisa alla marinara. Insomma, ve-
dendo quella scena ho pensato: non Š che star con uno spo-
sato?"
"Ma neanche per idea," risposi, ma ero rabbrividita.
Non c'era dubbio: l'uomo con cui passeggiavo nel sogno di
mia sorella era Shoji. Solo che lei Shoji non lo conosceva.
"Non sar che il mio sesto senso si Š appannato?"
"Effettivamente non mi fa venire in mente niente," dis-
si. Ma intanto pensavo: che razza di premonizione Š questa?
Certo Š che da un po' di tempo lui mi ritornava in mente
sempre pi spesso, e non in forma di semplici ricordi. La sua
immagine appariva in improvvisi flashback nel cielo piovo-
so, sull'asfalto nero bagnato, nelle vetrine illuminate agli an-
goli delle strade. Quando ormai non ci pensavo pi da tanto
tempo.
"E tuo marito come sta?" chiesi.
"Benissimo. Quest'inverno veniamo in Giappone. La
mamma la vedi spesso?"
"Ogni tanto. Dice che le manchi."
"Salutala. Beh, ora ti lascio. Scusa se ti ho svegliato. Ti
chiamer• ancora."
"Dopo aver controllato i fusi orari, possibilmente."
"Va bene, va bene. E tu, mi raccomando, guardati da
storie infelici con uomini sposati," disse mia sorella ridendo.
"Stai tranquilla," risposi, e attaccai.
Quando posai il ricevitore, l'immobilit della stanza
aveva acquistato contorni distinti e si era fatta opprimente.
Filtrava l'azzurro che precede l'inizio del giorno.
Inquieta, scesi dal letto, aprii uno sportello sotto la scri-
vania, e tirai fuori una scatola conservata lć che aprivo solo
molto di rado. Una vecchia copia di N.P. in paperback, una
cartella per documenti, un massiccio orologio Rolex.
Erano i ricordi lasciati da Shoji.
Quattro anni prima si era suicidato con dei sonniferi. E
da quando li avevo ricevuti, questi oggetti avevano sempre
occupato un posto dentro di me.
Anche durante il giorno, quando sono all'universit, nel
seminario dove lavoro, se all'improvviso sento in lontanan-
za il suono di una sirena che attraversa la citt, pensando
che possa trattarsi di qualcosa dalle parti di casa mia, il mio
pensiero corre immediatamente a questi oggetti. Sono im-
portanti fino a questo punto.
Dopo averli controllati uno a uno, li richiusi bene nel lo-
ro posto e tornai a letto. Poi mi riaddormentai.




Fino a diciannove anni ho vissuto con mia madre e mia
sorella.
Quando io avevo nove anni e mia sorella undici, mio pa-
dre e mia madre divorziarono. Mio padre si era trovato
un altra donna.
Mia madre, che fino ad allora per il suo lavoro di inter-
prete si era spostata continuamente da una parte all'altra,
per stare di pi a casa con noi cominci• a lavorare come tra-
duttrice, accettando ogni tipo di lavoro, dalle traduzioni co-
me 'negro" per conto d'altri a quelle di interviste.
Sentivamo la mancanza di pap ma quella vita aveva il
suo fascino. Vivendo in tre, ci scambiavamo et e ruoli pi
volte nel corso di una stessa giornata. Ognuna di noi a turno
piangeva, consolava, si lamentava, incoraggiava, pretendeva
attenzione, abbracciava dolcemente, si arrabbiava, risolve-
va i problemi.
E cosć piano piano ci abituammo a quella vita.
Per sfruttare il poco tempo che potevamo passare insie-
me, la mamma ci insegnava l'inglese. Dopo le dieci di sera
aprivamo i nostri quaderni sul tavolo di cucina e per un'ora
facevamo lezione. Pronuncia, grammatica, e un po' di con-
versazione elementare. Noi, che eravamo ancora piccole, al-
l'inizio speravamo che la mamma non facesse sul serio, ma
poi ci rassegnammo e cominciammo a studiare tutte le
sere.
Perci• a noialtre, la prima immagine della mamma che
subito viene in mente non Š quella di lei di spalle in cucina.
E il profilo del suo viso dimesso con gli occhiali dalla monta-
tura argentata, sono le sue dita bianche che girano le pagine
di un enorme vocabolario a una velocit incredibile. La sua
determinazione, quando insegnava, a imprimere nella no-
stra mente quell'inglese meno che elementare, come per cor-
reggere allo stesso tempo la linea della propria vita, aveva
una speciale bellezza.
Adesso quando incontro la mamma, che vive per conto
suo, parlando del fatto che io lavoro nel dipartimento di let-
teratura angloamericana all'universit e che mia sorella ha
sposato uno straniero, dice spesso ridendo: "Il merito Š di
vostra madre che con quelle lezioni vi ha fatto conoscere il
fascino dell'inglese". Ancora oggi questo Š il lato della mam-
ma a cui penso con pi tenerezza.




Quella mattina mi svegliai all'improvviso. La prima cosa
che mi colpć gli occhi fu il cielo trasparente d'estate che fil-
trava da una fessura della tenda. Il suo colore assomigliava a
quello del sogno dal quale mi ero appena svegliata.
Nel sogno piangevo. Mi aveva lasciato uno strascico, co-
me se dal fiume limpido del sogno fossi tornata con una
manata di sabbia dorata.
"Piangevo perch‚ ero triste, o perch‚ mi ero liberata di
qualcosa di triste? In ogni caso non avrei voluto ancora sve-
gliarmi, pensai confusamente.
Un vento fresco penetrava dalla finestra socchiusa.
Quel giorno, anche dopo essere arrivata al lavoro quella
sensazione non mi lasci•.
Col risultato, fra l'altro, che ruppi una tazza e sbagliai
delle fotocopie. Non combinavo altro che guai e ogni volta
mi ripetevo: "Ma che strano! Cos'ho oggi?" Effettivamente
qualcosa di strano c'era.
Era la sensazione che l'atmosfera del sogno si fosse spo-
stata nella realt.
Quando me ne resi conto cominciai a cercare di ricordar-
mi cosa avevo sognato.
Ero cosć assorta che quando suon• il telefono lo lasciai
squillare senza rispondere. Era almeno la decima distrazione
dall'inizio della mattinata. Il professore prese in mano la
cornetta e guardandomi sorpreso rispose "Pronto," e poi su-
bito disse:
"Kano, Š per lei".
Con un sorriso ironico, mi pass• il telefono. Farfuglian-
do uno 'Scusi' presi la cornetta.
"Pronto."
Subito dall'altra parte riagganciarono. Sconcertata,
chiesi al professore:
"Non hanno detto il nome?"
"No, c'Š la signorina Kano? e basta. Era una donna," ri-
spose lui. "Piuttosto, Kano, oggi la vedo un po' stanca. Se
vuole, la pausa di mezzogiorno pu• cominciarla anche
adesso."
"Adesso? Ma sono solo le undici," esclamai.
Al che le altre persone nel seminario, che fino a quel mo-
mento avevano fatto finta di non accorgersi di niente, solle-
varono la testa dalle loro scrivanie, e ci fu un coro di 'ma no,
vai pure, non preoccuparti'.
Cosć uscii dalla stanza, sentendomi come se mi avessero
spinta fuori a forza.
Possibile che oggi sembri strana fino a questo punto?
pensavo mentre attraversavo il campo da gioco deserto e
uscivo dai cancelli dell'universit. Non mi ero resa conto
che fosse cosć evidente. Per me era solo come se il mio corpo
non si fosse ancora adattato alla realt, e io vedessi ogni cosa
per la prima volta. Ma sć, forse avr• sognato di essere appe-
na nata, pensai vagamente.
A met della salita alle spalle dell'universit c'Š una li-
breria. Con quel lungo intervallo di due ore da passare pen-
sai di comprarmi qualcosa da leggere.
Fu cosć che a met della salita mi trovai per caso davanti
a Otohiko. Per la seconda volta nella mia vita.
Avevo appena superato la vecchia stradina piena di ne-
gozi che incrocia la salita e, mentre guardavo ancora distrat-
tamente in quella direzione, il mio sguardo era stato attratto
dall'argento e rosa delle decorazioni floreali che sventolava-
no nel cielo azzurro.
Poi, quando tornai a guardare davanti a me - ricordo be-
ne che avevo ancora quell'immagine danzante impressa ne-
gli occhi - vidi una persona dall'aria vagamente familiare
scendere nella mia direzione.
"Ehi, scusa, ma tu..." dissi quasi automaticamente "...
non sei il figlio di Takase?"
"Sć, ma...?" fece lui con un'espressione perplessa. Era il
minimo. Imbarazzata, mi affrettai a presentarmi.
Ci siamo conosciuti una volta, molto tempo fa, al party
dell editore H. Sono Kazami Kano."
Mi scrut• attentamente, e poi fece:
"Ma certo, eri insieme a Shoji Toda, il traduttore."
Che bravo, ti ricordi!" dissi io
"Non Š stato difficile, eravamo gli unici giovani presen-
ti, disse lui sorridendo.
"Abiti da queste parti?" chiesi
"Sć. La casa dei miei Š a Yokohama, ma adesso sto da
mia sorella, che abita alla fine di questa salita. Lei fa un dot-
torato in psicologia qui all'Universit T."
"Non mi dire! Qui all' Universit T ?"
"Sć."
"E' veramente un caso, lavoro qui anch'io, nel diparti-
mento di letteratura angloamericana "
"Mia sorella Š quella che era con me al party.
"Magari ci saremo anche incrociate qualche volta."
"Vai di fretta adesso? Perch‚ non prendiamo qualcosa?"
propose. Io avevo ancora un sacco di tempo.
Con piacere. Andiamo."
Eravamo seduti uno di fronte all'altra in un bar, deserto
prima di mezzogiorno, bevendo un caffŠ. Non mi sarei mai
immaginata di trovarmi in una situazione del genere con lui,
una persona che per me apparteneva al passato e viveva solo
nel mondo dei racconti. Era una sensazione strana. Osser-
vandolo meglio, mi accorsi che era molto cambiato. Il suo
sguardo era diventato cosć cupo che mal si accordava con
l'impressione di freschezza della sua polo bianca e delle
guance lisce. Non era cosć quando l'avevo incontrato la pri-
ma volta.
"Otohiko, sei molto cambiato."
"Davvero?"
"Mi sembri molto pi grande, anche se in effetti tra noi
ci sono solo due anni di differenza. Sai, so tutto di te!"
"Allora tu adesso ne hai ventidue?"
"Infatti."
"Quindi quella volta eri ancora al liceo."
"Si."
"Sono passati cinque anni... non mi ero accorto per
niente di essere invecchiato. Sar perch‚ sono stato all'e-
stero. "
"Dove?"
"A Boston. Sono tornato solo lo scorso aprile."
Sć, si avvertiva in lui una strana chiusura, caratteristica
di qualcuno che ha dovuto lottare per conservare il proprio
orgoglio contro un destino opprimente e perverso. Era una
sensazione che non avevo provato quando l'avevo visto al-
lora.
"Prima hai vissuto in Giappone, vero?"
"Sć, a casa dei miei nonni a Yokohama."
"Subito dopo la morte di tuo padre?"
"Sć, mio padre se ne Š andato quando eravamo piccoli,
ma i miei non hanno mai divorziato. I nonni erano soli e cosć
ci hanno invitato a venire."
"Quanti anni avevate?"
"Quattordici, pi o meno. Per la mamma la morte di
mio padre fu un grosso shock e noi, che di colpo ci eravamo
trovati a dover fare la parte dei grandi, la portammo a fare
un viaggio. Per un po' di tempo girammo da una parte all'al-
tra, ma tornati a casa ci fu il problema di cosa fare dopo. Fu
allora che fummo invitati a venire in Giappone. La mamma
era indecisa ma noi insistemmo per venire. I nonni, con
molta generosit, si preoccupavano anche del futuro della
mamma, per esempio se avesse voluto risposarsi eccetera, e
pensavano che occuparsi da sola di noi l'avrebbe esaurita.
Noi in realt non avremmo voluto separarci dal paese dove
eravamo sempre vissuti, ma stoicamente fingemmo di essere
contenti.
"Capisco bene, Š stato lo stesso anche a casa mia. Quan-
do i miei hanno divorziato, siamo rimaste in tre: io, mia ma-
dre e mia sorella.
"Quando uno della famiglia se ne va, la vita dei supersti-
ti non Š molto sana, non pensi?"
"Sć, la sua assenza si sentiva in un modo incredibile, di
mio padre voglio dire."
"Avrete avuto anche voi le vostre nevrosi, immagino,
ognuna di voi."
"Le abbiamo avute eccome," dissi io. "A me per un cer-
to periodo non usciva pi la voce."
Come conseguenza?" chiese lui, molto interessato.
Credo di sć. Senza nessuna ragione apparente, di colpo
se ne and• via, e senza nessuna ragione apparente di colpo
torn•."
' "Sicuramente quella volta dentro il tuo corpo di bambi-
na Si dev essere svolta una battaglia di una violenza terribi-
le.
Sć, tre mesi dopo che mio padre se ne era andato, come
per scongiurare il possibile crollo di mia madre, che era sot-
to un forte stress, persi completamente la parola.
Un giorno di neve rimasi troppo a lungo a giocare all'a-
perto dopo la scuola e alla sera mi venne la febbre alta. Re-
stai a letto per diversi giorni. Avevo dolori per tutto il corpo
e la gola chiusa e infiammata.
Un giorno, mentre ero a letto intontita dalla febbre, mi
giunsero all orecchio le voci di mia madre e mia sorella.
"Ma cosa te lo fa pensare?" chiedeva la mamma.
"Non te lo so dire, ma credo che sia cosć," rispose mia
sorella.
"Dici che Š molto tempo che a Kazami non esce la vo-
ce?" disse la mamma, con una risonanza isterica che in quei
giorni era sempre pi evidente e frequente.
"Si, cosć mi pare," disse mia sorella tranquillamente.
Aveva sempre avuto una sensibilit un po' speciale, e
riusciva spesso a predire con esattezza alcune piccole cose,
ad esempio chi era a telefonare o i cambiamenti del tempo.
In quelle occasioni, mia sorella era sempre insolitamente
tranquilla e sembrava un'adulta.
"Comunque non dobbiamo farlo sentire a Kazami," dis-
se la mamma. Sembrava un po' spaventata.
"Va bene," disse mia sorella.
- Ah, Š cosć? Non mi esce la voce? pensai con una strana
calma. Tentai allora per prova a tirar fuori qualche suono
dalla mia gola secca, ma non ne venne fuori niente, nemme-
no un suono roco.
Il campo visivo coperto a met dalla borsa del ghiaccio,
allungai il collo per guardare fuori della finestra. Era il tra-
monto, e le nuvole rosa formavano una scalinata che si per-
deva a ponente. Per un attimo, nella mia testa offuscata dal-
la febbre, persi completamente la cognizione della realt.
Non capivo pi tra le cose che avevo in mente quali erano
realmente accadute.
Se era vero che pap se ne era andato e si era fatto una
nuova famiglia.
Che facevamo lezioni d'inglese ogni sera.
Che era caduta la neve e irgiardino della scuola era stato
completamente sepolto dal bianco. Che sulla strada del ri-
torno, gi febbricitante, le luci dei lampioni mi erano appar-
se sfocate.
Ecco che significa quando si dice che le cose accadono
tutte in una volta, pensai convinta.
Comunque sia, il raffreddore pass• ma la voce non tor-
nava. Il medico, con il massimo tatto possibile, ventil• la
possibilit che si trattasse di un problema nervoso, e sulla
via del ritorno la mamma pianse.
Ci sentivamo tutte angosciate, forse perch‚ eravamo sta-
;te colte dal panico che io non potessi pi avere il controllo
del mio corpo. Tuttavia, nonostante all'inizio, sconvolta dal
fatto di non riuscire a parlare, fossi agitatissima, grazie alla
mamma che mi lasci• tranquilla dicendomi solo di non
preoccuparmi, piano piano mi calmai. Non andavo a scuola.
Durante il giorno stavo a casa, e uscivo a passeggiare solo la
mattina presto e la sera.
Ma non poter pi parlare significava anche perdere pia-
no piano le parole.
Dopo aver perso la voce, per un paio di giorni la mia
mente funzion• come quando potevo parlare. Per esempio,
se mia sorella mi pestava un piede la mia mente formulava
chiaramente le parole: "Ahi, che male!" Se alla televisione si
vedeva un posto che conoscevo, pensavo: "Ma guarda! E'
proprio li. Quando l'avranno girato?" pronunciando nella
mente le parole come avrei fatto per parlare.
Ma, a forza di non esprimere questi pensieri a voce, eb-
bi ancora una sottile trasformazione. I colori che si irradiano
dietro le parole cominciarono a diventare visibili
Se mia sorella mi toccava in modo affettuoso, io la per-
cepivo come una immagine di luce rosa brillante. Le parole e
gli sguardi della mamma quando ci insegnava l'inglese mi ar-
rivavano nella forma di un placido colore dorato. Se acca-
rezzavo un gatto sul ciglio della strada, la gioia si trasmette-
va attraverso il palmo della mano in un colore giallo bril-
lante.
Nel vivere con questa sensibilit, la rigida limitatezza
insita nelle parole cominci• a sembrarmi opprimente.
Poich‚ ero ancora una bambina, lo capivo con il corpo
intero. In ogni caso fu allora che per la prima volta provai un
profondo interesse per le parole, queste cose che si dilegua-
no nel momentO stesso in cui vengono espresse. Strumenti
che contengono allo stesso tempo l'attimo e l'eternit.
La guarigione fu altrettanto improvvisa.
Quel giorno pioveva e io e mia sorella, che era rientrata
da scuola, aspettavamo con le gambe infilate nel kotatsu il ri-
torno della mamma. Io stavo stesa, ma senza dormire, e
guardavo assente mia sorella che leggeva una rivista. Lei
voltava le pagine una dopo l'altra con la regolarit di una
goccia d' cqua che cade. Insieme al suono della pioggia, si
sentiva il rumore della televisione nell'appartamento accan-
to. Il vetro della finestra era rannuvolato dal vapore, e la
stanza era molto calda. Io pensavo.
Tra poco, come sempre, la mamma torner a casa con le
braccia cariche di buste del supermarket e il viso un po'
stanco. Il misoshiru avanzato dalla mattina, delle pietanze
comprate gi pronte, l'insalata, specialit della mamma, la
frutta. Il profumo del riso che cuoce, la mamma affaccenda-
ta, e una volta pronto io e mia sorella lo metteremo nelle
scodelle. Finito di mangiare faremo lezione d'inglese, guar-
deremo la tiv, faremo il bagno, e dopo esserci date la buo-
nanotte andremo a dormire. E quando comincer• ad addor-
mentarmi, sentir• il rumore delle pantofole della mamma
che entra nella sua stanza da letto, accanto alla nostra.
Era una felicit piena di calore. Anche se eravamo solo
in tre c'era un senso di sicurezza come se fossimo state in
tanti.
A quel punto mia sorella disse:
"Kazami, stai dormendo?"
"No," feci io. La voce era venuta fuori senza difficolt.
L'unica cosa era che alle mie orecchie risuon• lontana e que-
sto mi fece uno strano effetto. Riconobbi il suo timbro con
nostalgia.
"Kazami, hai parlato?" chiese mia sorella stupita.
"Mi sembra di sć," risposi io incerta.
"Ma allora potevi parlare, tutto il tempo?"
"No, la voce non mi usciva per davvero."
"Ma cosa provavi? Stavi male?"
"No, a un certo punto mi sono accorta che cominciavo
piano piano a capire diverse cose."
Mi ricordo che tutt'e due continuammo di proposito a
parlare come per assicurarci che fossi davvero guarita.




"Se ci penso adesso, quando ho ripreso a parlare Š stato
come se finalmente a casa mia fosse finito il periodo del sole
di mezzanotte," dissi.
; "Anche a me Š successa una cosa un po' simile. A un cer-
to punto mi rifiutai di andare a scuola. Facevo finta di an-
darci, e invece andavo a fare dei lavoretti mentendo sull'e-
t," disse Otohiko. "Quando sono stato scoperto ed Š scop-
piata la crisi, per la prima volta ho avuto la sensazione di
sentirmi veramente legato ai nonni."
"Ti capisco," dissi io. "Sai, mi sembra cosć strano, Š co-
me stare con il personaggio di un racconto."
"Parli di me?"
"Sć, che uno ritrova di colpo in tre dimensioni," dissi ri-
dendo.
Otohiko, un po' esitante, disse:
"Shoji si Š suicidato, vero?"
"Sć. Mentre stava traducendo quel racconto."
"Stavate insieme?"
- "Si."
"Hmm."
"Per• non Š mica perch‚ voi gli avevate dato il racconto
n. 98."
"Questo te l'aveva detto lui?" chiese Otohiko. Sembra-
va sorpreso.
"Sć. L'ho avuto da qualcuno della famiglia di Takase, mi
disse. Era molto eccitato perch‚ diceva che in Giappone il
libro sarebbe stato pubblicato con l'aggiunta di quel rac-
conto.
"Davvero? " disse. "Povero Shoji."
Dal suo atteggiamento mi sembr• che nascondesse qual-
cosa, ma preferii non indagare oltre. Tanto saperne di pi
non sarebbe servito a resuscitare nessuno.
"Pare che nessuno abbia pi intenzione di pubblicarlo.
E' un libro maledetto," dissi sorridendo.
"E' vero. Le tre persone che hanno messo mano alla tra-
duzione giapponese sono tutte morte. Lo sapevi?"
"Certo. Il professore universitario che era stato il primo
a lavorarci, poi la studentessa che gli faceva da assistente, e
infine Shoji. Tutti si sono suicidati. Perch‚?"
"Sar che la combinazione con il giapponese Š fatale,
chiss? Mia sorella adesso sta facendo una ricerca proprio su
questo. Quanto a me, penso che quel libro sia meglio dimen-
ticarlo. Insieme ai morti. Io dico che non pu• essere un ca-
so. Secondo me le persone attratte da questo libro, quelle
che vorrebbero tradurlo, nascondono tutte allo stesso modo
un'aspirazione al suicidio. E per loro questo libro Š un ri-
chiamo."
"E' un discorso che fa paura," dissi.
"Quel libro ti piace?" chiese lui.
"Sć, mi affascina molto."
Anch'io ero una di quelli che l'avevano letto molte vol-
te. Ogni volta che lo leggo, un liquido denso e caldo che sta
nel fondo del mio essere ribolle. Un intero universo si insi-
nua nel mio corpo. E finisce con l'assumere una vita propria
dentro di me. Una volta, poco dopo la morte di Shoji, volli
provare a tradurlo. Forse sar stato anche il momento sba-
gliato, ma mi vennero dei pensieri terrificanti. Appena tra-
sformavo il testo inglese in caratteri giapponesi, mi sembra-
va si levasse una nebbia nera. E quella sensazione non si
staccava dalla mente. Come la sensazione dei panni appicci-
cati al corpo bagnato quando si Š travolti dalle onde comple-
tamente vestiti, e non c'Š altro da fare se non continuare
proprio malgrado a nuotare in mare aperto. Fortunatamente
ero una sana studentessa di liceo, cosć mi fermai lć. Una
mente che riesce a fermarsi Š sana. Almeno credo.
Se le cose che ho provato in quei giorni fossero un pae-
saggio, sarebbero un campo sterminato di susuki argentati
che fluttuano al vento, e poi il fondo del mare ricoperto di
coralli, tutto azzurro, con la tranquillit soprannaturale dei
pesci multicolori che si incrociano laggi.
Se un mondo come quello entra nella mente, Š impossi-
bile vivere a lungo. Pensai alla tristezza che doveva avere
tentro il padre del ragazzo che adesso sedeva di fronte a me
"Il giapponese Š una lingua strana. Sul serio," disse Oto
hiko. "Potrebbe sembrare in contraddizione con quello che
ho detto prima, ma da quando sono venuto in Giappone ho
la sensazione di avere vissuto molto a lungo. Qui le parole
penetrano in profondit, fino al cuore. Ho l'impressione di
essermi reso conto per la prima volta che mio padre era giap-
ponese solo dopo essere venuto qui, e che scriveva avendo
in mente, come base, il giapponese. E' forse per questo che
solo quando viene tradotto in questa lingua accadono delle
cose terribili. Anche la forte nostalgia di pap per il Giappo-
ne fa parte di tutto questo. Sarebbe stato meglio se l'avesse
scritto direttamente in giapponese."
Anche se non capivo cosa volesse dire precisamente
pensai che il suo punto di vista in un certo senso si avvici-
nasse al mio.
"Vuoi diventare scrittore?" gli chiesi.
"Per adesso non ci penso. Ma ci ho pensato," rispose.
"Cosa te ne pare del racconto n. 98?" chiesi.
"Perch‚?" chiese, ancora una volta molto sorpreso.
"Parla di incesto, no? Pensi che tuo padre fosse davvero
una persona capace di nutrire una passione del genere per
tua sorella?" chiesi.
"Sć, credo di sć," rispose lui francamente. "Non Š che
l'abbia mai visto molto, ma che lui fosse un pazzo non c'Š
dubbio."
La trama del racconto n. 98 era pi o meno cosć. Il pro-
tagonista, dopo avere divorziato, nel corso della sua esisten-
za disordinata e solitaria, si innamora di una ragazza, proba-
bilmente una minorenne, incontrata in un locale di perife-
ria. Dopo esserci andato a letto alcune volte, scopre che la
ragazza Š sua figlia. L'uomo diventa completamente schiavo
del fascino travolgente della ragazza.
"Non Š una delle solite storie alla Lolita," dissi io "Il fi-
nale per esempio, sar stato l'effetto dei farmaci o dell'al-
cool, ma Š incredibilmente visionario, non trovi? Pensa alla
descrizione della bellezza ultraterrena della ragazza, come il
disegno della sirena del fratello di Doyle. L'ho trovato stu-
pendo."
Lui annuiva, un po' imbarazzato ma fiero. Allora dopo-
tutto Š orgoglioso di suo padre, pensai.
"Mi sarebbe piaciuto che fosse pubblicato," dissi.
"Prima o poi Saki, mia sorella cioŠ, sicuramente lo far.
Ci tiene molto," disse lui. "A proposito, tu hai una copia del
n. 98?"
"Sć, eredit di Shoji."
"Guarda che c'Š qualcuno che lo vuole. Faresti meglio a
stare attenta."
"Vuoi dire tua sorella?" chiesi, allarmata dalle implica-
zioni che poteva avere quello strano 'stare attenta'.
"No, figurati. Se mia sorella lo volesse, te lo chiedereb-
be gentilmente, pensando che tu le lasceresti fare delle foto-
copie. C'Š un'altra persona, una un po' maniaca, che anche
se ha gi il n. 98 personalmente, vorrebbe possedere tutto
ci• che ha un qualche rapporto con questo racconto."
"Qualcuno che conosci?"
"E' la ragazza con cui sono stato in viaggio per tutto que-
sto tempo. Siamo ritornati insieme di recente, e pare che lei
sappia di te."
"La maniaca Š la tua ragazza?" dissi ridendo.
"Che ci vuoi fare? Ho un debole per le ossessioni se sono
pure," rispose, ridendo anche lui.
"Allora sar sicuramente innamorata anche dell'immagi-
ne di tuo padre, questa ragazza."
"E se anche fosse? Che ci sarebbe di male?"
"Sei uno strano tipo, lo sai?"
"Ma anche tu mi dai una strana sensazione. Come se ci
conoscessimo da tanto tempo."
"In un certo senso Š cosć."
"E' vero. Forse abbiamo molte cose in comune perch‚
tutti e due, almeno per un periodo, non abbiamo fatto che
pensare a quel racconto. Perci• Š cosć facile intenderci."
"Io ogni tanto ci penso ancora," dissi.
"Anch'io. A dire la verit quasi non c'Š giorno che non
ci pensi. Mi Š entrato nel corpo, come una maledizione. "
Queste parole, che lui pronunci• a bassa voce, mi resta-
rono nella mente.
- Dopo esserci ripromessi di rivederci, e scambiati gli in-
dirizzi, ci separammo.




E Ci sono delle volte, quando mi capita di sentire quel vec-
chio discorso secondo cui l'anima dei suicidi non pu• andare
in paradiso ed Š condannata a soffrire per l'eternit, che mi
sembra d'impazzire. Ma prima di fare in tempo a pensare
che sono tutte bugie, mi appare sempre davanti agli occhi il
suo sorriso fragile. Quel sorriso che non permetteva a nessu-
no di entrare.
Ancora adesso ogni tanto ci penso. A Shoji.
Mi innamorai di lui quand'ero al liceo, me ne innamorai
al punto di assorbire tutto di lui con un trasporto assoluto.
Quasi tutti i giorni uscivamo insieme, o io andavo a casa
sua, a volte aiutandolo nelle traduzioni. Quando stava con
me sembrava felice. Su questo potrei giurare.
Ma col tempo si erano formati dei nodi nella sua vita e io
non ero assolutamente in grado di fermare una stanchezza
che aveva cominciato a crescere in lui molto prima di cono-
scermi. Mi era impossibile comprendere veramente quel lato
oscuro che occupava una parte cosć grande della sua persona-
lit e che tanto fascino esercitava su di me. Io ero una farfalla
volata nella stanza del suo essere, dove la lampadina aveva
gi cominciato a bruciare. Anche se gli ero stata di conforto
portando in quel buio la scia luccicante della luce del giorno
non avevo fatto che creare maggiore confusione.
E' forse per questo che quando lui compare nei miei
sogni, succede sempre che sono io di adesso a incontrare lui
di un tempo. Forse perch‚ penso, come sono oggi, di poter-
gli offrire qualcosa di pi di quel luccichio: delle ore di gio-
ia tranquilla da trascorrere insieme. Pu• darsi che questo
in realt sarebbe impossibile anche adesso, ma ugualmente
mi resta questo rimpianto. Avrei voluto incontrarlo come
sono oggi. E' quello che penso in qualche parte di me. Ma
forse mi sopravvaluto.




La mattina del giorno in cui Shoji Š morto, ero a casa
sua.
Fu un sogno evocato dalla luce dell'estate, che penetrava
brillando attraverso la tenda. Era una mattina serena, subi-
to prima dell'estate, propriocome adesso.
La mattina Shoji era sempre il primo ad alzarsi. Quando,
verso le otto, ero costretta a svegliarmi per andare a scuola,
di solito era gi seduto al word processor. Mi piaceva vedere
la sua figura di spalle, imperturbabile e concentrata, accom-
pagnata da quel ticchettio regolare, che mi ricordava quella
della mamma, seduta nello stesso atteggiamento, quand'ero
bambina. La pacatezza di Shoji, che aveva diciassette anni
pi di me, neutralizzava la mia esuberante energia adole-
scenziale trasformandola in qualcosa di armonioso. Stando
con lui c'era sempre un senso di pace. Anche quando rideva-
mo o scherzavamo. Quando mi capitava di non riuscire ad
alzarmi e di essere in ritardo, lui non cercava di svegliarmi a
tutti i costi. E se perdevo la scuola, mi lasciava restare a casa
senza scomporsi. Lui era uno cosć.
Ma quella mattina era diverso.
Quando ho spento la sveglia e mi sono girata dalla sua
parte, Shoji dormiva, con un viso pallido e senza vita. Ave-
va gli occhi cerchiati e il respiro un po' faticoso. Io, che ave-
vo diciott'anni, nel vederlo ebbi una fitta di pena e di tene-
rezza. Gli riaggiustai la coperta dolcemente e scesi dal letto.
Dopo essermi messa la divisa, bevvi un bicchiere di latte.
Era una mattina tranquilla.
Dentro casa sembrava che ci fosse nell'aria qualcosa di
diverso dal solito.
Cercai il mio orologio, ma dovevo averlo lasciato da
qualche parte, cosć decisi di prendere in prestito quello di
Shoii, che stava sulla sua scrivania. Lo misi al polso: era mol-
to pesante, e il vetro del quadrante nero aveva un luccichio
freddo. Fui presa da un inspiegabile senso di depressione
Come quando si Š colti da un'insopportabile nostalgia per la
propria casa, mi sentii di colpo smarrita in un appartamento
estraneo.
Sć, quella mattina tutto era cosć silenzioso, sia dentro ca-
sa che fuori, che pareva quasi di sentire Shoji respirare nel
sonno sul suo letto accanto alla finestra. Tutti i miei movi-
menti erano involontariamente rigidi. Facevo persino fatica
a respirare. Sulla scrivania, accanto al word processor c'era
la traduzione del racconto n. 98. Quando la presi in mano,
mi accorsi che non arrivava nemmeno a met. Era strano.
Poco tempo prima Shoji mi aveva detto che l'aveva gi fini-
ta. Ma il giorno precedente aveva detto anche, con un'e-
spressione cupa: per quanto traduca e ritraduca, mi sembra
che ci sia qualcosa che non va. Evidentemente ha comincia-
to a rifarla da capo, pensai. Sapevo dei due che si erano sui-
cidati.
Rabbrividii.
Scrissi un messaggio per lui su un quaderno.
"Finisci presto, cosć potremo andare al mare. Come l'al-
tra volta partiremo presto la mattina, ci metteremo in costu-
me e poi staremo distesi sulla spiaggia per ore a parlare di
mille cose. Non vedo l'ora. A proposito, ho preso in prestito
il tuo orologio. Verr• a riportartelo presto. "
Sperai che leggendo quel messaggio il rumore delle onde
e il profumo del mare dove eravamo stati insieme, ritornas-
sero a lui in un soffio. Avrei voluto che il desiderio di anda-
re al mare fosse cosć forte da convincerlo a finire al pi pre-
sto quel lavoro. Non per gelosia, per paura. Era come se con
quel messaggio cercassi di combattere qualcosa di oscuro e
invisibile.
Avrei voluto potergli ricordare tutte le cose che aveva-
mo visto nel corso del nostro amore, la sensazione delle tie-
pide sere d'estate, la bellezza dei palazzi tinti di arancione
visti con occhi assonnati dal taxi che ci riportava a casa nella
luce dell'alba, e poi le lacrime, le mani calde che si toccava-
no, il forte profumo di tutto questo. Con la forza della di-
sperazione di una donna alla fine di un amore, quando sente
che sta per essere abbandonata.
Dato che ero preoccupata, feci una telefonata da una ca-
bina vicino al giardino del liceo.
"Pronto," rispose Shoji con voce energica.
Subito tranquillizzata dissi: "Chiamo dalla scuola".
Dalle mie spalle arrivava il cicaleccio quasi isterico del li-
ceo nell'intervallo di mezzogiorno. Per giunta stavano fa-
cendo la pulizia della piscina, e il rumore che facevano gli
addetti si mischiava a quello dell'acqua.
Ridendo dissi:
"Senti che chiasso?"
"Da stordire," disse lui. "Hai mangiato il bento?"
"Come facevo, se ho dormito fuori? No, ho mangiato al-
la mensa," dissi ridendo.
"Sei davvero una studentessa di liceo," disse lui, con
una punta d'invidia. "A proposito, grazie del biglietto."
"Fra due o tre giorni vengo di nuovo," dissi.
"Va bene."
Il chiasso dilagava per tutta la scuola fino a occupare
completamente lo spazio. Sembrava che gli studenti ce-la
mettessero tutta a divertirsi, come se la libert di un'intera
giornata fosse compressa in quei trenta minuti. Risuonava-
no scoppi di risa, l'energia esplodeva. In alto, lontano, c'era
il cielo azzurro dell'estate. Sulle strade, attraversate da un
gioco di luci e ombre, un sole abbagliante.
"Allora ci sentiamo."
"Ciao."
Riagganciammo. Fu l'ultima volta.
La distanza, in quel momento, tra l'altro capo del telefo-
no e me, tra il luogo dove si trovava Shoji e quello dov'ero
io, era pi lontana di quella tra il paradiso e l'inferno, e pi
tortuosa. Per quanto ci volessimo bene, il contatto era im-
possibile. Non ci fu nessun tentativo di comunicare, non
c'era modo di farlo, nessuna capacit di ricezione, nessun
elemento per capire.
Avevo sentito dire che cose del genere possono capitare
anche a persone che si amano e che si capiscono. Ma allora
non sapevo ancora che una cosa cosć frustrante potesse acca-
dere davvero, nella realt. Credevo si trattasse solo di storie
crudeli che appartenevano a tempi remoti, a un mondo tri-
ste che si perdeva nella distanza, racconti esotici di lontani
deserti. Nel mio paradiso non c'era posto per storie come
quelle.




Una sera, due o tre giorni dopo l'incontro con Otohiko,
mi preparavo a tornare a casa quando sentii che qualcuno al-
l'ingresso chiedeva di me ad alta voce.
"C'Š la signorina Kano?"
"Eccomi," gridai, e mi avviai all'entrata a vedere chi
era. Mi trovai di fronte a una ragazza che dava un'impres-
sione immediata di luminosit. La riconobbi subito.
"Sono Saki Takase," disse sorridendo. "Ho sentito da
mio fratello che lavori qui. Non ci potevo credere."
In confronto a Otohiko, sembrava che rispetto a un
tempo la sua presenza avesse acquistato forza. Il viso era ra-
dioso come un fiore sul sottile corpo di donna. Certo, era
sempre la stessa, ma emanava un'energia molto pi forte di
allora.
"Mi fa tanto piacere rivederti. E' buffo se pensi che quel-
la volta non abbiamo scambiato nemmeno una parola,"
dissi.
"Per• anch'io ti ricordavo benissimo. Che nostalgia!
Avevi finito? Senti, ti andrebbe di mangiare qualcosa insie-
me? Se non hai altri impegni," rispose.
"Con piacere," assentii. "Anzi, ho molta voglia di fare
due chiacchiere."
Invece di rispondere, sorrise di nuovo in quel suo modo
dolce. Era un sorriso che conquistava all'istante, che faceva
sentire purificati.
Uscite dall'edificio, attraversammo il giardino, dirette a
un ristorante occidentale che sta alle spalle dell'universit.
Era l'ora in cui il calore del giorno comincia a essere pian
piano assorbito nel cielo azzurro pallido e trasparente.
"Ormai al tramonto sembra gi estate," disse Saki.
"E' vero. Da voi a psicologia i condizionatori d'aria fun-
zionano? Da noi no, l'estate Š un inferno," dissi.
"Ah, neanche da noi, figurati," disse Saki sorridendo.
"Infatti io trovo sempre qualche scusa per stare tutto il tem-
po in biblioteca."
In accordo col suo nome, Saki assomigliava a un fiore.
Era piena di una delicata allegria. Sembrava vibrare nel ven-
to, gli occhi spalancati in una gioiosa aspettativa nei con-
fronti della vita.
Il ristorante era stipato di studenti. Il sole del tramonto
che penetrava da un finestrone tingeva di arancio l'interno
del locale pieno di chiasso. Io ordinai una minestra e del pa-
ne, e Saki dei sandwich. Poi dividemmo in due un'insalata
di granchi con mezza bottiglia di vino bianco.
Chiacchierare mentre si mangia aiuta a ingranare. Nel
nostro caso poi, essendo gi ben disposte l'una verso l'altra,
subito l'atmosfera si fece completamente rilassata, e parlam-
mo di tante cose.
"Vivi da sola?" chiesi.
"Di solito sć, ma da quando mio fratello Š tornato da Bo-
ston sta da me. Andare e venire da Yokohama Š troppo fati-
coso. Per• nei weekend, per accontentare i nonni io torno a
casa. Vado a fare spese con mia madre eccetera. Essere l'u-
nica figlia femmina Š dura, sai?"
"Tua madre si sentir sola, con voi tutti e due qui "
"Beh, un po' sć. Certo, di solito una donna dopo la mor-
te del marito, e per giunta straniera, non va a vivere con i
suoceri. Mia madre per• si trova molto bene coi nonni: lei
non Š mai stata una che usciva molto di casa, e loro poi sono
persone deliziose, tanto che i primi tempi quasi non ci cre-
devamo e ci aspettavamo che da un momento all'altro potes-
sero trasformarsi in cattivi. Comunque certo Š una situazio-
ne insolita.
"Infatti. Nella vostra biografia Š una delle cose pi sor-
prendenti."
"Sai, la mamma quando stava con pap ne ha passate
tante che ormai non la turba pi nulla. Ma dimmi di te. Vivi
sola?"
"Sć. Tre anni fa mia sorella pi grande si Š sposata con
un inglese e si Š trasferita in Inghilterra. In quell'occasione
la famiglia si Š divisa. Pacificamente, voglio dire. Mio padre
gi non c'era pi perch‚ i miei hanno divorziato, mia madre
poi due anni fa si Š risposata e adesso vive a Setagaya. Per-
ci• da quando ho cominciato a lavorare all'universit ho
sempre vissuto da sola."
"E abiti da queste parti?"
"Sć, nel quartiere F."
"Allora siamo anche vicine di casa. Che strano che non
ci siamo incontrate prima!"
"Eh, infatti," ho detto.
"Ma come hai fatto a riconoscere Otohiko?"
"Forse se ci fosse stata molta gente non l'avrei notato.
Ma sai, trovandomelo proprio di fronte su quella salita com-
pletamente deserta, come per destino ."
"Anche noi ci ricordavamo benissimo di te. Chiss per-
ch‚, se pensi che non avevamo neanche parlato."
"Spero che non sia stato perch‚ io non la smettevo di
fissarvi," dissi ridendo.
"Anche quando ho saputo della morte di Toda, la prima
cosa che mi Š venuta in mente Š stata il tuo viso," disse Saki.
Assentii col capo, poi dissi:
"Non sono andata nemmeno al funerale. Non me la sono
sentita. Capisci?"
"Certo. Deve essere stato uno shock," rispose Saki.
"Ho sentito che Š proprio questo che stai studiando
ora... il perch‚ di quei suicidi," dissi io.
"Hmm... ti spiego," disse Saki. "Il fatto Š che avevo
pensato di tradurlo, un giorno. Per• gi discendo da mio pa-
dre, che come sai si Š suicidato, e c'Š chi dice che questa sia
una tendenza ereditaria. In pi ci sono tutte queste persone
che ci hanno lavorato, che hanno scelto di morire per pro-
pria mano, no? Come potrai capire avevo paura, ma allo
stesso tempo avevo la sensazione che proprio perch‚ ero io
avrei potuto fare un buon lavoro. Allora ho pensato di non
cominciare se non dopo aver individuato precisamente la
causa e averla capita fino in fondo. Quindi il mio interesse si
Š spostato e mi sono ritrovata a studiare psicologia. Ma mi
va bene, mi piace fare cose diverse."
"Anche a me piacerebbe vedere un giorno pubblicato
quel libro in Giappone nell'edizione integrale. Se hai biso-
gno di un'assistente conta su di me in qualsiasi momento.
Ho collaborato anche con Shoji, e siccome sono ancora in
vita, puoi stare tranquilla," dissi ridendo.
"Fare questi discorsi Š come parlare di veleni mortali o
di materiali esplosivi."
"Per noi temo che lo siano."
A queste mie parole Saki assentć energicamente.
All'uscita del ristorante ero di umore molto allegro. Si
preannunciava un'estate piacevole. Fuori, dove l'asfalto
conservava ancora il calore del giorno, prima di salutarci le
proposi:
"Vediamoci presto, qualche volta si potrebbe mangiare
assieme anche a mezzogiorno".
"Senz'altro. Abbiamo ancora tante cose da raccontarci.
Si preannuncia un'estate piacevole," disse Saki, guardando-
mi sorridendo. Che telepatia! pensai. Ci salutammo strin-
gendoci la mano come vecchie amiche.
Dopo che ci fummo separate, pensai: per• non ha pro-
prio parlato del fratello. Mi rendevo conto che alla loro et
questo era pi che naturale, tuttavia non potei fare a meno
di pensare con un po' di rimpianto a loro due com'erano
quel giorno al party, cosć perfettamente affiatati mentre si
guardavano tra loro sorridendo.
Un nuovo incontro Š sempre una gioia. In pi era l'inizio
dell'estate, loro erano due persone simpatiche con cui sem-
brava esserci un buon feeling, apparse all'improvviso come
quando a scuola arrivava in classe un compagno nuovo, ma
in fondo vecchie conoscenze. E per giunta abitavano vicino!
Per me, senza nessun particolare progetto per le vacanze n‚
un ragazzo fisso, era come ricevere un dono inaspettato.
A turbare la mia eccitazione c'erano per• alcune cose.
La telefonata di mia sorella.
La sensazione che Saki, nella forza che la sosteneva, na-
scondesse qualcosa.
L'imbarazzo di Otohiko riguardo all'origine del raccon-
to n. 98 e il fatto che aveva vissuto all'estero con quella don-
na maniaca di Takase.
Quella telefonata muta al mio ufficio.
Non che avessi dei sospetti nei loro confronti. Tuttavia,
sentivo che c'era ancora qualcosa. Qualcosa di diverso dalla
sensazione che l'estate sarebbe passata piacevolmente in
compagnia di persone simpatiche, ritrovate dopo tanto tem-
po. Che cos'era allora? mi chiedevo, e senza accorgermene
cominciai a indagare.
Come un detective.
Cosa c'era sotto?
Non ero in grado di scoprirlo. L'unica cosa che mi veni-
va in mente ogni volta era chiss perch‚ una scena del rac-
conto n. 98. Era solo un'intuizione, ma sentivo che forse
c'entrava qualcosa.
L'uomo, che ha una relazione con la propria figlia, Š sci-
volato in un progressivo degrado. I sussurri della ragazza
sembrano il mormorio lontano del mare, le sue caviglie sotti-
li scintillano alla luce della luna come la coda di una sirena.
Saki? pensai.
Non lo sapevo. In quel momento non potevo fare altro
che aspettare quello che sarebbe venuto. Pregando che qua-
lunque cosa fosse arrivata, io riuscissi a fare del mio meglio.
Dopo la morte di Shoji, questo era diventato il mio mo-
do di pensare.
Dato che andavamo alla stessa universit, io e Saki co-
minciammo a vederci molto spesso. Era iniziato il periodo
degli esami, subito prima delle vacanze estive, e l'universit
si era improvvisamente affollata.
Anche quel giorno eravamo insieme alla mensa.
"Quando arriva questo periodo, non succede anche a te
di ricordarti di colpo che questa Š un'universit?" disse Saki
bevendo il caffŠ.
"Come no? Ma con la gioia di sapere che gli esami non
mi riguardano pi."
Io bevevo un succo d'arancia.
"Ti piace l'estate?" chiese Saki.
"Da morire. Non penso ad altro tutto il tempo."
"Allora Š una passione."
"E a te?"
"A me piace la primavera. Per• ti capisco. La tua eccita-
zione si trasmette anche a chi ti sta vicino."
"La aspetto con un desiderio incontrollabile," ammisi ri-
dendo. Poi, improvvisamente domandai:
"A proposito, Otohiko che fine ha fatto?"
"Perch‚?" disse Saki.
"Cosć... non l'ho pi visto da quella volta."
Saki scosse il capo:
"Sta tutto il tempo a casa di una ragazza."
Ah, quella con cui Š stato fuori?" dissi.
Si. Non so proprio come andr a finire. E' ancora peg-
gio di prima che facessero quel viaggio," disse Saki.
"E' una persona cattiva?"
"Buona non Š. Comunque, c'Š poco da fare, ha un'in-
fluenza negativa."
"Ma lui dev'essere completamente preso, vero?"
Era per una donna allora, pensai con un po' di malinco-
nia. Mi ero trovata cosć bene a parlare con lui.
"Mali, problemi suoi! Comunque un'altra volta ti rac-
conto. "
"Volentieri, se ti va. Andiamo?, L'intervallo Š finito."
Uscite all'aperto, ogni singola cosa mi riempiva di ecci-
tazione. I forti raggi del sole, l'asfalto che luccicava, il verde
intenso degli alberi immobili.
Tirai un sospiro profondo.
"Ti senti felice, vero?" disse allora Saki sorridendo. Il
suo sorriso ricordava un grande girasole. Era cosć bello e ra-
dioso nella luce del sole che dovetti socchiudere gli occhi.
Cominciava l'estate.
Credevo che una volta cominciate le vacanze all'univer-
sit avrei avuto tutto il tempo a disposizione, e invece non
c'era giorno che non mi arrivassero richieste di lavoro extra.
Traduzioni per conto di assistenti, adesso forse occupati di
nascosto in altri lavori extra, che lo facevano a loro volta per
conto di qualcuno che alla fine rivedeva e firmava. Insom-
ma, come si dice in gergo, facevo "il negro" per altri "ne-
gri". Mi pagavano abbastanza bene ma con le scadenze che
avevo, era proprio come dover fare i compiti per le vacanze.
Perci• andavo all'universit quasi tutti i giorni, e la not-
e stavo fino a tardi a consultare dizionari.




Fu uno di quei giorni, in piena notte.
C'era un acquazzone terribile, pareva un tifone. Pioggia
e vento infuriavano con un tale fragore che non sentii nes-
sun rumore di passi per le scale.
Quando bussarono alla porta, feci un salto. Erano le tre
di notte. Spaventata guardai dallo spioncino: era Otohiko.
Ero sorpresa, ma aprii.
"Ehi, ma lo sai che ore sono? Cosa c'Š? Confessioni sen-
timentali?" chiesi.
"Qualcosa di simile," disse.
Non si reggeva in piedi, doveva essere completamente
ubriaco. Aveva l'ombrello sgocciolante e le scarpe inzup-
pate.
Un po' divertita dentro di me da quella scena da melo-
dramma, dissi:
"Hai avuto dei problemi con la tua ragazza?"
"No, non Š quello," rispose.
"Hai bevuto molto?"
"Sć. C'Š stata una discussione e dopo ho bevuto fino a
scoppiare. Alla fine ho perso completamente il senso di co-
s'era giusto o sbagliato, cosć ho pensato di venire a parlare
con la persona in questione. Col coraggio dell'alcool.
"La persona in questione... sarei io?"
"Sć," disse lui annuendo col capo.
"E questa discussione, Š stata con Saki?"
"No."
"Ma come mai sono venuta fuori io, che con te ci ho par-
lato sć e no una volta?"
"E' difficile da spiegare."
"Non potevi telefonarmi? O aspettare fino a domani?"
dissi.
"Scusami," disse allora lui, abbassando la testa.
Dato che anch'io ogni tanto mi prendo queste sbronze
assurde, capii che non aveva nessuna intenzione cattiva.
Forse voleva solo sentire subito la mia risposta, pensai.
Ma risposta a che? Di questo non avevo la minima idea.
"D'accordo. Entra," dissi.
"No. Va bene qui," disse lui.
"No, sono io che non riesco a parlare se stai sulla porta.
Vieni dentro," dissi.
Allora lui cominci• a sfilarsi lentamente le scarpe.
"Scusa. Ti dispiace se prima vado un attimo in bagno?
Credo di stare per vomitare," disse con una faccia pallidis-
sima.
"Sbrigati, non c'Š bisogno di fare tutte queste cerimo-
nie," dissi spingendolo precipitosamente nel bagno. Senza
neanche avere il tempo di provarne disgusto, sentii il rumo-
re di lui che vomitava seguito da quello dell'acqua che scor-
reva.
Non potevo far altro che aspettare davanti alla porta. Fi-
nalmente venne fuori.
"Mi dai un bicchier d'acqua?" chiese.
Era ancora pi pallido, e aveva gli occhi tutti rossi, iniet-
tatć di sangue.
"Hai un aspetto terribile," dissi versando l'acqua e por-
gendogli il bicchiere.
Lui bevve avidamente.
"C'era una storia cosć?" disse.
"Cosa?"
'Io che per ringraziarti facevo apparire per te una fonta-
na. Nel deserto. O era un mestolo magico? O delle monete
d'oro?" mormor• fra s‚.
"Credo di aver capito che cerchi di dire. Era buona, ve-
ro? Ne vuoi un altro bicchiere?"
:'Grazie."
'Siediti su quel divano. Puoi anche stenderti, se vuoi,"
dissi, porgendogli un altro bicchier d'acqua. Senza parlare
vuot• anche questo. Nel silenzio di colpo risuon• il rumore
battente della pioggia, che cadeva sempre pi violenta.
"Scusa," disse Otohiko.
"Se ti sei calmato, parla pure. Cos'Š che volevi chieder-
mi" dissi, sedendomi sul pavimento.
"Ecco, adesso ti dico. Hmm... aspetta un attimo..."
"E' qualcosa di spiacevole?"
"Io credo di sć..."
Detto questo, chiuse gli occhi. Di nuovo risuon• forte il
rumore della pioggia, e il vento fece vibrare la finestra. Il
fragore era tale che sembrava che quella tempesta dovesse
durare in eterno.
"Ehi, non ti addormentare. Ho paura," dissi scuoten-
dolo.
"Non dormo. Devi fare una copia, prima di tutto, per si-
curezza," disse.
"Di cosa stai parlando?"
'Tel racconto n. 98. Quello che ti ha lasciato il tuo
amico. "
"Perch‚? No, aspetta, che fai? Non ti addormentare!
Ho paura."
Andai a versare un altro bicchiere d'acqua e glielo porsi.
'Forza, bevi questo e continua."
Fece sć col capo, bevve un sorso e riprese:
"Allora... prima di tutto anche tu ormai preferisci di-
menticarti, no? Di lui."
'Ti lui? Vuoi dire di Shóji?"
"Sć. Ti pu• solo far male. E poi, ormai non hai pi inte-
resse nel libro di mio padre, vero? Non come prima. Appar-
tiene al passato, non credi? Non Š come per noi che ne sia-
mo ancora coinvolti in pieno. Dico bene?"
"Chi ... ?"
"Io, Saki e..."
'Ta tua ragazza..." dissi.
"Esatto. Per noi da allora Š come se il tempo si fosse fer-
mato. In tutto questo tempo, mentre tu facevi tante altre
cose, noi siamo rimasti intrappolati da quel racconto."
"Sar anche come dici, ma per adesso con Saki non ho
nessun problema... quanto alla tua ragazza, non so che tipo
sia e cosa voglia, comunque io quel racconto non l'ho di-
menticato per niente. Ci sono rimasta invischiata per anni e
sono stata felice di trovare delle persone con cui poterne
parlare, compreso te naturalmente. Questo Š tutto."
'E va bene, anche tu ne sei stata coinvolta per tutto
questo tempo. Non ne hai abbastanza? Di averci tutti in-
torno?"
"No, purch‚ non vi serviate di me," dissi.
"Questo mai, te lo giuro," rispose Otohiko.
"Allora va bene."
"Siamo tutti persi, senza via d'uscita, ma io penso di po-
terla trovare in te. Ho la sensazione che da te possa venire
una possibilit di cambiamento."
"Chiss, pu• darsi," dissi io.
Non ci avevo capito molto.
"Se non faccio una copia del racconto, potrei essere i
pericolo?"
"No, non credo. Lo dicevo per sicurezza, dato che Š u
ricordo a cui tieni molto."
"Ho capito," dissi. "Ma senti, perch‚ parli in questo
modo? Tuo padre, come Shóji, ormai Š morto da tanto tem-
po. Anche tu avresti dovuto dimenticare. Cos'Š che ti rende
cosć cupo?"
Evitai di dire 'drammatico'.
"Non preoccuparti per me. E' che le donne sono creature
diaboliche," disse lui.
Ebbi l'impressione di intuire cosa volesse dire.
"E' di lei che parli, vero?"
"Penso che presto la incontrerai," disse Otohiko. "E an-
che stavolta ti farai coinvolgere. Ho capito come sei fatta."
"Cosa si pu• fare per farla finita con questa storia?"
"Forse finir naturalmente quando saremo tutti molto
pi vecchi e maturi," disse lui.
"Di che andr tutto bene," dissi ridendo. "Non Š il ca-
so di farla tanto pesante."
"Sai, non mi sono ancora ripreso del tutto dopo quel
viaggio. "
"Sć, si vede."
Il rumore della pioggia mi rendeva un po' inquieta. E'
vero, la sensazione di essere coinvolta da qualcosa di molto
nevrotico mi aveva accompagnata a lungo. La stessa sensa-
zione che avevo provato quella volta a casa mia da bambina,
quel senso di oppressione che allora mi blocc• la gola. In
lontananza si sentć un tuono. Le gocce di pioggia scorrevano
rapidamente sul vetro della finestra, oltre il quale le luci
bianche dei lampioni brillavano sfocate. In una notte come
quella mi sembrava che non ci fosse niente di cui potermi fi-
dare, nemmeno il sorriso di Saki, troppo lontano.
"Per• ho capito che tu sei una persona molto pi curiosa
di quanto pensassi."
E io che tu ti preoccupi pi del necessario.
Allora non dico pi niente. Vediamo che succeder."
"Ecco, se riesci a pensare cosć, ti sentir i meglio," dissi,
anche se continuavo a non capire bene.
Silenzio. Il rumore della pioggia.
Il vento fischiava con un sibilo esagerato.
Ascoltavo in silenzio, guardando fuori della finestra. A
un tratto lui disse:
"Per•, che bello il Giappone!"
"Cosa? Come ti viene in mente?"
Ero trasalita, perch‚ pensavo che si fosse addormentato.
Mi girai. Era completamente sveglio e mi guardava con
un'espressione vivace.
"Ci sono i fiori di ciliegio."
Dev'essere davvero completamente ubriaco per parlare
di fiori di ciliegio in estate, pensai, ma risposi:
"Eh, gi."
Con lo sguardo rivolto verso la finestra, disse:
"La primavera del mio primo anno in Giappone non fa-
ceva che piovere. Io non ci vedevo nessun aspetto positivo,
la trovavo solo deprimente. Ma una volta che ero in taxi sot-
to la pioggia, vedendo i fiori di ciliegio provai un'emozione
incredibile. Il cielo era nuvoloso e il finestrino era tutto ri-
coperto di gocce di pioggia, cosć fuori non si vedeva quasi
niente, proprio come adesso. Oltre il vetro c'era una rete
metallica verde che correva lungo i binari della ferrovia, e
dietro quella rete a un tratto apparve il colore rosato dei fio-
ri di ciliegio. Era dappertutto. La prima volta che li notai fu
attraverso quel doppio filtro, e in quel momento scoprii que-
sto mistero giapponese: i ciliegi che in primavera fioriscono
da tutte le parti come impazziti."
" Hai detto una cosa molto bella."
"Ancora adesso non mi ci sono del tutto abituato. Per•
quand'ero a Boston desideravo tornare."
sć?"
Uno spirito confuso, schiacciato da un peso. I riccioli ca-
stani bagnati. Come un cane o un principe. Il ragazzo che
era sempre dietro ai quaderni di Shóji.
Finalmente si era addormentato, e aveva cominciato a
russare forte. Il rumore, combinato col suono della pioggia
battente, rimbombava nella stanza. Poi chiss perch‚ quel
frastuono mi diede un senso di pace cosć profondo da strin-
germi il cuore. Gli misi sopra una coperta.
Era gi passata l'alba quando mi sentii scuotere nel son-
no. A un certo punto anch'io ero crollata e mi ero infilata
nel letto.
"Scusa ancora."
"Figurati," risposi nel sonno. "Scusami tu della modesta
accoglienza. "
Aprii gli occhi nella semioscurit, e vidi la sua faccia pal-
lida che mi sorrideva.
"No, davvero non ho parole per scusarmi. Ciao, io
vado."
Volgendo la testa che mi faceva male, come in un sogno
dal mio letto seguii con lo sguardo la sua figura di spalle che
si allontanava. Quando la porta si chiuse, pensai vagamente
di andare a chiudere a chiave, ma avevo troppo sonno e non
ce la feci ad alzarmi. Non feci in tempo a pensare: che stra-
no ragazzo, che mi si richiusero gli occhi.




Dopo quell'ultima pioggia, finalmente sembr• arrivata
davvero l'estate. Di colpo cominci• un susseguirsi di giorna-
te calde e serene. Con la fine delle piogge anche la venuta di
Otohiko sembrava lontana come un sogno.
Per il modo in cui era comparso, e il modo in cui se ne
era andato.
Non avevo ancora fatto le fotocopie. E non avevo detto
niente a Saki. Cosć i giorni erano passati senza nessun cam-
biamento.
Quel pomeriggio ero di ottimo umore. Dato che ero in
vacanza avevo dormito fino a mezzogiorno, poi avevo fatto
il bucato. Dopo aver steso tutto ad asciugare, mi ero fatta
un altro sonnellino sulla terrazza. Poi, indossata una gaia te-
nuta composta di T-shirt rosa da jogging, shorts e sandali di
pelle, uscii per andare a ritirare un po' di soldi. L'estate Š
l'unica stagione cosć propizia da poter girare per la citt in
un abbigliamento del genere. Infilato il portafogli in una
sottile borsa di plastica, mi avviai a piedi verso la banca.
Ah, quel sole tanto brillante da non riuscire a tenere gli
occhi aperti!
Il solo fatto di camminare sotto un cielo cosć azzurro mi
rendeva talmente contenta che non riuscivo a non sorridere.
Dato che erano gi passate le tre, era aperta solo la sala
con i distributori automatici. Dentro non c'era nessuno, e in
quello spazio che sembrava un'ovattata scatola bianca, infi-
lai la carta nella macchina e iniziai l'operazione. Quindi
aspettai che uscissero i soldi ascoltando la voce femminile
del computer. Sar stato per questo che non mi accorsi per
niente che la porta automatica si era aperta e qualcuno era
entrato, n‚ del rumore del traffico esterno che doveva esse-
re penetrato in quel momento.
Quando avvertii che qualcuno si era messo in fila alle
mie spalle, pensai: Strano, con tutte queste macchinette
vuote perch‚ si viene a mettere proprio dietro di me?
L'istante successivo, proprio come nella scena di un
film, qualcosa di duro mi fu puntato sulla schiena.
"Non ti voltare," disse una sottile voce di donna. "Dam-
mi i soldi."
Non pensai nemmeno per un momento che fosse una ra-
pinatrice. Ebbi l'intuizione che si trattasse di una col cervel-
lo fuori posto. Si sentć il segnale che indicava che il denaro
era uscito dalla fessura e io, piuttosto tesa, ritirai frettolosa-
mente le banconote. Grazie e arrivederci, disse la macchi-
netta.
"Ci sei cascata! solo il mio dito!" disse ridendo la per-
sona alle mie spalle, e ritir• la mano.
Saki, ma che scherzi sono?, stavo per gridare. Ero sicura
che fosse lei, anche se la cosa mi sembrava stranissima. In-
vece no.
Quando mi girai, mi trovai davanti una persona che non
avevo mai visto in vita mia e che sorrideva allegramente.
Perci• ebbi ancora pi paura. Non dimenticher• mai il
momento in cui vidi per la prima volta quegli occhi che mi
fissavano come se volessero risucchiarmi. La trasparenza del
suo sguardo aveva la purezza assoluta di Sirio quando brilla
lontana nel cielo notturno, o di un dry martini preparato a
perfezione che attraverso il bicchiere da cocktail emana la
sua limpida luce.
Potr sembrare assurdo, ma quello che provai fu paura.
Quando il viso di un adulto ha questi occhi di bambino ap-
pena nato, come si pu• sapere cosa vi si riflette, quali pen-
sieri vi si affacciano?
Una strana ragazza, che non assomigliava a nessun'altra
mai vista. Non era di un'eccezionale bellezza, e nemmeno
particolarmente carina. Ma aveva fascino. Un fascino simile
allo scintillare dell'istinto di una belva) simile all'aggregato
da cui sprigiona l'intelligenza.
La guardai fisso. La esaminai.
Aveva lunghi capelli. Neri, sottili.
Un corpo snello. Un collo magro e nervoso. Statura alta,
figura diritta, la bocca grande. Una camicia bianca. La linea
del seno, piccolo e ben fatto. Le gambe, sensuali e pi carno-
se rispetto al resto del corpo, che gli shorts cortissimi lascia-
vano completamente scoperte. Ai piedi nudi, dalle unghie
smaltate di rosso, sandali da mare di un giallo acceso.
A giudicare dalle apparenze dovevamo avere in comune
il debole per l'estate, dato che eravamo vestite pi o meno
allo stesso modo.
"Siamo vestite come due sorelle," disse lei.
"Lei chi ‚?" dissi.
"Mi chiamo Sui Minowa. Sui, Minowa," si present•. 'E
tu sei Kazami Kanó. "
'Va bene, ma tu chi sei?"
" Di che lo sai!"
Sempre con quel sorriso dolce e pieno di intimit, stese
verso di me le sue braccia sottili con la stessa lentezza degli
extraterrestri di Incontri ravvicinati del terzo tipo.
"No, mi dispiace," insistei.
Allora lei mi afferr• con forza la mano destra e mi tir•
dicendo:
'Va bene, ne parleremo in macchina".
"Un momento!"
Irritata cercai di liberarmi ma lei mi stringeva con una
forza che contrastava con l'espressione tranquilla del suo vi-
so, e non dava segno di lasciare la presa. La sua mano era co-
sć calda che mi faceva senso.
"Spiacente ma non vado da nessuna parte con una per-
sona che non conosco," dissi, con un tono piuttosto secco.
Lei ebbe un attimo di esitazione, ma subito replic•-
"Se Š per questo, siamo vecchie conoscenze".
Era una frase che in quei giorni sentivo ripetere spesso.
"Non credo di averti mai visto," dissi.
"Otohiko non ti ha parlato di me?" disse lei stupitis-
sima.
Ah, ecco!, pensai, Š la ragazza di Otohiko. "Allora tu..."
feci appena in tempo a dire che mi interruppe.
"Sono la loro sorella, di altra madre," disse.
"Eeeh?"
Fui colta cosć di sorpresa che non seppi dire altro. Poi,
finalmente, capii. Il punto a cui quei due gemelli cosć intelli-
genti non avevano fatto che girare attorno.
"Non sapevo," dissi infine.
"Mi chiedo perch‚ lo nascondano," disse lei. "Forse per-
ch‚ in passato ho avuto una relazione con Shóji? Perch‚ gli
ho dato il racconto n. 98 di N.P.? Perch‚ a causa di questo
lui Š morto?"
Ogni domanda finiva con un tono ascendente strana-
mente dolce.
"Oppure, perch‚ il fatto che adesso io stia con Otohiko
Š una cosa che non va bene?"
Sentirlo fu scioccante.
"Ma, avete un legame di sangue, no?" dissi. "Vuoi dire
davvero che anche tu sei figlia di Sarao Takase?"
Sui fece sć con la testa.
"E quel cognome, Minowa? Tua madre Š giapponese?
Scusa l'interrogatorio."
"Sć. Pare che a mio padre piacessero le donne giappone-
si, e mia madre viveva laggi ma Š giapponese. Comunque
da molto tempo non so pi niente di lei," disse. "Di, vedi
che anche tu vuoi parlare. Andiamo, io so guidare. Guar-
da." Tir• fuori dalla tasca la patente e me la fece vedere.
"Non dico mica bugie."
Che non fosse una bugia ci credevo, ma non ero sicura di
potermi fidare della sua guida che, a giudicare dalle appa-
renze, si preannunciava pericolosa. Ad ogni modo, quando
uscimmo all'aperto, con lei che continuava a tirarmi per la
mano, parcheggiata lć fuori c'era una Familia rossa dal pa-
raurti sfondato.
"Come hai preso quella botta terribile?" chiesi indican-
dola.
"Sono andata a sbattere, ma Š stato molto tempo fa.
Non Š mica una cosa recente," disse sorridendo, mentre si
avviava decisa all'auto.
"Forza, sali."
"Scusa, ma facciamo la prossima volta," dissi.
Avevo voglia di pensare un po' con calma, e poi non mi
andava di lasciarmi trascinare in questo modo. I suoi lunghi
capelli avevano un profumo delicato, come quelli di un bam-
bino. Gli occhi, un po' nascosti dietro la frangetta mossa dal
vento, brillavano indifesi. Ebbi paura che avrebbe potuto
finire col piacermi.
"Allora ti accompagno almeno fino a casa," disse. Gir•
la chiave e aprć la portiera. Poi rapidamente si sedette al po-
sto di guida e sorridendo disse:
"Di, sali dall'altra parte".
Messa alle strette, sebbene controvoglia, salii sull'auto.
"Allora, puoi lasciarmi a quel grande incrocio laggi,"
dissi indicandolo col dito.
Dentro l'auto, il caldo era soffocante, e dal parabrezza
non si vedeva che un lungo tratto di strada bianca abba-
gliante. La luce era cosć accecante da non riuscire a guardare
palazzi e alberi. Con le nostre gambe nude in shorts e sanda-
li affiancate sotto i raggi del sole, per un secondo ebbi la
sensazione che stessimo sulla spiaggia.
"Sembra di stare al mare," disse Sui, facendomi trasa-
lire.
Contro ogni aspettativa, guidava bene.
"Questa Š una che sa il fatto suo," pensai, senza dirlo.
Faceva solo finta di essere matta. Si capiva dal suo sguardo
freddo mentre stringeva il volante.
Cosć, un po' rassicurata, smisi di preoccuparmi del sole
che batteva troppo forte sui vetri e dell'aria condizionata
che non funzionava bene, e mi sentii pi ben disposta.
Tanto che pensai: dopotutto perch‚ no? potrei anche ri-
vederla.
Ma arrivate all'incrocio, mentre stavo dicendo "Grazie,
allora ci vedremo..." mi interruppe di netto dicendo: "Si
continua! "
Contemporaneamente aument• di colpo la velocit e io
vidi il mio familiare incrocio passare e allontanarsi dietro di
noi in un lampo.
"Ma cosa fai? Fermati," gridai.
"Non mi va. Ora che finalmente ci siamo incontrate,"
disse lei continuando a guardare davanti a s‚.
"Questa Š una prepotenza," dissi infuriata.
"No no," fece lei scuotendo la testa.
Come 'no no'?
"Guarda che queste cose faranno effetto su certe perso-
ne, ma con me non funzionano. Se c'Š una cosa che detesto
sono le scene drammatiche," dissi.
Nel frattempo anche la mia casa si era allontanata a una
velocit incredibile.
"Davvero? A vederti non si direbbe proprio," disse Sui.
Era troppo, rimasi veramente senza parole. Non mi re-
stava che aspettare per vedere quale sarebbe stata la sua
prossima mossa. Per un bel po' restammo in silenzio. Poi a
un tratto lei riprese a parlare tranquilla come se niente fosse
accaduto.
"E' solo che volevo parlarti. E avevo aspettato tanto il
momento di incontrarti. Che sar mai, parlare un po' insie-
me? Forse Š stato u'no scherzo un po' esagerato, ma non Š
poi cosi grave, no? dopotutto."
"Ormai che ci siamo, parla," dissi ridendo mio mal-
grado.
"sono successe tante cose che mi preoccupano, e avevo
bisogno di parlarne con qualcuno che potesse capire," disse
lei con un sorriso.
Solo allora mi resi conto di quanto, a modo suo, anche
lei fosse tesa come me per questo incontro. A volte ci metto
molto a capire se posso chiacchierare o passare del tempo as-
sieme a una persona, soprattutto quando, come in quella oc-
casione, la prima impressione Š cattiva. Cosć finalmente mi
arresi, sentendomi disposta a seguirla.
"Credo di capire in parte quello che vuoi dire, di intuirlo
pi che altro," risposi.
Poi di nuovo per un po' restai a pensare in silenzio. Ai
miei quaderni lasciati aperti sulla scrivania, alla finestra spa-
lancata, al mugicha che non avevo finito di bere, al bucato a
quest'ora gi asciutto. Pensai con amore alla mia casa, come
a una navicella nel porto. Pensai con nostalgia alla mia vita
di fino a poco prima. Perch‚ non sapevo pi, per come si
erano messe le cose, quando vi avrei fatto ritorno.
"A proposito, ho sentito che volevi il racconto n. 98,
quello che ho io." Chiesi: "Non ce l'hai?"
Scosse la testa.
"E' la traduzione che volevi vedere?"
Non rispose. Chiese invece:
"Dove andiamo? Al mare?"
"Dove vuoi. Scegli tu," dissi.
"Conosco un posto. Un laghetto artificiale che sembra
un lago vero. Andiamo lć," disse Sui. Poi, solo allora, rispo-
se: "La traduzione di Shóji? Sć, l'originale non importa, ma
vorrei vedere le parti tradotte in giapponese, anche non
tutte".
"In che periodo siete stati insieme?"
"Stai tranquilla, Š stato molto tempo prima che stesse
con te. Dopo che ero venuta in Giappone, poco tempo dopo
aver incontrato Otohiko, mi pare. Comunque,come ti ho
gi detto, sono stata io a fargli conoscere quel racconto. Gli
diedi il n. 98 e gli dissi: 'Traduci questo'. Mi dispiace," ag-
giunse infine.
"Non Š stata colpa tua. Per• Š colpa tua se anch'io ho fi-
nito col leggerlo," risi io.
"Era destino che lo dovessi leggere," disse lei.
"Sei stata a Boston con Otohiko?" chiesi.
"Sć, per due anni."
"E perch‚ ora siete tornati? Va benissimo, intendia-
moci. ',
"Non lo so bene neanch'io. Tanto pi che avevo deciso
di restare lć. Ma Š cosć difficile decidere con chiarezza."
Dentro l'automobile faceva un caldo soffocante, in con-
trasto con la freschezza del paesaggio che sfrecciava via.
Non riuscivo neanche a pensare, mi sentivo il cervello para-
lizzato.
"L'aria condizionata Š un po' debole," dissi, e provai ad
aumentarla. Una corrente fredda accarezz• le nostre ginoc-
chia.
"Ci sono stata bene sai? a Boston," disse Sui. "E' bella,
un po' malinconica. Sembra fatta apposta per chi vuole fug-
gire. Per•, i problemi che c'erano tra noi sono rimasti tali e
quali, inutile dirlo. Poi sono finiti anche i soldi, e quando
dovevamo decidere che fare lui ha detto: 'Lasciamoci, io
torno in Giappone, e io ho risposto: 'Allora io resto qui,'
ma alla fine poi sono venuta anch'io. "
"Lo sapevate fin dall'inizio, di essere fratelli?" chiesi.
2o forse lo sapevo," rispose lei.
'Forse?"
"Dopo essermi innamorata, ho cercato di convincere me
stessa che non lo sapevo, e cosć a un certo punto non sono
pi riuscita a distinguere quale fosse la verit. Capisco che Š
difficile da-credere ma Š stato davvero cosć. La mattina ap-
pena aprivo gli occhi era il primo pensiero: ma Š vero? siamo
fratelli? O Š tutta una fantasia? Non lo sapevo pi nean-
ch' io. "
"Capisco..."
Mi sembrava che il flusso delle auto di cui facevamo par-
te fosse come la corrente di un fiume che mi trasportava in
un mondo dal sapore irreale.
"Io sapevo che tu stavi con Shóji. Otohiko mi disse di
averti visto a quel party con Sh•ji e mi spieg• chi eri. Vorrei
conoscerla, pensai. L'idea di tornare in Giappone mi depri-
meva, ma se pensavo che c'eri tu mi sentivo subito meglio."
"Hmm."
"Siamo arrivate," disse Sui, accostando la macchina.
Era un grande parco dove non ero mai stata. Dall'entra-
ta si vedeva una fitta macchia di alberi, scura come una fo-
resta.
"Di, scendi. Facciamo una passeggiata," disse lei.
Il parco era piuttosto vasto e, passando attraverso la fit-
ta boscaglia vicino all'ingresso, si sbucava in prossimit del
laghetto che- appariva all'improvviso, vasto e luminoso.
Comprammo due ghiaccioli, di quelli che si vendevano un
tempo. da un carrettino. Il vecchietto li tir• fuori dal conte-
nitore e nel darceli chiese: Siete sorelle? Ridendo rispon-
demmo di sć. Ci sedemmo su una vecchia panchina di legno
e mangiammo i ghiaccioli.
Aveva ragione, era proprio come un lago vero. Gli alberi
sulla riva opposta, nella distanza facevano pensare a una
montagna. L'acqua era uno specchio limpido. I bambini sul-
le loro biciclette attraversavano il vialetto davanti a noi con
rumore di ruote sui ciottoli, qui e lć c'erano uomini seduti
tranquilli che pescavano, e su un piccolo spiazzo di sabbia
vicino a noi una madre che giocava col bambino.
Sui, seduta con le ginocchia al petto, non guardava il la-
ghetto ma le nuvole lontane.
"Ma com'Š che non avete pensato di restare tutt'e due a
Boston? Perch‚ avete la nazionalit giapponese?"
"Mah, c'era anche quello per•... no, Š che da un certo
punto in poi non ci abbiamo capito pi niente."
Sui inclin• la testa, come se stesse frugando nei suoi ri-
cordi.
"All'inizio, sai, ci siamo andati per fuggire dal disagio di
essere fratelli, per cercare di distrarci. Con l'idea 'andiamo-
cene noi due soli in un posto lontano'. C'era la passione.
In un primo momento a me quasi non importava, ma Oto-
hiko... lui ha avuto un'educazione per bene. Boston Š un bel
posto. C'Š un grande fiume. Passeggiavamo lungo quel fiu-
me, andavamo in biblioteca, nei bar a bere, al porto a guar-
dare le navi, come due amanti felici. Per• senza accorgerce-
ne stavamo accumulando una specie di stress. Di notte ci
svegliavamo continuamente. Ogni volta che ci chiedevano:
Siete sposati? ogni volta che vedevamo un'anziana coppia di
marito e moglie in un parco, ci assaliva quella sensazione di
disagio. Come dei fuggiaschi. All'inizio riuscivamo a trovare
un lato attraente anche in questo, ma a poco a poco arrivam-
mo al punto che anche se io gli stringevo forte la mano, lui
mi rispondeva sempre con quello sguardo cupo. Sempre, an-
che quando sarebbe bastato un sorriso per ritrovare l'armo-
nia. Cosć siamo diventati pi distanti di due estranei, per
non dire di fratello e sorella, e a quel punto c'era poco da ri-
trovare l'armonia! Sai che se ci penso, fino ad allora non
avevo mai riflettuto seriamente su queste cose. Ed ero stata
a letto anche con mio padre."
"Allora..." dissi.
Sui finalmente si gir• verso di me. Aveva capito quello
che stavo per chiedere.
"Sć, quella del racconto n. 98 sono io."
'Tinalmente capisco tutto," dissi. "Ma se non c'Š un
rapporto di parentela non riesci a provare attrazione?"
"Ma scherzi? Comunque almeno -nel caso di Shóji non
c'era nessun legame familiare. "
"Anche questo Š vero," dovetti ammettere.
Quando sento pronunciare il nome di qualcuno che Š
morto, ho sempre la sensazione che quella persona si fonda
con il paesaggio che ho davanti. Anche in quel momento, in
quel luogo all'aperto, nel sentire all'improvviso il suo nome,
in tutto quello che mi circondava, nel mormorio del bo-
schetto dalle ombre fresche, nell'aria dolce dell'estate, den-
sa come nebbia, nella superficie dell'acqua che si increspava
scintillando, subito riconobbi la presenza di Sh•ji.
"Se ci pensi, anche noi due, attraverso Shóji, siamo so-
relle, " dissi ridendo.
"Gi, e se tu andassi a letto con Otohiko lo diventerem-
mo ancora di pi," disse, ridendo maliziosamente.
"Ora come ora mi sembra improbabile," dissi.
Impossibile indovinare se l'idea la preoccupasse, o se le
avrebbe fatto piacere.
"Perch‚ Otohiko mi ha parlato di te come di una perso-
na pericolosa? Che avrebbe potuto risucchiarmi---"
"Perch‚ era convinto che se noi due ci fossimo incontra-
te, come in un'antica leggenda, il destino si sarebbe messo
in moto. E' pazzo," disse Sui. "Non succeder proprio nien-
te, vero?"
"Hmm. Che pace..."
Restammo in silenzio. Si sentivano i suoni del mondo in-
torno. Voci di uccelli, voci di bambini, scampanellii lontani.
"Hai letto il racconto n. 98?" chiese Sui.
"Sć, l'ho letto. Mi Š piaciuto molto. Specialmente la
fine. "
"Anch'io quando leggo quella parte mi metto sempre a
piangere. Io mio padre l'ho visto solo poche volte, non era a
posto con la testa, era una persona assurda, ma mi ha voluto
veramente bene, credo. Come Š scritto nel racconto, disse
che quando ci incontrammo la prima volta non aveva idea
che fossi sua figlia. Aveva solo pensato che assomigliavo a
mia madre. Comunque, siccome per un certo periodo mia
madre ha fatto la vita, non si sa con sicurezza se io sono dav-
vero figlia di mio padre. Per• gli occhi sono uguali, no?"
Cosć dicendo, di nuovo mi guard• negli occhi. Ebbi un
brivido. Avevano la profondit dell'acqua scura di un antico
pozzo.
"E' vero," dissi. "Anche se l'ho visto solo in fotografia.
Non hai mai pensato di fare degli accertamenti?"
"Molte volte. Ho pensato che se dopotutto fossi la figlia
di un perfetto sconosciuto, domani stesso io e Otohiko sa-
remmo una coppia di amanti come tutte le altre. Ho paura
per• che saremmo talmente sopraffatti dal senso di libera-
zione che il minimo che ci potrebbe succedere Š di diventare
alcolizzati. Ma la cosa peggiore sarebbe se fossimo sicuri che
c'Š un legame di sangue. Se uno non lo accerta, ha una spe-
cie di alibi. E come per i malati di Aids. L'uomo Š debole. Io
sono cresciuta in un ambiente schifoso, e ho visto molte co-
se disumane, ma ho sempre saputo che in fondo ogni uomo Š
fragile. In un certo senso Š come la teoria che l'umanit Š
fondamentalmente buona. Per quanto ne so dalla mia espe-
rienza, quando uno si sforza di superare certi limiti, prima o
poi ne soffre le conseguenze. Come Š successo a mio padre.
Pu• anche darsi che sia una prova dell'esistenza di Dio."
L'azzurro del cielo era cosć intenso da ferire lo sguardo.
Era un colore talmente bello che dovetti frenare le frasi da
romanzo che mi venivano spontanee, come: e se continuaste
a stare insieme fino a quando sentirete di farlo, senza darvi
tanta pena? Con quella vista negli occhi anche questo sem-
brava possibile. Ma sicuramente, come in tutti gli amori in-
felici, chiss quante volte guardando cieli come questi
avranno giurato di continuare, per poi ritrovarsi al punto di
adesso.
"Dev'essere stata una storia logorante."
"Brava. Hai centrato in pieno."
Sui sorrise dolcemente, con la sua grande bocca. Acci-
denti, Š fatta!, pensai, gi mi piace, riesce a commuovermi
come se ci conoscessimo da chiss quanto tempo.
"Credo proprio che siamo tutti sotto la sua maledizione,
incluso mio padre," disse lei.
"Di quel racconto? Anch'io?" chiesi stupita.
"sć, siamo tutti legati, come in quelle catene di lettere
che non si possono interrompere. Sin dal principio."
"E' solo immaginazione."
"Ma tu stessa,-non hai la sensazione di conoscerci tutti
da chiss quanto tempo? Saki, Otohiko, e anche me?"
Annuii.
Sui mi guard• tranquilla, con un'espressione lontana,
come se invece di me stesse osservando il cielo.
"E' proprio questa autosuggestione che non si risolve che
la gente chiama maledizione, stai pur certa."
Annuii di nuovo in silenzio. Un soffio di vento incresp•
la superficie dell'acqua facendola luccicare. Come se avesse
risposto alla tranquillit senza sbocco di Sui.
Potrebbero finire con l'uccidersi insieme, pensai a un
tratto.
Ne ebbi quasi la certezza. E' quello che potrebbe accade-
re se vanno avanti cosć. Ma non dissi niente. Pensai solo: sa-
rebbe troppo brutto averli conosciuti solo per assistere a
questo.
"Torniamo?" disse Sui alzandosi.
"Va bene."
Grattandomi le gambe punte dalle zanzre, la seguii. La
sua figura sottile vista di spalle mentre camminava con sus-
siego aveva l'aria impertinente di un cagnolino viziato.
In macchina, sulla via del ritorno, all'improvviso mi
venne in mente di chiedere:
"Sei stata tu a telefonare una volta in ufficio?"
Sui, continuando a stringere il volante senza voltarsi, fe-
ce di sć col capo.
"Perch‚ quando hai sentito la mia voce hai riattaccato?"
chiesi.
Sui sorrise.
"Volevo solo accertare la tua esistenza in questo quartie-
re. In questo mondo. Poi, quando ho sentito la tua vera vo-
ce, ho avuto un attimo di panico e ho riagganciato. Ah, ah,
ah," rise imbarazzata.
La strada del ritorno ha sempre qualcosa di malinconico.
Una leggera tristezza. Mentre gli edifici bianchi e il cielo al
tramonto scorrevano dietro i vetri, sentivo di capire con in-
credibile chiarezza ogni parola di Sui.
"Anche per me la vostra esistenza Š un po' magica," dis-
si. "Eravate tutti lć, chiusi nelle pagine di un libro e all'im-
provviso adesso venite fuori e vi mettete a parlare. E a forza
di stare con voi mi sembra di esserci finita anch'io, in quel
libro."
"Brutto segno," rise lei.
Ci separammo all'incrocio dove mi avrebbe dovuto la-
sciare all'inizio. Quando mi fece scendere disse solo: Beh, ci
vediamo, e ripartć rapidamente. Ero sconcertata, non mi
aspettavo un saluto cosć sbrigativo, e mentre stavo per av-
viarmi nella stradina laterale senza voltarmi indietro, sentii
il suono di un clacson.
Mi voltai. Ferma al semaforo dal lato opposto della stra-
da, dopo aver fatto inversione di marcia, dal finestrino aper-
to Sui agitava la mano verso di me sorridendo.
Sotto il cielo rosso, il suo viso sorridente sembrava un
frutto tropicale.
Davvero quel giorno l'avevo incontrata per la prima
volta?
Mi sembrava di essere stata sempre con lei.
Mi sembrava di avere diviso con lei tante esperienze,
tanti discorsi, sin da quando ero bambina.
Imboccata la stradina, sollevai lo sguardo verso la luna
sottile, e pensai a loro tre.
E come una bambina pregai che non ci fosse nessun sui-
cidio.




"A proposito, sai che ho incontrato quella ragazza, Sui,
e ci siamo trovate piuttosto bene?" dissi.
'Teeeh?" fece Saki. Rimase un attimo in silenzio e poi
disse: "Questa poi!"
Eravamo nel mio ufficio, dopo l'intervallo di mezzogior-
no, oziando. Con un sorriso un po' forzato mi alzai, tirai
fuori dal frigorifero una bottiglia di mugicha e me ne versai
un altro bicchiere. Anche Saki, suo malgrado, sorrise nel
suo modo dolce. Era seduta nella sedia del professore con i
piedi sulla scrivania, e portava un vestito giallo senza mani-
che. Era una scena che cominciava a diventarmi familiare.
Quando ci eravamo incontrate la prima volta era la stagione
delle piogge, e il paesaggio dalla finestra dell'ufficio era
completamente diverso. Ma ormai era piena estate. A causa
delle vacanze estive l'universit era semideserta e dalla pi-
scina del vicino liceo arrivavano schiamazzi e il rumore del-
l'acqua. Il condizionatore d'aria, che non funzionava quasi
per niente ma in compenso emetteva un fastidioso ronzio,
era esasperante. Bevendo il mugicha giravo continuamente il
bicchiere facendo tintinnare il ghiaccio.
"Beh? E com'Š che ti ci sei trovata bene?" chiese Saki.
"Con una persona cosć stancante?"
"Infatti mi ha stancata, ma l'ho trovata anche interes-
sante," risposi.
', Quanto ti ha detto?"
"La parentela, l'incesto, Boston, il ritorno in Giappo-
ne," dissi sorridendo.
"Direi che non manca niente' " disse Saki scoppiando in
una risata. Le sue spalle bianche vibrarono. Come un gira-
sole.
"Non Š che volessi nascondertelo. E' solo che non Š una
cosa che riguarda noi due, e non Š un argomento talmente
piacevole. "
"Capisco," dissi io. "Avete un cattivo rapporto?"
"Non so se si pu• dire che abbiamo un cattivo rapporto.
Sai, il problema Š mia madre. Mia madre ha per lei un'anti-
patia morbosa. Io e lei non abbiamo parlato abbastanza da
poter avere un buon rapporto. E poi credo che se provassi-
mo ad avere dei rapporti di amicizia, la cosa risulterebbe in
qualche modo falsa."
"Sć, penso che tu abbia ragione."
"Ho incontrato alcune volte anche la madre. Di solito
per soldi o questioni del genere."
"Quand'eri piccola?"
"Sć. Pare che Otohiko abbia saputo di queste storie solo
da grande. E poi Š successo quel che Š successo. Ah ah ah,"
rise Saki. "Questo farsi il giro delle persone di famiglia... sa-
pessi quanto mi vergogno."
"Per•, sai, -in un certo senso lo capisco. Perch‚ anch'io
ho una visione delle cose molto circoscritta. Penso spesso
che se seguissi il mio istinto, per tutta la vita vivrei sempre
nello stesso posto facendo le stesse cose, sempre con le stes-
se opinioni su tutto. Anche di persone me ne bastano poche.
Credo che mi manchi qualcosa. Forse una simpatia per le
sofferenze del mondo, lo spirito d'avventura, l'interesse per
gli altri... Perci• non la trovo una cosa incomprensibile.
"Questo vorrebbe essere di conforto?"
Scoppiai a ridere:
"Arrivata a met non sapevo pi cosa stavo dicendo. Ma
la madre di Sui, che tipo ‚?"
"Un caso disperato, su questo non ci piove. Sui si Š sepa-
rata da lei molto presto, e poi ha vissuto da sola. Credo che
nel periodo in cui incontr• pap, avesse perso da tempo le
tracce della madre. La quale era venuta non so quante volte
a spillare soldi da mia madre, e da lei si sentivano solo storie
di alcolismo, sifilide o gi di lć. Che Sui fosse nostra sorella,
che una sorella potesse esistere, Otohiko l'ha saputo solo
quando stavano gi insieme. Non ti dico il panico. E guai se
nostra madre avesse saputo. Ma Š stato tutto inutile. L'amo-
re non si pu• fermare," disse Saki.
"Lo credi davvero?" chiesi.
"Cosa?" Saki mi guard• stupita.
"Che con l'amore non c'Š niente da fare."
"Sć," annuć Saki.
"Ma in questi casi non dovrebbe esserci una specie di ri-
fiuto fisico?"
"No. Vedi, il solo pensare a una cosa del genere fra me e
Otohiko, che siamo cresciuti insieme da piccoli, mi farebbe
orrore, ma per lui lei era una completa sconosciuta, e poi de-
vi pensare che Otohiko, ancora pi di me, ha un sentimento
molto complesso per nostro padre, in cui si mischiano tante
cose: il rimpianto per essere stato abbandonato da bambino,
l'ammirazione per le sue opere eccetera. In parte riesco an-
che a capire quello che prova. Il racconto n. 98 Š incredibile,
no? Surreale, romantico, Š il pi bello che ha scritto. Prendi
quel racconto, lei, l'ombra di mio padre, metti tutto insie-
me, ed ecco l'amore. "
"Sei diversa da come pensavo," dissi. "Ti credevo molto
pi schizzinosa. Scusa, ma mi avevi dato questa impres-
sione. "
"E' vero.
"Assolutamente.
"vedi? Non si pu• dire di conoscere qualcuno se non lo
si frequenta," sorrise Saki. "Se non si cerca di scoprire i suoi
lati imprevedibili."
"Verissimo," dissi, anch'io sorridendo.
"Per• sai, c'Š una cosa di cui ho paura," disse Saki.
"Che possano uccidersi insieme. "
Allora l'aveva pensato anche lei. Assentii vigorosa-
mente. E temo che in futuro, trovandosi sempre pi alle
strette, le possibilit che prendano questa decisione aumen-
tino. Naturalmente potrei sbagliarmi."
"Per fortuna non siamo ancora a questo punto... " disse
Saki a bassa voce. "A proposito, non pensi che le cose dette
in un posto cosć grande completamente vuoto, con le voci
che riecheggiano, sembrino dei segreti terribili?"
"Ma sono dei segreti!" dissi ridendo. "Di, non ci pen-
siamo. Andiamo a mangiare invece!"
" Okay. "
Ci alzammo e lasciammo la stanza.
Nell'istante in cui uscimmo nel giardino dell'universit
fummo investite da una luce accecante, come se ci avessero
scattato negli occhi un flash. Dopo essere rimaste abbagliate
per qualche istante, la visione si ricompose nel solito paesag-
gio estivo. Il campo da giochi deserto profumava di erba.
Dal liceo vicino arrivavano, trasportati dal vento, i rumori
dell'allenamento di baseball: il suono acuto della mazza me-
tallica, gli applausi, le grida.
"Che bel venticello," disse Saki.
Guardando la sua fronte ampia accarezzata dal vento,
fui presa da una strana sensazione.
Tradotta in parole forse sarebbe stata:
"Un'amica che fino a un mese fa non conoscevo nemme-
no, nata in un paese straniero," ma era un'emozione molto
pi sottile, piena di stupore e quasi struggente.
Chiuso tra gli edifici della scuola il cielo era un perfetto
rettangolo. Al centro, quasi invisibile, affiorava una palli-
dissima luna e qualche nuvola si spostava fluttuando.
Non c'Š nessuno oltre noi a godere dell'infinita bellezza
di questa vista in questo momento, pensai mentre cammina-
vamo senza fretta attraverso il campo da gioco.




Quel giorno, dopo tanto tempo, ci fu un forte acquazzo-
ne, che mi fece tornare in mente la notte di pioggia in cui
era venuto Otohiko. Nel pomeriggio sembrava fosse arriva-
to un tifone, ed era cominciato anche il fragore dei tuoni.
Dal mio appartamento sentivo il rumore della pioggia
che scrosciava sui marciapiedi. A tratti il cielo era rischiara-
to da un improvviso bagliore. Anche se non erano ancora le
cinque, sembrava che sulla terra fosse calata la notte.
Entro quel giorno dovevo assolutamente fare le fotoco-
pie di un lavoro di traduzione che avevo appena finito. Era
una seccatura con quella pioggia ma, anche se controvoglia,
a un certo punto decisi di preparare i fogli e andare. Pensai,
gi che c'ero, di fare anche le fotocopie della traduzione di
Sh•ji. Non per l'avvertimento di Otohiko, ma perch‚ mi
sembrava comunque una buona idea averne una copia. An-
che perch‚ forse prima o poi sarebbe venuto il momento di
farla vedere a Saki o a Sui.
Cosć, ficcati i due plichi, il lavoro di quel giorno e la tra-
duzione di Shóji, in una borsa di plastica perch‚ non si ba-
gnassero, mi misi un impermeabile e uscii di casa.
Cadeva una pioggia violenta. Mi infilai di corsa in un
emporio nelle vicinanze dove avevano una fotocopiatrice.
Appoggiai l'ombrello da un lato e cominciai a fare le foto-
copie.
L'interno del negozio troppo illuminato e il cielo nero di
fuori. Le strade bagnate e i riflessi iridescenti dei fari. Il mio
viso illuminato a intervalli regolari dal lampo verde della fo-
tocopiatrice. Ogni volta che le porte automatiche del nego-
zio si aprivano lasciando entrare un cliente, il fragore del
temporale penetrava all'interno, coprendo le voci dei com-
messi che salutavano. Il pavimento bianco bagnato luccica-
va sotto le luci al neon.
Continuai, completamente assorbita nel mio compito.
Ci misi tanta concentrazione che alla fine mi sentii sollevata
come se avessi portato a termine chiss quale lavoro. Passai
alla cassa per pagare, infilai il mazzo di fogli bianchissimi
nella borsa di plastica e uscii dal negozio.
La pioggia si era un po' calmata, e a ponente il cielo ave-
va ora una luminosa sfumatura arancione, che si rifletteva in
modo incantevole sull'asfalto tra un palazzo e l'altro.
Quasi quasi prima di tornare a casa vado a prendere un
tŠ, pensai, e mi incamminai.
Sentii un fortissimo rumore di passi sopraggiungere alle
mie spalle, e poi qualcosa mi colpć pesantemente alla nuca.
Si sentć un bang. Pi per lo spavento che per il dolore caddi
sulle ginocchia. L'oggetto lanciato era a terra accanto a me.
Una di quelle bottiglie di plastica di tŠ Oolong che si vendo-
no in genere ai supermercati.
Ancora piegata sulle ginocchia voltai la testa e mi trovai
davanti a due gambe bianche, sensuali, dall'aria familiare.
Si stagliavano sul marciapiede bagnato. Seguendone la linea
sollevai lo sguardo verso l'alto.
"Ma sei impazzita?" chiesi, riuscendo a stento a mante-
nere calma la voce. "Mi hai fatto male. Cosa ti salta in
mente?"
Era Sui.
Aveva un aspetto strano. Pallida e tesissima, ma allo
stesso tempo stranamente assente.
"Guarda che disastro, sono tutta bagnata..."
Raccolsi la borsa e lentamente mi rimisi in piedi. Nel
momento in cui il mio viso fu a livello del suo, Sui cominci•
a piangere. Fu uno scoppio violento. Un pianto convulso,
come quello di un neonato. Ed era solo la seconda volta che
ci vedevamo! La gente che passava ci guardava con gli occhi
di fuori. Imbarazzatissima, mi affrettai a spingerla dentro a
un vicino garage. In quello spazio quadrato, isolate di colpo
dal rumore della pioggia dalle scure pareti di cemento, il
pianto disperato di Sui risuon• con pi fragore. Li in piedi
in mezzo a quell'odore di automobili bagnate, fui travolta
da un senso di sconforto ed esasperazione come una madre
alle prese con una bambina capricciosa. Non solo mi aveva
colpito, ma piangeva pure.
"Ma si pu• sapere che ti Š preso?" dissi.
"Non ti fidavi, hai voluto fare le copie, eh, bugiarda!"
grid• Sui, con voce carica di risentimento.
Rimasi di stucco. "Eeeeh?" balbettai.
"Pensavi che te lo rubassi, eh?" continu• tra le lacrime.
"Ma ti sbagli..." feci per dire, quando mi resi conto che
stavo per giustificarmi. Cominciavo a essere stufa di lasciar-
mi condizionare cosć facilmente, perci• cambiai tono: "Se
voglio fare le fotocopie di qualcosa che mi appartiene non
vedo come la cosa ti riguardi".
"E avevi detto di essere mia amica!" esclam• Sui, sta-
volta con veemenza. Pallidissima, lo disse con tutto il suo
corpo.
"Non l'ho mai detto!" urlai ' e la mia voce risuon• con
una forza inaspettata nel piccolo garage. Era un urlo che vo-
leva comprensione, rivolto a una persona lontanissima. Sui
per un attimo fu scossa da un fremito. Lo vidi. Provai a ri-
flettere. Pu• darsi che quel giorno avessi detto che ero sua
amica. Se non a parole, con gli occhi, con il sorriso. Prove
che a lei dovevano essere sembrate sufficienti.
Tirai fuori dalla borsa con un fruscio di pagine le foto-
copie della traduzione di Shóji e gliele diedi. Lei le prese co-
me in trance e fece per dire qualcosa. C'era un'incredibile
freschezza nella sua espressione, come nell'istante in cui la
parola nacque per la prima volta nella vita dell'uomo.
Ma proprio quando stava per parlare, di colpo si coprć la
bocca con la mano e abbass• la testa.
"Ti senti male?" chiesi.
Mi ricord• Otohiko. E subito pensai: sono una coppia
che ha molto in comune. Non hanno grande capacit di au-
tocontrollo, ma sono capaci di azioni eclatanti.
Sui fecesegno di no con la testa. Scorrendo lungo la ma-
no. del sangue le col• sul mento. Una goccia cadde ai suoi
piedi sull'asfalto, densa come una goccia di inchiostro.
"Per l'eccitazione mi Š uscito il sangue dal naso," disse
Sui con un'espressione stupita.
"Ma che fai, con il sangue dal naso guardi in gi? Alza la
testa! "
"Hmm."
Sui sollev• la testa verso l'alto. Staccai con forza la ma-
no che teneva attaccata al viso con rigidit cadaverica e le
diedi un fazzoletto.
"Grazie," disse Sui, la voce soffocata dal fazzoletto che
teneva premuto sul viso. Poi rest• in silenzio, continuando a
fissare il soffitto con gli occhi rossi.
Ma da dove viene questa infelicit? mi chiesi, sentendo-
mi invadere dal rifiuto e dalla piet. In che modo era cre-
sciuta? Di ragazze spostate ce ne sono tante, ma lei era un
caso a parte. Per il colore troppo intenso che emanava, per
la sua presenza cosć forte che lei stessa poteva esserne spaz-
zata via.
Come un'ortensia colpita da un acquazzone.
"Vieni a casa mia a lavarti la faccia," proposi.
Sui fece sć con la testa. Mi infilai sulla spalla la borsa di
plastica con le fotocopie e cominciai a camminare. L'om-
brello, che avevo trascinato nella caduta, si era spaccato. Ti-
ravo per la mano Sui che continuava a guardare verso l'alto.
Non c'era pi che una pioggerellina leggera.
Mi stava seguendo? Da quando?
Ebbi paura di chiederglielo.
La feci entrare in casa e accesi la luce. Lei stava in piedi
impalata.
"Tieni, sciacquati la faccia," le dissi dandole l'asciuga-
mano.
Sui aprć al massimo il getto dell'acqua e si lav• la faccia.
Nel vederla venir fuori con il viso pulito, come chi si Š appe-
na svegliato dal sonno, fui presa di nuovo dall'inquietudine.
"Pensi di dare le fotocopie anche a Saki?"
Aveva i capelli davanti bagnati, come dopo una nuotata.
"Sć, pensavo di dargliele."
"Anche se potresti benissimo lasciar perdere," disse lei,
con un viso senza espressione.
"Sai che negli ultimi tempi ho la sensazione di essere di-
ventata la vostra fermata d'autobus preferita," dissi. Passa-
vano tutti da casa mia. "Non voglio dire che sia un bene o
un male. Solo che Š strano. "
"Ma ha anche i suoi lati piacevoli, non trovi? E' una stra-
na dimensione. Noi ce la siamo anche goduta, in tutto que-
sto tempo."
"Vuoi dire il mondo di quel racconto?"
"Sć," disse Sui sorridendo. "Ha un tocco gotico ma Š an-
che profondo da darti il mal di testa, romantico ma anche
d'evasione... Comunque, tra le persone che ci sono coinvol-
te, alla fine non sar proprio l'approccio di Saki il pi one-
sto? Farne un oggetto di studio, farci su una ricerca."
"Tu invece lo hai vissuto nella pratica," dissi ridendo.
"Proprio cosć, nella pratica," disse Sui. "Perci• a questo
punto non ho la minima idea di cosa devo fare per cam-
biare. "
Qualche volta, nei momenti difficili, mi chiedo: se pap
e mamma non avessero divorziato, se non avessi vissuto da
sola cosć a lungo, se quella volta non avessi ripreso a parlare,
se non mi fossi innamorata di Sh•ji... se non ci fosse stata la
combinazione di tutte queste cose, io sarei la vera me stessa?
Libera?
Solo nei momenti difficili.
"Ma cos'Š una vita che non sia un racconto?" disse Sui.
In silenzio -preparai il caffŠ e glielo portai.
"Per• in effetti quello che fai tu, che gi da tempo hai
superato la storia di Shóji, Š osservarci come se ti avessero
dato una ricerca sulle formiche come compito per le vacanze
estive," disse Sui, prendendo il caffŠ e cominciando a sor-
seggiarlo. Il suo tono era quello di chi dice la cosa pi nor-
male del mondo.
"Come l'hai capito?" chiesi.
Al che lei sorrise con dolcezza. Sebbene avesse intenzio-
ne di scherzare, nel vederla sorridere in quel modo ebbi la
sensazione che avesse ragione.




Quel giorno dovevo andare per la prima volta a casa di
Saki e Otohiko. Con l'occasione decisi di portare le fotoco-
pie, che dovetti rifare avendo dato le prime a Sui. Mentre
camminavo sotto il sole d'estate, il pensiero di dividere sen-
za problemi in questo modo l'ultimo prezioso dono di Shóji
mi faceva sentire molto pi sollevata.
Anche se ci vedevamo tutti i giorni al lavoro, non avevo
idea di come fosse la casa di Saki, cosć mi immaginai le varie
possibilit."
Camminando mi chiedevo se sarebbe stata una casa fem-
minile e accogliente, sul country, oppure austera e senza
fronzoli, sul blues. L'avrei visto coi miei occhi dopo pochi
minuti, ma mi sforzavo lo stesso di immaginarla. Andavo
avanti per le stradine assolate seguendo passo passo una
complicata mappa.
In fondo a una strada che girava formando una U, si tro-
vava l'appartamento, in un edificio di stile occidentale. C'e-
ra un muro verde peppermint e un patio. Era un posto mol-
to stile Saki. Il cancello era ricoperto di edera. Tuttavia c'e-
ra un'impercettibile sensazione di abbandono, che faceva
pensare a un luogo di rifugio.
Salii per la scala, all'esterno dell'edificio, e bussai alla
porta del 202, dove loro abitavano.
"Kazami?" disse Saki, aprendo la porta. "Sei riuscita a
non perderti?"
"Non completamente," dissi.
"Otohiko non c'Š," disse Saki.
Entrai in casa. Le mie previsioni si rivelarono abbastan-
za esatte. Non era una casa tutta fronzoli, ma il tocco fem-
minile si avvertiva. Moquette dal colore intenso. Scaffali
stipati di libri occidentali. Di inatteso c'era invece una spe-
cie di indefinibile tocco marino. Una vecchia sedia a dondo-
lo, il divano di pelle, una stufa di ferro lasciata sul pavimen-
to della cucina, bottiglie in fila negli scaffali. Chiss perch‚
faceva pensare alla cabina di una nave.
"Ti piace il mare?" chiesi.
'E' Otohiko," disse Saki. 'voleva addirittura iscriversi
a un'universit che aveva a che fare col mare."
'E com'Š che poi non l'ha fatto?" chiesi, mentre sbircia-
vo nella sua stanza. Infatti, c'erano degli stivali da yacht, un
libro di foto di barche a vela, e perfino un timone appeso al
muro, Era un lato di lui inaspettato.
'E' arrivata lei e... patatrac!" disse Saki ridendo.
"Spiegazione sintetica e chiara," dissi.
Saki vers• dei ginger ale e me ne porse un bicchiere.
"C'Š dentro un po' di gin," disse.
"All'universit non beviamo mai, eh?"
"Siamo ligie al dovere noi," disse Saki.
Sedute per terra, bevemmo. Aveva un sapore dolce,
strano e gradevole.
'Fuori fa un caldo terribile," dissi.
Alla sensazione di sudore di poco prima si era sostituita
quella del rapido effetto dell'alcool.
"Che appartamento carino!"
"Grazie. Vorrei tanto farti vedere anche la casa di Yo-
kohama. E' in puro stile giapponese, e ha un sacco di stanze.
Il nostro primo impatto col Giappone Š stato in quella casa.
Ci sembrava stranissima. Ci siamo fatti tante risate."
'Posso immaginare. Di, combiniamo senz'altro."
Cosa si prover a vivere in un paese diverso da quello
dove si Š nati e cresciuti? Col tempo ci si assimila a quel po-
sto, diventandone il protagonista, oppure in qualche parte
di s‚ si continua a sperare di ritornare in patria un giorno?
In quel momento la porta si aprć ed entr• Otohiko. Ave-
va sempre la sua aura di fascino che a me piaceva tanto,
quella specie di unicit stranamente penetrante, un'aria
noncurante ma non priva di orgoglio, che emanava da tutto
il suo essere. E che bel viso, pensai. Un uomo che cammina
sotto il peso dei racconti, nel vero senso della parola.
"Scusa l'intrusione," dissi.
"Ciao, come va?" disse lui.
Sembrava ancora un po' imbarazzato per il nostro ulti-
mo incontro.
Era una strana sensazione. N.P. Š solo un libro. Per
quanto possa entrare sempre pi in profondit nella mente,
chiunque non abbia dei gravi problemi personali pu• riusci-
re a liberarsene. Ma con le persone Š diverso. Con una come
Sui, per esempio. Lei Š in carne e ossa, parla, quando si
muove i suoi capelli fanno un fruscio, sorride con la sua
grande bocca, si fa cadere addosso il mangiare, perde dal na-
so sangue caldo, risponde alle mie domande in tempo reale.
E intanto il mondo concreto diventa gelatinoso e indietreg-
gia. Il senso della realt si altera e scompare. E' cosć da quan-
do l'ho incontrata. Lei Š N.P. Questo vuol dire che sono in-
namorata di lei? di Saki? o solo della situazione? Non lo so
pi. Ma ho paura che cominci a piacermi Otohiko. E sento
che questo non va. E' pericoloso creare certe atmosfere in un
gruppo cosć ristretto di persone. Ci si pu• suggestionare fa-
cilmente. Per• mi era mancato, per tutti quei giorni. Mi era-
no mancati i suoi discorsi cosć stranamente profondi.
Strana sensazione.
Ho conosciuto l'amore, le separazioni, la morte di un
amante, e con l'accumularsi degli anni tutte le cose che mi
trovo davanti hanno cominciato a sembrarmi uguali. Mi Š
diventato impossibile distinguere tra il buono e il cattivo, il
migliore e il peggiore. La mia unica paura Š che i brutti ri-
cordi possano aumentare. Ormai non faccio che pensare: se
solo il tempo potesse fermarsi in questo momento, se l'esta-
te potesse durare per sempre. Non ho pi coraggio.
Saki port• delle paste. Otohiko scosse la testa:
"Prendo solo un caffŠ".
Eravamo seduti tutti e tre a terra, come per l'ora del tŠ.
Anche questa era una strana sensazione, forse perch‚ era la
prima volta che ci incontravamo tutti e tre insieme.
"A proposito, sai che l'altro giorno sono stata aggredita
da Sui?" dissi. "Un giorno di pioggia, all'improvviso. Te
l'ha detto?"
"Vuoi dire che l'hai incontrata?" chiese lui con voce stu-
pita.
" sć.
"Hmm, ho capito..."
Dal tono sembrava aver indovinato tutto il resto.
"E come mai dici che ti ha aggredita?"
"Pare che sia stato un malinteso."
'I malintesi con lei sono un problema serio."
"Ma non ti ha detto niente? Che ci eravamo viste?"
"E' la prima volta che lo sento."
"Ah sć?
Saki, che fino a quel momento aveva bevuto il caffŠ in
silenzio, a un tratto disse:
"Posso farti una domanda indiscreta?"
"Avanti," disse Otohiko.
"Cosa si prova ad andare a letto con una persona del tuo
stesso sangue?" chiese Saki.
Lo disse con una faccia cosć seria, che non potei tratte-
nere una risata. Anche Otohiko fece un sorriso forzato.
"Avevi detto che era indiscreta, ma non credevo tanto,"
disse.
"Se non approfitto di un'occasione come questa, non
avr• mai modo di chiedertelo. Non ti vedo mai," disse Saki.
"Sai, non ci ho mai pensato molto. Davvero," disse lui.
"Ma c'Š sempre una sensazione amara dietro. Lo so, suona
come una giustificazione. "
"Ma questo Š sempre stato un lato del tuo carattere. Tu
non sei capace di dare neanche un bacio senza una ragione,"
disse Saki.
"Senti senti..." feci io scherzando.
"Ma esistono degli atti sessuali senza una ragione?" dis-
se Otohiko.
"Di' un po', ma tua sorella ti ha sempre preso un po' in
giro o mi sbaglio?" dissi io.
'E' vero," annuć Otohiko.
"Di, non fare la vittima... " disse Saki. "Ci siamo sem-
pre divertiti a scherzare tra noi."
Guardandoli mi sembr• di tornare indietro nel tempo.
L'elegante coppia di fratello e sorella che quel giorno avevo
guardato da lontano al party, era lć davanti ai miei occhi che
parlava, proprio come allora.
"Comunque ormai Š una cosa del passato. Scusate, sono
tornato al discorso di prima. Sono passati tanti anni da
quando ci siamo incontrati che ormai non facciamo quasi
pi l'amore. Siamo come fratello e sorella.
"Come?" disse Saki.
Tutti e tre scoppiammo in una grossa risata.
Poi finalmente diedi le fotocopie a Saki. "Davvero posso
tenerle?" chiese nel prenderle. "Fai un po' vedere," disse
Otohiko. Le prese in mano e cominci• a leggere. Dopo un
po' disse:
"E' ottima, questa traduzione. Sar difficile per te fare
di meglio, Saki".
Saki annuć. Mi sentii battere forte il cuore. Mi sembr•
che Sh•ji fosse stato ricompensato.
Verso sera all'improvviso Otohiko guard• fuori della fi-
nestra, come per accertare che ora fosse. Poi si alz• dicendo:
"Io vado".
Sa che quando si avvicina il buio sente il bisogno di in
contrarla, pensai. Forse la sua immagine pallida e scura si so-
vrappone alla veduta opalescente delle strade che resistono
alla sera. Forse quel viso sorridente lo spinge a trovarla pri-
ma che possa sparire, contrasto di resistenza e abbandono.
"Ciao, saluti a Sui," gli dicemmo guardandolo uscire.
"Che brutta situazione per loro due, eh?" disse Saki con
un sospiro. Poi anche noi uscimmo per andare a cena.




"Beh, come te la passi di questi tempi?"
Dalla voce era ubriaco. Si capiva subito anche per telefo-
no. E poi se non Š ubriaco non chiama. Anche se sono sua fi-
glia.
"Io sto bene, pap. E tu?"
Aveva chiamato all'improvviso, un sabato sera. Mio pa-
dre adesso non aveva nessuno. La donna che era scappata
con lui se n'era andata con un altro. Ci sono persone cosć.
Persone capaci di ricominciare da capo infinite volte senza
paura di sbagliare. Perch‚ proprio persone come loro non
appaiono mai soddisfatte? Anche se sembrano incapaci di
farsi degli scrupoli, hanno incisa nel volto un'espressione di
rimorso, come di chi vive sempre nascosto nell'ombra. Mio
padre Š cosć. Anche la sua donna era cosć. E' un genere con
cui non vado d'accordo. Quando li incontro, ancora adesso
che sono grande, non riesco nemmeno a sorridergli per edu-
cazione.
'Tisicamente sto bene."
"Sć? Ma ti senti solo?"
Ci ho fatto l'abitudine. Poi mio figlio abita da queste
parti.
'Il mio fratellastro..." dissi io. "Certo che anch'io ho
una famiglia complicata..."
"Come sarebbe 'anch'io'?"
"Dicevo per dire."
"Cose cosć sono all'ordine del giorno ormai. Non ci sono
famiglie che non abbiano qualche problema. O sono rarissi-
me. Dovresti saperlo. E poi non siamo fatti tutti allo stesso
modo."
"Sć, cerco di ricordarmelo."
"Se non ti sta bene, fallo tu un matrimonio senza divor-
zio," disse mio padre.
A volte ci penso come a una forma di handicap invisibi-
le. Alla tara ereditaria di chi Š figlio di genitori che divorzia-
no pi volte, a questa specie di anomalia.
"Non so se ne sarei capace."
La vita passa comunque, anche solo limitandosi a vivere.
Ma c'Š qualcosa che mio padre potrebbe fare per trovare
pace?
"Stai bevendo molto in questo periodo?"
"Ah, l'alcool, l'alcool... Mi pare che anche tu lo reggi be-
ne, vero?"
"Ho preso da te."
"Hmm, penso anch'io."
"pap ...
Proprio alla fine fui sul punto di chiedergli ci• che avrei
sempre voluto sapere, sin da bambina: la vita che ti sei scel
to nei momenti in cui eri ubriaco ti sembra quella vera? Ma
lasciai perdere.
"Come va il lavoro?"
per il lavoro Š proprio un buon periodo."
"Bene..."
Hai mai pensato di andare a letto con tua figlia? era una
domanda ancora pi difficile. Lasciai perdere anche questa.
"Beh, ci sentiamo."
"Ciao pap, buonanotte."
La tensione mi aveva stancata come se avessi parlato per
ore, e di una serie interminabile di cose inutili.
Mi ricordo ancora di quando pap stava con noi e si
chiacchierava normalmente. Anche se questa possibilit Š
ancora a portata di mano, non si realizza mai. Sarebbe come
quando si riprende a pattinare o a sciare dopo tanto tempo,
e il corpo non ce la fa a rispondere. Quanti anni sono passa-
ti? pensai. Anche se dentro provo le stesse cose di quando
ero bambina, se ci incontrassimo ora si troverebbe di fronte
una donna adulta, una donna che assomiglia a mia madre.
Dal tono di voce di mio padre in quella telefonata cre-
detti di capire in parte perch‚ alla fine Sarao Takase avesse
avuto solo voglia di morire. Per lui le donne erano sempre
state il fiore della vita. Come mio padre, anche lui aveva
creduto che ci• potesse durare in eterno.




"Mi vieni a trovare?"
In un primo momento mi sembr• che fosse la voce di Sa-
ki, poi subito capii che era Sui. Non per niente sono sorelle,
pensai.
"Sto lavorando, adesso," dissi.
Ero sola in ufficio e stavo riordinando dei materiali. Ero
davvero occupata. L'edificio dell'universit deserto, anche
se era pieno giorno, assomigliava a una piscina di notte. I
corridoi male illuminati, l'ossigeno e l'acqua in eccedenza.
"Non c'Š nemmeno Otohiko e mi annoio da morire. Poi
ho una cosa da farti vedere. Anche pi tardi, non importa,
basta che vieni."
Nel sentire la sua voce, mio malgrado provai il desiderio
di vederla. Fuori della finestra il cielo si stendeva all'infinito
come un tessuto imbevuto di tintura azzurra e io mi sentivo
molto bene.
"D'accordo. Quando ho finito vengo. Cosa ti posso por-
tare?" chiesi con voce allegra.
"Mi sembri in forma. Magari prendi dei bignŠ da S.," ri-
spose, e mi spieg• come arrivare da lei.
Era tardo pomeriggio quando, seguendo le indicazioni
di Sui, mi avviai verso casa sua. Mi ero fatta l'idea che fosse
nelle vicinanze, invece abitava in una zona piuttosto distan-
te, cosć presi l'autobus, che ci mise una ventina di minuti.
L'appartamento, dove viveva da sola, si trovava un po'
fuori mano, in un edificio bianco rettangolare che sembrava
fatto di tóju. Mi fece accomodare.
Anche quel giorno avevo provato a fare varie ipotesi sul-
la casa, ma questa volta si rivelarono sproporzionate alla
realt: era un appartamento anonimo, senza nulla che potes-
se riflettere la personalit di chi l'abitava.
In cucina un comune frigorifero, e pochi utensili dei pi
elementari. Un pavimento nudo, senza tappeti n‚ cuscini.
Una stanza di stile giapponese senza neanche uno scrittoio.
Gli shsfi erano strappati in un punto. Quando si accorse che
li fissavo, Sui disse:
'Volevo ripararlo, ma poi per pigrizia..."
Una giustificazione stranamente normale per venire da
lei.
Gli scaffali dei libri invece rivelavano qualcosa della per-
sona. Una grande pila di libri occidentali, di pittura, di foto-
grafia, romanzi di Dickens, Henry Miller, Camus, Yukio
Mishima, vecchi tascabili giapponesi, riviste di moda,
manga.
Tutti incastrati come in un mosaico.
"Non c'Š proprio niente qui dentro," dissi.
Si vede che non ama la casa, pensai. Forse ci vede solo
una specie di contenitore.
'Vuoi un po' di tŠ?" chiese, e senza aspettare risposta
and• in cucina, e dal frigorifero vers• nel bicchiere del tŠ
freddo. Lo assaggiai, era un infuso di erbe dal sapore amaris-
simo.
"E' buono?" chiese.
"Orribile," dissi.
"Me l'hanno regalato al locale dove faccio part-time.
Dopo faccio il caffŠ," disse Sui sorridendo.
Poi, sedute al tavolo di cucina mangiammo i bignŠ. Dei
campanellini appesi sulla veranda ondeggiavano al vento
tintinnando senza tregua.
Mi sentivo inquieta. La sua natura imprevedibile non
permetteva di rilassarsi completamente. In compenso, quan-
do ci si separava restava sempre la sensazione di non essersi
dette tutto, e questo suscitava il desiderio di rivederla.
" Hai detto che volevi mostrarmi qualcosa."
"Ah, gi, questo. Come ringraziamento per l'altra
volta. "
Sui mi porse un mucchio di fogli giallini che stava lć sul
tavolo.
"Cos'Š?" chiesi.
"Sei pronta? E' il racconto n. 99," rispose.
Ero stupefatta.
"E' l'originale?" chiesi. "Gli altri lo sanno? Sanno che
esiste?"
Sui non rispose.
"Otohiko lo sa?"
Fece di sć con la testa.
"Saki? Shóji sapeva?"
"Non lo so. Io non l'ho detto. Shóji credo non lo sapes-
se," disse Sui.
Sembrava un po' triste. Anche questa volta non capivo il
motivo.
'Posso leggere?" chiesi.
Lei annuć.
Cominciai a leggere. Era il manoscritto originale in in-
glese, scritto a penna. Ricordo che mentre leggevo Sui rima-
se tutto il tempo a guardare fuori della finestra. E' strano,
ma sebbene la vedessi solo con la coda dell'occhio, l'espres-
sione di profilo di Sui in quel momento Š quella che pi di
tutte mi Š rimasta impressa nella memoria.
Capii subito la ragione per cui il racconto n. 99 non era
stato pubblicato con gli altri. Forse a causa dello stato men-
tale dell'autore, non arrivava neanche a essere un racconto.
Faceva pensare a un bozzetto, a uno studio, a uno schizzo.
Lo stile era cosć sciatto da risultare penoso.
Nel testo comparivano spesso la ex moglie e i figli, che
lui andava a visitare in sogno nella casa dove vivevano. Re-
stava a guardarli dal soffitto o da fuori la porta. Li spiava
dalle fessure degli sbiii. Non riusciva a chiamarli. Solo i figli
percepivano la sua presenza ma la madre diceva loro che si
ingannavano. Lui restava a guardarli all'infinito, la faccia
premuta contro il vetro della finestra.
Non c'era che questa scena, descritta ripetutamente.
"E' di una tristezza terribile, non trovi?" dissi.
La vigilia della sua morte vista dietro le quinte. Otohiko
e Saki, la loro immagine limpida, proprio come mi era ap-
parsa quel giorno alla festa.
"Certo che io sono proprio sfortunata," disse Sui.
Deve averlo letto da un punto di vista totalmente diffe-
rente dal mio, pensai. Si capiva anche dal suo sguardo.
"Credi?" dissi.
'Loro sono stati amati come figli, mentre io solo come
donna. E per giunta come una donna di passaggio. Li invi-
dio. Ogni volta che lo leggo, sento invidia e rimpianto."
"Ma nell'amore non esistono queste gerarchie," dissi io.
"Per me il racconto n. 98 Š veramente bellissimo. L'amore
per la figlia e quello per la donna diventano una cosa sola ed
Š come se questo sentimento si espandesse all'infinito diven-
tando qualcosa di cosmico. E' commovente. Chi Š da invidia-
re sei tu. Per me quel racconto Š il pi bello di tutto il libro."
'Davvero?" disse lei sorridendo. Il suo viso si era illumi-
nato, ma dietro il sorriso si avvertiva il dolore. "Comunque
sia, lui Š morto. E con lui tutte le cose che ha scritto. Non
continueranno a crescere all'infinito. "
"Senti, pensavo una cosa. Potresti fare una copia di que-
sto e darla a Saki? Forse le farebbe piacere," dissi.
"Sć, potrei farlo. Se c'Š l'occasione. Se si crea l'occasio-
ne glielo darei pure. E' solo che se penso alla gioia che prove-
r a leggerlo, mi sento male."
"Credo di capirti."
"Quando penso che se Saki pubblica il libro, lo metter
in appendice in una sezione del genere 'appunti inediti del-
l'autore', mi sembra assurdo. Sono troppo cattiva?"
"No, credo che sia naturale." Lo pensavo davvero.
"Ma insomma, si pu• sapere tu da che parte stai?" disse
Sui stupita.
"Dalla parte di nessuno."
"Era la risposta che mi aspettavo."
"Allora che me l'hai chiesto a fare?"
"Sei una strana ragazza."
Essere chiamata da lei 'una strana ragazza' mi sembr•
una sorta di eccezionale onore. Ne fui cosć lusingata da non
poter trattenere un sorriso.
"A proposito, ti posso chiedere una cosa? E stato tuo pa-
dre in persona a dartelo?"
"Certo. L'ha scritto nella mia stanza, lo ha posato ed Š
morto. "
"Davvero? Mi sembra di vedere la scena."
"Che fosse scritto a mano mi dava fastidio. Ero ancora
una ragazzina, non capivo niente. Non pensavo nemmeno
che l'avrei conservato fino a quest'et.
" Hmm... "
Che strana storia, pensai. Pi che a un altro paese, a un
altro mondo, sembrava appartenere a un'altra dimensione.
"A proposito," disse Sui. "C'Š una cosa che volevo darti
da tanto tempo. Finalmente mi sono decisa. Adesso te la do."
"Che roba Š? Non sar che adesso tiri fuori il racconto
n. 100, il n. 101 e via di seguito?" dissi ridendo.
"Ha aspettato tanto tempo anche questo. Tu al funerale di
Shóji non sei venuta, no?" Detto questo, Sui and• nella stanza
accanto, aprć Poshiire e torn• con una scatoletta di legno.
Non so perch‚ ma chiesi:
"Cos'Š? Un oggetto d'avorio?"
"Ci sei andata vicino," disse lei. "Prova ad aprire."
Era leggero. Aprii delicatamente la scatola. Conteneva,
adagiato su un fondo di ovatta, un frammento cosć bianco
da far rabbrividire, ma che aveva dentro anche una sfuma-
tura giallastra. Era un colore denso di storia, simile a quello
dell'edificio dove mi trovavo. Un colore molto familiare.
Provai una specie di vertigine.
"Ma... Š un osso?" dissi. "Non posso crederci."
" Proprio cosć. E di Shóji. "
Sui sorrideva come se fosse un po' imbarazzata. E' qual-
cosa di imbarazzante? mi chiesi. Ma c'era in lei anche una
certa fierezza.
"Quando Š uscito dal forno crematorio, ho fatto finta di
raccoglierlo e poi, senza farmi vedere, l'ho rubato. Uscito
caldo caldo dal forno. Non ti dico com'ero tesa," disse Sui
con le guance accese, sorridendo con dolcezza.
Io non mi ero ancora riavuta dallo shock, ma pi che al-
tro per riprendermi, tentai di dire:
"Dunque Š cosć che si diventa?"
"Ah, mi sento pi sollevata," disse Sui
Io mi sentivo tutt'altro che sollevata, ma ero commossa.
Non capivo io stessa se da quella sua affettuosit ai limiti
del comprensibile, o dall'osso di Sh•ji in s‚.
"Grazie," dissi.
Avevo ancora sul palmo della mano la scatoletta di legno
grezzo, ne sentivo il peso. Anche se cercavo di far finta di
niente, i miei nervi erano tutti tesi, e le dita sembravano pa-
ralizzate.
"Cos'Š questo lavoro part-time che fai?"
"In un locale."
"Canti al karaoke e cose del genere?"
"Anche."
"E com'Š allora che hai la casa cosć vuota?"
"E' pi rilassante cosć," sorrise Sui.
Fuori era scesa la notte e dai vetri le luci della strada fil-
travano in quella casa infinitamente simile a una bara.
"Non te ne andrai tanto presto, vero? Quando sono con
te sto cosć bene," disse Sui.
Sentivo un peso che mi premeva sul cuore.
"Rimango," risposi.
E dentro di me di nuovo pensai: dio, un osso.




Quella sera ero uscita con degli amici del liceo e aveva-
mo bevuto molto.
Ero piuttosto brilla. Non tanto da non poter cammina-
re, ma abbastanza da vedere intorno a me tutto che lucci-
cava.
Mentre tornavo verso casa in questo stato, incontrai
Otohiko. Il quartiere Š piccolo, e spesso mi capitava di ve-
derlo, o di sentirmi chiamare mentre sfogliavo qualcosa in li-
breria. Ma di solito ci separavamo dopo esserci scambiati
poche parole.
Camminavo cosć pensierosa che proprio non mi accorsi
che stava venendo nella mia direzione.
Mentre ci incrociavamo mi grid• un Thi' facendomi
fermare.
"Ma guarda chi si vede: Otohiko!
"Ma che hai? sei ubriaca?" fece lui.
"Andiamo a prendere un tŠ!" dissi.
"Kazami, guarda che sono le due del mattino," disse
Otohiko ridendo.
"Andiamo da Mister Donut," proposi. 'Š ancora
aperto. "
"Ma Š lontano. Va bene, senti, compro delle lattine e le
beviamo per strada."
"Come dei poveretti!
"Che c'Š di male? E poi queste cose si possono fare solo
d'estate."
'Va bene, affare fatto," dissi.
L'estate era gi a met. Ancora poche settimane, una
dissolvenza in chiusura, e sarebbe finita. Che tristezza!
Da una macchinetta automatica sulla strada ci fermam-
mo a comprare del mugicha. Con un gran baccano metallico
vennero fuori due enormi lattine.
Poi ci sedemmo davanti alla saracinesca abbassata di un
negozio sullo stradone. Le auto si susseguivano passandoci
davanti a una velocit incredibile. Ogni volta che veniva un
camion la sua vibrazione si propagava fino a noi.
"E' incredibile, stare seduti sulla strada. C'Š un effetto
di esagerato realismo," dissi. 'Ti notte Š tutto cosć vivo!"
"Pensa a quelli che vivono in strada, vedono sempre tut-
to da questo punto di vista."
"Dici? Forse quando ci si abitua diventa normale."
A fermarsi cosć all'improvviso, entrando in un ritmo che
non aveva niente a che vedere con quello di ogni giorno, tut-
to appariva straordinariamente chiaro. Anche le luci dei
lampioni che si perdevano nella distanza e sembravano mol-
to pi alte e vicine al cielo del solito, anche i fari delle auto,
di tanti colori,
i clackson,
il lontano abbaiare dei cani,
i mille rumori della strada,
le voci delle persone, il risuonare dei passi.
Anche il rumore del vento che faceva vibrare le saracine-
sche.
Il tepore dell'aria, la sensazione dell'asfalto ancora im-
pregnato del calore del giorno. Il profumo dell'estate che si
allontanava.
"Come va?" chiesi.
"Male," rispose, e afferrandomi la mano me la strinse
con forza.
"Ah, mi fai male! "
"E' cosć che mi sento."
"Che bambino che sei!' dissi. "Fino a che punto ami
Sui?"
"Hmm..." fece, mentre beveva il suo tŠ. "Fino al punto
che se sto fermo come adesso e guardo la strada, tutte le ra-
gazze che passano sembrano avere il viso di Sui. C'era anche
una canzone che diceva cosć? Forse l'ho rubato."
"Comunque Š un bel modo di dirlo," dissi.
"Per• Š una situazione senza uscita."
"Vedrai che tutto andr bene."
"Ho paura."
Il tempo si ferm•.
Credo che in quel momento Dio abbia posato per un
istante il suo sguardo caldo su di noi. C'era una pace cosć,
senza tempo, profonda come la notte.
La notte assomiglia a Sui.
Se ci si pensa di giorno sembra qualcosa di lontano e di
vago. Ma quando finalmente arriva, la sua carezza dalle dita
di tenebra Š di una purezza sconfinata, quasi insostenibile.
"Quando stavo in America," disse Otohiko, "tra gli
amici dello yacht c'era un ottimo compagno di bevute, mol-
to pi vecchio di me. Quando venne a trovarmi a Boston,
una volta andammo a bere in tre, c'era anche Sui. Lei,
che era insolitamente comunicativa con una persona che
incontrava per la prima volta, recit• alla perfezione la
parte della mia fidanzata dalla condotta irreprensibile.
Hai presente quando, grazie alla presenza di una terza
persona, si produce una specie di illusione per cui tutto sem-
bra pi facile e quasi ci si convince di poter stare bene in-
sieme?"
"So bene di cosa parli."
Evitai di aggiungere che per• questo accadeva solo nelle
storie molto sofferte. Un soffio di vento attravers• la notte.
Con tutti quei palazzoni che ci circondavano, sembrava che
il mondo si fosse chiuso tutt'intorno a noi come un
acquario.
"Ma non si pu• ingannare un uomo di mare," continu•.
"E' gente che ha un intuito infallibile. Riescono a vedere le
cose esattamente come sono. Dopo che lei se ne era andata
perch‚ aveva sonno, lui disse: 'Ti sei messo con una perico-
losa, lo sai? Di quel tipo in mare ce n'erano molte una volta.
Quando uno era depresso, incline a commettere errori, fra-
gile,veniva facilmente attirato sul fondo del mare. Riuscivo
a vederle solo da giovane. Quando ero giovane, le donne pe-
ricolose avevano tutte quegli occhi. Gli occhi di un diavolo
che non conosce neanche lui il suo obiettivo. Lei Š uguale a
quelle che mi sembrava di vedere in mare'. Ha indovinato,
pensai. "
Assentii col capo.
"Anche tu sei una che capisce tutto," disse Otohiko.
Notte di mezza estate. Chiudendo gli occhi, ebbi la sen-
sazione di udire un rumore di passi, come di qualcosa che
avanzasse furtivamente. Continuai ad ascoltarlo in silenzio,
per tutto il tempo che restammo seduti sulla strada.




Sedute sull'argine di un fiume fuori citt, Sui e io man-
giavamo dei panini.
"Ormai pi di met dell'estate Š passata," disse Sui.
Una accanto all'altra, guardavamo la superficie luccican-
te del fiume che scorreva impetuoso.
Il sole batteva forte riscaldando il cemento sotto il no-
stro sedere, e i suoi raggi bianchi si riflettevano dappertut-
to. L'acqua del fiume scorreva con fragore.
"Questo sole scotta tanto che non riesco a tenere gli oc-
chi aperti. Come quando uno muore dal sonno," disse Sui e
si appoggi• alla mia schiena. La sua testa mi dava la sensa-
zione di un uccellino piccolo e caldo nel palmo della mano.
'Fa un caldo insopportabile," dissi, ma avevo mangiato
troppo e muovermi mi sarebbe costato una fatica esagerata.
"Che sonno! Ehi, guarda, al sole i miei capelli sembrano
biondi," fece Sui come parlando a se stessa.
'iAh, finalmente un po' di vento!" dissi.
Era un venticello rinfrescante. La sponda verde del fiu-
me era disseminata di bambini che giocavano a palla gridan-
do, di gente che portava a spasso i cani, di famiglie che face-
vano il picnic.
Oltre il fiume il cielo si perdeva nella distanza sopra le
strade della citt. Si poteva essere risucchiati nel suo colore.
Il corpo era privo di forza, e sembrava impregnarsi sempre
pi del profumo intenso dell'erba. Niente aveva pi impor-
tanza. N‚ le cose gi accadute, n‚ quelle a venire, n‚ nien-
t'altro. C'era solo la sensazione dell'aria calda che avvolgeva
il corpo ricoperto di sudore. Chiudendo gli occhi, l'interno
delle palpebre era rosso. Ci crogiolavamo nel sole.
"Ah, come si sta bene. Fa cosć caldo... Sto per andare in
trance. Chi vorresti chiamare?" disse Sui ridendo.
Sentii la sua risata vibrare attraverso la mia schiena.
"Sh•ji," risposi ridendo. Poi bevvi un sorso dal succo di
frutta che avevo ai piedi. Sentii quel gusto dolce e gelato
scendere fino allo stomaco.
'Va bene. Vada per Sh•ji," disse Sui, poi rimase in si-
lenzio. Dopo un po', sempre restando appoggiata alla mia
schiena, mormor•:
"Kazami, devo chiederti scusa".
"Ma che razza di scherzo!" stavo per dire, ma la voce mi
si blocc• in gola. Anche se sapevo che era solo un gioco, dal
punto in cui la testa di Sui toccava il mio corpo, sentii irra-
diarsi un brivido freddo. Mi si gel• addosso il sudore. Seb-
bene la voce fosse quella di Sui, vibrando attraverso la mia
schiena aveva la risonanza di un'altra dimensione.
"Scusami per non averti potuto portare al mare come ti
avevo promesso. Per essere andato via senza restituirti i li-
bri e l'orologio. "
Rimasi bloccata dalla paura. Ero cosć terrorizzata che gli
occhi mi si riempirono di lacrime. Avevo il corpo irrigidito,
paralizzato.
"Basta, Sui, smettila. Come fai a sapere queste cose?"
riuscii finalmente a dire con un filo di voce.
Mi voltai verso di lei. Sui mi guardava stupita. Vista sot-
to la luce diretta del sole, con il suo viso pallido ricoperto di
lentiggini, sembrava una bambina indifesa.
"Ho detto solo delle frasi a caso. Ma che fai, piangi?
Scusami."
Mi pose una mano sulla guancia. Era calda, cosć calda
che mi diede un capogiro.
"No, non Š niente. E' solo che mi ha fatto ricordare certe
cose," dissi.
Sui ritorn• a sedersi accanto a me come prima, stringen-
do tra le braccia le sue gambe nei jeans, e con le sopracciglia
corrugate per la luce abbagliante si mise a guardare il fiume
in silenzio.
Sotto un sole cosć forte, pu• accadere facilmente di esse-
re toccati da qualcosa di inatteso e che succedano cose come
queste, non c'Š niente di strano, mi convinsi, e anch'io tor-
nai a guardare l'acqua. A forza di fissare il flusso del fiume
ebbi l'impressione di scorrere via io stessa. L'acqua era cosć
limpida e trasparente che si potevano vedere guizzare le sa-
gome dei pesci. L'erba sembrava respirare sotto le mie dita.
" Scusami," ripet‚ ancora una volta Sui, girandosi verso
di me e mi guard• fisso negli occhi sorridendo. Il suo viso
limpido aveva lo stesso sorriso radioso e pieno di energia di
certi bambini dell'India.




Dopo molto tempo vidi la mamma. Dall'ultima volta do-
vevano essere passati un paio di mesi.
All'improvviso ricevetti una sua telefonata: "Che ne di-
ci di mangiare assieme domani?" Oltre a me e mia sorella, la
mamma non ha avuto altri figli. Suo marito (non riesco a
considerarlo in altro modo, dato che non ci ho mai vissuto
insieme) Š caporedattore di una rivista ed essendo al suo pri-
mo matrimonio non ha figli suoi. Io a suo tempo avevo ri-
fiutato di vivere con loro due. A volte ho dei rimpianti, o
dei rimorsi. Rimpianti, quando penso che avrei anche potu-
to aspettare un altro po' prima di andare a vivere per conto
mio. Rimorsi quando la voce della mamma al telefono ha
questo tono malinconico.
All'ora di pranzo il ristorante era molto affollato. Io ar-
rivai di corsa, con dieci minuti di ritardo. La mamma era gi
seduta al tavolo, sola, e stava bevendo un tŠ. Aveva un tail-
leur blu scuro, era perfettamente truccata e guardava fuori
dalla finestra. Non so perch‚, ma aveva qualcosa della vedo-
va. E' l'aspetto che ormai ha da tanto tempo.
"Mamma!" la chiamai.
Subito si volt• verso di me sorridendo.
"Sbaglio o sei un po' dimagrita?" le chiesi a un tratto
mentre mangiavamo.
"Eh, un po' sć. D'estate col caldo mi passa sempre l'ap-
petito. "
"Sei molto impegnata?"
Sć, anche dopo ho un appuntamento di lavoro," disse la
mamma sorridendo. Rispetto a quando vivevamo insieme,
non si poteva negare, era invecchiata. Io che vivo fuori del
tempo, ogni volta che la incontro ho la sensazione di essere
trasportata all'istante, da una macchina del tempo, in un fu-
turo dai contorni definiti. E' solo quando la vedo che mi ren-
do conto del passare dei mesi.
"Non fai lavori da interprete in questo periodo?"
"Qualche volta, quando mi mettono proprio alle strette.
Alla mia et Š troppo faticoso, e se a chiedermelo non Š
qualcuno con cui mi senta veramente in obbligo, rifiuto."
"E di traduzioni ne fai?"
"Rimangono la mia attivit principale."
"E' da tanto che ne fai, no?"
"Perch‚?"
"Ultimamente me ne capitano spesso, come lavoro ex-
tra, cosć volevo saperne di pi."
A questo punto la mamma disse:
"In ogni caso, non credo che tu sia portata per la tradu-
zione".
"Penso anch'io, ma... perch‚ secondo te? Perch‚ non so-
no abbastanza precisa?"
"Non Š quello. Come posso dire? Troppo sensibile? Ma
non Š neanche questo. Sei... ecco, sei troppo generosa. Fini-
resti con limmedesimarti troppo, credo. Con quello che tra-
duci.
Stava toccando un punto gi abbastanza dolente. perci•
pensai: basta, per carit, non continuare.
"In una traduzione, per quanto uno si sforzi di mantene-
re un certo distacco, si sviluppa comunque un attaccamento
e in una persona come te pu• avere un brutto effetto sul si-
stema nervoso."
"Addirittura?"
"Ne sono convinta. Anche quel giovane, Shóji, non era
adatto per questo lavoro."
"Ti ricordi di lui," dissi.
La mamma annuć, con un'espressione come per dire 'Fi-
gurati!'
"Vedi, se si entra troppo in un libro, tradurlo diventa
difficile. Io la penso cosć. Detto questo, tradurre una cosa
che non piace Š una sofferenza," sorrise la mamma, e conti-
nu•: "Credo di capire in parte quello che deve aver provato
Shóji. Anche quando si Š fatto questo lavoro per pi di dieci
anni, vengono momenti di stanchezza. E tradurre procura
un tipo di stanchezza molto particolare."
A quel punto ci portarono il dolce e l'espresso, e il di-
scorso fu interrotto. Dato che ultimamente mi capitava di
rado di sentire la mamma parlare di ci• che pensava e del
suo lavoro, ero affascinata.
"Uno segue passo passo il testo di un altro proprio come
se l'avesse pensato lui, no? Per ore e ore ogni giorno, come
se quel testo fosse il suo. Il proprio pensiero comincia a
coincidere con i circuiti mentali dell'altro. E' una cosa molto
strana. Ci si entra dentro fino all'identificazione totale.
Non si capisce pi dove finisce il proprio pensiero, e quello
dell'altro piano piano si infiltra anche nella vita di tutti i
giorni. Traducendo un'opera di qualcuno che ha una forte
influenza, si Š coinvolti mille volte di pi che leggendola sol-
tanto. "
"E questo pu• capitare anche a una con la tua esperien-
za, mamma?"
"Negli ultimi anni finalmente ho imparato, ma i primi
tempi, credo che fosse proprio nel periodo del divorzio, era
molto difficile. Il lavoro non mi era di nessun aiuto, anzi.
Sar stato anche che a furia di pensare che dovevo portare
avanti tutto da sola, con voi bambine da crescere, non riu-
scivo nemmeno a chiudere occhio la notte. Immagina, in
questa situazione, stare giornate intere da sola di fronte a un
testo... Provavo una sensazione di, come chiamarlo... isola-
mento? Mi sentivo sotto una terribile pressione. Comun-
que, la cosa migliore Š distrarsi, con qualunque mezzo. Ave-
re almeno alcuni momenti in cui si riesce a bloccare tutti i
pensieri.
"Qualunque mezzo... per esempio l'educazione dei
figli?"
"L'educazione dei figli Š un susseguirsi di tentativi e di
errori," disse ridendo la mamma. "oh, io avevo scelto il
kendama. "
"Cosa?" chiesi io.
'Il kendama. A pensarci ora mi sembra una cosa cosć co-
mica. Per• allora lo prendevo molto sul serio. Lo facevo
spesso, ti ricordi?"
Ma certo, mi ritorn• in mente che molte volte, alzando-
mi in piena notte per andare in bagno, dalla porta chiusa
della stanza della mamma arrivava quello strano clic clac.
"Pensavo che stessi infilando spilli in una bambola," dis-
si ridendo.
"Da bambina a scuola avevo vinto un premio a un tor-
neo di kendama. Forse per questo ancora oggi ogni tanto ci
gioco per rilassarmi. Ma allora mi ci attaccavo disperata-
mente. Chiss perch‚ mi ci ero tanto fissata, adesso mi sem-
bra curioso. Per• sai, secondo me in questi casi i video games
non servono. E nemmeno la televisione, la lettura o l'alcool,
credo. "
"Perch‚? Che differenza fa, se uno riesce ad appassio-
narsi a una di queste cose?"
"Hmm... secondo me ci vuole un'attivit in cui venga
utilizzato il corpo, anche in minima parte. Va bene tutto,
dalla posizione a testa in gi al tagliarsi le unghie, alla sauna,
al nuoto... ma naturalmente pu• darsi che sia solo una mia
idea. Io sento il bisogno di un mondo a parte, che non sia
quello del libro che traduco in quel momento, ma nemmeno
il mondo della realt quotidiana. Di un mondo senza rac-
conti.
Racconti... mi sembrava di aver sentito questa parola di
recente da qualcuno. Da Sui, forse.
"Qualcosa da cui lasciarsi prendere completamente. Co-
me la recita dei sutra o la meditazione..."
"Pu• darsi. Non Š che poi io ci abbia riflettuto a lungo."
"Forse Š perch‚ anch'io come Shóji amo troppo i raccon-
ti, che non sono adatta per questo lavoro," dissi. Dubitavo
di potermi mai lasciar prendere dal kendama o dalla cura
delle unghie.
"Il fatto Š che tu finisci con l'assorbire troppo ogni cosa,
anche l'atmosfera che ti circonda. Ti ricordi di quando non
ti usciva la voce? Anche se ti d fastidio tutto ci• che Š trop-
po emotivo, sei molto sensibile alle atmosfere, lo sei sempre
stata. Ormai penso che con l'esperienza, rispetto a un tem-
po, tu ti sia fortificata, ma non vorrei mai pi vederti pian-
gere come alla morte di Shóji. Sei una strana ragazza tu.
Forse per qualche verso rassomigli a tuo padre."
"Mi ha telefonato."
"Come ti Š sembrato?"
"Combinato male."
"Ah sć?"
"Ma non cambia. Anche tu, mamma, sei la stessa. Sem-
pre giovane."
"Sul serio?"
La mamma sorrise. Anche se esteriormente invecchiava
in fretta, parlando con lei l'essenza del suo spirito, qualcosa
che doveva far parte di lei da quando era bambina, appariva
sul suo viso, facendo dimenticare tutto il resto.
"E le altre cose come vanno? Sei contenta della tua vi-
ta?" mi chiese.
"Si, sono molto felice."
Era la verit. Sentivo un amore struggente per ogni
istante che passava.
Credo di capire in parte la vita della mamma e le cose
che a volte ha provato. Forse vuol dire che non sono pi una
bambina. Ma mi sento lo stesso terribilmente smarrita. Ter-
ribilmente sola.




Sui mi piaceva, ma a meno che non fosse lei a invitarmi
non andavo a trovarla, e non le telefonavo neanche. Avevo
la sensazione che se non fossi stata attenta a mantenere i
miei ritmi, lei avrebbe invaso la mia vita con la massima di-
sinvoltura, e presto mi sarei trovata a temere i giorni senza
di lei. Lei Š quel tipo di persona. Nel cuore dell'estate c'Š un
periodo molto strano, che dura una o due settimane. Sotto i
raggi di un sole che splende immutabile, molte cose piano
piano si evolvono. Sentimenti ed eventi. Intanto, in segre-
to, l'autunno affila le sue zanne. E cosć, mentre si Š ancora
sotto l'illusione che il tempo si sia fermato, un mattino di
colpo si scopre, in alto nel cielo, un vento freddo.
Insomma, qualcosa di invisibile stava maturando. Sui mi
telefonava molto spesso. Ogni volta che sentivo la sua voce
in quelle giornate afose, un senso di sconforto dall'orecchio
si infiltrava nel cuore. C'era sempre una specie di eco che ri-
peteva: ormai siamo alla fine.
In quei momenti, mi tornava spesso alla mente il viso di
Otohiko come l'avevo visto quella notte, su un lato della
strada, illuminato dalla luna.
Una sera, sul tardi, ricevetti una telefonata da Sui.
Dal tono della voce capii subito che doveva essere piut-
tosto brilla.
"Otohiko si Š gi addormentato. Non ti sembra pessi-
mo?" disse.
Io, pensando che fossero lamentele da innamorati, da
prima non le diedi peso.
"Bah, avr avuto sonno," dissi.
"Da quando ero piccola ho sempre avuto attorno gente
che non aveva il minimo problema ad addormentarsi.
so quante volte Š capitato che sia stata tutta la notte sveglia
a guardare mia madre che dormiva dopo essersi ubriacata
tanto che oggi non riesco quasi a ricordarmi la faccia di mia
madre di giorno, con gli occhi aperti. Anche lui... come lo
devo chiamare? mio padre... quell'uomo... il maestro? Era
uguale. Nel buio si metteva a parlare e parlare dei suoi rim-
pianti, i suoi rimorsi, le sue aspirazioni eccetera eccetera.
Poi, dopo aver esposto tutta una serie di problemi, si addor-
mentava. E io, che ormai non riuscivo pi a chiudere oc-
chio, restavo sveglia a pensare da sola a tutte quelle cose: al-
l'arte, alla possibilit di vivere liberi, all'anarchia. Sicura-
mente io stavo a pensarci molto pi a lungo di lui- Ma resta-
re svegli di notte pu• anche essere interessante. E' strano, la
notte: per quelli che si addormentano subito dura solo un at-
timo, mentre, per chi la passa completamente in bianco, di-
venta cosć lunga che Š come vivere una vita supplementare,
sembra quasi un privilegio..."
Mi sembrava che stesse male, perci• dissi:
"Perch‚ non provi a bere un po' per addormentarti?"
'E' tutta la sera che bevo."
Lo disse senza nessuna sfumatura di pianto o di rabbia.
Era il tono di voce che accompagnava spesso il sorriso vinto
di una donna arrivata a un'impasse in una storia d'amore.
L'avevo avuto molte volte io stessa. Me ne ricordavo bene.
Di solito l'uomo non se ne accorge nemmeno. O, se se ne ac-
corge, abbandona la donna nella notte per sprofondare nel
sonno.
Come adesso. Adesso Sui si trovava proprio in quel
punto.
"Ma adesso Otohiko Š lć da te? Come mai parli cosć a vo-
ce alta?" chiesi.
"No, non sto chiamando da casa," disse.
Trasalii.
"Sei per strada?"
"Sć, sono nella cabina telefonica vicino a casa tua.
Me lo aspettavo. Ma dato che ero libera, mi dissi: va be-
ne, andiamoci.
"TU per•... dai sempre per scontato che io sia libera e di-
sponibile, " dissi.
"Un tempo i rapporti tra le persone non funzionavano
come oggi. La gente era sempre libera e aperta," rispose lei
ridendo.
"Sei alla cabina qui all'angolo? Aspettami lć che andiamo
a bere qualcosa," dissi, e posai il ricevitore. Mi preparai in
fretta e uscii.
Mentre camminavo sulla strada di notte, a un tratto
pensai: in fondo chi ha detto che in Sui ci sia qualcosa che
non funziona? Non sar che in fondo Š una persona sana e
normale? Dopotutto non ha nessuna malattia nervosa, e i
suoi ragionamenti non fanno una grinza.
Allora qual Š il suo fascino? mi chiesi. Forse quel qualco-
sa di eccentrico, di indipendente, di autonomo che la distin-
gueva. Qualcosa che era impossibile dividere con gli altri, di
cui doveva soffrire da sola dentro di s‚. Come una parola
d'ordine cosć potente da poter essere comunicata solo a
pochi.
Sui, ferma a notte fonda con gli occhiali da sole accanto
alla cabina telefonica, sembrava un ramo di salice in balia
delvento.
"Che ci fai con gli occhiali da sole in piena notte?"
chiesi.
"Non Š bello far vedere che uno ha pianto, no?" disse
con voce nasale.
"Se mi tiri addosso quella, stavolta mi ammazzi," scher-
zai, indicando la bottiglia di vino che sporgeva dalla busta di
carta che Sui portava in mano.
"Ma no, figurati!" si affrett• a rassicurarmi ridendo,
scuotendo la mano. Nel vedere il sorriso che si era disegnato
sul suo viso ancora in lacrime, mi sentii sollevata. Non sop-
porto di vedere gli altri piangere. "Ce l'ho con me perch‚ ho
bevuto lungo la strada. "
"Dalla bottiglia? Guarda che certe cose le possono fare
impunemente solo attrici bellissime," scherzai, battendole
sulla spalla.
"Mi dispiace deluderti, ma ho bevuto con un bicchiere
di carta," replic•, sorridendo di nuovo.
Era bello vederla sorridere.
"Non Š che sia il modo ideale di gustare il vino."
"Non Š cosć male. Piuttosto, sai che prima di venire so-
no andata a bere in un posto incredibile? Mi piacerebbe por-
tartici. Ti va? O preferisci un bar?"
"Andiamo pure lć. Dov'Š?"
un posto eccitante. Non c'Š anima viva," disse Sui.
"A dire la verit credo che tu ci sia gi stata molte volte.
Dove pu• essere? pensai.
"Di, seguimi."
Era il weekend e le strade erano piene di gente. L'atmo-
sfera della notte d'estate era animata come se ci fosse un
matsuri. I nostri vestiti estivi un po' succinti e l'andatura ri-
lassata ci attiravano ogni tanto qualche apprezzamento, ma
continuammo a camminare ignorandoli.
"Alla fine dell'estate c'Š tanto movimento in giro. In se-
rate come queste starsene a dormire come fa Otohiko Š da
idioti, non pensi?" disse Sui.
Portava una camicia rossa, che stava molto bene col
buio.
"Se non mantenesse il suo ritmo, probabilmente non ce
la farebbe a stare con te."
"Forse hai ragione. Devo smettere di considerarmi sem-
pre il centro di tutto," disse Sui ridendo.
Ogni volta che dicevo a proposito di loro due una di
quelle cose che si dicono di solito sulle coppie normali, re-
stava sempre un sapore un po' amaro, doloroso.
"Dov'Š questo posto?"
"Hai presente quel grande supermarket che sta dopo
l'incrocio del sesto chime? E' da quelle parti."
"Ma..." dissi io. "E' la zona dove stava l'appartamento
di Sh•ji."
"Non ti va di andarci?" chiese Sui.
"No, va bene. Non ci sono pi stata, sono curiosa di tor-
narci," risposi.
Quando dalla strada principale infilammo una seconda-
ria, il buio ci inghiottć come una voragine.
"Ecco, Š laggi."
L'edificio a cui tanti miei ricordi erano legati si stagliava
nell'oscurit, in parte coperto dal telone bianco dei lavori, e
le finestre che si potevano vedere dall'esterno erano tutte
spente. Lo stavano ristrutturando, o forse lo trasformavano
in un palazzo per uffici. Che tristezza, pensai.
"Io qui ci sono venuta diverse volte, ma lui diceva che
non sarebbe stato carino nei tuoi confronti cosć non ha mai
voluto fare niente con me, neanche una volta. Non Š una co-
sa commovente?" disse Sui. "Specialmente a pensarci
adesso.
Alzai lo sguardo verso l'edificio immerso nel buio. A
pianterreno c'era una lavanderia, e subito accanto il porto-
ne d'ingresso. Un palazzetto grigio di tre piani, dai muri ru-
vidi, senza ascensore. L'appartamento di Shóji era all'uffi-
mo piano, e la piccola strada che si vedeva dalla sua finestra
era sempre tranquilla, che fosse notte, l'alba o pieno giorno.
Era una scena cosć calma che sembrava di vederla da una fi-
nestra aperta nella carne di Sh•ji. Ci si dormiva bene. Tanto
che dubito di riuscire mai pi a dormire bene come allora.
"Per la verit, che si poteva salire fino al terrazzo l'ho
scoperto prima, anche se stavo piangendo," disse Sui.
"Ma brava," esclamai. "Che spirito di esplorazione.
"Che fegato, dovresti dire piuttosto. Se ci vai da sola fa
una paura!" disse Sui.
Poi si diresse verso l'ingresso silenzioso, una grande boc-
ca nera spalancata. I nostri passi risuonavano nell'oscurit
che sembr• inghiottirci. Mi ricordai della macchia sul muro
nel pianerottolo illuminato dalla luna. Come nei ricordi del-
l'infanzia, quell'immagine si staccava nitida da tutto il
resto.
Vivere qui era il mio sogno di ragazzina. Niente a che
vedere con il matrimonio o cose del genere, non arrivavo
neanche a pensare di trasferirmi lć con la mia roba. Un gior-
no avrei voluto semplicemente fermarmi lć, senza tornare a
casa. Mentre salivo le scale, ebbi una visione intensa e ful-
minea di quello che c'era dietro la porta buia. Non potevo
fermare le immagini che mio malgrado entravano nella mia
testa come nel campo visivo di un uccello che passa in volo
radente.
Appena entrati sulla sinistra uno scaffale con vivande.
Un frigorifero verde.
Un muro completamente ricoperto di materiali di la-
voro.
Il letto davanti alla finestra.
Un vasetto di vetro pieno di spiccioli.
Un pappagallo allevato in casa di nascosto.
Non potevo fare a meno di pensare che dietro la porta
tutte queste cose dovessero essere esattamente come le ave-
vo immaginate. Come gli spiriti dei morti che per il bon tor-
nano al paese natale e si aggirano per la loro casa a guardare
ogni cosa, come il ricordo lontano del giardino della casa dei
nonni paterni dove andavo solo per le vacanze estive (casa
dove non sono mai pi stata, di persone mai pi riviste).
"Mi sembra di essere ubriaca anche se non ho bevuto.
Non ho una voce strana?"
Nel silenzio della notte la mia voce risuon• soffocata.
"Saranno i ricordi che ti ubriacano," disse Sui con non-
curanza.
Continuando a salire le scale, arrivammo al pianerottolo
che dava sul terrazzo. C'ero salita solo una volta, per far vo-
lare un aquilone. La porta era sempre chiusa a chiave. Shóji
si era fatto fare un duplicato per far volare l'aquilone che lui
stesso aveva fabbricato.
"Ah, c'era gi la chiave."
Sui strinse la chiave rugginosa di quella porta e, come un
gorilla in una gabbia, prese a scuoterla violentemente con un
gran frastuono.
"Che modi! Stai facendo un rumore terribile," dissi.
"Non ti preoccupare," disse Sui, buttandosi sulla porta
come per sfondarla. Dato che era buio non potevo vedere
che faccia facesse. Sembrava cosć determinata che mi fece
paura.
"Ce l'ho fatta," disse Sui, e finalmente la porta si aprć
cigolando.
Da un momento all'altro mi ritrovai sbalzata dall'aria
impregnata di muffa e di odore di vernice, all'aria freschissi-
ma della notte.
"Sembra di essere restate al chiuso un sacco di tempo,"
disse Sui.
Ci trovavamo su uno stretto terrazzo in cui c'era un
grosso serbatoio d'acqua in disuso. Tutt'intorno si stende-
va, limpido e calmo, il panorama notturno, tranquillo come
lampade riflesse sulla superficie di un lago.
Ci sedemmo lć in un angolo e Sui tir• fuori il vino.
'E' un po' tiepido," disse Sui versandolo. "Purtroppo i
bicchieri sono di carta."
"Gi. Quando si fanno molli il vino diventa cattivo."
dissi.
Era rosso e piuttosto buono.
'Tuoi assaggiare?" chiese Sui, tirando fuori del formag-
gio dalla busta. Me lo porse e ne mangiai un pezzetto.
Niente male questo picnic," dissi.
'Vero? E poi si pu• bere all'aperto solo nel periodo dei
ciliegi o in piena estate," disse, usando quasi le stesse parole
di Otohiko.
"A proposito, tempo fa ho bevuto del tŠ insieme a Oto
hiko un po' alla stessa maniera. Siete tutti e due amanti del-
l'aria aperta, vero?"
"Al chiuso, quando cominciamo a litigare, l'aria si fa
soffocante. Allora usciamo subito all'aperto, e riusciamo a
fare pace.",
'Per•! E' una saggia regola di vita," dissi.
Il rumore delle auto in lontananza giungeva attutito,
una fresca brezza mi asciugava il sudore e faceva fluttuare
l'orlo della gonna.
"Dopo aver bevuto in un posto cosć, anche andare a bere
in un bar sembra una cosa interessante, diversa dal solito."
'E' vero, si resta con la sensazione del picnic."
"Allora dopo ci andiamo?"
"Okay."
"Sai, io non ho mai avuto amici. Ragazzi o ragazze con
cui passavo il tempo sć, ce ne sono stati tanti, ma qualcuno
con cui potessi parlare cosć, non c'Š mai stato. Forse solo
Otohiko," disse Sui.
'Vedi?" dissi. 'Forse voi due potete funzionare bene
anche cosć. Anche se vi criticate tra voi e avete tanti dubbi,
potete andare avanti."
Come del resto succede alla maggior parte delle coppie.
"Hmm, chiss. Se fosse stata una relazione normale, for-
se ci saremmo gi lasciati da un pezzo," disse Sui.
"Com'Š stato il periodo con tuo padre?"
"Ero povera, adolescente, inquieta, in un quartiere mal-
famato e di mia madre non sapevo nemmeno l'indirizzo.
Sbandata, un po' fuori di testa e senza la minima idea di co-
sa era giusto o sbagliato. L'unica cosa che non mi mancava
era l'energia, ne avevo fin troppa. Mio padre-era il tipo
d'uomo che mi piaceva. Da parte mia credo di non aver pro-
vato nessun senso di colpa. Mio padre invece ne aveva, pa-
re. Comunque, anche se non mi avesse incontrato, lui non
sarebbe vissuto a lungo. Anzi, credo che il fatto di avermi
incontrato e aver potuto avere dei momenti di intimit con
me, per lui sia stato un bene."
"L'intimit non Š stata forse un po' troppa?" dissi.
Sui si mise a ridere.
"Pu• darsi, ma forse questo Š il modo che a me si addice
di pi. Il Giappone Š un paese in cui tutto va secondo le re-
gole, ma dove Š impossibile separare le cose buone da quelle
cattive. Per esempio da una parte in metropolitana ti devi
difendere dai maniaci che ti molestano, stando anche atten-
ta che gli altri non se ne accorgano, dall'altra incontri delle
signore di una gentilezza talmente incredibile che ti fanno
venire da piangere. Per me Š incomprensibile. Mi sembra
malsano. Per• gli anni passano anche per me, e si vede che
qualcosa in me sta cambiando. Stare qui Š dura ma ora credo
di potercela fare."
"Capisco, Š il punto di vista di una ragazza che ritorna
in Giappone."
"Capisci?" disse Sui. "Poi devi pensare che per tanto
tempo mi reputavo fortunata se dormivo nello stesso letto
due notti di seguito."
"Per me questo serebbe impossibile. Sicuramente mi sal-
terebbero i nervi," dissi io. "Vorrei sempre dormire nello
stesso letto, quello di casa mia."
"Adesso l'ho ottenuta, una vita un po' meno disordina-
ta," disse Sui.
Ti prego, non raccontarmela nei particolari, pensai. Una
storia interiore, triste in modo cosć prevedibile da sembrare
scontata.
"Non fare quella faccia annoiata, sei davanti a una per-
sona viva. E queste sono tutte storie vere, una per una. An-
che se possono somigliare a racconti che hai gi sentito da
qualche parte, le mie sono parole vere rivolte solo a te," dis-
se improvvisamente Sui.
Fui colta di sorpresa.
"Scusami. Ho fatto una faccia scocciata?"
"Hai fatto una faccia come per dire 'Almeno tu rispar-
miami questi discorsi noiosi'," rise Sui. I suoi occhi sottili
brillarono.
"Ti sei mai innamorata sul serio?" mi chiese.
"Sć, almeno credo, non sono ancora sicura." dissi. "For-
se di Shóji, ma Š morto prima che potessimo arrivare a liti-
gare. Ma che succede? Di colpo sembri diventata una sorella
maggiore. "
"A volte penso che tutte le persone che ho incontrato da
quando sono venuta qui, compreso Otohiko, siano un po'
annacquate. Io invece sono un caso a parte.. Ho sempre pen-
sato che le persone fossero pi strane, pi disoneste, disor-
dinate, vili, nobili, insomma che avessero molti pi strati.
Che la vita, l'amore, fossero cose incredibili. Io sono di vol-
ta in volta femminile, forte, fragile, capace, dopo aver litiga-
to fino a restare senza voce, di guardare insieme la luna ma-
no nella mano, di provare ogni giorno sensazioni diverse fa-
cendo le stesse cose. Di piangere e di far paura. Ma restando
sempre me stessa. Ogni volta che esco per incontrare qual-
cuno che mi piace, non importa chi Š, o quante volte Š gi
accaduto, per l'ennesima volta mi faccio bella ed esco. Io
non ragiono, seguo l'istinto," disse Sui, e continu• sorriden-
do: "E' tempo che tu viva un amore incredibile. Vorrei ini-
ziarti, ma sono donna anch'io".
"Non hai mai avuto esperienze con una donna?" chiesi
improvvisamente, con un po' di batticuore.
"Qualcuna ci ha provato, ma non ne ho avute. Certo, se
ne avessi avute anche con donne avrei battuto ogni record."
Non potei trattenere una risatina. Era anche l'alcool che
entrava in circolo. Sembrava che il panorama notturno con
le sue luci si avvicinasse sempre di pi.
"Per• tu mi piaci. Con te c'Š pace. E tensione. E' una
sensazione strana. Mi sento anche protetta. Sei uno strano
tipo," disse Sui. "Ci vedremo ancora spesso, vero? E' ancora
estate..."
Poi si stese accanto a me. Un odore dolce e intenso di ca-
pelli femminili. Un profumo di gelsomini e di sandalo. Segni
della notte d'estate che salivano attraverso il naso.
"Chiss che cosa ti accadr. Chiss l'anno prossimo di
questi tempi, dove sarai e cosa starai facendo," dissi.
"Hmm," fece Sui.
Avevo paura dello scambio tra noi che si faceva sempre
pi diretto. Paura del suo affetto, assoluto come quello di
un cucciolo. Della sua carnalit che sembrava ignorare com-
pletamente la paura del rifiuto. Io, n‚ lesbica n‚ ragazzina di
liceo, solo una donna, avevo paura. Stare con -persone che
avevano l'odore del passato, di un tempo in cui la materia
della vita era pi densa, era come trovarsi in un giardino di
fiori sottilmente separato dalla fase della realt. Me ne resi
conto con chiarezza. Era un momento bellissimo. Davvero
prezioso. Ma limitato. Non poteva durare in eterno. Ebbi la
sensazione di essermi appena svegliata e pensai: ma che cosa
sto facendo io qui?
Adesso il vento era forte. L'aria si era raffreddata.
"A proposito, c'Š davvero una maledizione. Lo sapevi?"
disse Sui.
"Piantala. Non si fanno questi discorsi al buio," dissi.
Il pavimento di cemento bianco, uno stenditoio abban-
donato. Lo spazio della morte dove l'unico segno di vita so-
no i puntini luminosi del paesaggio notturno. C'Š qualcuno
in ascolto? Tutto il tempo, senza tregua?
"Quando Sh•ji Š morto, non hai sentito la presenza di
qualcosa oltre a voi nella stanza?" chiese lei.
"Non lo so."
Invece, in realt l'avevo sentita chiaramente. Quel mat-
tino, in questo palazzo.
"Io l'ho sempre sentito," disse Sui. "Quando ero con
mio padre, anche quando ero con Shóji, anche quando ho
incontrato Otohiko. Un senso di impotenza, come se io fos-
si solo una specie di strumento. Io ero sempre la pi debo-
le," disse Sui con uno sguardo fisso. "Io non ho mai paura di
nulla. Solo di quello. L'ho sempre sentito. Era nella stanza
anche prima che morisse mio padre. Ci sono dei segni. E'
una specie di forza maligna, fatale, che viene fuori da quel
libro. Anche mio padre Š morto di quella. E odio pensarlo,
ma anche il fatto che io sono viva forse dipende da quella
cosa. Anche l'averti incontrato, l'essere qui adesso."
. "Forse non ho capito bene ma 'la cosa' sarebbe il potere
di quel racconto? Il genio di tuo padre?"
Sollevo gli occhi a guardare il cielo stellato. Riaffiorano
le facce di tutte le persone che ho incontrato finora. Seduta
su questo palazzo abbandonato come sulle rovine di un pae-
se straniero. Ad avere questa sensazione sono io. Io?
A questo punto mi fermo sempre.
"No. Mio padre era solo un involucro. Un vagabondo
giapponese che aveva abbandonato il suo paese. Quella cosa
lo aveva posseduto. E anche dopo la sua morte non Š fi-
nita. "
"'Quella cosa', sarebbe l'arte, lo spirito, una di queste
cose? Oppure..."
Non mi lasci• finire.
"Oppure. Hai capito di che parlo, no? Spiriti del male,
maledizioni, malaugurio. E' qualcosa che ci fa restare insie-
me a tutti i costi, me e Otohiko, come un sangue cattivo."
"Credi davvero?" dissi. "Comunque tu cela farai."
"Dici?" disse Sui. "Spero che almeno lei possa uscirne
presto."
"Chi?" chiesi.
"Saki. A proposito, le ho mandato la copia."
"Davvero? E quando?"
Fui colta di sorpresa. Mi ero alzata, e in quel momento,
con le mani appoggiate alla balaustra del terrazzo, stavo
guardando in basso. Fu tale lo stupore che per un attimo
tutto mi apparve capovolto.
"Mi avevi detto tu di mandargliela, cosć ho pensato che
fosse meglio farlo."
Mi voltai verso di lei. Sui sorrideva dolcemente. I suoi
shorts bianchi risaltavano nel buio. Anche i suoi denti
bianchi.
"Ma avresti potuto dargliela di persona," dissi.
"Per carit, sarebbe stato imbarazzante' " rispose lei,
schermendosi. Poi disse: "Sono proprio ubriaca," e si gir• a
pancia in sotto. Per qualche istante raccolse con le dita dei
pezzetti di cemento sbriciolato, poi rimase per un bel po'
ferma con gli occhi chiusi. A un certo punto cominciai a
preoccuparmi e mi avvicinai per vedere che aveva. Si era ad-
dormentata.
"Ehi, svegliati," dissi scuotendola.
Sui si strofin• gli occhi e si tir• su con sforzo.
"Ho sognato una tomba," disse. 'Forse non fa bene ave-
re sotto il sedere un palazzo completamente vuoto."
"Gi. E' come una grande tomba," dissi io. "Beh, forza,
andiamo. "
Sui annuć.
Dopo poco eravamo di nuovo in strada dove continuava
l'animazione come in un mercato, e andammo a bere.
A ripensarci dopo tanto tempo, mentre eravamo su quel
terrazzo non c'era nessuna presenza negativa. La notte era
avvolta in qualcosa di benefico come i sogni dell'infanzia.




Verso la fine di agosto, un pomeriggio, io e Saki, di ri-
torno da un cinema, camminavamo per le vie della citt.
Stavamo per andarci a sedere in un caffŠ prima di tornare a
casa.
Eravamo davanti alla stazione dove, nonostante la folla,
c'era un'atmosfera stranamente ovattata, e stavamo passan-
do per una rotatoria dove una fontana mandava getti iride-
scenti come in una pittura. Dall'altra parte dell'acqua che
danzava vidi, attraverso gli spruzzi, una figura dall'aria co-
me sempre un po' smarrita.
Sui camminava circondata da un'atmosfera particolare.
Anche in mezzo a quella folla lo si capiva subito. Il suo passo
leggero era un po' vacillante.
D'impulso, gridai:
', sui! ',
Mi accorsi che Saki accanto a me aveva avuto un sussul-
to. Anche Sui trasalć e, vedendo Saki, abbozz• un sorriso
imbarazzato. Poi si diresse verso di noi.
"Ehi, quanto tempo che non ti vedevo! Grazie per la co-
pia," disse Saki, come se si fossero viste solo pochi giorni
prima. Quasi contemporaneamente Sui abbracci• Saki, e
con le braccia strette forte attorno all'altra, disse: "Davve-
ro, Š passato tanto tempo". Gli occhi le si erano riempiti di
lacrime. Sui Š commossa sul serio, pensai.
"Di, lasciami andare adesso," disse Saki ridendo. Il suo
atteggiamento era tanto amabile e il suo sorriso affettuoso
cosć perfetto da fare quasi sospettare che potessero essere
solo formali.
Appena si stacc• da Saki, il viso di Sui ritorn• all'espres-
sione abituale.
"Sei diventata grande," disse. "Otohiko l'ho visto nel
tempo, ma di te mi era rimasta l'immagine di una bambina.
Non pensavo neanch'io di avere tanta nostalgia."
Eravamo tutt'e tre ferme lć in piedi. Nello spazio di quel
pomeriggio sereno di un giorno come tanti, tra i treni dei
metr• che giravano lentamente lungo la rotatoria e le file di
persone al capolinea degli autobus, molte cose si mescolava-
no. Cose complicate, cose che avevano una lunga storia.
C'erano dentro anche il Giappone, l'estero, le distanze. Ma
la gente che ci passava accanto urtandoci e coprendo con la
sua voce le nostre era completamente ignara di tutto questo.
Era una strana sensazione. Mi chiesi cos'era stato a com-
muovere tanto Sui. Se si fossero perdonate a vicenda, come
sarebbero andate le cose per loro? Anche se le conoscevo
tutt'e due da poco, come per un incantesimo avevo l'impres-
sione di averle sempre viste, da quando erano bambine fino
all'incontro improvviso di poco prima. Addirittura non ca-
pivo pi quale fosse stato il problema. Non sarebbe stato
meglio se aveste cercato di pensare un po' meno, voi due?
pensai. Per•, a complicare le cose Š proprio il fatto di essere
dello stesso sangue. In ogni caso, per tutte queste cause, in
quello spazio l'aria aveva una densit diversa.
"Assomigli a nostro padre molto pi di quando eri bam-
bina, " disse Sui.
Saki sembr• confusa:
"Davvero? Dove?"
"Gli occhi. E anche il naso. Sono uguali."
"Me l'ha detto anche mia madre."
"Anche voi due vi assomigliate," dissi. "Proprio come
sorelle. Non Š una somiglianza da cugine."
"Davvero? " disse Sui, e guard• attentamente Saki. La
fiss• per un bel pezzo, con uno sguardo perforante. Poi, per
una frazione di secondo, ebbe un sorriso incredibilmente
fragile. Era un modo di sorridere triste, simile a un profon-
do sospiro. Qualcosa di impercettibile l'aveva turbata. Era
un sorriso che avevo gi visto. E subito una sensazione dolo-
rosa, anche quella gi provata, fu la mia reazione. Ma non
capii che cosa fosse stato.
Ma immediatamente quel sorriso ridivent• un sorriso
normale, autentico, e premendo con il dito il naso di Saki,
disse:
"Si, probabilmente deve essere il naso".
Dopo averla salutata, Saki pensierosa disse:
"mi chiedo come mai fino a oggi non ci siamo incontrate
per caso nemmeno una volta".
"Forse perch‚ Dio ha deciso che solo ora era arrivato il
momento giusto," dissi io.
!Io sono stata sempre la stessa," disse lei.
"Ah, sć?.
"Sono affari di mio fratello," sorrise Saki. "Per•, sono
preoccupata per lei. Sembra cosć indifesa che dopo averla in-
contrata ti lascia una specie di rimorso. Come allora."
"E' vero, ogni volta che se ne va Š come se dovesse scom-
parire per sempre. Ti fa pensare che forse Š l'ultima volta
che la vedi."
Ci voltammo. Ormai la sua figura di spalle in gonna gial-
la si distingueva appena tra la folla.
Come un palloncino che si allontana.
Tutt'e due la seguimmo con lo sguardo.




Si pu• dire che la tua vita finora sia andata bene? Se fi-
nora non te ne Š mai andata bene una Š colpa dei tuoi errori.
Ancora oggi faccio fatica a tradurre in parole le cose ac-
cadute dopo. Forse un giorno Otohiko riuscir a scrivere
queste cose molto meglio di me.
Anzi, la storia di quell'estate Š difficile da raccontare sin
dall'inizio. Quello che resta Š un sole caldissimo, e poi una
forte sensazione di assenza. La mia assenza. La posizione
che occupavo. Il ruolo che giocavo. La posizione dei miei
sentimenti. E' come se in quel tempo io fossi stata l'estate. E
con gli occhi dell'estate, nel corso di quell'esperienza irripe-
tibile, io vidi una donna. Sui.
Diventando parte dell'aria che la avvolgeva, assorbii
quella sua tristezza sempre un po' indecifrabile. Ho l'im-
pressione che mi sia rimasta dentro ancora adesso. Guardai
il tentativo di realizzare l'amore fino in fondo da parte di
una persona che impegnava tutte le sue risorse mentre vive-
va con un destino avverso, col suo spirito che chiamava il
destino avverso.
Che differenza c'era tra tuo padre e Otohiko?
Perch‚, con tutti gli uomini che ci sono, proprio quelli
della tua famiglia?
Nessun amore Š insostituibile, se vi lasciaste per Otohi-
ko sarebbe un sollievo.
Da questo soliloquio Sui aveva salvato il respiro affan-
noso del suo spirito orgoglioso ma fragile e insicuro, lo scin-
tillio dell'intuizione. Ci aveva creduto.
La forza vitale, viziosa ed elementare di un gatto abban-
donato che piange in una strada fangosa. Quella che Shóji
non aveva a sufficienza. Quella da cui io e Otohiko, pur non
riuscendo a crederci, restavamo sempre sedotti..
Era quella che Sui portava a perfezione. A modo suo. Fu
quella che per tutta l'estate, accanto a lei, io vidi.
Io vidi Sui.




"Verresti a trovarmi? Sono un po' a terra," disse Sui con
voce di pianto. Ci risiamo, pensai.
"Che Š successo? E Otohiko? Non c'Š?"
"Non ci crederai," nonostante le lacrime scoppi• in una
risata. "Mi fa troppo ridere. E' andato in campeggio."
"In campeggio?" Anche a me automaticamente scapp•
da ridere. "Campeggio campeggio? Con la tenda?"
"E' venuto un suo amico dell'America, e ha detto che an-
davano insieme a fare un viaggio con la tenda. E' partito tre
giorni fa."
"Che buffo, sembra una cosa cosć da bambino.
"Infatti. Senti, ti dovrei dire una cosa, non Š che ver-
resti?!
"Va bene, tanto sono libera."
Non l'avevo vista n‚ sentita dal giorno in cui l'avevo in-
contrata con Saki. Comprai dei fiori e delle paste e mi dires-
si verso casa sua.
Cominciava la sera. L'ora in cui in ogni casa entra l'az-
zurro e si cominciano ad accendere le luci.
Da qualche tempo, proprio come succede agli alcolizzati,
quando la mia coscienza all'improvviso diventava lucida,
realizzavo di colpo chŠ era gi scesa la sera. Le luci della cit-
t che affiorano nella prima oscurit, i condomini lungo la
strada in salita. Me ne accorgevo solo allora, come chi, be-
vendo il primo bicchiere di birra, si accorge che un altro
giorno di lavoro Š passato. Era come se mi svegliassi in quel
momento.
Anch'io forse sono sempre posseduta da qualcosa, pen-
sai. Anzi, non Š una paranoia, ma mi chiedo se c'Š mai stato
un momento in cui non lo sia stata.
Bussai alla porta. Non ci fu risposta, cosć girai la mani-
glia. Si aprć subito. La stanza, che aveva tutte le luci accese,
era vuota e dalla grande finestra spalancata col vecchio bor-
do di metallo che dava sulla terrazza si vedeva solo un riqua-
dro del cielo sempre pi scuro.
Avanzando di un passo vidi che Sui era in piedi sulla ter-
razza, appoggiata alla balaustra. Cosa per lei insolita, stava
fumando una sigaretta. Il vento le teneva i capelli sollevati
nell'aria come in un fermo immagine.
"Buonasera," la salutai.
"Accomodati," disse Sui voltandosi.
In confronto al colore del cielo, la sua immagine appari-
va sbiadita. Le labbra pallide, gli occhi arrossati.
"Ritirando i panni stesi mi sono stancata,", disse Sui.
"Fai pure con comodo," dissi io mettendomi a sedere per
terra lć dov'ero.
Nello stesso istante Sui lanci• un urlo soffocato.
Alzando il sedere da terra, chiesi:
"Che succede?"
"Perch‚ ti sei messa a sedere proprio in quel punto? Ac-
cidenti, c'Š una macchia di caffŠ," disse.
Infatti una vistosa macchia marrone di caffŠ si spandeva
sui miei pantaloni bianchissimi.
"Sembra che me la sia fatta addosso. E per giunta Š mar-
rone!" dissi sconsolata.
"Proprio poco fa sono inciampata nella caffettiera che
stava lć, e mi sono dimenticata di pulire," disse Sui ridac-
chiando. "E' troppo comico, andarti a sedere proprio in quel
punto. Comunque se li lavi subito se ne va. Togliteli."
"Hai qualcosa da prestarmi nel frattempo?"
"Toh, mettiti questa," disse Sui, tirando fuori da una
cesta della biancheria, forse quella che aveva appena ritira-
to, una gonna nera di felpa. Mi andai a cambiare nel bagno.
Sui infil• i miei pantaloni nella lavatrice e premette il botto-
ne d'accensione.
"Mi dispiace," disse Sui, coprendo con uno straccio il
pumto sul pavimento in cui si era rovesciata la caffettiera.
"E' un segno per avvertire che non bisogna sedercisi."
"Ormai l'avrei capito anche senza," dissi.
Il leggero ronzio della lavatrice risuonava per tutta la
casa.
"Ti piace fare la lavatrice?" chiesi.
"Mi piace. Soprattutto questo rumore," rispose.
"Ah, ti ho portato dei fiori e delle paste," dissi.
"Gigli... mi piacciono molto. Non trovi che mi somigli-
no?" disse Sui, prendendoli tra le mani.
" Mica tanto."
"Ah sć?"
Per la verit pensai che un po' le assomigliavano. Per il
loro forte profumo, e per quel polline che se si attaccava ai
vestiti non veniva pi via.
Ma Sui sorrideva in modo talmente dolce che, timida co-
me unragazzino di scuola media, non ebbi il coraggio di dir-
glielo.
Occhi come vetro. Pupille dal riverbero puro, che di
ogni cosa non riflettevano niente di pi e niente di meno
della nuda forma. Quel giorno Sui era dolce. Era come se
stesse emanando a profusione tutta la dolcezza di una intera
vita. Si diffondeva da lei come un profumo riscaldando
l'aria.
Sć, proprio come un giglio.
Il profumo di un nettare dolcissimo distillato dalla di-
sperazione.
"sai, dopo averle spedite, mi sono sentita stranamente
svuotata," disse Sui, mentre metteva sul tavolo il vaso in cui
aveva disposto, tutti insieme com'erano, i gigli.
"Parli delle fotocopie?"
"Sć. Ti sembra strano? Sar stata probabilmente l'ultima
roccaforte del mio infantilismo, ma il fatto di tenerle nasco-
ste mi faceva girare per la citt in uno stato di ebbrezza. So-
no l'unica a sapere che esistono, pensavo. Anche se a livello
inconscio, Š chiaro. Perdere questo mi ha portato una confu-
sione tale che Š come se non sapessi pi in che cosa consiste
il mio valore."
"Sć che mi sembra strano," dissi. "Vedi, fino a ora non
te ne eri mai separata. Non era altro che un talismano, in
fondo. Ma tu sei una che se la pu• cavare da sola in qualun-
que posto. Sei una cosć. Che sia qui, in Africa o in India."
"Hmm... dici davvero?" sorrise Sui. "Forse mi hai rida-
to un po' di fiducia in me stessa."
Capendo che l'aveva detto come si fa per far contento
un bambino, ebbi un po' di rimorso e ripresi con pi
energia.
"Dico davvero. Per tante ragioni e in tanti sensi, tu sei
forte. Tu sei una che non d fuori di testa e non fa stupidag-
gini. Tu sei il tipo che dalle cose esce trionfante. Hai una
grande energia vitale e doti uniche. Me ne sono convinta,
essendoti stata vicino per un mese o quel che Š stato. Tu hai
una vita complicata ma sei la pi onesta di tutti."
"Grazie," sorrise Sui. Di nuovo quel sorriso fragile. Solo
allora capii chi mi ricordava. Quel sorriso aveva la stessa na-
tura di quello con cui mi guardava Sh•ji. La stessa affettuo-
sit disarmata. La stessa durezza impossibile da scalfire.
"Per• le doti uniche il fascino, finiscono col divorare
chi le possiede. Un bel giorno si viene sommersi da una fol-
la, e si finisce schiacciati e uccisi," disse Sui.
"Prima che questo accada tante cose cambieranno.
Adesso sei solo stanca."
"Pu• darsi. Da quanto sar che ho perso una visione
equilibrata delle cose? Da quando ho incontrato Otohiko?
O dopo che il rapporto con mia madre si Š deteriorato? Do-
po essere andata a letto con mio padre? Quando io e Sh•ji ci
siamo lasciati? Da quando per lavoro ho cominciato a la-
sciarmi toccare? Dopo essere tornata in Giappone? Chi ci
capisce pi niente."
"Sei solo stanca. Hai una brutta cera."
'Il fatto Š che sono incinta."
Feci un balzo.
"Da quando? E' sicuro?"
"Sono stata ieri dal medico. E' sicurissimo."
di Otohiko?"
Non lo so, ma le probabilit sono molte. Direi che Š si-
curo.
"Hmm... mi sembra un bel guaio, " dissi. Per non dire di
peggio.
"Gi. Mi sa proprio che dovr• abortire," disse Sui, sen-
za sembrare troppo convinta.
"Ma non c'Š altro da fare, no?"
"No, forse no," fece Sui inclinando la testa perplessa.
Poi rest• cosć senza pi parlare. Anch'io tacevo. Quando al-
zai la testa per dire qualcosa, Sui aveva gli occhi chiusi.
Sembrava tesa ad ascoltare il rumore del vento di un
mondo che non era il nostro. .
Che posto potr mai essere? pensai, e fui presa dalla tri-
stezza.
Sebbene lei fosse viva, le lentiggini, sparse come un ri-
cordo dell'infanzia sulla sua pelle dallo strano pallore, e il
rosa chiaro delle palpebre chiuse apparivano raggelati come
nell'inquadratura di un mirino o di una cornice. Non avevo
mai osservato con tanta attenzione la struttura del viso di
Sui. Forse perch‚ quando aveva gli occhi aperti, l'impressio-
ne dei suoi occhi era cosć forte che non riuscivo a guardare
troppo il resto. O forse perch‚ nel colore e nella luce di que-
gli occhi c'era tutto di lei.
Ma quello che adesso traspariva da Sui era il colore della
sconfitta. Era la strana tinta di rassegnazione di una persona
esausta, che si sente schiacciata da tutte le parti.
A un tratto spalanc• gli occhi e, gli angoli delle labbra
leggermente sollevati in un'espressione che sembrava felice,
disse:
"Sai, mi vergogno ma vorrei vedere ancora una volta un
'padre"'.
"Un padre?"
"Uno che sollevi in alto il bambino con un braccio solo,
che lo coccoli, che la sera torni subito a casa dopo il lavoro,
che se lo guardi dopo averlo ripreso in video, che se gli viene
la febbre stia sulle spine, che se piange di notte se la prenda
pure con la moglie ma mai col bambino. Una figura del gene-
re. Dato che nella madre non ho molta fiducia."
"Una figura del genere potrebbe essere Otohiko?"
"Hmm, forse no. Quando dico un padre intendo un pa-
dre normale. Vorrei tanto poter assistere ancora una volta a
quel periodo brevissimo di quando si Š veramente bambini,
in cui un uomo Š solo un padre. Non so neanch'io se si possa
sperare una cosa del genere da Otohiko. Che ne so, pu• an-
che darsi che io faccia finta di non sperarci proprio perch‚ ci
spero troppo."
A quel punto credo di aver pianto.
Solo che invece di rigarmi il viso, le lacrime restarono
dentro e si accumularono nel petto fino a farmi male. Pian-
gere mi sarebbe sembrato fuori posto.
"Per•, senti... " sorrise Sui. "Se decido di abortire mi ac-
compagnerai, vero?"
"Certo," dissi. "Penso che sarebbe la cosa migliore. Di-
scutine bene con Otohiko, quando torna..." ancora una vol-
ta mi scapp• da ridere, " ... dal campeggio."
'E' gi, dal campeggio," anche Sui rise.
Nessuna parola avrebbe potuto stonare di pi con il pro-
blema, con l'et di Otohiko, e con la situazione. Credo che
ancora oggi, in qualunque posto ci troviamo, ogni volta che
sentiamo nominare la parola campeggio, -ripensando a quel
giorno, automaticamente ci mettiamo a ridere.
"Mah, visto che per oggi non c'Š pi niente da fare, per-
ch‚ non ceniamo?" propose Sui.
"Sć, come no? Andiamo," dissi. "Ah, ma sei sicura di
sentirti bene? Vuoi che prepari qualcosa io?"
"Senti, qui a casa ho solo poca roba. Pensi dć poterti ac-
contentare?"
Lo disse con uno sguardo di una dolcezza incomparabile.
Mi sentivo toccare dalla sua compassione. Era uno sguardo
cosć. Traboccante di affetto.
"Roba cucinata da te?" dissi storcendo il naso.
"Sć, avvelenata," rise Sui.
"Va bene," accettai.
Sui scomparve in cucina e dopo un po' di tempo torn•
con uno stufato di manzo, del pane di segale e un'insalata di
cetrioli.
"Sembra buono!" dissi.
"Lo Š," disse Sui con orgoglio.
"Sui, ma tu non mangi?" chiesi.
"Mi Š passata completamente la fame," disse lei. "Hai
detto il mio nome?"
"Cosa?"
"Adesso, un attimo fa, hai detto Sui?"
"Forse, non ci ho fatto caso, perch‚?"
"Quando sei tu a dirlo, sembra un altro nome, il nome di
qualcosa di buono," disse Sui.
Era squisito. Insieme al pane, che spalmai abbondante-
mente di burro, divorai tutto. Nel frattempo Sui, girata di
spalle, guardava la televisione sorseggiando una birra. Come
mi sembrava piccola la sua schiena! Cominciai a provare una
sensazione sgradevole. La stanza era troppo tranquilla. La
sera si protraeva all'infinito. Il rumore della televisione ri-
suonava freddo e metallico. Tutto sembrava un po' disloca-
to. Le mie sensazioni, lo scorrere del tempo, lo spazio reale.
E Sui, rispetto a quando l'avevo incontrata la prima volta,
sembrava rimpicciolita.
Allora la roba era davvero avvelenata? Chi avrebbe po-
tuto immaginarlo?
Il momento successivo in cui ebbi pi o meno coscienza
fu quando pensai: "Che modo brutale ha di trasportare la
gente!" Venivo trascinata lungo il pavimento. Avevo il cor-
po cosć pesante che non riuscivo a muovermi, e non potevo
nemmeno aprire le labbra. Era come se qualcuno mi chiu-
desse le palpebre con la forza: pi mi sforzavo di aprirle, pi
si abbassavano. Ma cercavo di vedere cosa stava accadendo.
Con tutte le mie forze.
Sentii la voce lontana di Sui che sussurrava, ri
chiando:
" Scusa".
Ebbi chiara la sensazione delle sue mani che mi teneva-
no saldamente per le caviglie. Poi quelle m'ani mi trasmisero
un messaggio fortissimo e di significato contrario, in modo
che la persona a cui appartenevano, e che adesso rideva, non
se ne accorgesse. Come quella volta da piccola, una f
corrente colorata non verbale cominci• a propagarsi a onda-
te verso i miei piedi. Era di un intenso colore viola. Un'emo-
zione che mi stringeva fino a soffocarmi.
Il messaggio che ripeteva era: "Aiutami".
Intuii che aveva intenzione di morire. Era molto pi
stanca di quanto apparisse. Come Shóji. Adesso tutto si
collegava. Perci• cercai di dirle:
"Non devi morire".
Ma la voce non mi usciva. Era veramente come quella
volta da piccola. Venne fuori solo un suono strozzato e quasi
inaudibile:
"Mor..."
"Come ti viene in mente?" disse Sui nervosamente, la-
sciandomi i piedi. Ma anche se non mi toccava, i suoi pen-
sieri continuavano ad arrivarmi.
Per che cosa sono nata?
Solo per ritrovarmi in queste condizioni?
Con Otohiko Š finita.
Finita. C'Š voluto tanto tempo.
La sua mente confusa e frantumata come un mosaico era
rivolta verso una sola parola: morte, e si stava concentrando
intorno a essa. Con un'energia incredibile, in assoluto si-
lenzio.
"Non puoi farlo, neanche per scherzo. Pensa a quest'e-
state. Ne valeva la pena, no? Ti ricordi le risate? Eppure,
anche se abbiamo riso e pianto tante volte dimenticandoci
di tutto il resto, se tu muori, presto anch'io finir• col dimen-
ticare. Non ti sembra un peccato?"
Cercavo di trattenerla sotto un fuoco di fila di parole
che ricaricavo freneticamente. Ma in contrasto con questa
velocit mentale il mio corpo era progressivamente pataliz-
zato e non faceva da tramite. Riuscii solo a balbettare:
"Non... Quest'... Se muo..."
Tutt'a un tratto Sui si alz•, mi guard• un attimo e poi si
diresse verso la porta. Fu allora che capii davvero. La certez-
za mi colpć, con la chiarezza del cristallo, con il bagliore del
fulmine.
"Questa Š l'ultima volta che la vedo," pensai.
La sua figura di spalle ricordava un giglio. Peccato non
averglielo detto, poco prima: Š vero, ti somigliano.
In quel momento, Sui si volt• verso di me.
"Cosa? Giglio?" chiese. "Hai detto giglio?"
Non so come riuscii a farlo. Sentii un dolore come se
avessi strappato di colpo il mio corpo dal pavimento a cui
sembrava attaccato con la colla.
Lentamente, a fatica, riuscii a sollevarmi. Ormai non
avevo quasi pi coscienza. Era come se solo il mio spirito si
fosse sollevato, chiaramente, proprio come quando l'anima si
stacca dal corpo (non che l'abbia mai sperimentata diretta-
mente, per•).
Chiusi gli occhi. Ma percepivo lo stesso che Sui, sempre
ferma in piedi nella stessa posizione, mi guardava.
"Incredibile. Sembra una scena di Attrazione fatale,"
disse. "Come sei riuscita a sollevarti?"
Credo che sia stato perch‚ il medicinale non era ancora
co pletamente entrato in circolo. Da sempre i medicinali
hanno difficolt a fare effetto su di me. Intanto, sentivo
qualcosa pulsare forte all'interno del mio corpo. Qualcosa di
prepotente, una specie di interrogativo che era stato sempre
assopito dentro il mio corpo sin da bambina, le tante cose
che avevo pensato giorno e notte dopo la morte di Shóji, la
sua immagine che continuava a riapparirmi con insistenza
da quando avevo incontrato Sui, le sensazioni che provavo
per lei, i visi sorridenti di Saki e Otohiko, il senso di rim-
pianto per la fine di quella estate. La tristezza di esistere
che avevo sempre avvertito in Sui, che era anche la mia stes-
sa tristezza, la strana, inesplicabile irritazione che mi dava.
Il sole forte, abbagliante, del primo giorno che ci eravamo
incontrate. La superficie del laghetto che scintillava. La sua
mano, la sensazione della sua mano che mi stringeva. Il fru-
scio dei suoi capelli nel vento. L'estate, l'estate con Sui, il
colore dello spazio che era sempre presente con la sua vibra-
zione, il luogo verso il quale la sua esistenza era rivolta.
Una sensazione di inconsolabile rimpianto per tutte que-
ste cose.
"Che peccato!" credo di aver detto. O forse non ce la fe-
ci a dirlo. Ma Sui capt• chiaramente il messaggio. Aprendo
gli occhi a fatica mi accorsi dalla sua espressione che Sui
aveva recepito l'energia del mio pensiero.
"Sć, forse Š un peccato," disse.
Poi si tolse di nuovo le scarpe, venne accanto a me, mi
abbracci• e mi baci• sulle labbra.
Dur• solo un attimo, ma fu un bacio intenso.
Negli ultimi barlumi della mia coscienza, affior• vago il
pensiero: 'Non mi ero mai data un bacio come questo con
una donna'. Come se avesse sentito, Sui disse rid‚ndo:
"Con questo ho battuto ogni record!"
Mi addormentai.




Mi svegliai con qualcuno che mi scuoteva con forza.
Nello stesso istante, avvertii un dolore terribile alla testa.
Cosć forte da farmi pensare seriamente di essere stata colpi-
ta da qualcosa. Era un dolore lancinante. Avevo la bocca
completamente riarsa.
"Cosa ... ?,, balbettai.
"Che diavolo hai bevuto?"
Era Otohiko. Sembrava pronto a portarmi all'ospedale
issata sulle sue spalle.
"Sta' tranquillo," dissi scuotendo la testa. Poi, colta da
un'altra fitta di dolore, feci una smorfia. "Mi fa male la
testa. "
"Vuoi un po' d'acqua?"
Feci cenno di sć. Otohiko and• a prenderla. Dopo aver
mandato gi avidamente quell'acqua un po' tiepida, final-
mente mi resi conto che non mi trovavo a casa mia.
Di colpo mi ricordai tutto.
`E Sui?" chiesi.
"Scomparsa," disse Otohiko. Dal viso sembrava sul
punto di piangere. "Non c'Š. Ho capito, Š successo qual-
cosa?"
Con sforzo riuscii ad alzarmi. Tutto era esattamente co-
me prima: la cesta sulla terrazza, i miei pantaloni stesi ad
asciugare, i piatti della cena, la finestra spalancata. Solo che
Sui non c'era pi. Fui assalita da un senso di sconforto. Co-
me dopo un abbandono, come alla fine di un matsuti, ero co-
sć desolata che non avevo nemmeno la forza di piangere.
Penso che fosse anche per via delle mie condizioni fisiche.
Bastava che muovessi appena la testa che il dolore correva,
propagandosi per tutto il corpo.
"Che ore sono?"
'Le due del mattino."
"Io sono arrivata qui verso sera. Sui era molto gi e mi
ha detto di essere incinta. Lo sapevi?" chiesi.
Quando inizi• a parlare, fu come il rompersi di una diga.
"Mi aveva detto che esisteva questa possibilit. Aveva
aggiunto che era impossibile tenerlo. Abbiamo deciso di
parlarne al mio ritorno. Per•, visto che tutti e due eravamo
arrivati a un vicolo cieco, ho capito anche che se da lć a poco
fosse successo qualcosa di grosso, non ce l'avremmo fatta a
reggere. Anche lei lo sapeva bene. Anzi, Š un miracolo che si
sia tirato avanti finora, penso. Non avevo paura di sentirmi
dire che voleva tenerlo, ma non mi sembrava che avesse
questa intenzione. Comunque non siamo riusciti a prendere
nessuna decisione. Ci siamo salutati con quello che sembra-
va un discorso di addio, e io sono partito."
'Per il campeggio?"
Stavolta il dolore alla testa mi impedć di ridere.
"Avevo bisogno di stare un po' all'aria aperta. "
"Hmm... ma scusa, voi non usavate qualcosa?" chiesi.
"Come -no. Sui prendeva la pillola. "
"Se Š cosć, Š anche possibile che abbia fatto apposta a
non prenderla, o che se ne sia solo dimenticata."
"Forse non sapeva pi nemmeno lei che fare. E cosć pu•
darsi che inconsciamente abbia fatto in modo di dimenticar-
si di prenderla," disse Otohiko, le mani intrecciate con for-
za appoggiate sulle ginocchia. Oltre a noi non c'era che la
notte, troppo silenziosa, e l'atmosfera desolata di un cimite-
ro. Le rovine di un sogno.
"Mi dai un altro po' d'acqua? Ahi ahi ahi che male..."
Feci un'altra smorfia di dolore.
Mentre mi passava il bicchiere Otohiko disse:
"Ma come ha potuto fare una cosa cosć orribile? Darti da
bere dei sonniferi? A che scopo?" disse Otohiko con una
sfumatura di rabbia nella voce che mi fece capire quanta
tensione si fosse accumulata in lui.
"Sui volev morire," dissi io.
"Me lo sentivo. Avevo il brutto presentimento che aves-
se preso questa decisione. Per questo sono tornato prima.
Ma non abbastanza. Non siamo mai arrivati a parlare espli-
citamente di ucciderci insieme, ma Š quello che tutti e due
abbiamo avuto in mente per tanto tempo. Forse visto dal di
fuori sembrer una follia, ma ormai eravamo ossessionati da
questa idea, non so neanche pi da quanto tempo. Ma anche
se fosse cosć, non riesco assolutamente a capire come mai ab-
bia potuto fare una cosa simile proprio a te che sei quella a
cui tiene di pi.
Sembrava sconvolto. Io avevo la sensazione di intuire la
ragione. Aveva deciso sul serio, veramente sul serio, di mo-
rire, e sapeva che se non l'avesse fatto prima del ritorno di
Otohiko, poi sarebbe stato impossibile. Desiderando veder-
mi mi aveva chiamata, ma non voleva che io potessi intuire
il suo piano. Per• l'avermi lć doveva averla confusa ancora
di pi, e pu• darsi che in quello stato di confusione fosse ar-
rivata persino a pensare di uccidermi. Ma non l'aveva fatto.
Aveva scelto una via intermedia.
"Ma l'ho fermata. Con tutte le mie forze, ce l'ho messa
tutta," dissi.
"Spero che tu ci sia riuscita," fece lui, con uno sguardo
che sembrava pregare.
"Non lo so, purtroppo."
"Ci sono speranze. La macchina non c'Š. Mancano an-
che il suo libretto di banca e vari effetti personali."
"Ah sć?"
Non riuscivo a pensare bene. Notai la gonna che mi ave-
va prestato. Era tutta sgualcita. Mi diede la percezione del
tempo che era passato da quando Sui era ancora lć. Poi notai
i segni. Nelle ombre degli scaffali dei libri, dietro le tende
che fluttuavano, sotto il tavolo. Nella casa abbandonata da
Sui queste piccole zone di oscurit apparivano diverse, un
po' arretrate rispetto alla realt.
"Forse c'era davvero una maledizione, come diceva
Sui, dissi.
Cominci• a piovere. Da fuori la finestra giungeva il suo-
no triste e lieve della pioggia. Quei segni tetri che ci visita-
vano confondendosi con la notte, avanzavano nell'aria come
una marea, e assistevano freddamente al nostro dibatterci
con il corpo. L'ombra della morte. Un senso di impotenza
che ti assaliva se distoglievi lo sguardo, un senso di aridit
che ti risucchiava se provavi ad allentare la difesa.
"Se ci fosse materialmente non posso dirlo. Ma a livello
di atmosfera c'era, io penso. Qualunque cosa facessimo, se
eravamo noi due insieme, sembrava inutile. C'era sempre
un senso di, come dire? non di degradazione ma... di abbat-
timento, di mancanza di energia. Sai, quella sensazione che
ti fa dire: 'Visto che ci amiamo, cerchiamo di essere felici, in
qualche modo ce la faremo', noi non l'abbiamo provata mai,
nemmeno una volta. Non era anche questo la maledizione?"
"Come adesso,"in questa stanza?" chiesi.
"Sć. Ti impedisce di muoverti. Ma non c'era solo questo,
c'era anche qualcosa di buono, come un prato di fiori. Per-
ci• abbiamo continuato. Avevamo anche una nostra forza."
"Lo credo. Si vedeva che c'era."
"Senti che pioggia!"
"Sć, piove forte adesso. Fa anche un po' freddo."
Piano piano il languore della pioggia notturna penetr•
nella stanza. Il rumore della pioggia scandiva un ritmo ma-
linconico. I vetri a poco a poco si ricoprirono di gocce. Die-
tro la finestra, le luci pallide e fredde dei lampioni. Si aveva
l'impressione che dentro la casa il grado di oscurit fosse au-
mentato. Qui non si pu• pi stare, pensai. Anche se faccio
una dannata fatica a muovermi, se restiamo qui io e lui fare-
mo una brutta fine. Ci im-
pregneremo di tutta la desolazione
di cui Š piena questa casa. E' pericoloso
!sai, sento addosso una stanchezza incredibile. Come
se fossi stato ributtato sulla riva dalle onde. Una sensazione
stranissima.
"Ma intanto usciamo di qui. E meglio," dissi, sentendo
che mi veniva da piangere. Ero a terra. Ero cosć oppressa da
qualcosa di cupo che vivere mi sembrava insopportabile.
"Andiamo," ripetei ancora una volta.
Otohiko si alz• in silenzio.
"Senti, io torno col taxi. Mi accompagni a prenderlo?"
dissi.
Mentre salivo in taxi, chiesi:
"Hai intenzione di tornare lć?"
Non avevamo l'ombrello, perci• eravamo tutti e due ba-
gnati. Otohiko disse:
"No, non ci torno".
Fui sollevata. Non potevo lasciarlo lć da solo.
"Prover• a cercare in alcuni posti che conosco, i locali
dove va di solito, quello dove lavora.
'Vuoi aiuto?"
"Non nelle condizioni in cui sei adesso. Da domani pu•
darsi che ti chieder• di aiutarmi. Mi far• sentire io," disse, e
chiuse la portiera. Agitai la mano per salutarlo, e lui fece lo
stesso. Poi scomparve nella curva della notte. Inghiottito
dall'oscurit. Cancellato dal rumore della pioggia.
Di dove fosse Sui non avevo nessuna idea. N‚ Otohiko




n‚ lui n‚ Saki si fecero sentire. Diverse volte sognai che Sui era
morta. Ogni volta mi svegliavo di colpo, il corpo irrigidito,
ricoperta di sudore. Poi, non riuscendo a riprendere sonno,
scendevo a comprare il giornale e lo leggevo rigo per rigo.
Seguivo tutti i notiziari alla tiv col cuore in gola.
Ma senza trovare niente su di lei.
Passarono cosć tre, quattro giorni, e Sui cominci• ad al-
lontanarsi in un modo sorprendente. Io stessa ero sbigottita
dalla mia indifferenza. Si era prodotto in me un senso di di-
stacco nei confronti di lei, degli altri due, di tutte le sensa-
zioni che avevo vissuto in quel periodo, come se niente di
tutto quello fosse realmente esistito.
Mi ero liberata dall'incantesimo?
Sembrava che fosse stato tutto un sogno. Non era stato
un brutto sogno. Come da bambina, non vedevo l'ora che
arrivasse l'indomani, e dentro quel sogno mi sembrava di
aver fatto tutto quello che potevo. E dato che ormai non
c'era pi niente che potessi fare, cercavo di non pensare.
Perch‚ se pensavo venivo presa da un senso di esasperazione
insopportabile.
Il quinto giorno ci fu una telefonata da Saki. Dormivo
ancora, ma grazie ai riflessi che avevo sviluppato in quel pe-
riodo, afferrai il ricevitore con incredibile rapidit.
"Pronto."
"Sono io, Saki.
"Buon mattino."
"Veramente Š mezzogiorno passato. Ascolta, mi trovo
all'aeroporto," disse Saki.
Infatti dall'altro capo del telefono arrivava l'inconfondi-
bile brusio dell'aeroporto : il brusio eccitante, non privo di
tensione, di un aeroporto in pieno giorno.
"Dove vai?"
"A trovare un amico a New York. Ho pensato che ho
ancora un sacco di libri da comprare per la mia tesi."
"Ma come mai cosć all'improvviso?" chiesi.
"Da quando lei se ne Š andata, Otohiko sta sempre a ca-
sa, terribilmente depresso, e io non ce la faccio pi. Sai, quel
che Š troppo..."
"Che sorella!
"Se la pensi cosć, vacci tu a stare con lui," disse Saki ri-
dendo. Poi continu•: "No, il fatto Š che io e Otohiko siamo
arrivati a un punto morto. Non per il fatto che lei se ne Š an-
data, non solo per quello, ma Š che qualcosa tra noi Š finito,
completamente. E ora che non devo pi sforzarmi di conser-
vare a tutti i costi qualcosa come prima, mi sento meglio. E
anzich‚ rattristarmi per questo, mi chiedo se non sia meglio,
come farebbe un qualunque giovane giapponese sano, ralle-
grarsi che almeno per un po' le cose siano diventate pi faci-
li. Pensare che si pu• anche essere felici. Viaggiare, vedere
dei paesaggi, incontrare vecchi amici. Non te lo so spiegare
bene, ma Š quello che sento. E poi, se do retta al mio intui-
to, credo che Sui sia viva. Credo che purch‚ si tenga lontana
da Otohiko, non c'Š pericolo che muoia."
"Forse hai ragione."
"Io ho questa sensazione. Non sento che sia morta...
Senti, grazie ancora di tutto. Sei stata un'amica.
"Ehi, finiscila. Torni presto, no?"
Sembrava un saluto d'addio.
"Certo, per la fine delle vacanze. Cosć torneremo a gio-
care alla scuola," disse Saki.
L'amica di un'estate, calma, determinata, gentile, che
non capivo fino in fondo, ma a cui avevo voluto bene sin dal
primo momento.
"Allora, a quest'autunno.
"Ciao, a presto."
"Mi raccomando."
Riattaccato il telefono, nella mia testa la scena dell'aero-
porto si spense.
Magari non torner pi, mi dissi. Ma no, che vado a
pensare? La rivedr• quest'autunno.
A differenza di lei, di lei.
E su questo pensiero mi si arrest• il cuore.






Cara Kazami,
come stai?
Io sto bene e sto per entrare nelquarto mese di gravi-
danza.
Stai tranquilla, c'Š anche il pap (il futuro pap). CioŠ
un uomo di buona volont che desidera sposarmi.
Ma andiamo per ordine. Davanti a me c'era una serie di
possibili scelte:
Abortire e restare con Otohiko.
Abortire e separarmi da Otohiko.
Abortire e sposarmi con quest'uomo.
Non abortire e sposarmi con quest'uomo.
Suicidarmi.
Suicidarmi insieme a Otohiko.
Tenere il bambino e restare con Otohiko era impensabi-
le. L'ho capito con molta sofferenza. Una sofferenza cosć
forte che sono stata lć lć per dare fuori di testa. Scomparire
senza lasciare traccia mi sembrava pi nel mio stile, e se
avessi seguito fino in fondo il mio senso drammatico l'avrei
anche fatto, ma dopo che si erano interrotte le mestruazio-
ni, dopo essere tornata in Giappone e aver cominciato a vi-
vere da sola, non avevo n‚ i soldi n‚ l'energia per permetter-
mi una scelta cosć stravagante.
Mi chiedo se non fosse il mondo dei racconti, in cui ho
sempre creduto da quando sono nata fino ad ora, a volere la
mia morte. Io ho una madre che Š scomparsa. Ho sempre
pensato che la morte sia meglio della scomparsa perch‚ non
ti costringe a vivere con la speranza.
Io volevo ' morire. Da tanto tempo. Questo Š assoluta-
mente, assolutissimamente vero.
Forse non ci crederai ma per me il matrimonio o morire
con la persona'che amavo erano sullo stesso piano, erano
due soluzioni cosć equivalenti che era impossibile scegliere.,
Per•, quando la tendenza che avevo avuto sin dall'inizio Š
arrivata fino a questo punto, ho incontrato lui.
Pensavo di essere destinata a morire giovane. Ne ero
convinta sin da bambina. Questa convinzione era la mia ma-
ledizione. Non so quali siano quelle degli altri. Per quanto
uno possa essere forte, ognuno porta con s‚ una cosa del ge-
nere. Qualcosa che Š la disgrazia di quella persona. Penso
che questo sia scritto nel libro di mio padre. Per esempio,
nel suo caso, la tendenza per cui, incontrando una ragazza
carina, una giapponese che sembrava passarsela male in un
paese straniero, ci andava a letto anche se poteva avere l'et
di sua figlia (e poi scopriva, per colmo di sfortuna, che era
proprio sua figlia). Per cui Otohiko, per quanto innamorato,
Š stato sempre pessimista. Per cui Shóji, pur stando con una
ragazza di liceo che faceva scintille, non aveva nessuna spe-
ranza nella vita.
Naturalmente, la cosa non Š cosć semplice da poterla li-
quidare con queste parole. Non Š una questione di bene o
male. Ho la sensazione che questa tendenza affondi le sue
radici nella profondit di ogni individuo, e che arrivi a ma-
nifestarsi con il volto del genio o sotto il -nome di difetto.
Affonda in profondit le sue radici, circola nel corpo di
quella persona insieme al suo sangue e la fa comportare "da
quella persona". Se la vita non fosse cosć, se noi non fossimo
stati quello che siamo, da molto tempo avremmo gi celebra-
to una piccola cerimonia in una graziosa chiesetta della bella
citt di Boston e vivremmo tranquilli e a testa alta. Ma an-
che questo sarebbe stato un romanzo, e noi abbiamo finito
con l'andare verso la separazione, non solo perch‚ siamo fra-
telli, ma anche perch‚ abbiamo preso la strada accidentata
che seguono le coppie normali. Perch‚ noi eravamo noi.
Scusa lo sproloquio, ma ho la sensazione che tu possa ca-
pirmi. Il fatto di aver scritto a Otohiko una lettera breve
(volevo andarmene nel modo pi elegante) mi ha lasciato un
po' di frustrazione.
In ogni caso, le circostanze indicavano chiaramente la
morte, la tendenza era gi presente, la fiducia di farcela a
continuare a vivere l'avevo persa, e arrivata a quel punto
sentivo una specie di nausea. Dopo aver scritto le possibilit
sulla carta mi sono chiesta quale sarebbe stata quella a cui
chiunque avrebbe pensato tranne me. Ed Š questa. Ho la
sensazione di aver aggirato il destino.
Ma dopo aver preso la mia decisione, mi Š mancata l'e-
nergia per metterla in pratica. Quando sei venuta, non ho
avuto neanche la forza di discuterne, ma mi Š venuto in
mente di uccidermi insieme a te. A te naturalmente ti avrei
fatto solo addormentare. Ero cosć sola e confusa che mi era
venuto il pensiero che se fossi morta accanto a te mi sarei
sentita meno sola. Per• la mano mi tremava tanto che ho fi-
nito col metterti pi sonniferi di quanto era necessario, an-
che se non in quantit tale da farti morire. Cosć quello che Š
rimasto non bastava pi per uccidermi. Dato che c'Š uno
che conosco che me ne avrebbe dati altri, volevo andare a
prenderli mentre tu dormivi. Ormai non c'era pi tempo da
perdere. E' stato allora che tu hai fatto quella scena in stile
zombi. Con gli occhi semichiusi e la voce alterata facevi ve-
ramente paura. Per• mi hai toccato il cuore. Detto cosć sem-
bra banale, ma Š la verit. Sono rimasta qualche attimo die-
tro la porta a piangere, poi sono rientrata in casa. Tu dormi-
vi profondamente. Il tuo viso addormentato, come quello di
una morta, era cosć bello. Allora ho messo insieme le cose
pi indispensabili, ti ho detto 'buonanotte' e sono uscita da
quella casa per sempre. Non ti preoccupare, l'affitto Š pa-
gato.
Tra pochi giorni ci sposeremo. Lui era un cliente del lo-
cale, sta bene a soldi, e a parte questo Š una persona vera-
mente a posto. E tutto vero, puoi stare tranquilla. Di et Š
pi grande di me, e nell'insieme corrisponde al mio tipo di
uomo molto pi di Otohiko.
Avr• questo bambino.
Dato che hanno lo stesso gruppo sanguigno, penso che
non sar• scoperta.
Ho imparato che la nausea al mattino Š pi dolce delle
botte di mia madre.
Come sai, Š un figlio di consanguinei.
Certo, se nascesse con tre occhi,
con una gambetta sola,
o, per disgrazia, con sei ditini a una mano, o con qualche
altro difetto ancora pi grave, sarebbe veramente un bel
guaio, ma caso mai ci penser• al momento. Meglio non dirlo
ad alta voce, ma si fa sempre in tempo a ucciderlo. Anche
pi in l.
Da quando ti ho conosciuto, penso spesso a te.
A te che sei stata il mio angelo custode.
E' dura. Nel piccolo mondo degli strani sogni che mi so-
no sempre sforzata di sognare, la tua esistenza Š entrata con
un impatto irresistibile,
alla stessa incredibile velocit con cui si Š sciolto il gelato
che mi hai offerto nel parco, sotto il sole, la prima volta che
ci siamo incontrate,
come quando da bambini, a casa di amici si Š fatto qual-
cosa di male e il viso dei genitori ci arriva in rapidi fla-
shback,
come quando vai fuori con un ragazzo che non ti piace, e
inaspettatamente ti viene in mente il ragazzo che invece ti
piace, e diventi triste.
Sono stata cosć bene con te. Sicuramente tu continuerai
a vivere cosć. E' una vita interessante. A un certo punto ho
pensato che se avessi potuto studiarti a lungo, se avessi os-
servato bene le tue imperfezioni, l'allegria, le goffaggini, l'o-
nest, le tristezze, il modo di fare, in qualche modo anche io
avrei imparato ad amare un po' di pi me stessa. E anche gli
altri. Ho avuto l'impressione che per la prima volta il mon-
do sia penetrato dentro di me cosć com'Š. In modo sconvol-
gente.
E poi la tua immagine, le tue risposte alle mie domande,
e soprattutto il fatto di avermi dato la sensazione che potes-
se esserci una via d'uscita, semplicemente nel vedere riflesso
il tuo colore in tutte le cose che gli occhi registrano normal-
mente: il sole, le strade', le automobili, i fiori ai lati delle vie,
le finestre dei palazzi. Nel fatto che le persone che cammi-
nano per la strada abbiano due occhi, un naso, una bocca.
Ma la cosa che in questo momento per me ti rassomiglia
di pi, Š una cassetta della posta. Le cassette della posta so-
no dappertutto, ma quando le cerchi, Š difficile vederne
una. Le trovi invece all'improvviso in certi angoli di strada
solitari. Nei giorni di sereno, nei giorni di pioggia, di notte,
le cassette della posta sono su tutta la terra, come la luna che
dal cielo notturno si riflette su qualunque specchio d'acqua.
Anche qui dove vivo io adesso.
In quella notte di pioggia, soffrendo per il distacco come
un cavallino che sta per essere venduto, e pensando con no-
stalgia all'estate che avevo passato con Otohiko e con te, mi
sentivo risospingere indietro, cosć per non farmi vincere dal
desiderio di tornare, guidando mi concentravo pensando so-
lo alla cassetta della posta. Con tanto fervore che ci manc•
poco che si materializzasse lć accanto.
A telefonare non ci ho pensato nemmeno. Prima di tutto
non sarei riuscita a spiegarmi bene, e una volta riattaccato
sarei sprofondata in un baratro. Dal posto dove mi trovo
adesso c'Š una sola strada che porta fino a te e a Otohiko. La
cassetta della posta Š il simbolo di questa strada. E cassetta
della posta vuol dire lettera. Questa.
Vado a imbucarla.
Crescer• il figlio di Otohiko. Credo che,ce la metter•
tutta. E se tutto va bene un giorno andr all'asilo, poi diven-
ter maggiorenne e cosć via. Mi piacerebbe che fosse una
femmina. Saki continuer la sua ricerca. Otohiko ritrover
finalmente la pace.
E io ogni volta che vedr• una cassetta della posta mi ri-
corder• di te, per tutta la vita.
Tutte cose che andranno avanti.
Credo che forse non ci rivedremo pi.
Abbi cura di te.
Per•, chiss un giorno...
sui




Era cominciato settembre.
Avevo passato la notte a lavorare a una traduzione che
mi era arrivata all'improvviso, e verso l'alba ero crollata nel
sonno. Mi ero svegliata che era primo pomeriggio con una
forte voglia di bere una cocacola. Scesi a comprarne una alla
macchinetta automatica sotto casa, la bevvi e feci due passi.
Al ritorno, diedi un'occhiata alla posta che negli ultimi gior-
ni non avevo guardato, e trovai questa lettera. Tornai sopra,
mi stesi sul letto e bevendo una birra la lessi.
Era una bella lettera.
Finito di leggere chiusi gli occhi e rimasi per un po' cosć,
con la lettera fra le mani. La luce che entrava dalla tenda era
rossa dietro le palpebre, come quando si sta al mare in
estate.
Mi sembrava di stare sulla spiaggia, sotto i raggi del sole,
col viso carezzato da un vento caldo, a sentire il rumore del-
le onde. Cosć mi addormentai di nuovo.
Intorno l'estate ancora indugiava.
Quando mi svegliai era gi il tramonto e il sole aveva
una luce dorata. Il cielo prima della sera era identico a quel-
lo dell'alba. Solo che i colori si disponevano e scurivano se-
condo l'ordine esattamente contrario.
Essendomi liberata di colpo della tensione di tutti quei
giorni mi sentivo svuotata. Piacevolmente svuotata. Devo
fare qualcosa, pensai. Capii subito cosa. Devo andare da
qualche parte, anche senza arrivare lontano come ha fatto
Saki. Ormai ero libera, non dovevo pi stare lć ad aspettare
che arrivassero cattive notizie o un'improvvisa visita di Sui.
E poi finch‚ era ancora estate era un peccato non andare al
mare.
Feci i bagagli in modo che mi potessero bastare per alcu-
ni giorni. Poi ci ficcai dentro anche la scatoletta di legno che
da tempo pensavo avrei voluto seppellire da qualche parte.
Se anche Sui fosse morta, questa e la gonna che mi aveva
prestato quel giorno mi sarebbero rimaste come ricordo.
Avevo corso il pericolo di diventare una collezionista di ri-
cordi dei defunti. Ma per fortuna era andata diversamente.
Pensai ai miei pantaloni, probabilmente ancora stesi a casa
di Sui. Mi diede una strana sensazione, triste e comica allo
stesso tempo. Fra qualche mese avrebbero seguito il destino
della roba di Sui.
Quando misi nel borsone la scatola con l'osso di Shóji,
fece un piccolo rumore, che mi risuon• per qualche istante
nelle orecchie con nostalgia, come il suono del mare lonta-
no. Ricordai la sensazione della sua spalla, quando in mac-
china mi appoggiavo a lui mentre guidava. Non ricordai il
viso, solo la spalla e le mani che stringevano il volante. Men-
tre infilavo la scatola, pensai: Š cosć che si diventa quando si
muore.
Meno male che Sui non era morta.
Uscii di casa dopo aver fatto la doccia, con i capelli anco-
ra umidi. La luce del tardo pomeriggio, che gi portava con
s‚ il profumo della sera, brillava trasparente sulla citt. Le
piante che sporgevano dai balconi proiettavano sulle strade
le loro ombre leggere.
Di colpo mi torn• in mente quel giorno verso la met
dell'estate, quando ero stata per la prima volta a casa di Sa-
ki. Sembrava un tempo incredibilmente lontano. Ricordai la
pace che c'era. E all'improvviso mi salt• in mente l'idea di
fare un salto da Otohiko. Mi dispiaceva per lui, ora che non
c'era pi nessuno. La lettera, probabilmente di tono pi
brusco di quella che avevo ricevuto io, ormai doveva essergli
arrivata, e forse avrebbe provato a telefonarmi. Tutta presa
dall'idea di partire, mi ero completamente dimenticata di
lui. Non avevo portato con me la lettera di Sui. Ma in ogni
caso mi sembrava pi corretto verso di lei non fargliela leg-
gere.
Arrivata a casa sua, suonai il campanello. Subito appar-
ve la faccia di Otohiko.
"Ciao," dissi.
"Vieni, entra," mi invit•.
Di colpo sentii per lui un'incredibile nostalgia e familia-
rit. Al punto da pensare: chiss se Š questo che si prova
quando si rivede un compagno di guerra. Come spiegare?
era un sentimento in cui si mescolavano la soddisfazione di
dire: beh, anche se siamo stati insieme solo per poco, siamo
riusciti a fare qualcosa, e l'amarezza di aver perduto qualco-.
sa per sempre. Era triste vedere quell'estate, in cui ogni
giorno era stato cosć intenso, finire come l'estate dei diciot-
to anni. Entrai in casa.
"Saki non c'Š. E' partita per un viaggio," disse Otohiko
mentre preparava il caffŠ.
"Lo so. Mi ha telefonato," dissi.
Vedere lo spazio lasciato vuoto da Saki, mi trasmise di
nuovo un senso di inquietudine.
"Ho avuto notizie di Sui," disse. "Anche tu?"
Feci di sć con la testa.
"La cosa pi importante Š che sia viva. Davvero," disse
lui, ma aveva un'aria molto abbattuta.
"Lo penso anch'io," dissi.
Chiss fino a che punto la lettera Š stata esplicita, pen-
sai. Per paura non dissi niente. Era ugualmente possibile
che Sui avesse scritto un mucchio di bugie o solo la pura ve-
rit. Qualunque fosse il caso, ora che Sui aveva deciso, a lui
non restava pi niente da fare. A parte ricominciare da capo
con grande sforzo a cercarla, risalendo dal timbro postale,
solo questa volta senza la paura di trovare un cadavere.
Capii che se aveva quella faccia avvilita era forse perch‚
aveva rinunciato a farlo.
Mi accorsi che un vento tiepido, entrando dalla porta la-
sciata aperta, si mischiava con l'aria fredda del condiziona-
tore.
"Cos'Š quella grande borsa?" chiese Otohiko con voce
cupa.
"Vado un po' fuori.
"Anche tu, Bruto, figlio mio! E dove? Da sola?"
"Hnim," dissi soltanto, sentendomi chiss perch‚ un po'
in colpa.
"Per quanto tempo?"
"Non ho deciso," dissi.
"Senti, io potrei guidare. Fammi venire con te.
Lo guardai perplessa.
"Improvvisamente mi Š venuta invidia per te. Non ho
strane intenzioni, stai tranquilla, non ne avrei la forza. Non
mi va di restare qui. E' meglio stare in due che da solo. E poi
ci sono diverse cose in cui potrei esserti utile."
Pensai. Non potevo proporgli di fare un viaggio per con-
to suo. Sembrava che un pensiero del genere non gli sfioras-
se nemmeno la mente. Era troppo abbattuto e depresso, co-
m'era nel suo carattere.
"Mah, magari per stasera. E domani ognuno va per la
sua strada?" proposi.
"Va bene. Vuol dire che domani vado a trovare un mio
amico a Yokohama. "
"Ottimo. Io pensavo proprio di andare dalle parti di Ka-
nagawa. "
"Se c'Š l'occasione di partire, bisogna coglierla al volo.
Anche perch‚ da solo io non prendo iniziative. Ti sono gra-
to, " disse e, per la prima volta quel giorno, sorrise.
Aspettai che Otohiko si preparasse, e poi uscimmo. Per
prima cosa andammo a noleggiare un'auto.
"Che ne dici di fare un po' di spesa e poi mangiare sulla
spiaggia?"
"Grande! Facciamo anche un fuoco."
Cominciavo a sentirmi pian piano pi serena. Dopo tan-
to tempo.
Prendemmo l'autostrada, diretti al mare. La vibrazione
costante della strada sotto le ruote, il suono del campanello
ogni volta che superavamo la velocit consentita, le strade e
i palazzi che sfrecciavano via e l'azzurro del cielo che si dis-
solveva. Una mezza luna ancora pallida e la dolce luce bian-
ca di Venere.
Avevo la sensazione che tutte le cose accadute in quel
periodo fossero contenute in quel paesaggio che passava dal
tramonto alla sera, dalla citt al mare. A volte accade.
Che la mente copra con un velo la bellezza delle cose vi-
ste. Ma tutte quelle cose cosć completamente avvolte nella
mente, dalle pi dense alle pi rarefatte, entravano nel pae-
saggio, nel cielo sconfinato, nel movimento delle sfere cele-
sti, in tutto quello che vedevamo correre verso di noi.
"Ormai non torner pi
:, Forse no," ammisi.
'Mi sento strano, come se il mio corpo fosse diventato
pi leggero, e io stessi per dissolvermi."
"Quanti anni sono passati? Da quando vi siete incon-
trati?"
" Saranno sei anni, credo. O pi? Sai, ho proprio bisogno
di riposare un po'. Non riesco nemmeno a ricordare esatta-
mente cosa ho fatto in tutto questo tempo," disse, conti-
nuando a guardare dritto davanti a s‚.
"In questo periodo l'hai cercata?"
"Se l'ho cercata? Tutti i giorni, come un detective. Sen-
za mai dormire una volta come si deve. Quando Š arrivata la
lettera, per prima cosa sono scoppiato a piangere come un
disperato. "
"Credevi che fosse morta?"
"Non lo so, credevo fosse scomparsa, ma siccome erava-
mo tutti e due piuttosto a terra, ho avuto paura anche di
quello. Di giorno la cercavo, e passavo la notte a casa sua ad
aspettare, telefonando ogni ora a casa mia per controllare la
segreteria telefonica."
"E' stata dura, eh."
"Nonostante non lo facesse pesare, anche lei ha sofferto
molto. E' una fortuna che sia viva. Penso che abbia scelto la
soluzione migliore."
"E un bene che tu la prenda cosć," dissi.
"Per•, se tu non fossi venuta oggi, stasera forse mi sarei
ucciso. No, scherzavo. Ma sai, dopo quella lettera mi senti-
vo talmente svuotato."
Forse non scherzava, pensai per un attimo.
, credo," disse Otohiko.




"Saranno anni che non faccio un fuoco sulla spiaggia,"
disse Otohiko, che un po' pi lontano stava raccogliendo dei
pezzi di legno. Le cose che avevamo comprato erano sparse
sulla sabbia: il vino, il pollo fritto e dei fuochi d'artificio.
Lungo la costa era gi buio e appena lui si allontanava un
po' di pi veniva inghiottito dall'oscurit.
Nella brezza salata guardavo il mare. il mare vero.
Cento volte pi grande di come l'avevo immaginato, di
come lo avevo sognato, pronto a risucchiarmi. Il rumore del-
le onde risuonava con ostinazione, Venere e la luna ci aveva-
no seguito fin li ed erano sospese nell'aria.
"Sono sicura che sei stato nei boyscout.
"Si pu• sapere perch‚?"
Era molto abile nel disporre i legni per il fuoco.
"Cosć. Mi sembri il tipo," dissi.
"Mi dovrei offendere. No, Š perch‚ una volta ho vissuto
su una spiaggia."
"Quando?"
Il suo atteggiamento, che fino a poco prima era stato
spento e contrariato, di qualunque cosa si parlasse, da quan-
do eravamo arrivati sulla spiaggia, era diventato finalmente
sciolto. Anche se in macchina si era limitato a guidare in si-
lenzio, la sua cupezza interiore si era gradualmente trasmes-
sa anche a me. Deve essere veramente stanco, pensai. E per
quanto io potessi comprenderlo non era facile per me divi-
dere un peso che lui aveva avuto per anni. Mi ricordai di
quella volta a casa di Saki quando, scesa la sera, si era alzato
per andare da Sui. Rividi la sua figura di spalle che si allon-
tanava. Pensai a quanto profondamente doveva avere inciso
nei suoi sentimenti ripetere quest'azione giorno dopo giorno
per tanto tempo come la cosa pi naturale. Adesso sembrava
perso, senza centro.
'E' stato poco tempo dopo la morte di mio padre quando
mia madre si Š ammalata, e volevamo farla guarire. Noi tre
accendevamo spesso sulla spiaggia un fal• o i fuochi d'artifi-
cio, e poi ho molti amici tra la gente di mare. E' cosć che ho
imparato. "
"Era bello?"
"Non mi ricordo bene. Per• mi pare che vivendo sul ma-
re mancasse la dimensione della realt." disse Otohiko.
"Ma i fal• non erano una cosa molto pi spettacolare?"
Quello che finalmente si era acceso non era che un esile
guizzare di fiamme che le tenebre sovrastavano con la loro
imponenza.
"Aspetta, questo Š solo l'inizio. Sta' a guardare."
Il viso di Otohiko, fiocamente illuminato dal fuoco,
sembrava allegro. Mi tornarono in mente le parole di mia
madre. 'Lasciarsi assorbire da qualcosa.' Era a questo che si
riferiva? Seduto sulla sabbia, aggiungeva calmo dei rami nel
fuoco.
"Beviamo un po' di vino?"
Versai il vino, come avevo fatto una volta con Sui, solo
che questa volta i bicchieri erano di plastica.
"Buono," disse Otohiko dopo aver bevuto. "Ormai la
sera comincia a far fresco.
'E' quasi autunno, sai?"
"Gi. E' per questo che ho fatto il fal• prima dei fuochi
d'artificio. "
"Dopo facciamo anche i fuochi per•. Assolutamente."
"Senti, il pollo messo direttamente sul fuoco, Š cattivo."
"Infatti non a caso ho comprato anche gli spiedini.
"Questa ragazza pensa proprio a tutto!"
"Forse anche le focacce sono pi buone se le incartiamo
nell'alluminio e le mettiamo un attimo nel fuoco come le pa-
tate. "
"Sei una miniera di idee."
"Dovresti essere tu lo specialista della vita all'aria
aperta. "
"Tira fuori un pentolino o qualcosa del genere."
Ora che il vino cominciava a fare effetto, non so quante
volte il pensiero: 'Ma che ci faccio qui con lui?' mi attraver-
s• la mente. Comunque a furia di pensare sempre la stessa
cosa, a un certo punto non ci vidi pi niente di strano. Rest•
la freschezza del mare buio da cui si levava un violento ru-
more di onde. La riva biancheggiante di spuma. Il profumo
intenso del mare. la sensazione ruvida della sabbia. L'oriz-
zonte lontano, che si stendeva infinito e tranquillo. Le luci
della strada che brillavano in lontananza. I fari delle auto
che avanzavano lenti, lungo la costiera, come satelliti artifi-
ciali.
Con l'infittirsi dell'oscurit, anche il fuoco finalmente
divenne molto pi vivido. Le scintille divampavano scop-
piettando, e un bianco chiarore illuminava la spiaggia. Non
era un grande fal•, ma il rumore del fuoco, che copriva quel-
lo del mare, sembrava interrompere l'oscurit.
"Il fuoco, non ci si stancherebbe mai di guardarlo."
"Hmm."
Il mare era tutto luccicante, come un palcoscenico rico-
perto da un grande telo di seta nera che tremava leggermen-
te. Dove invece si univa al cielo, che era di un colore appena
diverso, sembrava un patchwork che fluttua vivace nel
vento.
Con un fruscio tirai fuori dalla borsa la scatoletta di le-
gno e la gettai nel fuoco.
Bruci• luminosa per un po' ma senza sprigionare, come
invece temevo, il minimo odore, e infine il suo fumo si dis-
solse nella brezza marina. Era un posto molto migliore del
crematorio. Sicuramente.
"Che sensazione solenne."
"Sapevi che cos'era?" chiesi a Otohiko.
"Un osso, no?" rispose senza guardarmi.
Giunsi le mani rivolgendole verso il fuoco.
"Ti ha raccontato tutto, vero?"
"Lei Š fatta cosć, dice tutto. Dalle cose pi terribili fino
alle pi insignificanti. Perci• lo sapevo. Solo nella lettera si
Š sforzata di mantenersi sul formale."
"Gi. "
L'aveva capito. Loro si capivano bene. Ma non erano
pi insieme. Non c'era niente da fare. Quella decisione rie-
cheggiava dentro di loro, senza interruzione come le onde.
"In effetti mi vergogno un po', ma anch'io ho portato
qualcosa," disse Otohiko, e con un fruscio estrasse dalla sua
borsa un piccolo mazzo di fogli.
"Che roba Š?" chiesi io sorpresa.
"E' il racconto n. 99 scritto da mio padre."
A uno a uno mise nel fuoco i fogli. Uno dopo l'altro pre-
sero fuoco e si accartocciarono crepitando.
"E' lui che te l'ha dato?"
"Sć. Subito prima della sua morte mi arriv• a casa in una
busta anonima. Lo feci vedere a mia madre. Lei disse che
dovevo tenerlo io."
"E quello che ha Sui?"
"Quello che lei ha mandato a Saki? Il testo Š identico,
solo che la scrittura Š di Sui. L'avr copiato mentre mio pa-
dre dormiva, forse."
"Ma pensa... "
Mi torn• in mente Sui quel giorno.
"Non te l'avevo detto?"
"Allora a Sui non hai detto che l'avevi anche tu?"
"Non potevo dirglielo."
"E a Saki?"
"Non l'ho detto neanche a lei. Se era Sui a farglielo ve-
dere, benissimo. Ma se Sui avesse saputo che c'erano altre
persone ad averlo, e proprio io e Saki, se ne sarebbe rattri-
stata. Era l'unico ricordo del padre che aveva, l'unico che
appartenesse a lei sola."
"E' cosć, dunque. Lo conoscevi?"
Per un attimo mi sembr• di vedere l'immagine di Sui,
non ancora quindicenne, che ricopiava nel buio il manoscrit-
to del padre. Poi subito i fogli di carta, ridotti a un muc-
chietto leggero e annerito, trascinati dal vento, cominciaro-
no a disperdersi per la spiaggia.
"A proposito, visto che ci siamo, ti dir• un'altra cosa.
Sai, la parte finale del racconto n.98, quella che tu hai tanto
lodato... l'ho scritta io."
"Cooosa?" per qualche istante rimasi senza parola. "Co-
sa stai dicendo?"
"Il racconto n. 98 si trovava a casa mia, ed era incom-
piuto. Ci eravamo appena incontrati, quando Sui disse che
voleva assolutamente vederlo, cosć decisi di portarglielo di
nascosto. Forse a causa dei dubbi di mio padre, l'ultima par-
te mancava, proprio quella che parla di Sui. Mi sembrava
una conclusione troppo triste per lei, e per di pi sapevo gi che
lei aveva il racconto n. 99.
Sui, avendo perso ogni spe-
ranza che la madre tornasse, era venuta in Giappone, pen-
sando di poter contare sui parenti, ma la cosa non aveva
funzionato. Cosć, preso da un impulso, scrissi quell'ulfima sola
parte. E poi lei lo port• a Shóji. Solo il racconto n. 98. Que-
sta Š la storia."
Io rimasi in silenzio.
"Ma ormai sono tutte cose del passato," disse Otohiko.
"Beh, mettiamo il pollo sul fuoco? Anche se dopo l'osso fa
un po' impressione."
"Uomini o polli, Š sempre carne.
"Anche questo Š vero," rise Otohiko. "Ah, mi sento me-
glio. ',
"Anch'io."
156
"Ho la sensazione che siamo finalmente liberi dagli spi-
riti."
"Anch'io. E poi era da tanto che volevo andare al ma-
re, dissi, mentre mangiavo il pollo.
Otohiko, togliendo dal fuoco le focacce, rispose:
"Si sta cosć bene, di qualunque cosa si parli. Sar perch‚
siamo sbronzi?"
Aprć l'alluminio. Si sentć un odore fragrante.
"Lo sapevo, si sono un po' bruciate," disse Otohiko sor-
ridendo. Poi continu•:
"O sar perch‚ era tanto che non parlavo con qual-
cuno
"Forse sar il fuoco."
"Potrebbe anche essere questo venticello."
"Si dice che davanti al mare gli uomini non possano fare
a meno di aprire il loro cuore, no?"
"E' vero, davanti al mare anche le cose pi orrende sem-
brano buone."
"Qualunque cosa uno possa dire il mare la trascina via."
"E' questo che d un senso di liberazione."
"Sć, credo proprio. Questo vino Š tiepido ma buonis-
simo. ',
"Lo metto nel refrigeratore?"
"C'Š gi una bottiglia. "
"Ho fatto bene a venire. Sono felice. Ti ringrazio."
"Anch'io ringrazio te. Ti immagini fare tutto questo da
sola?
Mangiammo le focacce.
"Guarda com'Š bianca la luna."
" Hmm, e sembra cosć piccola."
"Col fuoco non si riesce a vedere bene, ma dev'essere
pieno di stelle."
"Sć, si dovrebbe vedere anche la Via Lattea."
Con una mano indic• la grande galassia che attraversava
"Al centro c'Š la costellazione del Cigno."
"Non c'Š anima viva."
"sć, C'Š una pace assoluta.
Girando lo sguardo tutt'intorno si innalzava una serie di
grossi alberghi in fila, che sembravano circondare la spiag-
gia. Doveva essere una zona turistica.
"Chiss se da quelle finestre si vede il nostro fuoco?"
"Dove andiamo a dormire?"
"Con tutta questa roba figurati se non ci sono stanze li-
bere. Troveremo subito."
"Le finestre buie probabilmente sono stanze libere."
"Non Š detto, potrebbero stare dormendo o essere
usciti. ',
"Comunque, con tutti questi palazzi... ed Š anche un
giorno feriale."
"Guarda quella vetrata. Sar una suite secondo te? Sem-
brerebbe, dalla forma."
'.'Quella lć invece sembra una villa privata."
"Non sembra di stare in Giappone."
"Hai soldi?"
"Ho le carte di credito."
"Anch'io ne ho portate diverse."
"Se continuiamo questo viaggio sar meglio fare econo-
mia," rise lui.
Ebbi la sensazione che quel viaggio sarebbe durato mol-
to a lungo.
"Che ne dici di andare a bere qualcosa al bar di quell'al-
bergo?"
Mi sembrava che con l'avanzare della notte, il suono
delle onde che avvolgeva il silenzio si udisse in modo molto
pi distinto e vivido. La grande vista che si apriva davanti a
noi senza limiti aveva completamente eliminato tutte le cose
cosć a lungo accumulate e un'aria pura riempiva lo spirito.
Ma qualcosa continuava a brillare senza mai spegnersi. C'e-
ra una gran pace. Era una notte limpida, fuori del tempo,
come la fine del mondo.
Era l'immagine di una notte come questa, l'ultima scena
del racconto. Il canto di una sirena che si riusciva appena a
distinguere, di una tristezza irresistibile. La' parte inferiore
del corpo ricoperta di squame, impossibile da accarezzare. Il
suo profilo chinato, intravisto tra i capelli. La luce della lu-
na. 'Lei cosć bella che continuer• ad amare senza fine.'
"Davvero l'hai scritta tu? Facendo finta di essere tuo
padre?"
"Non lo devi mai dire a nessuno."
"Ora capisco perch‚ ho pensato che solo in quel punto lo
stile era completamente diverso."
"Non devi dirlo mai".
"A Saki? A Sui?"
"A nessuno, n‚ all'una n‚ all'altra.
"Sui non la rivedr• pi. Altro che cassetta della posta!"
"Piangi?"
Piangevo un po'
. Forse se non fossimo stati su una spiag-
gia la durezza della sua assenza non mi avrebbe assalito con
tanta forza. Quell'estate eravamo state insieme solo per se-
pararci. Mi sarebbero rimasti altri amici. Ma lei non l'avrei
pi rivista. Non ci sarebbero state pi telefonate nel pome-
riggio.
"Non piangere, fai venire da piangere anche a me."
"Non piango pi. "
"Brava, brava," disse Otohiko con un'espressione deso-
lata, davvero sul punto di piangere. "Se vuoi, posso fare l'a-
more con te. "
"Se pensi di farmi un grande favore..."
"Non sar che mi piaci?"
"Piantala."
"Ci penser• quando verr l'autunno."
"Ecco, bravo," dissi io.
"D'accordo, far• cosć."
Guardai Otohiko. Dietro un velo di lacrime guardai il
cielo, il mare, la sabbia, il fuoco del fal• che tremava. Entr•
dentro di me tutto insieme, a una velocit lacerante, da ca-
pogiro. Tutto era cosć bello, tutto quello che era accaduto
era stato bello, di una bellezza violenta, da impazzire.






Postscriptum.

Il regista jodorowskj ha affermato, a proposito del suo film El
Topo: If you're great El Topo is a great picture, if you're limited
El Topo is limited". La frase mi Š piaciuta tanto che ho pensato di
creare il personaggio di Sui in modo che incarnasse questo princi-
pio. Farne un microcosmo che il lettore stesso potesse trasforma-
re in una poco di buono o in un bodhisattva, secondo il pr•prio
punto di vista.
Tuttavia non ho avuto abbastanza forza e non sono riuscita a
realizzare questa idea come avevo immaginato. Me ne rammarico.
Se non altro per• mi sento appagata di aver potuto riaffrontare
con pi grinta i punti che nella stesura di Presagio triste mi aveva-
no lasciata insoddisfatta. Inoltre in questo libro sono riuscita, nei
limiti del possibile, a inserire tutti i temi dei miei romanzi prece-
denti (omosessualit femminile, l'amore tra consanguinei, telepa-
tia ed empatia, l'occulto, la religione ecc.) nello spazio particolare
e ristretto di un piccolo quartiere e nell'ambito di pochi perso-
naggi.
Se mi guardo indietro, l'anno e mezzo in cui ho scritto questo
libro Š stato per me, in molti sensi, un periodo pieno di difficolt,
eppure eccitante e felice. Mi sembrava sempre, sempre, di sba-
gliare, ma forse Š da questa sensazione che si muovono i primi
passi ogni volta.
Tutti, inclusi voi e io, abbiamo intorno a noi "persone con
problemi". Persone che camminano portando con s‚ qualcosa con
cui Š difficile vivere, che si tratti di un talento speciale o di un
handicap. Ma poich‚ siamo tutti portati, a cominciare da me, a
dimenticarci facilmente che qualunque persona in questo mondo
ha il diritto di vivere come crede e dove le pare senza dover avere
paura di nessuno, ho voluto riaffermare questo diritto con tutte le
mie forze, qui e adesso, in questo libro.
Ringrazio di cuore Chiaki Nakanishi e Ry•ichi Takaynagi
della Kadokawa shoten che hanno aspettato con tanta pazienza
che questo romanzo fosse terminato, Masayasu Ishiliara, che ha
seguito il mio lavoro con costante incoraggiamento, pur non es-
sendone direttamente responsabile, e Mizuho Ozawa, traduttore,
per la sua generosa collaborazione.
Grazie anche a Masumi Hara, artista super del Giappone, che
ha passato notti in bianco a fare disegni per questa splendida co-
pertina e a Masahiro Yamaguchi che ne ha curato la grafica.
E infine a tutte le persone che ho incontrato nel corso di que-
sto anno e mezzo, a quelli che mi hanno scritto lettere di inco ' rag-
giamento, e soprattutto a tutti coloro che hanno avuto la bont di
leggere questo libro,
grazie di cuore.

In un sereno pomeriggio di novembre, col raffreddore.
mangiando un kaki,
Banana Yoshimoto.


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