Giuseppe Pitrè etnologia demologia antropologia

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Giuseppe Pitrè
(Palermo 21/12/1841 - 10/04/1916)


Introduzione
Studioso italiano del folclore e di tradizioni popolari. Medico e scrittore scrisse i primi studi scientifici sulla cultura
popolare italiana e curò le prime raccolte di letteratura italiana orale, dando avvio a studi etnografici sul
territorio italiano. Fondatore in Sicilia della "demologia" da lui battezzata "demopsicologia" (psicologia del
popolo), ossia la scienza che studia le manifestazioni, le tradizioni e la cultura di un popolo, che insegnò
all'Università di Palermo.

A Giuseppe Pitrè, il più importante raccoglitore e studioso di tradizioni popolari, la Sicilia deve essere grata
perché - come ha sottolineato Giuseppe Cocchiara, già preside della Facoltà di Lettere a Palermo - la sua opera
monumentale resta pietra miliare per la ricchezza e la vastità d’informazioni nel campo del folklore, in cui
nessuno ha raccolto, come e quanto lo scrittore palermitano.
Egli anzi, nella seconda metà dell’Ottocento, ha tracciato la via ad altri come Salvatore Salomone Marino e
accolto nel suo tempo consensi vivissimi tra cui quelli di Luigi Capuana, che trovò materiale per le fiabe nel suo
repertorio, Giovanni Verga, che trasse anche ispirazione per le “tinte schiette” e particolari usanze del suo
mondo di umili e perfino per argomenti specifici d’alcune novelle come Guerra di Santi, dalla preziosa
documentazione a cui Pitrè lavorò tutta la vita.

Come il conterraneo Abate Meli, divenne medico di professione e venne, grazie ad essa, a contatto con i ceti più
umili e col mondo dei marinai e dei contadini tra cui spinto da passioni per gli studi storici e filologici raccolse per
prima i Canti popolari siciliani attinti anche dalla voce della madre che egli dice “era la mia Biblioteca delle
tradizioni popolari siciliane”, dedicandole appunto la sua prima opera.

Nel 1882 fondò l'Archivio per lo studio delle tradizioni popolari e nel 1894 pubblicò una fondamentale Bibliografia
delle tradizioni popolari italiane.

Alla sua memoria fu intitolato il Museo Antropologico Etnografico siciliano a Palermo che egli stesso aveva
fondato.

La sua Opera
Giuseppe Pitrè fu formidabile nel raccogliere e catalogare gli ultimi bagliori del mondo popolare siciliano e non
solo siciliano. Prima che radio e televisione pareggiassero o quasi le differenze culturali. Come hanno ben
notato gli studiosi di etnoantropologia Giuseppe Pitrè si accostò a quel mondo che non era il suo con sguardo di
antropologo e quasi con rispetto di figliolo.

La Sicilia, la sua storia, il popolo e i contadini siciliani, i loro usi e costumi, i canti, i racconti, i proverbi, le feste e
quant'altro proveniva da quel mondo fu messo sotto osservazione, ne furono tratti le corrispondenze e quindi le
somiglianze o le evidenti differenze con tradizioni di altri luoghi.
Tutta la ricerca fu eseguita da Giuseppe Pitrè e dai suoi collaboratori secondo i canoni degli studi demologici,
cioè traendoli dalla viva realtà, dalla viva voce dei popolani e dei contadini analfabeti.

Questa sua fatica confluì nei due volumi tra il ‘70 e il ’71 di quella Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane,
pubblicata in venticinque volumi fra il 1871 e il 1913, comprendente nelle sue sezioni oltre ai canti, d’amore, di
protesta, legati alle stagioni e culture, giochi, proverbi, filastrocche, fiabe, feste etc., anche medicina popolare,
leggende, il costume nella famiglia, nella casa, nella vita del popolo siciliano, le pratiche tradizionali
dell'agricoltura, le usanze religiose o superstiziose, tutte le manifestazioni della cultura orale siciliana e i racconti
dei cantastorie.

Ma ci fu un limite nella selezione delle varie tradizioni, furono scartate quelle sconce, quelle sguaiate, quelle
erotiche che pur erano un filone importante e fiorente nel panorama di tutte le tradizioni.
Giuseppe Pitrè e tanti altri studiosi di tradizioni popolari italiani ebbero ripulsione a riportarle, come se la loro
considerazione potesse nuocere a tutta l'impalcatura delle tradizioni popolari stesse, suonasse cioè come
mancanza di rispetto verso la"patria" Sicilia o la "patria"di ogni singola regione.

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Ci sono ancora nel cuore di Giuseppe Pitrè idee romantiche nei confronti delle tradizioni popolari, mentre nel
pensiero suo più lucido vi è una concezione evoluzionistica delle culture, nel senso che primitivo si contrappone
a moderno come popolare a colto.
Questo atteggiamento nei confronti delle tradizioni popolari viene dall'Europa e innanzitutto dai F.lli Grimm per i
quali le fiabe erano "miti decaduti" provenienti dall'India preistorica degli Arii.
Questi due studiosi tedeschi intravidero nei racconti popolari "i frantumi di una antica religione della razza,
custodita dai volghi, da far risorgere nel giorno glorioso in cui, cacciato Napoleone, si risvegliasse la coscienza
germanica"(I. Calvino, Fiabe italiane, p.x). Con queste premesse era arduo raccogliere e pubblicare collezioni di
raccolte di tradizione erotiche.

Ne sperimentò qualcosa il tedesco Federico Salamone Krauss, direttore di Anthropophyteia, rivista di tradizioni
erotiche, che venne denunciato e tradotto avanti il Tribunale di Berlino(Raffaele Corso, Estratto dalla rivista di
Antropologia, vol.XIX,Fasc.I-II). E' indubbio che Giuseppe Pitrè e il suo illustre collega Salvatore Salomone
Marino raccolsero anche queste tradizioni, ma solo recentemente sono stati pubblicati gli indovinelli sconci del
primo e i racconti faceti del secondo.

In effetti le fiabe e i racconti popolari hanno interessato tutte le persone di tutte le età e di tutte le classi o ceti
sociali, rozze, raffinate, colte e incolte. I racconti popolari, da millenni, circolano per le varie culture e sottoculture
e qualche volta hanno trovato dei grandi interpreti-narratori.
Quando ciò è successo, cioè quando un racconto viene ottimamente performato esso entra a far parte viva di
quel racconto-tipo come variante, e da variante condiziona in qualche modo per l'appresso tutti gli altri interpreti-
narratori del racconto-tipo.
La storiella, la trama del racconto continua a vivere e a trasformarsi anche se negli ultimi secoli è stata quasi
cristallizzata dall'avvento della scrittura. Per nondimeno autori letterari che avevano ripreso le fiabe, prima dei
fratelli Grimm, mai e poi mai le avevano raccontate come se fossero destinate soltanto ai piccoli.
Giovanbattista Basile e Charles Perrault non si rivolgevano solo ai piccoli, ma anche ai grandi.

Il Pitrè pare a volte consideri i racconti popolari come narrativa per bambini come era usuale nelle classi colte
(Aurora Milillo, prefazione a Fiabe Novelle e Racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè). C'è appunto il
precedente delle "Fiabe del focolare" dei F.lli Grimm, un libro di narrativa per ragazzi scolarizzati. Giuseppe Pitrè
nella scelta-filtro dei racconti si fa guidare dal "senso comune". Scarta le sconce, ma non disdegna quelle che
presentano i costumi del popolo e dei contadini in maniera paludata.
Ha repulsione per la sconcezza sguaiata, ma non può fare a meno di presentare dei racconti che alludono
blandamente, come apprezza l'ironia, l'arguzia e l'intelligenza dei popolani. Ma sempre racconti di villani sono
quelli che va raccogliendo, di gente che vive ai margini, oppressa dai bisogni e che se riesce a sopravvivere lo
deve a un profondo attaccamento alla vita.

Come sostiene il Cocchiara, l’opera del Pitrè presenta due aspetti, uno storico e l’altro poetico, rivelando
“un’umanità viva e vibrante” per cui egli era convinto che era giunto il tempo di studiare con amore e pazienza le
memorie e le tradizioni, per custodirle.
Da questo nacque anche la creazione del Museo Etnografico, dove raccogliere tutti i materiali e gli oggetti
pazientemente ricercati per la Sicilia, che come detto nell'introduzione, oggi porta il suo nome, è ospitato nella
palazzina cinese, all’interno del Parco della Favorita a Palermo.

Nel 1890 fu chiamato ad insegnare demopsicologia (come lui era solito chiamare il folklore), quando già aveva
acquistato fama e apprezzamenti nell’élite culturale del tempo. Già nel 1894 aveva, infatti, pubblicato la
Bibliografia delle tradizioni popolari in Italia, intrattenendo rapporti con i più importanti studiosi specialmente
della scuola toscana.
Instancabile studioso, innamorato della sua terra, scrisse anche Palermo cento e più anni fa, prezioso ed
introvabile volume, e saggi su Meli, su Goete a Palermo, sulla Divina Commedia, raccogliendo anche novelle
popolari toscane.

La collaborazione con Salvatore Salomone Marino andò oltre, col Lui fondò nel 1880, diringendola fino al 1906,
la più importante rivista di studi sul folklore del tempo, "Archivio per lo studio delle tradizioni popolari", ed
intrattenne una fitta corrispondenza con studiosi di tutto il mondo. Queste lettere sono oggi conservate in una
sezione del museo etnografico di Palermo e ad esse continuano a rivolgere attenzione come fonti preziose gli
studiosi contemporanei d'antropologia tra cui Antonio Buttitta.

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Per i suoi meriti e la sua fama fu nominato Senatore del Regno il 30 dicembre del 1914, quando anche in
America venivano tradotte e pubblicate le sue opere per le Edizioni Crane, specialmente i proverbi e le fiabe, la
cui radice comune a tanti popoli egli aveva esaltato rivendicando in una lettera ad Ernesto Monaci la loro
ricchezza linguistica con queste parole: "Che bellezza, amico mio! Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano
per capire e sentire la squisitezza delle fiabe che sono riuscito a cogliere di bocca ad una tra le mie varie
narratrici”.
Da sottolineare le belle pagine dedicate alle storie dì Giufà (personaggio da lui inventato) e alle feste popolari
siciliane, di cui piene di poesia sono quelle del Natale e dei Morti.

Cosa successe?
La prima edizione delle Fiabe ebbe subito dei riconoscimenti internazionali, ma fu accolta inizialmente dal
disprezzo e dallo scandalo di letterati e uomini rispettabili locali (Aurora Milillo, ibidem).
"Il dottor Pitrè ha pubblicato quattro volumi di porcherie" scrisse allora la Gazzetta di Palermo.
Lo rammentava lo stesso Pitrè in una lettera del 1914, dove parlava anche dell'indignazione di clienti rispettabili
che gli chiedevano come si fosse persuaso a pubblicare "quelle storie" dal momento che gli erano affidate in
cura le loro figlie (Raffaele Corso, Reviviscenze. Studi di tradizioni popolari italiane, p.4).

Alcuni dei Racconti:
Presentiamo qualche racconto della sua grande collezione di "Fiabe Novelle e Racconti popolari siciliani".
Storie nient'affatto sconce, ma sicuramente piacevoli e argute.
I racconti sono scritti così come riportati da Giuseppe Pitrè fatta eccezione di qualche riga di commento.

Le opere

* Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane;
* Fiabe, novelle e racconti popolari sicilani
* Grammatica Siciliana - un saggio completo del dialetto e delle parlate siciliane, 1875
* Le storie di Giufà
* le storielle di roy


Alcuni dei racconti

Alcuni dei Racconti della collezione di "Fiabe Novelle e Racconti popolari siciliani", che al contrario di come si
pensava non sono rivolti a un pubblico di piccoli, ma anche a quello adulto.

La Mammana di la Principissa-fata

Cc'era 'na vota 'na mammana, ed era maritata.
'Na jurnata era 'nta la cucina chi facia lu manciari e si vitti affacciari 'na manu e senti diri:
"Amminni a mia!"
Idda ha pigghiatu un piattinu, e cci l'ha jincutu di chiddu chi cucia.
La manu ritorna e cci duna lu piattinu chinu di munita d'oru.
Lu 'nnumani a ura chi idda facia lu manciari 'n'autra vota la manu: "Amminni a mia!"
Idda cci detti n'autru piattu cchiù granni, e la stissa manu cci lu ritorna chinu di munita d'oru.
'Nsumma pi lu cursu di novi misi sta manu fici sempri la stissa cosa, e la mammana a 'ngrussari sempri lu piattu
sina chi s'arriduciu a un bello spillongu.

Arrivannu a li novi misi menu jorna, di notti cci jeru a tuppuliari la porta a la mammana, ca la vuliani pi jiri a téniri.
Idda si vestì, scinni e trova 'nta la 'ntrata du' giaànti; cci abbennanu l'occhi, si la carricani supra la spadda, e
santi pedi ajutatimi.
Idda 'un vitti cu' erano e unni la cunnucevano.
Juncennu 'nta 'na 'ntrata, iddi cci livàru la benna; e la ficiru acchianari.
Comu trasìu vitti 'na signura gràvita grossa: - Cummari, cci dici sta signura, vogghiu essiri tinuta di vui.-
La cummaru s'ha statu ddà, e 'un si mossi cchiù.

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Jamu ca avianu passatu quinnici jorna, e lu maritu 'un vidennu a la mugghieri, cci cuminciaru a jiri li capiddi
pill'aria; dicennu: "E comu! Ah! mugghieri mia, ca cci appizzasti la vita!".
Lu poviru maritu firriau tutta la cità circannu sempri di notti e di jornu.
A li 15 jorna, dunca, sgravau la signura.
Sta signura era 'na Principessa-fata, e fici du' belli figgi masculi.
Dici: "Cummari, aviti statu quinnici jorna, e 'n'autri quinnici jorna aviti a stari pi assistìrimi." E la mammana stetti
n'àutri 15 jorna.

A lu misi, dici la Principessa: "Cummari, vi nni vuliti jiri?"
"Comu cumanna vostra 'Ccillenza."
"Comu vuliti essiri pagata - ci dici la signura - a pugnè o a pizzichè?" - Dici idda 'ntra idda, la mammana: "Si cci
dicu a pizzichè, haju tempu a mòriri; megghiu cci dicu a pugnè, ammenu moru cchiù prestu " - cridennu ca cci
vulia dari pugna. Dici: "A pugnè".

La Principessa ha chiamatu a li du' giaànti e fa purtari un saccu granni di munita d'oru e n'àutru saccu la mità di
chiddu; ha pigghiatu e cci l'ha fattu nèsciri a pugna ddi li giaànti, e cci ha fattu carricari n'autru saccu. (I due
giganti riportano la mammana a casa con i due sacchi di monete d'oro).
Lu maritu di la mammana quannu 'un la vitti spuntari cchiù, la critti morta e si vistiu di niuru. Tuppulianu li giaànti,
e iddu, lu maritu, si critti ch'era l'arma di sò mugghieri.
Dici: "Ti scunciuru pi parti di Diu."
"Un mi scunciurari, ca sugnu tò mugghieri. Grapi!"
Lu maritu, cchiù mortu ca vivu, va a grapi; comu la vidi dici: "Ma idda veru mè mugghieri è - e si l'abbrazza.
Ora unn'hà statu? Io ti cridia morta."
Comu vitti però li denari, e idda cci cuntò tutti cosi, finiu lu luttu e 'un parrò cchiù di nenti.
'Unca sta mammana cu stì gran dinari lassò di fari la mammana, misi carrozza, àbbiti javanu e àbbiti vinianu; era
'na signura di li primi di Palermu.

Ddoppu deci anni passava di li Quattru Cantuneri 'n carrozza, ma na carrozza di vera gala.
Jisa l'occhi, e si senti chiamari.
"Psi psi! Acchianati!".
Era 'na signura ca la chiamava supra.
Idda scinni di la carrozza e acchiana supra, a palazzu.
La signura comu l'appi di facci e facci, cci dissi: "Cummari, mi canusciti?"
"Nonsignura."
"Comu! 'un vi rigurdati ca io sugnu dda signura chi mi vinistivu a tèniri deci anni nn'arreri, quanni io vi trattinni 'un
misi cu mia, e feci sti belli picciriddi?..
Io sugnu puru chidda chi pruija la manu, e v'addumannava lu manciari.
Io era 'nta la cummitiva di li fati; e si vui nun eravu ginirusa di darimi lu manciari, la notti murìa.
E pirchì fustivu ginirusa, arricchistivu.
Ora io mi sciugghivi di la cummitiva, e sugnu ccà cu li me' figghi."
La mammana, alluccuta, taliava e binidiciu ddu mumentu chi cci avia fattu dd'attu ginirusu.
Accussì, addivintaru amici pi sempri.
Iddi arristaru filici e cuntenti,
Nui semu ccà e ni munnamu li denti.
(raccontata da Agatuzza Messia di Palermo)

La mammana di la principissa-fata
- mammana: levatrice
- amminni a mia: danne a me(di ciò che cuoci)
- spillongu: piatto largo e bislungo
- pi jiri a téniri: per andare ad assistere una partoriente
- e santi pedi ajutatimi: e scappano via
- comu vuliti essiri pagata-ci dici la signura-a pugnè o a pizzichè?: Come volete essere pagata a pugni o a
pizzicotti? (secondo la novellatrice pugnè e pizzichè sono parole di lingua francese.
- àbbiti javanu e àbbiti vinianu: faceva un grande sfoggio di abiti nuovi
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Cci appizzau lu sceccu e li carrubbi

Cc'era 'na vota un Capaciotu, unu di chisti cu la pagghia-luonga, e purtava un sceccu càrricu di carrubbi.
'Ncugna un malufujutu di chisti chi vannu strati strati, 'nfila la manu, e cci pigghia un pugnu di carrubbi.
Lu Capaciotu cci abbia c'un càuciu 'nta li sigreti, e lu stinnicchia 'n terra.
Currinu li genti: - Mischinu, mischinu! ...Stu viddannazzu! ca pi nenti ammazza li genti! - e cci vulia chiantari di
manu a lu Capaciotu.
'Nta mentri, vennu li sbirri, unu accùcchia a lu Capaciotu, n'àutru si pigghia lu picciottu assintumatu, e n'àutru lu
sceccu.
Causa, Patrucinaturi, Avvocati, cumprimentu a chistu, terzu a chiddu: lu poviru Capaciotu nni nisciu pi puru
miraculu; ma 'nta tricchi e barracchi cci appizzò lu sceccu e li carrubbi.
(raccontata da Agatuzza Messia di Palermo)

Cci appizzau lu sceccu e li carrubi: Vi perdette l'asino e li carrubbi
- Capaciotu, unu di chisti cu la pagghia-luonga: uno di Capaci (paese poco distante da Palermo) venditore di
paglia lunga;
- 'ncugna un malufuiutu: s'accosta un furbacchiello di questi che vanno per le strade;
- cci abbia c'un càuciu 'nta li segreti: gli tira un calcio nelle parti basse;
- Stu viddannazzu! ca pi nenti ammazza li genti!: questo brutto villano che per niente uccide la gente (E' naturale
nel popolino di Palermo l'ingiuria di "villano" a chi non è palermitano; ma in altri racconti raccolti nei paesi gli
ingiuriati sono i palermitani o gli abitanti di altri paesi: dappertutto è la stessa storia, "l'altro" è deriso perchè
ognuno proietta in lui il proprio negativo, le proprie paure, le proprie insicurezze.)
- picciottu assintumatu: ragazzo svenuto

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Lu Re e li carzarati

Un Re di Cicilia 'na vota jiu a visitari 'na càrzara di carzarati, tutti cu' cunnanati vint'anni, cu' a trent'anni, cu' a
vita; si misiru tutti a ringa aspittannu a lu Re chi passava.
Quannu lu Re cci fu pi davanti, spijò a lu primu: - Tu pirchì si' cca' cunnannatu? Chi facisti?
- Io, Maistà! Io sugnu 'nnuccenti; mi pigghiaru mentri era a la mè casa.
- E tu? - dici a lu secunnu -
- Io sugnu 'nnuccenti. Quannu mi 'ncatturaru io era curcatu.
- E tu? - dici a lu terzu.
Io sugnu 'mputatu d'aviri ammazzatu a unu; ma foru tutti calunnii, e soffru attortamenti.
'Nsumma a quantu dumammau lu Re, tutti si dettiru pi 'nnuccenti. L'urtimu cci dissi: - Maistà, io haju arrubbatu,
haju ammazzatu, haju statu un sciliratu, e pi chissu mi cunnannaru 'n vita.
Comu lu Re 'ntisi accussì, vòtasi e cci dici: - E mentri è chissu, tu, gran birbantuni, nesci di 'mmenzu di
galantomini, ca su' tutti 'nnuccenti, e 'un ponnu stari cu tia ca li guasti. -
- Lu pigghia e lu fa nèsciri a libbirtà, e accussì la virità fu primiata.
(raccontata da Giovanni Patuano di Palermo)

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Cchiù si campa e cchiù si sapi

Na vota si cunta e s'arricunta ca cc'era un vecchiu stravècchiu, omu di 'spirienza, assittatu a lu focu.
Veni un picciutteddu; dici: - Mi lu dati un còcciu di luci, pr'addumari lu cufuni nni mia? -
- Eh figghiu(dici lu vecchiu), eu ti lu dugnu, ma 'nta chi ti lu metti, ca nun purtasti nenti? nun lu sa' ca lu focu
abbrùcia? - E vu' chi nn'ati a fari?(dici lu picciutteddu); datimillu, ca cci hè pinzari eu. -
- 'Nca pigghiatillu. - fa lu vecchiu.
- Lu picciutteddu allura chi fa? si jinchi la chianta di la manu di cìnniri fridda, cci metti supra un còcciu di focu e si
nni va.
Oh! (dici lu vecchiu; e si duna 'na manacciata 'n testa); ed eu cu tutta la mè 'spirienza e tant'anni chi campu, nun
sapia affattivu sta cosa;
Cchiù si campa e cchiù si sapi.-
E di ddocu, sta palora arristau pri muttu.
(raccontata a Salvatore Salomone-Marino da Giuseppe Polizzi di Borgetto)

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